“I violentatori? Sono di fuori città”

“Come credo abbiate saputo, gran parte del branco arriva da fuori Milano”. La precisazione Beppe Sala tiene a farla davanti alle telecamere del Tg1 delle 20. È martedì e il sindaco sta parlando delle violenze subite la notte di Capodanno a piazza Duomo e nei dintorni da almeno nove ragazze che avevano scelto di festeggiare l’arrivo del 2022 nel salotto buono del capoluogo.

“Non ho parlato fino ad oggi perché sapevo dell’indagine in corso che seguivo con il questore di Milano”, premette il primo cittadino del Pd. Inquirenti e forze dell’ordine “hanno fatto una grande opera perché sono stati individuati in breve” i responsabili. Fin qui tutto bene. Poi lo scivolone: “Gran parte del branco arriva da fuori Milano, però queste cose non posso accadere”. Come a dire: mica è colpa di noi milanesi. Parole che sui social non sono passate inosservate: “Ah beh, allora. D’altronde è noto che il rispetto dell’ordine pubblico va garantito sulla malavita locale. Su quella importata, ci sono i vigili di Torino competenti”, ironizza con amarezza un utente di Facebook. “Cosa c’entra se arrivavano da fuori Milano? Ciò che conta è che in piazza Duomo (mica nell’estrema periferia) le forze di polizia si studiavano l’ombelico mentre questi accerchiavano e tentavano – o lo hanno fatto – di stuprare un gruppo di ragazze”, commenta un altro. “Sono vicino alle ragazze. Mi scuso a nome mio e della città, e il Comune si costituirà parte civile nel processo. Spero in pene severe”, aggiunge poi Sala. Ma ormai la frittata è fatta.

“Bloccata, svestita e stuprata dal branco in piazza Duomo”

Piazza Duomo, Milano, 13 minuti prima della mezzanotte. Qualcuno chiede aiuto: “La ragazza, la ragazza!”. Capelli lisci, giubbotto rosso. La ragazza viene “strattonata, spintonata”. Stesso tempo, altre vittime “improvvisamente assalite da un gruppo di 30-40 uomini”. Per una di loro è l’inferno: le bestie “avevano denudato” la ragazza “nella parte superiore del corpo, abbassato i pantaloni e palpeggiata nelle parti intime a turno, per poi allontanarsi (…)”. Altre giovani presenti in piazza Duomo. La prima: “Tutto intorno era uno schifo, c’erano molti ragazzi e chiunque passasse si prendeva la libertà di mettere le mani addosso”. L’amica: “Ho urlato cercando la mia amica (…). Sono arrivate le forze dell’ordine (…). Lei era lì che cercava di coprirsi con il giubbino stretto sul petto, non aveva più indumenti addosso, era senza reggiseno, senza slip, rannicchiata per terra piena di lividi, i pantaloni abbassati alle caviglie”. Risultato per l’accusa: violenza sessuale, rapina, lesioni. Vittime nove donne.

A far macerie un cosiddetto branco. Con tecnica e modalità ben pianificate, spiegano in Procura. In batteria italiani perlopiù, anche di seconda o terza generazione, che vivono tra Milano ovest e la periferia di Torino. La Squadra Mobile indaga. La Procura firma 18 perquisizioni, 12 sono gli indagati. Tra questi due ieri sono stati fermati per pericolo di fuga. Decreto che è arrivato nel pomeriggio dopo una lunga notte di interrogatori. Trenta pagine ora al vaglio di un giudice esperto come Raffaella Mascarino. Per la decisione serviranno massimo 2 giorni.

Nella Milano che dopo Expo 2015 corre veloce verso le Olimpiadi invernali, ciò che resta è la terrificante narrazione delle vittime. Due di loro erano al Duomo, provenienti dalla provincia, per festeggiare, felici e ben vestite. La prima spiega: “C’erano molti ragazzi e chiunque passasse si prendeva la libertà di mettere le mani addosso”. L’amica conferma la violenza: “Ho urlato cercando la mia amica (…). Sono arrivate le forze dell’ordine (…) Lei era lì che cercava di coprirsi (…) rannicchiata per terra piena di lividi, i pantaloni abbassati alle caviglie”. Uno dei capi d’accusa firmati dalla Procura conferma: “Dopo aver accerchiato le due ragazze e averle spintonate e palpeggiate sul seno e sul sedere, sollevavano da terra (…), immobilizzandola (…) la denudavano nella parte superiore del corpo e le abbassavano i pantaloni e gli slip, palpeggiandola nelle zone genitali e penetrandola in vagina con le dita”. Siamo in piazza Duomo, il servizio d’ordine parrebbe ben distribuito. Eppure qualcuno afferra una delle vittime “cercando di trascinarla lontano dai suoi amici”. A conclusione del decreto di fermo che, va detto, dovrà essere confermato o meno dal giudice si legge di un “concreto pericolo di reiterazione del reato (…) tenuto conto (…) della serialità” delle condotte “evidenziate dal medesimo modus operandi”. A pesare soprattutto, si legge, “la loro aggressione violenta nei confronti di giovani ragazze, sfociate in violenze sessuali di gruppo in cui il gruppo (…) ha agito con la consapevolezza di poter approfittare dei festeggiamenti per il Capodanno per garantirsi l’impunità”. Ragazze indifese e inconsapevoli aggredite “repentinamente e con violenza”. Il modus della violenza avviene con un approccio soft, chiedendo il numero di telefono ma “con atteggiamento molesto e insistente parandosi davanti a lei”, dopodiché la vittima “è stata brutalmente denudata, palpeggiata nelle zone intime, e penetrata (…) con le dita dai suoi aggressori”. Quaranta, forse cinquanta le persone che hanno contribuito con la loro presenza “a rafforzare gli intenti delittuosi (…) agendo con modalità da branco unitamente ad altri soggetti” usando le giovani vittime “a proprio piacimento e per soddisfare le proprie pulsioni, in spregio a ogni forma di rispetto della persona”.

