Frode, “rifare il processo Mediaset”: Berlusconi non ha perso le speranze

Silvio Berlusconi, mentre continua le sue grandi manovre per il Quirinale, non ha ancora perso la speranza di incenerire la condanna definitiva ricevuta nel 2013 al processo Mediaset, quella che gli è costata una condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale e gli ha fatto perdere il seggio in Parlamento. Era il novembre 2020 quando i suoi legali hanno depositato un’istanza, la numero 69/2020, presso la Corte d’appello di Brescia per chiedere la revisione del processo. L’istanza è stata assegnata a una sezione della Corte d’Appello, che deve ancora decidere se ammetterla o respingerla.

Ma questo non ha spento del tutto gli entusiasmi del nutrito collegio di difensori del leader di Forza Italia che sperano di riaprire una partita che sembrava chiusa per sempre. I tempi saranno lunghi e la strada impervia, ma contano di appoggiarsi nei prossimi mesi a un’altra iniziativa legale, assunta già nel 2014 da un plotone di avvocati (Niccolò Ghedini, Andrea Saccucci, Franco Coppi, Bruno Nascimbene, Keir Starmer, Steven Powles, dei fori di Milano, Roma, Padova, Londra): quella di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), chiedendo di condannare l’Italia proprio per la sentenza Mediaset del 2013. L’ex presidente del Consiglio lamenta di aver subito la violazione dei diritti a un equo processo. È il ricorso numero 8683/14 “Berlusconi contro Italia”: una sorta di ossimoro per chi ambisce alla carica di presidente della Repubblica. Il 26 aprile 2021, la Cedu ha formulato dieci domande alle quali l’Avvocatura dello Stato ha già risposto. Ora si attende che venga fissata l’udienza a Strasburgo. Qualunque sarà la decisione, non potrà ribaltare la sentenza italiana, che ha in maniera definitiva accertato i fatti: Berlusconi, attraverso società estere, ha nascosto al fisco italiano (e agli azionisti di minoranza di Mediaset) 368 milioni di dollari, di cui 7,3 milioni sopravvissuti alla prescrizione. Ma la speranza di Berlusconi e dei suoi legali è che l’azione aperta a Strasburgo possa essere fatta pesare a Brescia, dove si giocherà la partita risolutiva, quella per rifare da capo il processo che ha reso Berlusconi un pregiudicato.

Intanto parte la gara per il Quirinale: il 24 gennaio iniziano le votazioni in cui lui è candidato. Due giorni dopo, il 26, il Berlusconi imputato dovrebbe essere nell’aula del Tribunale di Milano al processo Ruby 3. Come pure cinque giorni prima, il 19 gennaio, e poi tutti i mercoledì di febbraio e marzo. Fino alla requisitoria finale dei pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, che a primavera chiederanno la sua condanna per aver pagato una trentina di testimoni (tra cui Karima El Mahroug, in arte Ruby) per farli mentire davanti ai giudici. Berlusconi ha un calendario molto fitto d’impegni giudiziari. Il 13 marzo dovrà essere a Roma, dove è imputato di corruzione in atti giudiziari (con l’accusa di aver pagato, per indurlo a mentire, il cantautore del bunga-bunga, Mariano Apicella) nel filone del processo Ruby 3 che continua nella capitale, malgrado i rinvii chiesti per motivi di salute. Ma se la salute dell’imputato è malferma, quella del candidato è invece ottima.

A Siena è già stato condannato a 2 anni, per falsa testimonianza, Daniele Mariani, il silenzioso pianista delle feste del bunga-bunga. Ma è stato invece assolto, insieme a Berlusconi, dall’accusa di corruzione in atti giudiziari: le motivazioni delle due sentenze ci spiegheranno perché il pianista ha mentito, ma Berlusconi non lo ha corrotto. Udienza per il candidato presidente anche a Bari: il 21 gennaio. Nel capoluogo pugliese, Berlusconi è imputato di induzione a mentire, con l’accusa di aver offerto denaro all’imprenditore Gianpaolo Tarantini affinché dicesse il falso ai magistrati baresi che indagavano sulle escort da lui mandate nelle ville dell’ex presidente del Consiglio tra il 2008 e il 2009. Anche il processo barese, iniziato addirittura nel 2011, procede con difficoltà tra rinvii per elezioni e strutture inagibili. Lento il cammino del Berlusconi imputato. Rapida invece, in queste settimane, la corsa del Berlusconi candidato.

