“Io so solo una cosa: avrei voluto il bis di Mattarella”

Bruno Pizzul chi vorrebbe come prossimo presidente della Repubblica?

Ah… (silenzio, sospira. Ci pensa. Prova quasi a rispondere, poi si ferma. Si ha la sensazione che avrebbe preferito qualsiasi altra domanda, non questa)

È così complicato?

Devo scindere tra il desiderio e la realtà.

Sono bivi pericolosi.

(Sorride) Va bene.

Quindi?

Il desiderio grattato all’impossibile mi dice… sarebbe auspicabile un bis di Mattarella. (Silenzio) Ma lo so da solo, mi è chiaro: non è fattibile.

L’ha proprio convinta.

Ha interpretato in maniera esemplare il suo ruolo di capo dello Stato.

Andiamo oltre Mattarella.

Oriento il mio pensiero verso una soluzione in rosa: una donna.

Chi?

Ci dovrei pensare.

Azzardiamo?

Il presidente del Senato?

C’è per caso un punto interrogativo nella sua risposta?

Perché, lei cosa ne pensa?

Meglio non chiederlo a noi del Fatto.

(Ride) Quindi?

Passiamo a Draghi: lo vede sul Colle?

Va lasciato dov’è, non possiamo cambiare in un momento talmente complesso.

Berlusconi?

In questo caso dobbiamo prendere in considerazione la sua orbita pubblica e poi quella politica.

E quindi?

Non mi sembra una candidatura super partes.

È un’accusa che si può rivolgere quasi a tutti i candidati.

Sì, ma Berlusconi ha impostato la sua vita dividendo il prossimo tra nemici e amici.

Ultimamente è molto conciliante.

È tardi, adesso non è possibile cambiare parata, cambiare abitudini. Lui era e resta divisivo.

Il presidente del passato che l’ha maggiormente convinta?

Più o meno tutti, alla fine sono sempre state individuate e scelte delle personalità giuste.

Anche Leone?

Va bene, ci sono delle piccole eccezioni; (cambia tono e velocità, sembra voler smarcare la questione); mi ha accontentato pure Ciampi.

Pertini?

(Molto dubbioso) Mah, sì.

Che succede?

Personaggio troppo pittoresco.

È anche legato alla storia del nostro calcio…

Il suo era manierismo con comportamenti estemporanei. (Pausa) Lui andava troppo fuori-schema, mentre oggi abbiamo bisogno del contrario.

 

“Pronto, sono Silvio”. Così il Caimano convince gli ex M5S

“Pronto, sono Silvio Berlusconi”. Il parlamentare rimane impietrito. Non si aspettava la chiamata diretta dell’ex presidente del Consiglio. Gli avevano detto che il leader di Forza Italia lo stava cercando, ma mai si sarebbe immaginato di parlare al telefono con lui. Al massimo qualche abboccamento dei suoi emissari in Parlamento. È un ex 5 Stelle, fuoriuscito e pure un po’ “pentito”: oggi dice di non condividere più i toni barricadieri del grillismo d’antan. Quelli, per fare un esempio, di Alessandro Di Battista che va a leggere la sentenza Dell’Utri davanti a villa San Martino o di Paola Taverna che festeggiava la decadenza di Berlusconi dal Senato leggendo tutte le accuse della Procura di Milano. “Un’era preistorica fa” sogghigna. È un “cane sciolto” del gruppo Misto, nuova categoria dello spirito in vista della prossima elezione del Quirinale. Su di lui e i suoi colleghi punta Berlusconi per essere eletto. Per questo, lo ha chiamato a inizio anno. Per convincerlo a votarlo. E, alla fine, ci è riuscito. Il suo nome, insomma, è stato inserito sulla scrivania di Arcore alla voce “convinti”. È un voto in più per la scalata di Berlusconi al Colle. Il Fatto ha raccolto la testimonianza del parlamentare che ha deciso di raccontare la telefonata a patto di rimanere anonimo.

Tutto inizia a Capodanno quando il leader di Forza Italia, da Arcore, ha intensificato la sua caccia ai parlamentari. Il parlamentare in questione è tra le prede più ambite ad Arcore perché è considerato un “battitore libero” nel gruppo Misto e quindi va convinto. Dal centralino di villa San Martino, gli passano Berlusconi. Che inizi subito a riempirlo di elogi: “I miei mi hanno raccontato che lavori con grande passione, al servizio degli italiani. Mi hanno detto che sei uno dei più bravi e preparati”. Il parlamentare, ancora un po’ scosso, risponde con qualche “grazie” imbarazzato ma si sente fiero del suo lavoro di tutti i giorni. Poi i due iniziano a parlare di Covid, dell’emergenza economica e perfino di calcio. Chiacchiere di circostanza. A quel punto però Berlusconi introduce l’argomento degli argomenti, la battaglia del Quirinale. “Sono in corsa, mi mancano pochi voti per essere eletto. Ho già contattato molti tuoi colleghi, ne ho almeno 50. Tu mi voteresti?”. Il parlamentare rimane interdetto e spiega, a mezza bocca, che “ci deve pensare” ma che non ha “preclusioni” nei suoi confronti. Così l’ex premier prova a convincerlo con una promessa solenne, un seggio: “Vedrai, se sarò eletto Forza Italia avrà un futuro radioso e tornerà al 20% e tu potresti avere un ruolo importante nel partito”. A ogni modo, conclude Berlusconi, “se hai bisogno di qualcosa fammelo sapere, chiama la segreteria di Arcore e chiedi di me”. Lì per lì, l’ex grillino non dà garanzie a Berlusconi. Che però, scaltro com’è, ha capito di aver fatto breccia.