A San Vittore così da ieri è andato Mahmoud I. 19 anni il prossimo marzo, nato in Egitto ma arrivato in Italia nell’estate del 2019 e passato anche per una casa di accoglienza a Milano. “Un bravo ragazzo, un lavoratore che da poco ha perso un fratello”, ha spiegato ieri il padre. Il secondo fermato è invece Abdallah B. 21 anni, italiano di seconda generazione, anche lui per i genitori “innocente”. I due indagati sono stati individuati anche attraverso lo studio dei loro profili social, il riconoscimento fotografico da parte delle vittime e per il loro abbigliamento, come giubbotti colorati e felpe ritrovate e sequestrate in casa. Insomma Milano si risveglia violenta. E non solo per i fatti di piazza Duomo, in tutto simili a quelli avvenuti a Colonia nel 2016 durante i festeggiamenti per l’ultimo dell’anno, ma anche per altri episodi che rimontano dalla periferia e non solo. Milano città criminale, senza dubbio, e interraziale come altri grandi centri in Europa. Dove oltre alle violenze di gruppo, si spara. Come avvenuto in una piazza in zona San Siro dove un egiziano è stato raggiunto da sei colpi per questioni di droga. La zona di Milano è quella dove il rapper Baby Gang lo scorso aprile aveva radunato circa 300 persone per registrare un video e per il quale ieri la polizia ha chiesto e ottenuto stata la sorveglianza speciale.

Bluff da 30 mln l’incubatore Ue per sviluppare sieri home made

In un tweet del 17 febbraio 2021, la Commissione presenta il nuovo incubatore Hera: “Dobbiamo stare al passo con la minaccia di nuove varianti di Coronavirus. Il nostro obiettivo è chiaro: essere preparati a produrre rapidamente su larga scala vaccini efficaci contro tali varianti”.

Nell’ambito dell’iniziativa, la Commissione finanzia nuovi progetti di ricerca per accelerare sviluppo, approvazione e produzione di vaccini contro possibili nuovi varianti. Le aziende che lavorano all’adattamento di vaccini esistenti o allo sviluppo di vaccini ad hoc sono agevolate con misure di sostegno di nuove tecnologie e l’accesso a una rete di sperimentazioni cliniche a livello dell’Ue.

L’incubatore, tra l’altro, sta valutando l’introduzione dell’autorizzazione di emergenza dei vaccini a livello europeo, fornendo indicazioni sui requisiti in materia di dati e sostenendo la ricerca per includere i bambini nelle sperimentazioni cliniche. E sta contribuendo ad accelerare la certificazione di infrastrutture di produzione nuove o riproposte.

“La pandemia ci ha mostrato tre cose: dobbiamo agire in anticipo. Dobbiamo investire su larga scala. Dobbiamo collaborare”, aveva affermato la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, riassumendo i compiti principali di Hera. Peccato che fino a oggi non si sia visto nessun risultato, nonostante sia stato finanziato con un investimento iniziale da 30 milioni di euro (briciole, se confrontate con la forza del colosso farmaceutico che questa cifra la incassa in un singolo trimestre). Il vaccino contro la variante Omicron è stato annunciato solo da Pfizer. E, ufficialmente, i laboratori partecipanti a Hera non hanno ancora sviluppato alcun antidoto contro la nuova variante. Chissà, magari per la prossima in arrivo.

