Il blues di Poggi e Pesce, un antidoto (naturale) per combattere amarezza e afflizione

“La paura può farti prigioniero, la speranza può renderti libero”. È da questa frase tratta dal film Le ali della libertà che Fabrizio Poggi Enrico Pesce si sono lasciati ispirare per comporre il loro primo album assieme intitolato Hope, in cui le anime artistiche dei due musicisti si mescolano, si influenzano, si sfidano. Nella sua lunga carriera, l’armonica a bocca è stata per il bluesman lombardo Fabrizio Poggi, la chiave che gli ha spalancato le porte della grande musica, regalandogli la possibilità di collaborare con artisti di fama internazionale e di potersi aggiudicare premi prestigiosi. In questo nuovo disco, col pianista Enrico Pesce si mettono sulle orme di Nina Simone, John Lewis del Modern Jazz Quartet, Oscar Peterson e Keith Jarrett, combinando blues, jazz e musica classica e il risultato è un sound ipnotico e sensuale, tra peccato, redenzione e spiritualità. Come nella inaspettata The house of the rising sun, brano che unisce i postriboli di New Orleans alle case di tolleranza della Napoli del Novecento, quella descritta nel romanzo La Pelle da Curzio Malaparte, che nei giorni che seguirono la liberazione dai nazifascisti, divenne abisso di vergogna e di dolore, un inferno di abiezione. In quei luoghi, spesso, si ritrovavano i grandi musicisti di jazz e i grandi compositori napoletani. Un omaggio alla musica europea che risuonava nelle stanze delle grandi case padronali che sovrastavano le piantagioni di cotone è invece Leave me to sing the blues. “È una rilettura in chiave blues e jazz di una celebre aria del Settecento – spiega Fabrizio Poggi – che si avvale di un’inedita scrittura pianistica di Enrico Pesce. Con l’aggiunta di nuove liriche il brano si è trasformato in un antico canto di libertà dalla schiavitù”. L’incessante impegno per i diritti civili che contraddistingue Fabrizio Poggi trova il suo naturale respiro in Every life matters il brano originale che apre il disco. “So che è difficile ma ti prego, non arrenderti, ce la faremo, io credo ancora nel sogno di Martin Luther King”. Insieme, Poggi e Pesce si incamminano su un sentiero già esplorato da grandi musicisti, prendendo qualcosa dal passato per creare qualcosa nel futuro. Del resto, in ciò è racchiusa l’essenza del blues. Il messaggio ben si evince dai testi delle canzoni: “Hope è un disco che vuole essere d’aiuto per guarire l’amarezza e l’afflizione: in fondo – conclude Poggi – la speranza deve avere una controparte a cui trasmetterla, perché non ci sarebbe se non condivisa. Abbiamo cercato di farlo con musiche e parole che trasmettano conforto, ma soprattutto speranza, che serve molto in un periodo come questo”.