Destra, Iv, Pd-LeU contro il Csm. Ecco lo scudo al renziano Ferri

Adesso è salvo ufficialmente: il deputato renziano, nonché toga in aspettativa, Cosimo Ferri, ha eccellenti speranze che il Consiglio superiore della magistratura non possa più rovinargli la carriera ora che dopo la Giunta per le immunità, anche l’aula di Montecitorio ha detto no all’uso delle intercettazioni del Palamaragate che lo riguardano. Un emiciclo a ranghi ridottissimi – anzi proprio dimezzato nei numeri, cause assenze anche da Covid – lo ha scudato con una maggioranza schiacciante: 227 sono stati i voti in suo favore raggranellati tra i banchi di Forza Italia, Lega, Pd, LeU e ovviamente dei colleghi di Italia Viva. In tutto 86 i contrari al diniego all’uso delle intercettazioni richieste da Palazzo dei Marescialli, dove su Ferri pende un procedimento disciplinare per via della sua partecipazione alla combine sulle nomine del nuovo procuratore di Roma durante l’ormai famosa cena all’hotel Champagne del 2019. A cui aveva partecipato insieme a Luca Lotti, Luca Palamara e cinque consiglieri del Csm che si son dovuti dimettere dopo lo scandalo rivelato grazie al trojan installato sul telefonino dell’ex presidente dell’Anm nel frattempo radiato dalla magistratura. E Ferri?

Per lui alla Camera è stata invocata con successo la privacy violata e più ancora il fumus persecutionis, altro che intercettazioni fortuite e casuali. E chi si azzarda a dire il contrario è una capra, anzi peggio è un dis-onorevole, come ha detto Vittorio Sgarbi, dopo che il deputato pentastellato Eugenio Saitta si era permesso di obiettare che Ferri non era il bersaglio dell’indagine e dunque: quale fumus persecutionis? Che intercettazioni illegittime?

“Ci risulta veramente difficile sostenere che le attività di indagine che erano state svolte nei confronti del magistrato Palamara per fatti di corruzione, in realtà, fossero finalizzate a captare le conversazioni dell’onorevole Ferri che non era nemmeno indagato”, ha detto Saitta, facendo anche notare che “la giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito che la garanzia costituzionale di cui gode il parlamentare è soltanto quella di non essere oggetto di intercettazioni mirate, effettuate senza la previa autorizzazione della Camera di appartenenza”. Lì Sgarbi non c’ha visto più: “Palamara viene intercettato già di per sé abusivamente, con quell’orrido strumento che si chiama trojan. Cosimo Ferri deve essere tutelato da noi, come fece Napolitano la volta che, durante Tangentopoli la Finanza volle entrare in Parlamento e lui la bloccò perché le garanzie di questa aula sono garanzie della Nazione”. Applausi, poi il voto che ha accordato lo scudo parlamentare che serve a Ferri magistrato.

Intanto la prossima settimana, il Senato deciderà se votare prima o dopo la partita del Colle, il conflitto di attribuzione che Matteo Renzi ha chiesto di sollevare alla Consulta contro i magistrati che si son permessi di indagarlo manco fosse un cittadino qualunque.

Torna la rossa Brambilla: in campo per prendere voti tra M5S e Misto

Gli emissari di Silvio B. hanno volti aperti, toni suadenti e il complimento facile. Tutto aiuta, se devi trasmettere il verbo del Caimano alle orecchie di certi grillini. Tutto e quasi tutti possono servire, quando l’obiettivo del Caimano è il Palazzo più alto. Figurarsi una berlusconiana di quelle mai pentite, la deputata Michela Vittoria Brambilla, fondatrice della Lega per la difesa degli animali, non a caso conduttrice sui canali Mediaset di Dalla parte degli animali. In sintesi, la forzista che cinque anni fa convinse lui, Silvio Berlusconi, a nutrire con un biberon un agnellino di fronte a una telecamera. Può questo e altro, l’ex ministra del Turismo, che alla Camera si vede di rado, ma che in questi giorni si è palesata, anche per avvicinare qualche 5Stelle. Preferibilmente deputate, alle quali davanti a un caffè ha chiesto di votare per Silvio. D’altronde, qualche giorno fa, un’altra forzista come Renata Polverini lo aveva certificato al Fatto, nero su bianco: “Parlo con tanti colleghi, soprattutto del Gruppo Misto, mentre con i 5Stelle governiamo: assieme possiamo pacificare il Paese”. La caccia non è più un tabù, certi sorrisi e certi sussurri non vale la pena celarli. “Ti dicono che sei bravo, e che ti apprezzano da tempo” racconta un grillino. Poi lo spartito cambia, a seconda dell’interlocutore. “Se la persona avvicinata ha qualche ruolo o un po’ di visibilità, il tono si fa più istituzionale, per certi versi solenne”.

Sullo sfondo una riflessione semplice, ma che suona come una carezza: la legislatura deve arrivare al 2023, e perché metterla a repentaglio, magari eleggendo Mario Draghi al Colle? Su questo si ragiona nei colloqui, a Montecitorio come in Senato, dove i berlusconiani si muovono come e più che alla Camera. “Certi steccati sono caduti da tempo” sorride un veterano del Movimento, dritto: “Da me non potranno mai venire”. Da altri magari sì. Un lavoro per pontieri, come il senatore Massimo Mallegni, uno dei vicepresidenti del gruppo forzista. Imprenditore di Pietrasanta (Lucca), brillante conversatore, inclusivo, insomma la persona giusta per teorizzare che con B. al Quirinale tutti potrebbero respirare più distesi. Pensieri e parole che potrebbero essere riaffiorati anche sulle labbra di Nazario Pagano, classe 1957, nato a Napoli ma eletto in Abruzzo. Un altro berlusconiano affabile, dote mica da poco in tempi come questi. Sufficiente per farne uno sherpa naturale, sotto la supervisione ovvia della capogruppo Anna Maria Bernini, mentre a Montecitorio a tenere il filo sui contatti è il presidente dei deputati, Paolo Barelli.