“Rischio paralisi immunitaria con dosi ravvicinate”

“Non possiamo continuare con dosi di richiamo ogni 3-4 mesi”, avverte il capo della strategia vaccinale dell’Ema, Marco Cavaleri: “Non abbiamo ancora dati sulla quarta dose per poterci esprimere, ma ci preoccupa una strategia che preveda vaccinazioni ripetute in un lasso di tempo breve”. Le domande cui si cerca di dare risposta, in questo momento, sono varie: il richiamo per quanto tempo ci proteggerà? Servirà per Omicron? La quarta dose è sicura? Si farà anche la quinta nei prossimi mesi?

Facciamo un passo alla volta.

Il report della HSA, l’autorità sanitaria inglese, suggerisce che “dopo 10 settimane dal booster, l’efficacia della protezione cala del 15-25%” (a novembre quando si parlava di protezione per 5-10 anni). Sui tempi con cui effettuare il richiamo, la Gran Bretagna è stata la prima a dare il via libera al booster dopo soli 3 mesi (in Italia sono 4). Qualche dubbio sul ravvicinare e moltiplicare le dosi è stato espresso da Sergio Abrignani, immunologo del Cts, sul Corriere della Sera: “Non è una buona idea abbreviare troppo; se si vaccina ogni 2-3 mesi, dopo un po’ potrebbe ottenersi l’effetto contrario. Il sistema immunitario si potrebbe anergizzare” (essere incapace di reagire a infezioni o al contatto di una sostanza inoculata, ndr). Antonio Cassone, ex direttore Malattie infettive dell’Iss, aveva sollevato questo tema già mesi fa: “È notevolmente problematico accorciare i tempi dei richiami per la possibilità che la risposta immunitaria vada in cortocircuito, per eccesso di antigene in una sola dose o per ripetute e ravvicinate dosi, fino a provocare paralisi immunitaria”. Questo scenario è plausibile anche per Roberto Cauda, membro dello Scientific advisory group dell’Ema e direttore Malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, che al Fatto precisa come pur trattandosi “di un’ipotesi quella di andare incontro a una ridotta o assente risposta immunitaria cellulare e/o umorale, non c’è esperienza con i vaccini a mRNA”. A questi dubbi si unisce anche Guido Forni, immunologo dell’Accademia dei Lincei, che ci spiega come “sembra corretto quanto sostiene il prof. Abrignani. La capacità protettiva dei vaccini svanisce dopo un tempo imbarazzantemente breve. Ma sappiamo bene che eccessive stimolazioni del sistema immunitario possono portare ad anergie per esaurimento della capacità del sistema immunitario di reagire efficacemente”.

La storia potrebbe cambiare di parecchio e a nostro vantaggio, secondo Cassone, se “riuscissimo ad avere un vaccino mucosale, capace di limitare la capacità infettante del virus attraverso le IgA secretorie (ovvero le difese delle alte vie aeree che non vengono stimolate dagli attuali vaccini, ndr)”. L’altro punto di svolta può essere rappresentato dagli antivirali precoci come il Molnupiravir, già arrivato in Italia, e in somministrazione da inizio gennaio. “L’avvento di questi farmaci potrebbe contribuire significativamente a cambiare l’evoluzione della pandemia”, sostiene Forni.

Israele, nel mentre, procede spedito nella quarta dose. Dopo i risultati preliminari di uno studio che ha testato 154 soggetti, si può dire che “la quarta dose è sicura” – ha riportato il quotidiano Haaretz – e aumenta di 5 volte gli anticorpi contro la Spike originaria (di Wuhan) nei soggetti sani. Quale sarà la durata della protezione nei soggetti fragili, anziani e immunodepressi è ancora da capire. Altra fuga in avanti è quella della Turchia, che ha iniziato a offrire le quinte dosi di richiamo. Secondo quanto annunciato dal ministero della Salute turco, “gli individui che hanno ricevuto due dosi del Sinovac cinese e due dosi del vaccino Pfizer-BioNTech almeno 3 mesi fa, potranno ottenere un appuntamento per la quinta dose”.

Perché la corsa al richiamo è sotto accusa

Lo tsunami Omicron e la scelta tra il ripetere un secondo booster o somministrare nuovi vaccini più mirati semina scompiglio nelle strategie vaccinali e divide l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. La scelta tra i due approcci è una corsa contro il tempo che vale denaro e salute perché si dovrà decidere quali tipologie di dosi – già pre-acquistate – si dovrà far produrre alle case farmaceutiche da qui alla fine dell’anno, per scongiurare nuove ondate.

Ieri l’Ema, l’Agenzia europea dei medicinali e l’Fda, l’americana Food and Drug Administration si sono riunite d’urgenza per concordare un approccio comune e uscire dal caos dove ogni Paese, anche nell’Ue, rischia di andare per conto proprio (è di ieri la notizia del via libera in Danimarca alla quarta dose per i fragili). Ma l’incontro è stato aggiornato senza decisioni concrete.