“La mano di Dio” non fa miracoli a Hollywood

Golden Globes? Pomi d’ottone. I 79esimi riconoscimenti della stampa estera accreditata a Hollywood sono stati boicottati dallo showbiz americano: nessuna diretta televisiva o streaming, nessun tappeto rosso, nessun cineasta a dare e ricevere i premi, se la sono cantata e suonata i membri della Hollywood Foreign Press Association (HFPA) e i rappresentanti delle associazioni benefiche al seguito. I Globi sono stati comunicati via Twitter, pochi hanno festeggiato, e la sordina si deve alle accuse di scarsa inclusività – nessun nero, per dirne una – piovute sulla HFPA, il cui “ravvedimento” è stato giudicato né limpido né soddisfacente. I vincitori sono il western targato Netflix Il potere del cane di Jane Campion, prediletto anche per la regia e il non protagonista Kodi Smit-McPhee, tra i film drammatici e il musical di Steven Spielberg West Side Story (in sala), che trova gloria aggiuntiva con le interpreti Rachel Zegler e Arianna DeBose. Sul versante drama i migliori protagonisti secondo il centinaio di giurati della HFPA sono Will Smith, che incarna il padre delle tenniste Serena e Venus Williams in Una famiglia vincente – King Richard (in sala), e Nicole Kidman, la Lucille Ball di Being the Ricardos (Prime Video). Tra le serie la spuntano la drammatica Succession, con Jeremy Strong miglior attore protagonista e Sarah Snook non protagonista, e la comica Hacks, che spicca con l’interprete Jean Smart, e ci sono allori per Jason Sudeikis (Ted Lasso), Kate Winslet (Omicidio a Easttown) e il vecchietto O Yeong-Su di Squid Game. L’Italia, che gareggiava con È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e l’animazione Luca di Enrico Casarosa, è stata a guardare, ma non è detto che gli Oscar, di cui l’8 febbraio verranno rivelate le nomination, si debbano adeguare. In verità, i giochi paiono quasi fatti sul fronte film internazionale (ex straniero) a vantaggio del giapponese Drive My Car diretto dal classe 1978 Ryūsuke Hamaguchi e tratto da Murakami. Ai Globes ha vinto solo tra i titoli Non-English Language, ma chissà se avesse potuto concorrere nelle altre categorie, come prima annunciato e poi disatteso dalla HFPA. Perché Drive My Car ha le stimmate del predestinato: dal 1990 è solo il sesto – dopo Quei bravi ragazzi, Schindler’s List, L.A. Confidential, The Hurt Locker e The Social Network – a laurearsi Best Picture sia per i critici di Los Angeles, che di New York e della National Society of Film Critics, e il primo non parlato in inglese.

 

Molière, straccioni. Flop e cella

Nei primissimi giorni del gennaio del 1643, anno gravido di eventi, Jean-Baptiste si presentò al padre e gli annunciò che tutti quei piani per affiliarlo alla corporazione degli avvocati erano una pura e semplice assurdità. Che non sarebbe andato da nessun notaio, che non aveva intenzione di diventare un dotto e che, soprattutto, non desiderava avere a che fare con la bottega di tappezzerie. Sarebbe andato là dove fin dall’infanzia lo portava la sua vocazione, ovvero tra gli attori.

La mia penna si rifiuta di descrivere quel che avvenne nella casa.

Quando il padre fu vagamente rientrato in sé, comunque tentò di dissuadere il figlio e gli disse tutto quello che gli imponeva di dire il suo dovere paterno. Che la professione dell’attore era da tutti disprezzata. Che la santa chiesa scacciava gli attori dal suo grembo. Che accingersi a una simile attività poteva renderlo soltanto un miserabile, o un vagabondo. Il padre minacciò, il padre supplicò. “Va’, ti prego, va’ e rifletti, e poi torna da me!”.

Ma il figlio (come se in lui si fosse già insediato un diavolo) recisamente rifiutò di ripensarci…

Mandò di nuovo a chiamare il figlio. Era il 6 di gennaio, un giorno davvero memorabile nella vita del padre. “Be’, allora, resti sempre dello stesso parere?” domandò Poquelin.

“Sì, la mia decisione è irrevocabile,” rispose il figlio, nel quale evidentemente scorreva il sangue dei Cressé, non dei Poquelin.

“Tieni presente,” disse il padre, “che ti privo del titolo di valletto di camera del re, restituiscimelo. Mi pento d’aver prestato ascolto a quel folle di tuo nonno e di averti dato un’istruzione”.

Il folle e scriteriato Jean-Baptiste rispose che rinunciava di buona voglia al titolo e che non avrebbe avuto nulla in contrario se il padre l’avesse trasmesso al figlio che riteneva più adatto… Quindi ebbe inizio la spartizione dei beni. Dall’eredità materna a Jean-Baptiste spettavano all’incirca cinquemila livres. Il padre si mise a contrattare come se fossero al mercato. Non poteva permettere che l’oro andasse a finire nelle tasche bucate di commedianti girovaghi. E aveva ben ragione. Per farla breve, al figlio diede seicentotrenta livres, e con quei soldi il figlio abbandonò la casa paterna…