Tant’è che a pochi giorni di distanza, il parlamentare spiega che, visto il contesto, tra due settimane non avrà alcun problema a scrivere il nome di Berlusconi sulla scheda: “Qualche mese fa non avrei mai preso questa ipotesi in considerazione ma adesso non ho nessuna preclusione nei confronti di Berlusconi” spiega. Il motivo è politico, ma si basa su una convinzione: non si può andare a votare. “Draghi è l’unico che può tenere insieme questa maggioranza altrimenti la nave affonda: se lui va al Quirinale le Camere vengono sciolte. Berlusconi invece, o il bis di Mattarella, è l’ancora di salvezza per arrivare in fondo alla legislatura”.

Destra divisa sui grandi elettori. Passano presidenti e indagati

Imboscate agli avversari, pizzini agli alleati e il solito carico di indagati, premiati con la delega a rappresentare la propria Regione durante la votazione per il prossimo presidente della Repubblica.

Ieri nove Regioni si sono aggiunte all’Abruzzo, che a fine 2021 aveva già espresso i tre grandi elettori da spedire in Parlamento il 24 gennaio. Il pallottoliere, a metà del percorso, dice 9 delegati del Pd, 8 della Lega, 5 di FI, 3 di FdI, 3 del M5S, 1 a testa per Udc e Coraggio Italia. Ma complice il voto segreto, molti Consigli hanno impallinato i nomi scomodi e provocato crisi diplomatiche.

In Lombardia per esempio, Forza Italia è rimasta a bocca asciutta. Qui la Lega vanta il presidente di Regione Attilio Fontana e pure il presidente del Consiglio Alessandro Fermi, passato da FI al Carroccio quattro mesi fa. E così i due seggi che spettano alla maggioranza sono finiti entrambi alla Lega (così come in Veneto, dove a Luca Zaia si aggiunge il suo fedelissimo Roberto Ciambetti), proprio nella Regione in cui i forzisti avevano fatto un pensierino a delegare Silvio Berlusconi. Alla destra, però, è comunque riuscito il colpaccio: dalla maggioranza sono probabilmente arrivati i voti decisivi per eleggere Dario Violi (M5S, vicinissimo a Stefano Buffagni) al posto di Fabio Pizzul, il candidato Pd sconfitto 22 a 17 nonostante il centrosinistra abbia più consiglieri dei 5 Stelle. I dem, furiosi, attaccano Movimento e destra: “Prendiamo atto che siamo l’unica opposizione vera in Regione”. Francesco Boccia parla di “grave scorrettezza”, la Lega invece gongola, annunciando che “in Lombardia si è già spaccato l’asse Pd-M5S” e palesando l’obiettivo del voto, ovvero incrinare l’asse giallorosa in vista delle Regionali dell’anno prossimo.

Anche in Campania passa lo schema governatore, presidente del consiglio e un membro dell’opposizione. Delegati a Roma il dem Vincenzo De Luca, indagato per corruzione a Salerno nell’inchiesta sugli appalti clientelari alle coop sociali, il dem Gennaro Oliviero, indagato per traffico di influenze a Napoli Nord in un’indagine sulle nomine all’Asl di Caserta, e l’azzurra Annarita Patriarca, ex sindaco di Gragnano (Comune che poi fu sciolto per infiltrazioni mafiose) e figlia dell’ex senatore gavianeo Dc Francesco Patriarca, che nel 2007 fu condannato con sentenza definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione camorristica per i suoi rapporti con il clan Alfieri.

Proprio l’elezione di Patriarca – che si è subito affrettata a dichiarare il suo voto per Berlusconi al Quirinale (“assolutamente sì”) – suggerisce una riflessione sul Pd, che l’ha preferita a un 5 Stelle qualsiasi. Lo stesso Pd che quest’estate aveva tolto il simbolo a Gragnano appena fiutato odore di alleanza dei dem locali con la lista di Patriarca. “Hanno preferito un’intesa con FI per non rompere accordi in altre regioni”, spiffera una fonte di Palazzo. Chi ci capisce è bravo.