 

L’Oms è divisa

Già il giorno prima, l’Oms aveva fornito segnali discordanti. Il direttore dell’ufficio europeo, Hans Kluge, ha riesortato le nazioni del Vecchio continente a somministrare la terza dose all’intera popolazione. Il Gruppo tecnico sui vaccini Covid-19 ha criticato il modello booster e dichiarato che servono vaccini che prevengano in modo duraturo l’infezione e la trasmissione del virus Sars-Cov-2, oltreché la malattia da essa indotta, il Covid appunto. Contro la “terza dose dei ricchi”, si era già scagliato prima di Natale il direttore generale dell’Oms Tedros Ghebreyesus, accusando l’Occidente di lasciare sprovvisti i Paesi meno abbienti, dove in molti casi non hanno neanche avuto la prima dose. Senza contare come la scarsa copertura vaccinale in queste regioni potrebbe far emergere nuove varianti. Il 7 dicembre scorso il Gruppo consultivo di esperti sull’immunizzazione aveva pubblicato un documento, passato nel silenzio stampa, che dimostra che per ridurre ricoveri e decessi in modo equo in tutto il mondo occorre dare priorità al ciclo completo per tutti e alla terza dose solo per le categorie fragili (anziché boostare in modo indiscriminato e vaccinare anche i più giovani). E anche il Centro europeo per il controllo delle malattie, l’Ecdc, aveva avvertito nel suo ultimo rapporto del 25 novembre, che la vaccinazione dei bambini e la terza dose generalizzata avrebbero avuto un impatto limitato nel contrasto all’emergenza sanitaria.

 

I nuovi vaccini: miraggio

Gli attuali vaccini riducono i ricoveri e i decessi, ma meno di quanto promesso la possibilità di infettarsi e contagiare gli altri, non sono dunque, come abbiamo imparato, sterilizzanti. Per farne di nuovi potrebbe essere necessario cambiare i protocolli dei test clinici, con tempistiche non immediate. È proprio uno dei punti dibattuti da Ema e Fda nel 2020: vista l’emergenza, avevano stabilito che per approvare un vaccino bastava che il siero si dimostrasse efficace nel prevenire la malattia. Non è chiaro se alle case farmaceutiche verrà chiesto di provare che i loro nuovi vaccini modificati abbiano pari efficacia anche contro l’infezione.

Sul punto, l’Ema si riserva un “no comment”. Per ora sta discutendo le diverse opzioni coi quattro produttori dei vaccini già somministrati nell’Ue: Johnson&Johnson, Novavax, Moderna e Pfizer (distributore del prodotto della tedesca Biontech) che finora ha totalizzato l’incasso record di quasi 30 miliardi di euro.

La multinazionale americana lo scorso novembre aveva annunciato un vaccino specifico per neutralizzare l’infezione Omicron per marzo di quest’anno. Al tempo stesso, ha chiesto l’approvazione della terza dose per i 16-17enni e si appresta a bissare per i 15enni.

 

Le dosi già pre-acquistate

Marco Cavaleri, capo della strategia vaccinale dell’Ema, ha espresso dubbi sui vaccini Omicron che potrebbero arrivare quando si potrebbe essere già diffusa un’ulteriore variante, puntualizzando che l’ideale sarebbe un vaccino capace di neutralizzare diverse possibili varianti. L’alternativa sarebbe adattare gli attuali vaccini per richiami che offrano una durata di protezione più lunga rispetto all’attuale booster. In gioco ci sono i 900 milioni di dosi aggiuntive di Pfizer che la Commissione europea ha prenotato nel maggio 2021 (con un’opzione per altri 900 milioni) per i prossimi due anni. Da contratto, una quota non specificata comprende eventuali vaccini per nuove varianti. Ben 215 milioni dosi verranno consegnate entro fine marzo per consentire agli Stati membri di somministrare il booster ai cittadini prima che scadano i loro certificati Ue, necessari per gli spostamenti oltre-frontiera (validità armonizzata a 9 mesi). Accordi simili sono stati siglati con la connazionale Moderna, produttrice anch’essa degli avanzati vaccini mRna.

Per il 2022 restano ancora 450 milioni di dosi Pfizer (più quelle opzionabili). Potranno diventare altrettanti booster, ma la copertura contro la malattia sembra limitata nel tempo (si ridurrebbe del 10-15 % dopo due mesi, secondo l’Imperial College di Londra), o dei nuovi vaccini che rischiano però di essere inutili, quando saranno autorizzati, in caso di nuove mutazioni. Però le dosi gli Stati dovranno pagare lo stesso. Il contratto di approvvigionamento firmato con la Commissione deresponsabilizza l’azienda da qualsiasi limitazione nella prestazione del suo prodotto.