Senza falsa modestia il gruppo (fondato da Jean-Baptiste, ndr) denominò il futuro teatro “Teatro Illustre” e tutti quelli che vi entrarono a far parte “Figli della Famiglia”: il capobanda dell’intera compagnia era proprio il nostro Jean-Baptiste Poquelin. D’altronde Jean-Baptiste Poquelin, dal momento della fondazione del Teatro Illustre, smise di esistere, e al suo posto nel mondo fece il suo ingresso Jean-Baptiste Molière. Da dove veniva questo nuovo cognome? Si ignora. Alcuni dicono che Poquelin avesse usato uno pseudonimo assai in voga nei circoli teatrali e musicali, altri che Jean-Baptiste si fece chiamare Molière dal nome di una qualche località… Chi infine sosteneva che avesse preso il cognome da uno scrittore morto nel 1623… In poche parole, divenne Molière. Il padre, quando seppe della cosa…

La creazione di una nuova compagnia a Parigi suscitò un grande scalpore, e gli attori dell’Hôtel de Bourgogne subito affibbiarono ai Figli della Famiglia il nome di “combriccola dei pezzenti”. La combriccola non stette a dar peso all’insolenza e con grande energia si mise al lavoro… Dopo aver ottenuto un discreto successo recitando a Rouen al cospetto del pubblico indulgente della fiera, fecero ritorno a Parigi e giunsero a un accordo con Léonard Aubry, uomo dal carattere incantevole, di professione mastro pavimentatore, e questi si diede a sistemare un magnifico selciato dinanzi al teatro… E, finalmente, il primo gennaio del 1644, il teatro aprì i battenti con una tragedia.

È davvero terribile raccontare quello che accadde in seguito. Non rammento se mai ci sia stato un fiasco simile in un qualsiasi teatro del mondo! Dopo i primi spettacoli gli attori degli altri teatri raccontavano con gioia che al fossato presso la torre di Nesle, nel Teatro Illustre, oltre ai genitori dei commedianti, muniti di biglietti di favore, non c’era nemmeno un cane! E, ahimè, ciò era assai prossimo alla verità. Tutti gli sforzi del signor Aubry erano stati vani: letteralmente nemmeno una singola carrozza era ancora passata sul suo selciato!…

Dopo che l’illustre compagnia ebbe recitato Artaserse dello scrittore Magnon, il signor de Molière, che, e del tutto a ragione, a Parigi veniva considerato il responsabile del teatro, fu condotto in prigione. Lo seguiva, a mo’ di corteo, uno strozzino, mercante di biancheria e candele, di nome Antoine Fausser: erano sue le candele che smoccolavano nei candelabri del Teatro Illustre… A quel punto da ogni parte i creditori si precipitarono su Jean-Baptiste Molière, e questi non sarebbe uscito di prigione fino alla fine dei suoi giorni se dei debiti del Teatro Illustre non si fosse fatto garante quello stesso Léonard Aubry che aveva costruito il bellissimo e inutile selciato davanti all’ingresso del primo teatro di Molière…

Con il ritorno di Molière gli spettacoli ricominciarono… La penosa agonia del Teatro Illustre si protrasse per un po’, ma verso l’inizio del 1646 tutto divenne chiaro. Vendettero quello che poteva essere venduto: i costumi, le scene… Nella primavera del 1646 il Teatro Illustre interruppe per sempre la sua attività.

Giochi, al Fondo ludopatia diamo lo 0,1% del gettito (167 miliardi)

Il Fondo pubblico per contrastare il gioco d’azzardo patologico, istituito dalla legge 208 del 28 dicembre 2015 e gestito dal ministero della Salute, non funziona. Lo attesta la relazione della Corte dei Conti che analizza l’intero settore dei giochi, approvata il 30 dicembre scorso. Le varie forme di gioco sono un business rilevantissimo per l’Erario: tra il 2014 e il 2020 lo Stato ha incassato in totale 167,46 miliardi, di cui 120,74 dal 2016 a oggi. Ma il Fondo istituito per prevenire, curare e riabilitare i cittadini affetti dalla ludopatia, tra il 2016 e il 2020, ha erogato alle Regioni in totale appena 143,5 milioni, meno dello 0,12% di quanto l’Erario “biscazziere” ha incassato nello stesso periodo.