Neanche nel Lazio i giallorosa fanno squadra. La maggioranza sceglie Nicola Zingaretti e il presidente del Consiglio Marco Vincenzi, ma con uno sgarbo al governatore, che prende solo 29 voti contro i 31 di Vincenzi. Per l’opposizione, nessun asse Pd-5S e dunque passa Fabrizio Ghera (FdI), nonostante i malumori di FI che sperava in Giuseppe Simeone. Guerra tra alleati pure in Umbria, dove Marco Squarta, quota FdI, passa dopo che la Lega aveva provato a ottenere due delegati (la governatrice è la salviniana Donatella Tesei). In Liguria, oltre a Giovanni Toti, ce la fanno il leghista Gianmarco Medusei e il dem Sergio Rossetti, con Pd e 5S divisi. Schema simile in Piemonte: col governatore Alberto Cirio (FI) andranno a Roma il numero 1 dell’Assemblea Stefano Allasia (Lega) e Domenico Ravetti (Pd). Stessi tre partiti premiati in Basilicata, col forzista Vito Bardi, il leghista Carmine Cicala e il dem Roberto Cifarelli. In Molise, invece, il M5S guadagna il suo terzo delegato (dopo Violi e l’abruzzese Sara Marcozzi). Merito di Andrea Greco, che si unisce a Donato Toma (FI) e a Salvatore Micone (Udc).

“Basta tecnici, al Colle ci vorrebbe una donna”

Il marziano, che fu sindaco di Roma, non ha voglia di un tecnico al Quirinale, quindi neppure di Mario Draghi. È severo con il Pd, come suo costume. Ma giura di non essere più dentro certe dinamiche: “Se ultimamente ho sentito Massimo D’Alema o Goffredo Bettini? No”. Dagli Stati Uniti, Ignazio Marino.

Draghi sembra voler andare al Quirinale. Legittimo o sarebbe meglio che restasse a Palazzo Chigi?

Partecipai due volte all’elezione del capo dello Stato, votando per il ruolo e non per gli schieramenti dei partiti. Nel 2013 votai Stefano Rodotà. Ero suo amico, ma non lo avrei mai votato per questo motivo. Lo votai perché lo ritenevo il miglior candidato per la sua saggezza, laicità, cultura e umanità. Oggi sarebbe auspicabile la scelta di una donna o un uomo in grado di restituire ruolo al Parlamento, oggi svuotato di ogni valore e chiamato a certificare leggi scritte da qualche tecnico ministeriale, sconosciuto e non eletto.

Silvio Berlusconi è in corsa. Cosa ci racconta questo?

Il nostro Paese.

Massimo D’Alema ha definito il periodo a guida renziana del Pd come una malattia. Come valuta queste parole?

D’Alema è un uomo colto, che spesso si esprime con un sarcasmo tagliente. La sua espressione è efficace, ma troppo generosa nei confronti dei dirigenti del Pd. Ricordo un dialogo con uno di essi nel 2013. Gli chiesi a quale corrente del Pd appartenesse. “Renziano – mi rispose con entusiasmo – il più renziano di tutti” aggiunse. Incuriosito volli approfondire. Chiesi se fosse stato sempre renziano, dal momento che era ben più di un decennio che rappresentava il popolo. Senza esitazione precisò: “Ma no, prima ero lettiano”. Volli insistere e chiesi prima di Letta chi seguiva ideologicamente. Subito aggiunse: “Nel 2012 ero bersaniano e prima veltroniano”. Convinto, immaginai io.

Il centrosinistra cos’è ora?

Il Pd ha distrutto la sinistra italiana per i capricciosi interessi dei propri dirigenti. È necessario ricostruirla. In Italia esiste una maggioranza che crede nella laicità dello Stato, nella scuola e nella sanità pubblica come beni imprescindibili per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Nel diritto alla dignità personale e al lavoro, ad aspirare alla propria affermazione sulla base del merito. Nelle fonti energetiche non fossili e non in un immaginario nucleare “sicuro”. Non vedo però chi rappresenti questi valori se non pochi esponenti isolati dalla distruzione sistematica e voluta delle ideologie di sinistra.

Il governo continua a emanare decreti contro il Covid. Da medico e da ex parlamentare, che ne pensa?

Il ministro della Salute Speranza e il viceministro Sileri hanno svolto un ottimo lavoro. Stabilire il lockdown quando la pandemia colpì l’Italia nel 2020 fu una decisione che permise di salvare moltissime vite. Una decisione fondata sui dati e sull’esperienza di esperti come il professor Ricciardi. Negli ultimi due anni sono stati emanati molti decreti, ma vi è una netta distinzione tra i decreti del presidente del Consiglio e un atto come il decreto-legge del 7 gennaio 2022. Un decreto del premier è un regolamento basato su leggi esistenti. In altre parole, è possibile imporre regolamenti come l’uso delle mascherine, ovvero una norma di comportamento, ma non la somministrazione dei vaccini che è un trattamento sanitario e richiede una legge.

Lei introdurrebbe l’obbligo vaccinale?