C’è tanto da fare, a un soffio dal voto per il Colle. Anche se i contagi da Covid complicano le cose, visto che molti grillini sono stati o sono tuttora positivi. Un problema per la tenuta del M5S, certamente, anche per chi ne corteggia gli eletti. Ma Berlusconi non vuole fermarsi, di fronte a nulla e nessuno. Così l’ordine resta quello: cercare voti, con caffé o pranzi ad hoc , senza risparmio. Mentre con certi big anche del Movimento parla direttamente lui, Silvio. Perché non si sa mai.

B. “divisivo” pure a destra. Ma lui punta al voto del 27

La data cerchiata in rosso sul calendario è quella del 27 gennaio, il giorno del quarto scrutinio. Se i primi tre, come pare, andranno a vuoto – i giallorosa potrebbero palesare il proprio stallo votando scheda bianca – sarà allora che Silvio Berlusconi dovrà misurarsi coi numeri, andando alla conta anche contro il rischio di finire impallinato dai suoi stessi alleati. Solo se capirà di andare incontro a una disfatta, il Caimano si farà da parte evitando l’umiliazione dell’aula e agevolando quel che Lega e FdI aspettano da tempo, ovvero una riflessione su un nome alternativo che non passi dall’irritazione di Silvio. Sempre che nel frattempo – complice l’emergenza Covid – i partiti non scelgano di uscire dallo stallo supplicando pubblicamente Sergio Mattarella di accettare il bis.

Prima di quel giovedì, lontano ancora due settimane, è però improbabile convincere Berlusconi a farsi da parte. Ancora ieri l’ex Cavaliere ha tempestato di telefonate i suoi potenziali elettori dalla residenza romana di Villa Grande, dove ha incontrato tra gli altri Antonio Tajani, Licia Ronzulli e Anna Maria Bernini. Con Matteo Salvini e Giorgia Meloni ha formalizzato l’appuntamento di domani, il vertice di centrodestra in cui B. terrà il punto e in cui gli alleati saranno ancora nell’imbarazzo di doverne contenere l’entusiasmo senza poter rompere gli equilibri di una coalizione che comunque, se unita, si presenterà all’elezione per il Quirinale con la maggioranza relativa. Un’occasione da non sprecare, motivo per cui Lega e FdI (ma anche i 32 grandi elettori di Coraggio Italia ) non possono permettersi di rompere con Silvio. Ci si muove sulle uova, con pizzini e allusioni sempre pronti alla smentita, ma tutt’altro che graditi nel quartier generale di Forza Italia.

In mattinata il capogruppo alla Camera della Lega, Riccardo Molinari, sottolinea che “Berlusconi è un candidato divisivo”, smentendo settimane di retorica di FI sul “Berlusconi pacificatore”, e rilancia: “Compito del centrodestra è prepararsi a un piano b su un nome che sia condivisibile anche dal centrosinistra”. E poi c’è Matteo Salvini, che smania per un rimpasto ma secondo cui “la Lega starà nel governo a prescindere da chi sarà a Palazzo Chigi: l’idea è che si continui con Draghi, ma l’importante è andare avanti”. Parole che smontano la minaccia berlusconiana di lunedì scorso quando, a pochi minuti dall’inizio della conferenza stampa di Mario Draghi, l’uomo di Arcore aveva fatto arrivare il messaggio secondo cui se salterà la sua elezione al Colle “allora FI uscirà dalla maggioranza”.

Lo stesso problema di Salvini – seppur con un peso ben diverso – lo hanno i centristi di Coraggio Italia. Quasi inesistenti nei sondaggi, contano però 31 parlamentati e un delegato regionale, Giovanni Toti, che ieri ha riunito i suoi insieme all’altro leader Luigi Brugnaro. Numeri comunque da non sottovalutare specialmente se le forze di CI si uniranno a quelle degli altri centristi e dei renziani, che sono 42. Esito dell’incontro è che Toti e Brugnaro, pur non escludendo Berlusconi, quasi lo tolgono dal tavolo quando sottolineano che si debba andare in cerca di “un nome che raggiunga un’ampia convergenza”. “Il sostegno a Berlusconi lo daremo – è la versione di Toti – ma senza schiantarci sui numeri”. Altro segnale. Il problema, come osserva Osvaldo Napoli, è che “non possiamo essere noi a togliere le castagne dal fuoco agli alleati: devono essere Lega e FdI a proporre il nome dell’ex premier e poi se ne potrà discutere”. Epperò, spiega un altro parlamentare di CI, “se poi Berlusconi e Tajani ci trattano a pesci in faccia, sarà difficile dialogare…”.