I problemi, spiegano i magistrati contabili, iniziano con il monitoraggio dei giocatori patologici che avrebbe dovuto essere realizzato con un’apposita piattaforma informatica che, “pur finanziata”, risulta però non ancora attuata. Infatti il Sistema informativo nazionale delle dipendenze (Sind) attualmente rileva solo alcolisti e tossicodipendenti. Un decreto prevede che il nuovo Sistema sarà implementato con la raccolta di informazioni anche su quanti sono dipendenti dal gioco d’azzardo, ma è ancora in fase di approvazione. Sinora così esistono solo stime: nel 2017 la ludopatia avrebbe colpito circa 400mila italiani, pari al 2,4% dei giocatori d’azzardo. Questo impatta sul riparto delle risorse (50 milioni l’anno) tra le Regioni: invece che per ludopatici censiti si basa sui numeri dei residenti. Altre difficoltà sono emerse anche sulla procedura di valutazione dei Piani regionali di contrasto alla ludopatia. Tutto questo ha portato a ritardi, problemi di coordinamento tra Regioni e Stato e tra Regioni e Regioni: “In considerazione delle variegate iniziative di utilizzo delle risorse statali a livello territoriale, è emersa l’esigenza di definire un sistema omogeneo – condiviso tra i diversi livelli di governo – di verifica, ex ante ed ex post, dell’efficacia delle misure intraprese, in termini di risultati raggiunti”, scrivono i magistrati contabili.

Per la Corte è dunque “cruciale” ultimare e rendere operativa la piattaforma di rilevazione nazionale “che assicuri reale interoperabilità tra sistemi informativi dello Stato e delle Regioni (oltre che degli enti infraregionali)” e portare a termine i raccordi operativi. La Corte dei Conti infine ricorda che esistono “numerosi progetti di legge volti a una possibile riforma organica della materia dei giochi (tra cui la mancata attuazione della delega prevista dalla legge 23 del 2014)” e richiama anche le proroghe delle concessioni, al centro di durissimi scontri tra operatori anche nei mesi scorsi.

Aspi, il regalo a Benetton&C. è appeso alla Corte dei Conti

Atre anni e mezzo dal disastro del ponte Morandi di Genova, l’epilogo dello scontro tra il governo e la Atlantia dei Benetton, che controlla Autostrade per l’Italia, sembra scritto. Sono tutti concordi: governo e organismi tecnici, maggioranza parlamentare e pure l’Autorità dei Trasporti. Nessuna revoca della concessione, Aspi passerà dalla holding dei Benetton a un consorzio guidato dalla pubblica Cassa Depositi e Prestiti (coi fondi Blackstone e Macquarie) per 8 miliardi: i nuovi azionisti verranno garantiti da tariffe perfino più generose di quelle che hanno reso ricchissima la famiglia veneta. L’unico ostacolo a questo epilogo è oggi la Corte dei Conti.

Il 20 luglio scorso, la Procura del Lazio ha aperto un fascicolo sull’accordo governo-Altantia. L’indagine parte dagli esposti di diversi parlamentari. Al momento è in fase istruttoria, il procuratore Pio Silvestri ha chiesto gli atti ai ministeri (Tesoro e Trasporti): l’obiettivo è verificare se l’accordo sia nell’interesse dello Stato o prefiguri un danno erariale. Per capire come finirà bisognerà però aspettare il parere definitivo della Sezione di controllo, che poco prima di Natale ha provvisoriamente bocciato l’intesa.