L’articolo 32 della Costituzione afferma due principi. Il diritto alle cure per tutti e la possibilità di rifiutarle, a meno che non siano previste per legge. Venne scritto con lungimiranza prevedendo la libertà di accettare o rifiutare le cure individuali insieme alla possibilità di imporle nell’interesse collettivo. Grazie a questo articolo oggi nessuno muore di vaiolo o poliomielite. Sono favorevole alla vaccinazione obbligatoria per il Covid sin dal 2020, quando il vaccino venne approvato dalle agenzie che ne certificano sicurezza ed efficacia, negli Stati Uniti e poi in Europa. I governi sbagliano a non attuare le indicazioni della scienza lasciando che sia la politica a stabilire i criteri vaccinali. L’obbligo solo dai 50 anni non ha senso scientifico. Perché non imporre l’obbligo per tutte le fasce di età per le quali la scienza lo ritenga utile? E su quale base scientifica si è deciso che l’obbligo valga solo sino al 15 giugno? Se qualcuno nella mia facoltà di Medicina negli Usa mi chiedesse di rispondere a queste domande non saprei cosa dire.

Stallo quirinale: i giallorosa vanno in bianco

I giallorosa si cercano, si incontrano e un po’ si marcano tra loro. Non hanno una rotta e un vero nome su cui puntare per il Quirinale: più che altro si raccontano la paura di rivolte e sabotaggi interni e il terrore di assistere a un incubo che si farebbe realtà, Silvio Berlusconi eletto al Colle. Così la prima urgenza per Giuseppe Conte ed Enrico Letta è limitare i danni, subito, con una valanga di schede bianche nelle prime tre chiame per il Colle, quelle che prevedono la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto per eleggere il Capo dello Stato. L’unica via per coprire le divisioni interne. A meno che Sergio Mattarella non conceda quel bis che dem e grillini reputano la panacea di ogni male, e che ieri lo stesso Letta ha invocato a Di Martedì: “Il Mattarella bis sarebbe il massimo”. Oppure che quasi tutti i partiti convergano su quello che era e forse è ancora il favorito, Mario Draghi: soluzione che a Letta non dispiacerebbe, un male minore per Conte, a patto che non si precipiti nelle urne anticipate.

Questo sembra lo schema di gioco di Pd e M5S, con Articolo Uno a sostegno. Fragile come piano, certo. “Ma il centrodestra non sta messo molto meglio con questa grana di Berlusconi candidato per forza” dicono dai 5Stelle, e troppo torto non hanno. Però poi c’è anche altro. C’è la Lega di Matteo Salvini che, proprio perché di eleggere il Caimano non ha voglia, tende pubblicamente e ufficiosamente le mani ai grillini, nel nome del fu governo gialloverde. E Conte di andare a guardare le carte del suo ex ministro ora ha anche necessità. “Lui e Salvini si vedranno a breve” confermano dal M5S. Ma l’ex premier si è già sentito spesso con il capo del Carroccio, che a Porta a Porta ha evocato un rimpasto di governo: “Tutti partiti, dopo il voto del Colle, dovranno valutare se questa è la migliore squadra possibile”. Quel Salvini che ha sentito, eccome, anche Luigi Di Maio, il 5Stelle con cui tutti vogliono parlare e che si ostina a non fiatare in pubblico, perché ciò che ha da dire lo scandisce altrove. E poi al ministro adesso conviene guardare il gioco. Tanto è Conte che stasera dovrà cercare di uscire indenne dall’assemblea congiunta dei parlamentari, tutta sul Colle. Mentre ieri in quella dei deputati di ieri il capogruppo Davide Crippa si è raccomandato con i suoi: “Siamo il gruppo con più positivi, facciamo attenzione ai contatti in questi giorni, perché i numeri in Aula saranno fondamentali”.

La posizione di Letta sulla carta sembra meno complicata. Ma il Pd è noto per le congiure dell’ultimo minuto, e il segretario sa che un errore sul Colle darebbe il via anche all’assalto alla sua segreteria. Ieri per i dem è stata una giornata difficile, quasi di congelamento, per la morte di David Sassoli. Rimandata la segreteria prevista in mattinata, rimandata anche la direzione prevista per domani a sabato, visto che c’è la Camera ardente. Ieri mattina, con il ricordo di Sassoli fatto al Nazareno, il segretario ha introdotto un discorso che da qui al 24 gennaio diventerà per lui una priorità.

Tutto parte dal fatto che l’emergenza Covid possa alimentare una polemica, che già c’è, sul mancato accesso a Montecitorio di chi non ha il Green Pass. Letta ha ribadito che vale l’autodiachia del Parlamento ma non vale “il metodo Djokovic” per i parlamentari perché questo aumenterebbe l’antipolitica. “Non puoi dire che per la politica le regole sono diverse”, il ragionamento del segretario. Che ha sottolineato anche un altro aspetto della questione: “Non sarebbe possibile l’immagine di una classe politica che fa un voto al giorno e non si riesce a trovare una quadra con 200 morti al giorno”. E ancora: “Non abbassiamo la guardia rispetto al rischio populista”. Un discorso che porta al punto numero 1 della sua strategia: arrivare a un candidato condiviso, da votare tutti insieme. Nella consapevolezza che non c’è la possibilità di votare un candidato del Pd. E che non è il momento di mettere in campo provocazioni (come quella – ventilata – di usare Anna Finocchiaro come candidato bandiera).