Del resto in mattinata gli stessi Toti e Brugnaro hanno visto brevemente Salvini, il quale poi ha avuto una telefonata con Berlusconi per preparare il terreno al vertice di domani. “Dobbiamo preservare l’unità della coalizione e non sprecare l’opportunità di dire la nostra”, fa sapere l’ex Cavaliere. Che se non altro ieri ha ricevuto parole di incoraggiamento dal vecchio amico Marcello Dell’Utri: “Certo che potrebbe farcela. Anche perché personalità di centrodestra non ce ne sono poi tante in giro”. Vero fino a un certo punto, dato che negli ultimi giorni a destra sembra tornato di moda il nome di Franco Frattini, già ministro proprio con Silvio. O quello di Marcello Pera, altro profilo che Salvini potrebbe offrire in una mediazione che coinvolga pure il M5S. E infatti fonti dei 5 Stelle confermano che “Conte ha instaurato un canale diretto con Salvini”, con il quale “si è scambiato più volte aggiornamenti”. A dimostrazione delle manovre in corso, ieri Denis Verdini è stato paparazzato al Pastation (il ristorante romano di proprietà di suo figlio) in compagnia di Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. Difficile che, approfittando delle ore di permesso dagli arresti domiciliari, non si sia parlato di Quirinale proprio mentre, a centinaia di chilometri di distanza, il Colle consumava il suo primo delitto politico: il voto segreto sui tre delegati in Regione Sicilia ha infatti affossato il presidente Nello Musumeci, passato solo come terzo dietro a Gianfranco Miccichè e al 5Stelle Nunzio Di Paola. “Qualche vile e pavido si è illuso di farmi un dispetto – ha sbottato Musumeci – ma io non mi dimetto. Anzi, azzero la giunta e riparto”.

Renzusconi addio, i fantasmi delle stragi e l’incubo grillino

2017, 25 gennaio. La Consulta dichiara incostituzionale l’Italicum. Renzi, che si è rimangiato la promessa di lasciare in caso di sconfitta al referendum, ricomincia a trattare con Berlusconi per una legge elettorale che faccia comodo a entrambi e sbarri la strada ai 5Stelle.

13 aprile. Berlusconi, dopo 31 anni, vende il Milan al misterioso investitore cinese Li Yonghong per 740 milioni di euro.

9 giugno. La Procura di Palermo deposita al processo Trattativa le conversazioni fra il boss stragista Giuseppe Graviano e il suo compagno di cella Umberto Adinolfi, intercettate nel carcere di Ascoli tra il marzo 2016 e l’aprile 2017. Graviano, condannato per le stragi del 1992-’94, si sfoga contro “Berlusca” che – rivela – nell’estate del 1992 gli chiese una “cortesia” (le stragi?) per “salire” al governo, ma poi si scordò gli impegni assunti come contropartita. Ora il boss vuole inviargli un emissario per rinfrescargli la memoria mentre torna al centro della politica, con messaggi ricattatori. Parole che inducono la Procura di Firenze a riaprire le indagini archiviate nel 2011 su Berlusconi e Dell’Utri come “mandanti esterni” delle stragi del 1993-’94 a Firenze, Milano e Roma.

26 ottobre. A cinque mesi dalle elezioni, Renzi e Berlusconi fanno pace e cambiano la legge elettorale a propria immagine somiglianza per tentare di neutralizzare la vittoria dei 5Stelle e propiziare un governo o di larghe intese Pd-FI-Centro. Il “Rosatellum” (dal proponente Ettore Rosato, Pd) è fatto apposta per produrre ingovernabilità, creare finte coalizioni elettorali, consegnare ai capi-partito la nomina di oltre i due terzi dei parlamentari, così da favorire un governissimo Renzusconi: l’ultimo argine individuato dall’establishment italiano e internazionale contro il pericolo che l’Italia cambi per davvero. La legge viene approvata con la tagliola della fiducia sia alla Camera sia al Senato da Pd, FI, Lega e centristi. Contrari M5S, Mdp (la sinistra bersaniana fuoriuscita dal Pd) e FdI. L’inciucio prossimo venturo è benedetto dalla grande stampa italiana ed estera, compresa quella di “sinistra”. Da Eugenio Scalfari su Repubblica all’ex direttore dell’Economist Bill Emmott, dal Financial Times al New York Times, è tutta una corsa a riabilitare Berlusconi come il “male minore” o addirittura il “salvatore dell’Italia” dal pericolo “populista” e “antieuropeista” (proprio lui, il più grande populista antieuropeista mai visto al governo). Le Monde si scusa persino per averlo accostato (correttamente) alla mafia.

5 novembre. Alle Regionali in Sicilia, i 5Stelle si confermano primo partito nell’isola, ma anche stavolta vengono penalizzati dalla legge elettorale che premia le coalizioni. Così sale al governo regionale il centrodestra con Nello Musumeci.

8 dicembre. Giovanni Paparcuri, ex collaboratore di Giovanni Falcone, sfogliando vecchie carte nell’ufficio-museo del giudice, ritrova un foglio di block notes con un appunto che corrisponde alla sua calligrafia: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”. Le annotazioni furono vergate dal giudice antimafia nel 1989 durante l’audizione del pentito Francesco Marino Mannoia che però si rifiutò sempre di verbalizzare dichiarazioni sul Cavaliere.