 

Il mercato delle dosi

Il paradosso è che Pfizer ha fino al dicembre 2023 per comunicare i più cruciali dati di efficacia dei vaccini via via sviluppati, in base all’autorizzazione rilasciata dall’Ema. Questa ha scritto lo scorso novembre, nel rinnovo annuale dell’autorizzazione del vaccino: “Permangono incertezze sulla durata della protezione, sull’efficacia nei gruppi a rischio e contro le imminenti varianti”. Sul Registro Ue post-autorizzazione dei farmaci, di studi in corso su questi aspetti non vi è traccia.

“La mancanza di documenti indica che tali studi rimangono in una fase molto precoce”, ha denunciato a fine dicembre Peter Doshi, docente all’università americana del Maryland ed esperto di fama mondiale in sperimentazione clinica. Sul British Medical Journal (da lui co-diretto), “gli studi a cui i produttori danno la priorità servono a ottenere l’approvazione per dosi aggiuntive o per nuovi vaccini”. Concorda David Dowdy, professore di Epidemiologia delle malattie infettive alla conterranea Johns Hopkins University: “Il modo strategico in cui sono rilasciati i dati mira a espandere il mercato dei vaccini, occorre una maggiore pressione pubblica per la sorveglianza post-approvazione, c’è però da dire che le case farmaceutiche hanno un forte incentivo a offrire un prodotto di qualità”.

Forti delle regole Ue sulla confidenzialità dei trial clinici, Pfizer e i suoi concorrenti negano l’accesso a cruciali dati clinici che permetterebbero ai ricercatori indipendenti di condurre analisi e informare rapidamente le autorità di regolamentazione.

“Senza molecolare non si entra”. Così Alessia ha perso il bimbo

“Per farla accedere al pronto soccorso deve fare un tampone molecolare, ma qui non lo abbiamo, ci sono solo i veloci. Ne faccia uno privatamente lunedì e poi torni per la visita”. Con queste parole Alessia Nappi, 25 anni, alla quinta settimana di gravidanza, sabato scorso è stata respinta da un’operatrice del Pronto soccorso ostetrico dell’Ospedale Universitario di Sassari. Una storia terribile (raccontata da La Nuova Sardegna), perché Alessia pochi minuti dopo essere stata mandata via dalla struttura, il suo bambino l’ha perso. Nel parcheggio dell’ospedale. In un mare di sangue.

La vicenda è la tragica conseguenza della disorganizzazione che regna nella sanità sarda, allo sbando soprattutto nel Nord dell’Isola, dove da mesi la gente scende in piazza per difendere i pochi presidi ospedalieri rimasti aperti. L’ultimo a chiudere martedì è stato il punto nascite di Lanusei, serrato a causa della mancanza di medici.

Alessia accompagnata dal marito si era presentata al pronto soccorso perché lamentava dolori e perdite ematiche. Ad accoglierla al pre-triage esterno all’ospedale “un’ostetrica tutta bardata”, racconta la ragazza, “che prende i miei dati e chiama il medico nel reparto che è al quarto piano”. Dovrebbe essere visitata, tuttavia, spiega l’ostetrica, deve sottoporsi a un tampone molecolare che però in quel momento non è disponibile nella struttura. Alessia, due dosi vaccino già fatte e con l’appuntamento per la terza già fissato, non crede alle proprie orecchie. “L’ostetrica mi ha detto che avevano solo i veloci – spiega, ma che non sono affidabili e quindi serviva un molecolare. “Ma è sabato – le ho risposto – dove vado a farlo?”. E lei: “Lunedì vada nel centro di Palazzo Rosa e poi torni da noi”. Il rischio, aveva anche aggiunto l’ostetrica, è che si creasse un cluster nel pronto soccorso, che è l’unico centro per tutte le patologie ad alto rischio per le donne in gravidanza del Nord Sardegna, data la presenza della Neonatologia nel Materno infantile. Inoltre, dal 2020 è anche l’unico punto nascita nonché reparto Covid nel centro-nord dell’Isola, circa 800 mila abitanti (con 9 posti di terapia intensiva).

Nonostante le proteste, Alessia viene allontanata con il consiglio di rimanere a riposo e prendere una tachipirina. E se l’emorragia fosse aumentata, di tornare. Neanche le forze dell’ordine chiamate dal marito hanno potuto fare qualcosa: “Ci hanno consigliato di andare nel pronto soccorso ‘normale’ e da lì farci fare l’impegnativa per quello ostetrico – racconta il marito – ma nel frattempo mia moglie ha avuto l’emorragia e ha perso il bambino”.

“Se vai in un pronto soccorso per una perdita di sangue alla quinta settimana, il Sistema Sanitario Nazionale deve visitarti – si dispera Alessia – forse avrei perso comunque il bimbo e lo avrei accettato. Ciò che non posso accettare è che non mi abbiano visitato per la mancanza di un molecolare!”.