La sua rosa comprende Draghi, Mattarella e Amato. Ma solo i primi davvero ipotesi concrete. Una rosa che il segretario potrebbe offrire a Matteo Salvini, proponendogli di costruire insieme un percorso. Il quale, peraltro, ieri ha escluso Giuliano Amato. In programma, anche se non ancora in agenda, un incontro con il leader della Lega. Perché l’accordo diventa possibile solo se Salvini toglie dal tavolo la candidatura di Silvio Berlusconi. Sul Quirinale “lavoro per un centrodestra unito che allarghi senza mettere veti e senza fare forzature”, ha detto ieri. E poi ha chiarito che non esclude di entrare al governo, perché “non fuggo dalle mie responsabilità”. Con Draghi al Colle, forse, diventa più facile. Ma soprattutto Salvini apre a un rimpasto, evoca l’esecutivo con tutti i leader dentro di cui si parla in questi giorni. Letta, dal canto suo, non chiude: “Servono nuove energie nel governo”. Quando si arriverà a un incontro, l’accordo sul dopo Colle sarà tra i punti in agenda.

Intanto, il “solito” Matteo Renzi, che ha un unico vero obiettivo: arrivare alla quarta votazione, per poi essere determinante. Insomma, punta sulle divisioni altrui. Esattamente l’opposto di quello che vorrebbe il segretario del Pd. Per motivi diversi, Iv dovrebbe votare sia Draghi che Mattarella. Ma le vere carte di Renzi sono altre: Pierferdinando Casini e “una donna”, che molti identificano in Marta Cartabia. Un profilo che potrebbe essere gradito a Mattarella e essere messo in campo come figura di garanzia. Difficile che lo votino M5S e Lega, mentre al segretario del Pd potrebbe andare bene. Sembra però più un atto di disturbo che una opzione reale.

Caso Metropol, il silenzio della Russia salva Savoini

Due Stati esteri non rispondono alle richieste della magistratura italiana di fatto salvando da un probabile processo influenti leghisti come Gianluca Savoini, ex sherpa di Salvini per i rapporti con il governo di Vladimir Putin e il presidente lombardo Attilio Fontana per alcuni conti esteri.

Ora, però, se le mancate risposte della Svizzera (confermate ieri dalla Procura, e anticipate da Repubblica e Domani) dopo la rogatoria dei pm di Milano per i soldi del governatore leghista, emersi dall’inchiesta sui camici venduti alla Regione dal cognato Andrea Dini, sono semplicemente la ratifica formale di un dato che era già emerso da tempo, diversa è la vicenda che riguarda il Russiagate, l’indagine per corruzione internazionale che riguarda un affare petrolifero da oltre 1 miliardo di dollari da cui scontare circa 65 milioni da fa arrivare alla casse della Lega per le elezioni europee del 2019. Qui, come svelato dal Fatto, pendeva una richiesta di rogatoria con il governo di Mosca. Richiesta disattesa e tempi delle indagini scaduti dopo la terza proroga. Non vi è dunque margine, se non per una probabile richiesta di archiviazione. Che però, e qui sta la novità, non chiuderebbe la partita giudiziaria, visto che i pm hanno individuato un nuovo interessante filone per ora top secret. Per quel che risulta, l’ambito è sempre quello dei rapporti con la Russia e il reato resta nell’orbita della corruzione internazionale. Se la nuova pista dovesse prendere benzina a breve, la Procura potrebbe procedere con una richiesta di archiviazione per la prima parte stralciando poi il secondo filone.

Il fascicolo principale viene aperto nel giugno del 2019 in seguito alla diffusione di un audio, pubblicato dal sito americano BuzzFeed, che registra l’incontro avvenuto il 18 ottobre 2018 ai tavolini dell’hotel moscovita Metropol. Qui sono presenti oltre a Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci. I tre finiranno indagati. Diverso il destino per gli altri tre russi presenti al Metropol, i quali, pur legati ad ambienti governativi, non sono stati giudicati pubblici ufficiali e dunque non destinatari della presunta corruzione. L’obiettivo della rogatoria era quello di interrogarli per capire se e chi fossero i destinatari reali della presunta maxi-stecca. La Procura li avrebbe voluti sentire assieme ai vertici del colosso petrolifero Rosneft che dall’audio del Metropol emergeva come la sponda governativa per la compravendita.

Diverso il caso di Fontana e dei circa 5 milioni detenuti in Svizzera prima protetti da un risiko societario tra Bahamas e Vaduz e scudati nel 2016 come eredità materna. I pm volevano capire se quei soldi fossero tutti dell’ormai defunto genitore o invece anche frutto di un’evasione del presidente. Per capirlo servivano gli estratti conto di alcuni istituti bancari. Fontana è indagato per autoriciclaggio e falso in voluntary e imputato per frode in pubbliche forniture per i camici.