2018, gennaio-febbraio. Pur incandidabile per un altro anno grazie alla legge Severino, Berlusconi fa scrivere nel simbolo di Forza Italia sulle schede elettorali “Berlusconi Presidente”. E attacca ogni giorno i 5Stelle: “Sono un pericolo per la democrazia, a Mediaset li manderei a pulire i cessi”. Alessandro Di Battista sale ad Arcore e dà pubblica lettura della sentenza Dell’Utri che definisce Berlusconi finanziatore di Cosa Nostra.

4-5 marzo. I 5Stelle stravincono le elezioni col 32,68. Il Pd renziano (18,76) e FI (14%) si dimezzano. La Lega balza al 17,35, FdI si attesta al 4,35 e LeU al 3,39. Berlusconi perde la leadership del centrodestra a vantaggio di Salvini. Non ci sono i numeri né per un Renzusconi, né per un governo di centrodestra, né tantomeno di centrosinistra. Le carte le dà il leader M5S Luigi Di Maio, che proverà prima col Pd e poi, dopo il rifiuto di Renzi, con la Lega. Intanto il “grillino” Roberto Fico diventa presidente della Camera e la berlusconiana Maria Elisabetta Alberti Casellati presidente del Senato, con i voti di 5Stelle e centrodestra.

12 marzo. Renzi si dimette da segretario Pd, sostituito dal reggente Maurizio Martina.

4 aprile. Il presidente Mattarella avvia il primo giro di consultazioni (ne farà ben tre). Berlusconi sale al Quirinale come leader della sola FI. Salvini parla a nome dell’intero centrodestra, ma il Caimano gli ruba la scena in diretta tv, facendogli il controcanto e mimando la conta dei punti programmatici sulle dita delle mani.

20 aprile. Al processo sulla trattativa Stato-mafia, la Corte d’assise di Palermo condanna tutti gli imputati per violenza o minaccia a corpo politico e assolve solo Nicola Mancino (imputato per falsa testimonianza): 12 anni agli ex capi del Ros, Antonio Subranni e Mario Mori, a Marcello Dell’Utri e al medico mafioso Antonino Cinà; 8 anni all’ex capitano del Ros Giuseppe De Donno e a Massimo Ciancimino (ma per calunnia a Gianni De Gennaro); 28 anni al boss Leoluca Bagarella; prescrizione per il pentito Giovanni Brusca.

24 aprile. Esce nelle sale la prima parte di Loro, il film di Paolo Sorrentino su Berlusconi, interpretato da Toni Servillo. La seconda uscirà il 10 maggio.

29 aprile. Respinto da Renzi, non più segretario ma sempre padrone del Pd, Di Maio si rivolge a Salvini. Che ottiene il via libera da Berlusconi alla “fuitina” con gli acerrimi nemici 5Stelle, ma a una condizione: che Di Maio, capo del partito di maggioranza relativa e premier in pectore, accetti di incontrarlo per un “riconoscimento politico”. Di Maio rifiuta. E respinge anche le alternative che gli propone Salvini: una telefonata da rendere pubblica o soltanto una “carrambata” per strada (“Tu passi casualmente da via del Plebiscito e, per combinazione, Silvio esce da Palazzo Grazioli: così vi stringete la mano”). Allora Renato Brunetta lo chiama da numero sconosciuto: “Ciao, sono Brunetta, ti passo il presidente”. E Di Maio mette giù. M5S e Lega preparano il “Contratto di governo del cambiamento” e cercano un premier “terzo”.

12 maggio. Il Tribunale di sorveglianza di Milano riabilita Berlusconi ripulendogli la fedina penale dalla condanna definitiva, malgrado i processi e le indagini in corso. Ma il Caimano resta incandidabile per un altro anno.

14 maggio. Accordo fra Di Maio e Salvini: il premier del governo giallo-verde sarà l’avvocato e professore indipendente Giuseppe Conte, che in campagna elettorale ha accettato di comparire nella lista dei possibili ministri 5S per occuparsi di Pubblica amministrazione e Semplificazione.

(33 – continua)

Galleria degli orrori. I beni artistici fanno lo spot agli sponsor

Per mesi e mesi, tra il 2020 e il 2021, la facciata della chiesa di san Moisé, a Venezia, a pochi passi da piazza San Marco, era coperta da un enorme pannello bianco, vuoto. I sei fari posti a illuminare il pannello, spenti. Poi, quando nell’estate 2021 nella città lagunare sono tornati i turisti, quel pannello è stato ricoperto dall’enorme rappresentazione di un gruppo di celebrità che mangiavano una pizza intorno a un divano per promuovere una compagnia telefonica.

Sui social network da giorni rimbalzano le foto dell’Ospedale degli Innocenti di Brunelleschi, o del Ponte Vecchio, su cui vengono proiettati, a ripetizione, i loghi o il nome della carta di credito American Express associati alla scritta “main sponsor” o “sponsored by”: foto scattate durante lo spettacolo di luci gentilmente offerto, l’8 gennaio scorso, dal Comune di Firenze “con il contributo della Camera di Commercio, Terna, American Express, Unicoop e Euroambiente Green solutions”: due di questi hanno chiesto e ottenuto la proiezione dei loro marchi al termine dello spettacolo, su alcuni dei monumenti più noti della città e, di converso, del mondo. “Sfruttamento ignobile dei monumenti” l’ha definita la consigliera di opposizione Antonella Bundu.