Versione diversa è quella raccontata da Franco Bandiera, direttore sanitario della struttura sassarese: “L’ospedale ha a disposizione tutti i tamponi, anche i molecolari veloci. Inoltre, essendo un pronto soccorso, facciamo entrare anche chi è senza tampone”. E allora perché Alessia è stata respinta? Secondo Bandiera, è stato “per volontà del medico. Con quel tipo di perdite, alla terza (quinta, ndr) settimana, si poteva fare ben poco. Così ha preferito non rischiare”.

Ma quando abbiamo chiesto al direttore se in periodi “non Covid” Alessia sarebbe stata visitata e non respinta, risponde: “Sarebbe entrata per un colloquio col ginecologo, ma la terapia sarebbe stata uguale”. Una risposta che non soddisfa la coppia, la quale è in procinto di depositare una denuncia penale contro l’ospedale.

Il “trucco” lombardo. I positivi in ospedale sono molti di più

Ieri la Regione Lombardia ha chiesto al ministero della Salute di non conteggiare come ricoveri Covid i pazienti ospedalizzati per altre patologie risultati positivi. Il fine sarebbe “dare una rappresentazione più realistica e oggettiva della pressione sugli ospedali”. Ma la Regione almeno dal 10 dicembre esclude dal calcolo i ricoverati nei pronto soccorso e i positivi ricoverati per altre patologie. Un modo per sottostimare il dato e non aggravare gli indici che determinano i colori delle Regioni. Il “nuovo sistema” è stato messo nero su bianco il 10 gennaio con la circolare G1 1791 inviata a tutte le strutture sanitarie con “le modalità di gestione dei ricoveri di area non intensiva” in cui si specificano i casi nei quali il paziente Covid va inserito nella lista e chi invece no. Tra gli esclusi “i pazienti dimessi dal pronto soccorso che non sono stati ricoverati in un reparto per acuti” e “i pazienti con ricovero in un regime di degenza diverso da quello ordinario per acuti (es. riabilitazione/subacuti)”. Indipendentemente se siano sintomatici o asintomatici.

Cosa significhi ce lo spiega un medico di un pronto soccorso milanese, che chiede l’anonimato: “È un modo per travisare la realtà – sostiene – nel senso che se non contiamo i pazienti in attesa di ricovero in pronto soccorso e che magari aspettano già da 5/10 giorni, né quelli con degenza diversa, si va a incidere sui criteri che definiscono le aree. Così si considerano solo i pazienti ricoverati in degenza ordinaria e in terapia intensiva e si rimane con un’emergenza inferiore, quando, invece, gli ospedali sono sotto le bombe. Anche nelle ondate precedenti – aggiunge – non c’era una vera valutazione dei pazienti in pronto soccorso, però ora è stato scritto nero su bianco”.

A complicare la situazione, la scelta di non individuare – a differenza delle ondate precedenti – degli hub Covid di specialità. In passato erano indicati ospedali dove indirizzare tutti i positivi con una patologia cardiaca, oppure un trauma, lasciando le altre strutture “pulite”. Oggi le direttive sono cambiate: “In questa ondata non è stato attivato nessun hub Covid di specialità, cioè qualunque paziente di qualunque specialità si presenti in ospedale, deve essere trattato in quell’ospedale”, dice il medico. Se hai un infarto e anche il Covid, vieni ricoverato in cardiologia e risulti paziente cardiaco, ma non rientri nei malati Covid. Una scelta che crea problemi di gestione dei reparti, perché i sanitari devono assicurare spazi per i degenti Covid e non Covid, aggravando la pressione sul personale e limitando l’operatività delle strutture.

Non va meglio nei pronto soccorso: “In questo momento ho 13 pazienti Covid in attesa da più giorni e una ventina di non Covid – dice lo specialista – 13 fantasmi, per l’indicatore, perché con le nuove direttive è come se fossero a casa. Ma di fatto stanno vivendo un ricovero. Inoltre, stazionando a lungo in pronto soccorso, aggravano il lavoro ordinario”. E secondo il medico è “altissimamente verosimile” che a dicembre se i conteggi fossero stati reali, la Lombardia sarebbe diventata gialla.

Dalla Regione fanno sapere che la G1 1791 “è una circolare gestionale, che si limita a specificare alcuni punti già previsti nel decreto”. Il Pirellone inoltre sottolinea che il suo contenuto “non ha nulla a che vedere con il nuovo sistema proposto al ministero per differenziare i pazienti Covid che hanno la polmonite, rispetto ai pazienti subacuti di altre patologie che sono anche positivi”.