Andiamo con ordine. L’accordo si compone di un “atto transattivo” che va a modificare (atto aggiuntivo) la concessione di Autostrade. Aspi mette sul piatto 3,4 miliardi di indennizzi in cambio della rinuncia del ministero alla revoca della concessione. Serve il via libera della Corte dei Conti. Come il Fatto ha raccontato il 16 dicembre, la sezione di controllo, con un parere firmato dai magistrati Ugo Montella e Marco Boncompagni, ha restituito gli atti per carenza documentale e sollevato diverse obiezioni. La prima è che “l’Accordo transattivo potrebbe palesare criticità in ordine all’equilibrio economico e, quindi, alla sua sostenibilità”, visto che gli atti non dimostrano che nel “costo della transazione (3,4 miliardi) si sia tenuto conto della valorizzazione (in diminuzione) delle quote di Atlantia in Aspi”. Insomma, gli 8 miliardi scontano questa spesa? Non è chiaro, visto che, scrivono i magistrati, dal testo non si può escludere che sarà “la controparte pubblica ad assumere, di fatto, l’onere della transazione”.

La seconda obiezione chiama in causa il parere reso sull’accordo dall’Avvocatura generale dello Stato. Il ministero e la stessa Avvocatura lo hanno negato ai parlamentari che hanno fatto accesso agli atti. Il testo – che il Fatto ha potuto leggere – pur esprimendo parere favorevole solleva alcune obiezioni. La più rilevante, citata dalla Corte dei Conti, è che l’accordo non prevede una clausola a tutela di Cdp nel caso Autostrade venga condannata al processo di Genova perdendo il diritto alla concessione. Sarebbe una beffa clamorosa. Il parere dell’Avvocatura, peraltro, nota che l’accordo curiosamente non ribadisce che “la soluzione stragiudiziale è quella maggiormente conveniente” rispetto ai rischi del contenzioso legato alla revoca della concessione. Revoca peraltro, che per l’Avvocatura non dava diritto al maxi indennizzo ad Atlantia previsto dalla concessione. L’ultima obiezione della Corte è che mancano manleve legali per evitare che in futuro Atlantia si rifaccia su Autostrade controllata da Cdp per cause avanzate da terzi. Pochi giorni dopo il parere della Corte dei Conti, il 22 dicembre, il Comitato per la programmazione economica (Cipe) ha approvato tutto il dossier rinviando gli atti alla magistratura contabile, che dovrà ora esprimersi definitivamente. Il Cipe ha pure approvato il nuovo Piano economico finanziario (Pef) di Autostrade. E qui scatta il secondo regalo, stavolta ai futuri azionisti. Il piano concede un aumento annuo dei pedaggi dell’1,61% fino al 2038. L’Autorità dei Trasporti lo aveva bocciato, spiegando che doveva fermarsi a 0,87%. Il governo se n’è infischiato e l’Authority ha fatto finta di nulla. Il Pef garantisce poi 542 milioni di indennizzi per il calo del traffico causa Covid; una remunerazione stellare per gli investimenti non ancora ammortizzati e il capitale investito (oltre 1 miliardo l’anno). Insomma, 16 miliardi di utili fino a fine concessione, più di quelli garantiti ai Benetton: pure con lo Stato gli automobilisti saranno spremuti.

Cessione Carige, Fitd tratta solo con Bper

Quattro settimane di trattativa esclusiva per acquistare il 79,99% di Carige. Le ha concesse il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), primo azionista della banca genovese, a Bper che aveva già presentato un’offerta su Carige a metà dicembre e che ora potrà trattare da sola, scavalcando gli altri pretendenti, Crédit Agricole e fondo Cerberus. Dopo tre tentativi a vuoto (su offerte dei fondi Apollo e BlackRock e della banca Ccb) la cessione della banca genovese è una priorità per Banca d’Italia, Bce e Mef. La decisione del Fitd arriva dopo la “valutazione comparativa delle offerte non vincolanti ricevute” e il contratto di cessione a Bper dovrà avvenire “non oltre il 15 febbraio”, scrive il Fitd, con un’Opa di Bper sul flottante a 0,8 euro per azione.