Sono solo due esempi di ciò che non sta andando nel modo in cui il nostro Paese, il più attrattivo e noto al mondo per quanto riguarda il patrimonio culturale, gestisce le sponsorizzazioni legate a questo stesso patrimonio. Le norme al riguardo sarebbero in realtà semplici, ancorché non scevre da critiche. Secondo il Codice dei Beni culturali promulgato nel 2004, “è sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l’attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività del soggetto erogante” e “la promozione avviene attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto all’iniziativa oggetto del contributo”. Si sceglieva allora di superare il tradizionale sistema delle erogazioni liberali e del mecenatismo – sistema in cui il mecenate spende per un desiderio di auto-rappresentazione – a favore di una sponsorizzazione sullo stile di quelle sportive, con associazione diretta del marchio al monumento, con pochi paragoni in Europa. Che questo accadesse nel Paese in cui è maggiore la voglia di associare marchi a monumenti – data la notorietà degli stessi – è parte della spiegazione ma anche del problema.

In realtà il Codice specificava anche che “la verifica della compatibilità di dette iniziative con le esigenze della tutela è effettuata dal ministero” e che queste devono avvenire “in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare”. Ma la prassi ha preso altre vie. I pannelli che devono coprire il bene in restauro, mostrandone l’aspetto e lasciando uno spazio allo sponsor, negli anni si sono trasformati in pannelli pubblicitari che lasciano intravedere appena il monumento sottostante, in particolare nelle città caratterizzate da importanti flussi turistici, come Firenze, Napoli, Roma o Venezia, in cui la cittadinanza si è abituata a vedere enormi pubblicità di telefoni o intimo addossate a chiese e palazzi storici. Il restauro del Colosseo ha permesso a Tod’s di ottenere l’uso esclusivo del monumento per il suo marchio per 15 anni, una scelta che ha portato la Corte dei Conti nel 2016 a sollevare rilievi sull’entità dell’accordo. Renzo Rosso sul Ponte di Rialto a Venezia ha recentemente ottenuto, oltre ai pannelli pubblicitari ben visibili per oltre un anno, una targa in metallo a imperitura memoria, sulla falsa riga delle antiche targhe papali (avulse dalla città veneta). Eppure le sponsorizzazioni culturali, oltre a donare visibilità, garantiscono importanti benefici fiscali, e parrebbe necessario considerare quanta pubblicità possa essere garantita in base alla cifra investita.

Gli spettacoli di luci portano la sponsorizzazione a un altro livello: quello dei servizi, che costano molto meno di un restauro, sono meno invasivi ma permettono di ottenere comunque un’associazione del marchio al monumento. Un gran colpo se si tratta di luoghi celeberrimi.

Un trend che non si limita ai giochi di luci: American Express, ad esempio, si è offerta di sponsorizzare il nuovo portale del Museo Nazionale Romano con una spesa di 40 mila euro. Per legge il contratto di sponsorizzazione è soggetto “alla previa pubblicazione sul sito internet della stazione appaltante, per almeno trenta giorni, di apposito avviso, con il quale si rende nota la ricerca di sponsor per specifici interventi, ovvero si comunica l’avvenuto ricevimento di una proposta di sponsorizzazione, indicando sinteticamente il contenuto del contratto proposto”. E il Museo Nazionale Romano ha comunicato il fatto il 23 dicembre, ma il contenuto del contratto proposto non c’è, come capita spesso in questi avvisi: si comunica ciò che lo sponsor si impegna a fare, ma non la visibilità che il marchio avrà e per quanto a lungo. E così la cittadinanza lo scopre solo a giochi fatti e contratto firmato, finendo per avere come unica arma la denuncia a posteriori.

Ita dimezza i ricavi previsti. L’obiettivo è solo venderla

Ita Airways ha chiuso i primi due mesi e mezzo di vita con ricavi del 50% più bassi rispetto alle previsioni del piano industriale. Lo hanno detto ieri il presidente e l’amministratore delegato Alfredo Altavilla e Fabio Lazzerini in audizione alla Camera, senza dire però quale sia stata la perdita delle compagnia. Tra le cause indicate dai due manager, la pandemia (che il piano elaborato nel 2021 dovrebbe però incorporare), la perdita del bando sulla Sardegna e i ritardi della campagna pubblicitaria. Altavilla ha affermato che un’alleanza, con cessione di una quota del capitale, potrebbe concretizzarsi prima dell’estate. Circolano indiscrezioni su un interessamento di Lufthansa.