“Studio su sei ospedali: 34% dei ricoverati Covid non entra per il Covid”

Non è questione di minimizzare il Covid-19. Anzi, proprio ieri all’allarme della Società italiana di chirurgia per il rinvio di interventi programmati nell’ordine del 50-80 per cento nelle diverse aree del Paese si è aggiunto quello della Federazione degli oncologi, cardiologi ed ematologi: “Siamo molto preoccupati per il blocco dell’attività chirurgica programmata determinato dalla nuova ondata pandemica di Omicron. Questa paralisi rischia di provocare gravi danni ai nostri pazienti, che sono circa 11 milioni in Italia”. Gli ospedali sono in difficoltà crescenti, per quanto non paragonabili alle prime ondate.

Però “il 34% dei pazienti positivi ricoverati”, quelli che vediamo nei bollettini, “non è malato Covid: non è in ospedale per sindromi respiratorie o polmonari e non ha sviluppato la malattia da Covid, ma richiede assistenza sanitaria per altre patologie e al momento del tampone pre-ricovero risulta positivo al Sars-Cov-2”, ha scritto la Federazione delle aziende sanitarie che riunisce 140 strutture pubbliche e private e ha condotto uno studio su sei nosocomi di rilievo: spedali civili di Brescia, policlinico San Martino di Genova, Aou di Bologna, Tor Vergata di Roma, San Giuseppe Moscati di Avellino e policlinico di Bari. In tutto sono stati analizzati i dati di 550 pazienti ricoverati nelle aree Covid dei sei ospedali: sono il 4% dei ricoverati negli ospedali italiani. La rilevazione risale al 5 gennaio. Dei 550 pazienti monitorati, 363 (il 66%) hanno l’infezione polmonare e 187 (il 34%) “non manifestano segni clinici, radiografici e laboratoristici di interessamento polmonare”, scrive la Fiaso. “Ricoverati non per il virus ma con il virus”. Moltissime, il 36% di quel 34%, sono donne positive incinte che necessitano di assistenza ginecologica. Il 33% si deve a “scompensi derivanti da diabete o altre malattie metaboliche, da patologie cardiovascolari, neurologiche, oncologiche o broncopneumopatie croniche”. L’8% “ischemie, ictus, emorragie cerebrali o infarti”; un altro 8% sono i ricoverati per interventi chirurgici urgenti; il 6% traumatizzati e fratturati. Non è chiaro se, in caso di decesso, finiscano o meno nelle statistiche della mortalità da Covid. Non dovrebbero, i protocolli prevedono anche “un quadro clinico compatibile” con l’infezione da Sarscov2. Ma il monitoraggio clinico e quello sui decessi hanno lacune e ritardi. “Un traumatizzato non dovrebbe essere classificato decesso Covid solo perché positivo, ma il virus determina scompensi nei pazienti cardiopatici, diabetici o affetti da altre malattie. Succede anche con i virus influenzali, che infatti definiamo trigger di scompensi e pesano assai più di quel che si pensa sulla mortalità generale – dice il professor Silvio Tafuri, ordinario di Igiene dell’Università di Bari e coordinatore della control room Covid del policlinico, che ha partecipato allo studio –. La malattia sta cambiando e richiede un approccio diverso, multispecialistico, percorsi separati”. Tafuri sottolinea anche che l’età media dei pazienti con sindrome respiratoria è 69 anni, mentre nei positivi al Covid ricoverati per altri motivi scende a 56. Giovanni Migliore, presidente della Fiaso, sottolinea che i numeri con Omicron cresceranno: “Va riprogrammata l’idea dell’assistenza creando non solo reparti Covid, ma è necessario realizzare nuove strutture polispecialistiche in cui sia garantita l’assistenza specialistica cardiologica, neurologica, ortopedica in pazienti contagiati. Occorrono reparti Covid per cardiotoracico e chirurgia multispecialistica”.

I pareri della stampa internazionale: il premier doveva rispondere

 

Zitto

La mia domanda fuori dal coro non ha ricevuto alcuna risposta

Quando ho chiesto a Draghi un parere sulle mancate restrizioni nel Regno Unito, dove i contagi forse stanno comunque diminuendo, e un parallelo col caso italiano, un po’ mi aspettavo che non avrebbe risposto. Lo dico perché la domanda era un po’ scivolosa e poteva indurre Draghi a dare un giudizio sulla politica di un altro Paese. Ma io ho solo chiesto in buona fede, non so quale sia la risposta e mi interessava conoscere l’opinione di Draghi. Forse un altro politico non avrebbe rifiutato la domanda, ma poi avrebbe parlato per due minuti senza dire nulla. Draghi, che quando parla è invece molto diretto, ha evitato. Non posso dire che nel Regno Unito tutti i politici si sarebbero comportati diversamente, basti pensare a Boris Johnson. Credo che però la domanda sia stata percepita come fuori dal coro: tutta la conferenza era incentrata sul fatto che il governo avesse fatto poco per le scuole, mentre io mi sono chiesto se il governo non avesse invece fatto troppo.