Si litiga sul bollettino. Ma nei numeri Covid qualcosa non torna

Non succedeva dal 21 dicembre che i pazienti in terapia intensiva diminuissero da un giorno all’altro: ieri il sempre più discusso bollettino del Covid-19 ne registrava otto in meno rispetto a martedì (sono 1.669 in totale). Però nessuno crede a un’inversione di tendenza. I nuovi ingressi sono stati 156, meno di martedì (185), ma la media mobile settimanale è a 150 e cresce incessantemente da metà ottobre, quando era a 18. È anche probabile che molti di coloro che hanno lasciato i reparti di rianimazione non siano più fra noi: le Regioni hanno contato 313 decessi, ennesimo record della quarta ondata, anche se 60 tra Toscana e Sicilia si devono a ricalcoli dei giorni scorsi. I contagi rilevati sono stati 196.224, a conferma di un rallentamento dell’impressionante crescita di queste settimane. E se questi ultimi si devono a Omicron, gli esperti ritengono che i casi più gravi siano ancora in larga parte Delta, tutt’altro che scomparsa. Si attendono i dati sulla prevalenza delle due varianti.

I ricoverati nei reparti ordinari sono aumentati di 242 unità, il totale è 17.309 pari al 27 per cento dei letti dichiarati dalle Regioni, mentre nelle terapie intensive è al 17 per cento. Se il trend non si inverte c’è chi rischia la zone rosse, ma soprattutto ci sono già enormi problemi negli ospedali dove si rinviano interventi chirurgici, visite e screening con tutto ciò che significa per chi non può pagare i privati.

Questi dati però contengono, specie quelli dei reparti ordinari la cui curva si è impennata quasi quanto quella dei contagi, un numero imprecisato di pazienti positivi al Covid ma ricoverati per altre patologie. Richiedono evidentemente percorsi separati e misure organizzative complesse, ma nulla dicono della gravità del Covid in questa fase. Uno studio della Fiaso, la Federazione delle aziende ospedaliere, ha fotografato la situazione di sei grandi ospedali al 5 gennaio: i positivi ricoverati per malattie diverse dal Covid erano il 34% ma tutti finiscono nelle statistiche e nel calcolo dell’Rt ospedaliero, che è sopra 1 e sta crescendo, ma a questo punto chissà se dice la verità. Fonti qualificate del ministero della Salute riconoscono che il problema c’è, alcune Regioni chiedono di cambiare perché dai ricoveri dipendono i famigerati “colori”. Del resto il monitoraggio clinico affidato allo Spallanzani di Roma non si sa che fine abbia fatto e chissà che non siano sballati anche i dati quotidiani della mortalità su cui si attende il rapporto dell’Istituto superiore di sanità (l’ultimo è di ottobre, prima della quarta ondata). Forse anche per queste contraddizioni si vuole abolire al bollettino quotidiano: ne discuterà il Comitato tecnico-scientifico, sollecitato dall’infettivologo Donato Greco; ovviamente deciderà il governo. Speriamo che non serva a nascondere la polvere sotto qualche ideale tappeto…

Concreti motivi di ottimismo vengono invece da uno studio dell’università californiana di Berkeley che ha confrontato due gruppi di pazienti colpiti a dicembre da Omicron e Delta. Delle 52.297 persone infettate con la variante scoperta a fine novembre in Sudafrica, 222 sono state ricoverate e 7 in terapia intensiva, nessun paziente ha avuto bisogno di ventilazione meccanica e solo uno è morto. Tra i 16.982 contagiati da Delta, questi valori erano rispettivamente 222, 23, 11 e 14. Dunque Omicron presenta un minor rischio di ricovero del 52%, di terapia intensiva del 74%, di morte del 91%. “Le riduzioni della gravità della malattia associate alle infezioni da variante Omicron erano evidenti sia nei pazienti vaccinati sia in quelli non vaccinati”, sottolineano i ricercatori. Che mantengono grande cautela: “Gli alti tassi di infezione possono sopraffare i sistemi sanitari e potrebbero tradursi in un numero assoluto elevato di ricoveri e decessi”, si legge nel paper, non ancora revisionato ma disponibile in preprint firmato tra gli altri da studiosi di alto livello quali Joseph A. Lewnard, Vennis X. Hong, Manish M. Patel e Sara Y. Tartof.

La Banda Bassetti

L’ideona della Banda Bassetti&Draghetti di abolire il bollettino quotidiano del Covid perché i dati vanno sempre peggio e la gente si deprime, o magari capisce, è coerente con la politica del “rischio (s)ragionato” inaugurata a fine aprile con la fine prematura delle restrizioni. La politica del “meno salute e più pil(u) per tutti”, cara a Confindustria e i suoi derivati, pare pianificata da Boris Johnson travestito da Walter Ricciardi: si finge il massimo rigore (Green pass, Super Gp anche rafforzato, obbligo vaccinale, multe, garrote, anatemi), ma si lascia galoppare il virus sostituendo la quarantena ai trivaccinati con l’“autosorveglianza”, nella folle illusione che il Covid modello Omicron sia un’influenzetta per tutti fuorché per i No Vax. Intanto continuano a morire e a finire intubati anche migliaia di Vax, perché Delta sopravvive a Omicron e 16 milioni di bivaccinati non hanno ancora potuto o voluto farsi la terza dose. Undici mesi di guerra termonucleare hanno convinto appena il 2% dei No vax a vaccinarsi; ma in compenso i detti e contradetti di governo, autorità e scienziati sfusi stanno convincendo molti Sì vax a diventare No vax sul booster, per non parlare della quarta dose (si farà anzi no forse boh). Siccome i dati si ostinano a non collimare con le conferenze stampa del premier e dei suoi fan, non potendo abolire il premier (anzi, volendolo promuovere al Colle), non resta che abolire i dati. In attesa che Cetto La Qualunque assuma la guida del Cts, la soluzione si presta a interessanti applicazioni in altri campi.