I vertici di Ita hanno lasciato intendere come tutta l’operazione sia congegnata per offrire sul mercato una compagnia facile da vendere, con bassissimo costo del lavoro e dimensioni ridotte. Tanti gli interrogativi posti dai deputati ma poco il tempo a disposizione. È stata quindi fissata una seconda audizione per mercoledì. Restano quindi per ora senza risposta le domande sulle retribuzioni dei dirigenti, sui piani di lungo termine e sui 90 milioni spesi per il marchio Alitalia poi non utilizzato. Altavilla ha confermato che sinora la forza lavoro è stata interamente attinta dagli ex Alitalia, sindacalisti compresi. “Nel 2022 potremmo dover assumere circa un migliaio di persone: 300 tra comandanti e piloti e oltre 600 assistenti di volo, ha aggiunto il presidente spiegando però che Ita “non è la Croce Rossa della vecchia compagnia”. Il ricorso agli inglesismi (“abbiamo offsettato elementi negativi”, “pensiamo l’emergenza Omicron finirà con la summer”) ha indispettito il deputato Maurizio Lupi che ha richiamato Altavilla. Nel frattempo la divisione concorrenza dalla Commissione Ue ha ribadito che i suoi pareri su Ita restano segretati finché non si definirà una dichiarazione pubblica che tuteli “segreti aziendali e informazioni riservate”.

Legge Lobby, arriva ok storico. Ma il testo ha perso pezzi

Ieri è arrivato il via libera dell’Aula della Camera alla proposta di legge sulla regolamentazione delle lobby. Il testo, approvato a Montecitorio con 339 voti a favore, nessun contrario e 42 astenuti tra FdI e Alternativa, ora passa al Senato. Un’approvazione sudata e di grandissimo compromesso dopo mesi di discussione per limare e arrivare a un testo che fosse condiviso anche da Italia Viva e FI: rispetto al principio ha infatti perso alcuni elementi, come l’iscrizione al Registro dei lobbisti delle associazioni di categoria e il divieto di iscrizione al registro per almeno un anno dalla fine dei mandati per parlamentari, authority e vertici di partecipate (divieto rimasto invece per membri del governo nazionale e Regionale). L’ultima modifica (targata Pd, Italia Viva e FI) riguarda l’esclusione dall’iscrizione al registro anche per membri e dirigenti presso le partecipate statali, da Cdp a Eni, Enel etc. durante il mandato. Nelle intenzioni dei relatori significa che non potranno esercitare attività di lobbying, altre interpretazioni la leggono come la semplice esenzione dal dichiararla. “L’approvazione è comunque una vittoria perché rispetto a zero almeno pone dei paletti dopo 47 anni di attesa. Certo ci sono dei limiti”, spiega Pier Luigi Petrillo, docente di Lobbying alla Luiss. Limiti che probabilmente sarà la giurisprudenza a colmare, perché uno dei fini dichiarati della norma è proprio definire che cosa si intende per attività di lobbying e chi possa farla. Di conseguenza il rischio è che chi sta fuori dal perimetro della definizione possa finire nel cono d’ombra del reato di traffico di influenze illecite. Il testo, che a rigor di logica politica dovrebbe ora essere rapidamente approvato al Senato, istituisce un Registro per la trasparenza dell’attività di rappresentanza di interessi presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (è prevista l’assunzione di trenta persone per gestirlo), chiarisce quali sono i decisori pubblici presso i quali i lobbisti svolgono la propria attività (dai parlamentari alle autorità indipendenti) e introduce l’agenda degli incontri e un Comitato di sorveglianza.

Il gas ostaggio della strategia russa

Alla fine l’accusa è arrivata da una voce istituzionale: la Russia, attraverso la compagnia statale Gazprom, sta usando il gas come arma politica per le dispute in corso con i Paesi occidentali. A dirlo, ieri, Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che accusa Mosca di avere sensibilmente ridotto le forniture di gas naturale ai Paesi europei, contribuendo all’impennata dei prezzi. “Gazprom – ha detto in una conferenza stampa online – contrariamente ad altri fornitori, come la Norvegia, l’Algeria e l’Azerbaigian, che hanno aumentato le loro forniture all’Europa, ha ridotto le sue esportazioni del 25% nel quarto trimestre del 2021 rispetto a un anno prima, nonostante gli alti prezzi di mercato”. Una dinamica che sarebbe legata alle tensioni sull’Ucraina, senza contare le pressioni di Putin sulla messa in funzione del gasdotto Nord Stream 2 che dovrebbe aumentare la fornitura diretta dal gas russo alla Germania bypassando altri Paesi (iniziativa che incontra l’opposizione di Ucraina, Polonia e degli Usa).