Tom Kington

 

Quirinabile

Chiedere del Colle era giusto e meritava una replica

Io capisco questo atteggiamento di Draghi, forse influenzato dalla sua esperienza nelle banche, ma la democrazia si basa anche sul pilastro fondamentale del giornalismo e del principio per cui si devono fare domande a chi governa. Se questo viene meno, allora ci sono degli elementi di sospensione della democrazia. Anche perché chiedere a Draghi cosa abbia intenzione di fare nel futuro è una domanda più che opportuna, dato che in tutta la conferenza ci si è occupati di Covid e di nuove misure: possiamo sapere se sarà Draghi a gestire tutto quello di cui ha parlato? Se fossi responsabile della comunicazione per Draghi certamente pregherei di non ricevere domande scomode, ma dal punto di vista giornalistico non c’è un millimetro di discussione sul fatto che le domande sul Quirinale fossero giuste e che meritassero una risposta.

Daniel Verdù

 

Servilismo

Controllare i giornalisti è ridicolo, ma i media lo osannano

Pretendere di dire ai giornalisti quali domande fare è veramente ridicolo. È una cosa che di solito può capitare con gli attori che chiedono di non parlare dell’ex moglie o dell’ultimo gossip. Ma per un capo di governo lo trovo veramente da ogni logica. Io lavoro in Italia da 30 anni e credo che su questo si sia fatto un passo indietro notevole. E purtroppo l’atteggiamento della stampa italiana nei confronti di Draghi ha un riflesso anche sulla percezione che ne si ha all’estero. Per quanto possa essere una persona valida, noto che Draghi è continuamente osannato e questi elogi arrivano anche in Germania, complice il fatto che molti corrispondenti si limitano a fare copia e incolla di quello che esce in Italia. Questo, da giornalista, mi infastidisce molto.

Petra Reski

Malumori nel Cts: “Mai discusso di obbligo e regole per le scuole”

Diversi autorevoli membri del Comitato tecnico scientifico hanno alzato il sopracciglio, meravigliati, quando il professor Franco Locatelli, intervenendo lunedì alla conferenza stampa “riparatrice” del presidente Mario Draghi, ha negato qualsiasi dissenso tra gli scienziati consulenti del governo. “Non abbiamo mai parlato né dell’obbligo vaccinale, né delle nuove regole per riaprire le scuole”, dicono. Sono due delle materie di cui al decreto legge numero 1 del 2020, che porta la data del 7 gennaio perché è stato corretto e modificato a lungo e quindi pubblicato nella tarda serata di venerdì scorso, ma era stato deciso, nella sostanza, mercoledì 5 a Palazzo Chigi.

“Nel Cts non c’è stata nessuna voce dissonante rispetto alle misure che sono state adottate dal Governo. Vi è stata una riunione il 7 e di fatto si è analizzata la situazione epidemiologica del Paese senza che si levasse una sola voce dissonante rispetto alle misure”, ha assicurato in conferenza stampa il professor Locatelli. “È vero, ma le misure non erano all’ordine del giorno e comunque erano state già approvate. S’è parlato della situazione epidemiologica e del concorso della Corte dei conti. Certo non si partecipa per parlare d’altro”, osserva uno dei suoi colleghi. Nessuno vuol fare polemiche pubbliche, ci mancherebbe, ma qualche chat tra lunedì sera e ieri mattina si è riscaldata un po’. Anche sulle scuole.

Il professor Locatelli, nella conferenza stampa, ha riferito di aver “letto di voci critiche nel Cts sulla riapertura lamentando la mancata discussione, ma la tematica – ha spiegato – è stata affrontata in 7 riunioni diverse e ogni volta la posizione è stata unanime”. Locatelli ha chiarito che quei verbali sono pubblici, quindi risalgono ad almeno 45 giorni fa. Del resto è noto che il Cts, anche quando era coordinato da Agostino Miozzo, si è sempre schierato per la riapertura delle scuole, a volte sottolineando l’importanza di misure organizzative che però non ci sono ancora. “Ma cosa c’entra? Era un’altra fase della malattia, c’erano meno contagi in età scolare. Tutti siamo per le scuole aperte, naturalmente, ma qui si trattava di valutare il sistema scelto per mandare le classi in quarantena”, osserva un altro membro del Comitato, riconoscendo, come è ovvio, che il governo non è certo tenuto a chiedere pareri. Non l’ha fatto neanche quando, per la prima volta, queste regole sono state definite con decreto legge. Prima erano materia di circolari ministeriali.

I membri del Cts sorpresi dalle dichiarazioni di Locatelli non sono contrari all’obbligo vaccinale, semmai sono preoccupati che le decisioni adottate, compresa l’estensione del green pass a una serie di attività prima escluse, non avranno un impatto immediato sulla diffusione del contagio che minaccia seriamente, qui e ora, la tenuta del sistema sanitario. Non è un caso che l’Istituto superiore di sanità, all’indomani delle decisioni sul decreto, abbia rinnovato la richiesta urgente di misure: evidentemente non riteneva sufficienti quelle appena adottate. Per di più il governo, il 30 dicembre, aveva anche eliminato la quarantena per chi ha fatto il booster, senza neppure introdurre le limitazioni per le attività ludiche che il Cts, in quel caso consultato, aveva suggerito. Limitazioni di difficile verifica, certo, ma tanto ormai le quarantene sono affidate alla buona volontà dei singoli. Insomma, l’impressione di alcuni membri del Cts, nessuno dei quali peraltro invoca chiusure o lockdown, è che si lascino un po’ troppo correre le infezioni, che la variante Omicron sarà pure meno letale ma per gestirla come l’influenza, secondo il programma del presidente del governo spagnolo Pedro Sanchez, servono cure domiciliari e territoriali fuori dagli ospedali, che se va bene avremo fra qualche anno con la riforma promossa dal ministro della Salute Roberto Speranza. Diversi membri del Cts, peraltro, temono che il coordinatore professor Locatelli, interloquendo direttamente con Draghi, abbia sovrapposto la propria figura al comitato stesso.