Spread: siccome Draghi fu magnificato a febbraio dai giornaloni come “scudo anti-spread” che “ci fa guadagnare miliardi” con la sola forza del pensiero, ma ieri mattina il differenziale di rendimento fra Btp e Bund ha superato quota 142 (il putribondo Conte l’aveva lasciato a 105), lo spread verrà calcolato non più sul titolo di Stato tedesco, ma sulla pizza del fango del Camerun.

Meteo: siccome fa freddo e la gente in coda potrebbe dubitare della perfetta organizzazione Figliuolo, il meteo è abrogato fino alla bella stagione.

Sanità: siccome un terzo dei malati ufficialmente ricoverati per Covid entra in ospedale per altre patologie, il problema è risolto vietando i termometri.

Calcio: la Roma, squadra del cuore di Draghi, sta andando maluccio, dunque fino a nuovo ordine è abolita la schedina.

Quirinale: siccome i giustizialisti ritengono che un pregiudicato per frode fiscale che ha finanziato per vent’anni Cosa Nostra non possa fare il presidente della Repubblica, saranno cancellate tutte le sentenze di condanna per imputati con le iniziali S.B. Ah no, mi avvertono che è già così da anni. Come non detto.

Quei “cornuti” d’Europa: gli elmi a spasso tra Sardegna e Baltico

Una ricerca danese getta nuova luce sulle relazioni tra Baltico e Mediterraneo tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro (1200-750 a. C.). Come svelato dalla professoressa Helle Vandkilde alla Cnn, lo studio – a cura di Valentina Matta, Laura Ahlqvist e Heide W. Nørgaard – suggerisce una relazione tra gli elmi cornuti rinvenuti in area scandinava (detti Vikso) e quelli attestati nella Sardegna e nel sud della Penisola Iberica coeve.

La ricerca, pubblicata su Praehistorische Zeitschrift, rivista specializzata sulla preistoria germanica, e riportata anche da Science, ipotizza l’esistenza di network consolidati tra Sardegna, Penisola iberica e Scandinavia che avrebbero portato a iconografie e produzioni culturali simili. L’organizzazione sistemica delle evidenze disponibili sembra sgomberare il campo, secondo i ricercatori, dalla possibilità che gli elmi con corna curvate, nonché gli occhi concentrici e il sovradimensionamento di parti del corpo riscontrati in statue e steli, siano dovuti a sviluppi autonomi non collegati tra loro. Gli autori scrivono che “in tutte e tre le aree, l’elmo cornuto viene utilizzato per esprimere la potenza dell’individuo, la quintessenza del guerriero”. E ipotizzano che gli elementi comuni possano essere associati a due fenomeni: “La diffusione di simboli attraverso il commercio del metallo tra le tre zone” e/o “la diffusione di credenze e culti associati al fenomeno della gigantizzazione dell’individuo”.

La diffusione dei risultati di questa ricerca ha portato una parte della stampa non specializzata a concludere che “gli elmi Vichinghi vengono dalla Sardegna”: ma i Vichinghi non c’entrano, anzi la ricerca dimostra che gli elmi con corna curvate erano in uso in Danimarca oltre 1.500 anni prima che qualsivoglia società vichinga si insediasse lì.

La proposta di un legame tra i due mondi, scandinavo e mediterraneo, non è una novità assoluta per gli studiosi. Gianfranca Salis, archeologa della Soprintendenza di Cagliari, conferma come non manchino evidenze dei commerci tra il Baltico e il Mediterraneo (primo fra tutti quello dell’ambra), seppur non implichino contatti diretti ma piuttosto mediati. Ed è normale pensare che con le merci circolassero anche le idee. L’ipotesi di ricerca riguardo la connessione degli elmi Vikso e le statue nuragiche “necessita di ulteriori dati materiali a corroborarla, oltre a quelli iconografici” spiega la studiosa. Ma l’esistenza di spostamenti di merci e idee attraverso i mari e il continente già un migliaio di anni prima di Cristo è sempre più una certezza da indagare.