Nei giorni scorsi, in Europa il prezzo del gas si è in effetti ricalibrato (toccando un minimo di 82,5 euro al MWh sulla piazza di Amsterdam) anche grazie alle oltre 40 navi cariche di Gnl in viaggio dagli Usa e per il via libera dell’Indonesia alle esportazioni via cargo verso il Vecchio Continente. Negli ultimi mesi, però, l’aumento delle bollette di luce e gas ha pesato sulle famiglie e sulle imprese. Secondo i dati diffusi in questi giorni da Confindustria, che ha chiesto un intervento del governo, il costo dell’energia per le imprese ha registrato una impennata passando dagli 8 miliardi del 2019 ai 20 miliardi del 2021 e fino ai 37 previsti per il 2022. Così, il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha fatto sapere di star studiando una tassa sugli extra-profitti delle società energetiche con l’obiettivo di calmierare il caro-bollette intervenendo proprio sui guadagni in più delle utilities e che riguardano tanto le compagnie petrolifere quanto gli operatori che utilizzano fonti rinnovabili. Finora, tra sgravi fiscali e aiuti diretti e indiretti, l’esborso pubblico per calmierare il caro-energia è stato di oltre 7 miliardi di euro. “Credo che sia opinione condivisa all’interno del governo che gli extra-profitti di coloro che, in relazione a questa situazione, stanno registrando, debbano in qualche modo contribuire alla fiscalità generale, per intervenire nei confronti delle categorie più svantaggiate” ha detto. Il leader M5s Giuseppe Conte, ha propostp “un contributo di solidarietà da parte degli operatori”. A fine anno, il premier Draghi aveva già accennato ai maggiori guadagni delle compagnie: “Dovranno partecipare al sostegno del resto dell’economia”, ha detto. La settimana prossima si aprirà l’ennesimo tavolo con le imprese.

Ristori, rinviato (e ristretto) il dl Sostegni per le imprese

Più ristretto e pure più lontano nel tempo: questa la sorte del pacchetto Ristori al termine di 10 giorni in cui si sono succeduti una cabina di regia, due Consigli dei ministri e svariati tavoli tecnici. Annunciato dal premier Mario Draghi entro oggi, il nuovo decreto Sostegni per aiutare i settori più colpiti dall’emergenza, con precedenza a turismo e discoteche, non arriverà prima della prossima settimana con una dote finanziaria che si fermerà ben al di sotto dei 2 miliardi a cui puntavano pochi giorni fa Palazzo Chigi e Tesoro. E che, a fine novembre, si era ipotizzato fino a 15-20 miliardi grazie a un nuovo scostamento di bilancio. Nonostante il pressing di M5S e Lega, la possibilità di un ricorso all’extra-deficit subito è stata esclusa perché impraticabile prima dell’elezione del capo dello Stato. “Il provvedimento è complesso e va votato a maggioranza assoluta dalla Camera”, ha spiegato il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti.

Quello su cui realisticamente il governo può fare affidamento è circa 1 miliardo. Sono risparmi di spesa del 2021 subito a disposizione che, tuttavia, riusciranno a malapena ad andare in soccorso a limitate attività. E poi ci sono 150 milioni già stanziati in manovra che il Turismo deve condividere con Automotive e Spettacolo. Ma il settore turistico già conta i danni delle festività segnate da cancellazioni e teme il peggio per queste settimane dpo un 2021 già pessimo (l’Istat ha segnalato nel primo trimestre del 2021 un calo dell’81,7% degli arrivi, perso un pernottamento su tre rispetto al 2019). E se in lizza per ottenere gli aiuti ci sono anche le discoteche, chiuse fino a fine mese, non è invece chiaro come rientreranno agenzie di viaggi e tour operator. Risulterebbero esclusi dagli aiuti subito anche parchi a tema, alberghi e ristorazione, anche se le associazioni di categoria continuano a sollecitare i sostegni per un settore che definiscono in lockdown di fatto su spinta delle norme più restrittive sul green pass. Di fatto bar, ristoranti e pizzerie sono aperti, ma non hanno clienti. Non solo per l’esclusione dei no-vax, ma anche perché, spiegano, non ci sono clienti preoccupati dal record dei contagi e le famiglie bloccate in casa tra isolamenti e quarantene. “Il settore ricettivo – commenta Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi – nel 2021 ha perso quasi 10 miliardi”. “È soprattutto nelle città d’arte e nei centri storici che la situazione è tornata di grandissima crisi”, aggiunge la Federazione degli esercenti pubblici e turistici della Confesercenti, ricordando che nel 2020 hanno chiuso in Italia 20 mila aziende e che nel 2021 si prevede lo stesso numero, con relativo sacrificio di posti di lavoro. “Senza la proroga degli ammortizzatori sociali scaduti – dice Fipe-Confcommercio – sono a rischio altri 50.000 posti di lavoro solo nei pubblici esercizi”.

A complicare tutto c’è anche la mancata proroga della cassa integrazione Covid (pagata dallo Stato), scaduta il 31 dicembre. Ma anche se la richiesta di prevedere altre 13 settimane di Cig è sul tavolo del governo, sotto la spinta di una fetta della maggioranza (e dei sindacati), nulla fa pensare che ci siano delle chance per ottenerla. L’altroieri Draghi ha ricordato che è entrata in vigore la riforma degli ammortizzatori sociali targata Orlando, che ha già esteso i sussidi anche alle micro-imprese del terziario (in parte dovranno pagarsi l’ammortizzatore). Si starebbe, invece, ragionando su una sorta di Cig gratuita a sostegno delle imprese più in difficoltà sotto i 15 dipendenti. Ma servono tra i 3 e i 400 milioni di euro. E poi c’è l’ipotesi di far usare alle imprese 13 settimane di cassa integrazione ordinaria che, ottenuto nei prossimi mesi lo scostamento di bilancio, potrebbe essere rimborsata ai datori di lavoro.