Dal quale peraltro emergono proposte di modificare la comunicazione dei dati: “Sarebbe un’ottima idea far diventare settimanale il bollettino dei contagi, mi sembrerebbe naturale farlo. Noi del Cts stiamo discutendo del parlarne con il governo”, ha dichiarato l’infettivologo Donato Greco, che proprio ieri ha proposto il tema al Comitato. Molti condividono il suo punto di vista e come loro Matteo Bassetti, primario di infettivologia al San Martino di Genova: “Il report serale non dice nulla e non serve a nulla se non a mettere ansia alle persone, siamo rimasti gli unici a fare il report giornaliero”, ha detto, suggerendo di guardare alla Spagna e al Regno Unito. Ha fatto l’esempio del “positivo con il braccio rotto”, che però richiede il percorso Covid. E ha detto che si fanno troppi “tamponi immotivati” e così “avremo talmente tanti positivi e contatti che l’Italia si fermerà”: è l’idea di lasciar correre il virus. Secondo Bassetti “i dati, anche quelli dei decessi, sono falsati”. Qualche problema sull’attendibilità dei numeri c’è. I dati richiedono elaborazioni lunghe, ma specie sulla mortalità i ritardi sono evidenti.

Chi l’avrebbe mai detto

L’altroieri, letta la frase “Se Draghi va al Quirinale, noi usciamo dal governo e si vota”, non ne abbiamo neppure cercato l’autore, tanto era chiaro che era B. Invece Enrico Letta ha commentato: “Non posso credere che l’abbia detto lui, ora smentirà”. Infatti B. non ha smentito nulla. Delle due l’una: o Letta jr. è affetto da amnesia globale (si spera transitoria), o ci prende tutti per il culo. Perché non c’è frase che più somigli a B. di quella: un ricatto politico tipico della vecchia canaglia che fa politica così da quando ufficialmente non la faceva, o meglio la faceva per interposto Craxi. Ricattava il Caf con le sue tv per ottenere i decreti anti-pretori e la legge Mammì per le sue tv. Poi, sceso in campo, continuò a ricattare gli alleati (quei pochi) riottosi a votare le sue leggi ad personam minacciando di fargli sparare dai suoi giornali e tv. Minaccia che funzionava benissimo anche con gli oppositori (quei pochi). Infatti mai il centrosinistra osò dichiararlo ineleggibile (qual è per la legge 361/1957), né cancellare una sola delle sue leggi ad personam, né attuare la sentenza della Consulta contro Rete4. Quando finì il bipolarismo e partirono le larghe intese (Monti, Letta jr., Renzi e poi Draghi), il ricatto fu ancora più semplice: appena gli serviva qualcosa per gli affari suoi, minacciava la crisi e gliela davano.

Nel 2013, tra la condanna in Cassazione (1° agosto) e la cacciata dal Senato (27 novembre), ricattò per mesi Napolitano con l’arma della crisi di governo per avere la grazia senza chiederla e costringere il Pd a votare contro la sua decadenza da senatore, peraltro imposta dalla legge Severino votata pure da lui. Quando poi Letta andò alle Camere per la fiducia, B. annunciò il No. Ma Letta, nel suo discorso, cedette al ricatto: gli promise la “riforma della giustizia” e invitò la Giunta del Senato a “evitare voti contra personam”. Così B. cambiò idea in extremis per continuare a ricattarlo travestito da padre della patria: “L’Italia ha bisogno di un governo. Abbiamo deciso, non senza travaglio, per la fiducia”. E Letta dal banco del governo, esplose in una risata: “Grande!”. Quindi, di grazia, di che si stupisce oggi? E di che si meraviglia Rep, sdegnata per il “ricatto” berlusconiano come se fosse il primo? Dal 2018 al 2020, con i due governi Conte, B. era fuori dai giochi perché per la prima volta in 50 anni non poteva più ricattare nessuno. Infatti passarono la Spazzacorrotti, la blocca-prescrizione e le manette agli evasori. Poi a febbraio l’Innominabile, sostenuto da Rep e gli altri giornaloni, rovesciò Conte e arrivò Draghi, riportando il Caimano al governo con tanto di gomitino. E lui riprese a far politica nel solo modo che conosce: il ricatto. Care verginelle che fingete stupore, l’avete voluto? Ciucciatevelo.