E Al Sisi dà altre cinque licenze all’Eni

Alle 12.15 di ieri mattina è iniziata la camera di consiglio per il processo Regeni: il gup di Roma, Roberto Ranazzi, doveva decidere sul rinvio a giudizio dei quattro 007 egiziani accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso il ricercatore di Fiumicello. Esattamente dieci minuti dopo, Eni ha diramato un comunicato stampa: la compagnia controllata dal governo italiano ha annunciato di aver ricevuto dal regime di Abdel Fattah Al Sisi cinque nuove licenze di esplorazione petrolifera. La coincidenza temporale ricorda cosa è in gioco nel processo Regeni. Da una parte c’è la necessità di trovare le persone accusate di aver causato la morte di un cittadino italiano, dall’altra gli enormi interessi economici in Egitto dell’Italia, che in questo caso più che mai equivale a dire gli interessi di Eni.

I nuovi permessi concessi alla società guidata da Claudio Descalzi, di cui il governo egiziano aveva in realtà già dato notizia la scorsa settimana, sono solo l’ultimo capitolo di una storia che va avanti dai tempi di Enrico Mattei. La compagnia controllata dal ministero dell’Economia ha avuto adesso in concessione cinque nuove licenze esplorative, quattro delle quali in qualità di operatore. Le zone da perlustrare alla ricerca di gas e petrolio sono sparse tra il Deserto occidentale, il Golfo di Suez e il Mediterraneo orientale. In totale quasi 8.500 chilometri quadrati dati in concessione a Eni e alle sue aziende partner, la britannica Bp e l’americana Apex International. “Le licenze sono collocate all’interno di bacini prolifici – scrive il gruppo italiano nel suo comunicato – con un contesto geologico petrolifero collaudato in grado di generare idrocarburi liquidi e gassosi, e possono contare anche su impianti di produzione e lavorazione vicini, oltre a un mercato esigente che consentirà una rapida valorizzazione delle potenziali scoperte esplorative”.

Un’ottima notizia per Eni, che con Al Sisi sta facendo già grandi affari da anni. Il colpaccio porta il nome di Zohr, enorme giacimento di gas situato proprio nel Mediterraneo orientale, dove ora la compagnia italiana ha ottenuto le nuove licenze. Avviato nel 2017, con Descalzi e Al Sisi già nei rispettivi ruoli di comando, è il più grande giacimento di gas mai scoperto in quel tratto di mare. Ha trasformato l’Egitto nel Paese più importante per la compagnia italiana: a livello mondiale, oggi è la nazione dove la multinazionale estrae più idrocarburi. Ma non c’è solo Eni. Le esportazioni verso Il Cairo nel 2020 hanno generato per le aziende italiane 3 miliardi di euro di fatturato, in aumento di oltre un quarto rispetto al 2019. In ambito militare va conteggiata, poi, la commessa ricevuta da Fincantieri, altro colosso e azinda strategica di Stato, per le due fregate di classe Fremm da circa 1,2 miliardi di euro vendute dall’Italia all’Egitto durante il governo Conte 2. L’export militare è l’altro grande affare che ha preso il volo negli ultimi anni. Da quando Al Sisi è arrivato al potere, nel 2014, l’Italia è diventato il fornitore d’armi preferito del regime. Gli ultimi dati (le autorizzazioni rilasciate per “esportazione di materiale d’armamento” nel 2020) dicono che abbiamo venduto all’Egitto armi per un valore di 991,2 milioni di euro: un quarto del totale che l’Italia ha esportato nel mondo.

Regeni, sveglia del giudice al governo: “Intervenite”

Per come la si voglia raccontare, ciò che è avvenuto ieri, in un’aula del tribunale di Roma – dove si è tenuta l’udienza preliminare agli 007 egiziani accusati a vario titolo del rapimento, delle torture e dell’uccisione di Giulio Regeni – è sostanzialmente un richiamo al governo italiano, una richiesta di intervento incisivo sull’Egitto. Il gup Roberto Ranazzi ha infatti inoltrato al ministero della Giustizia tre richieste di Sergio Colaiocco, il procuratore aggiunto di Roma che dal 2016 – anno della morte del ricercatore – conduce le indagini sul caso. In primo luogo, il giudice ha chiesto al ministero l’esito della rogatoria inoltrata alle autorità egiziane dai pm capitolini il 30 aprile 2019, quando sono stati richiesti gli indirizzi degli indagati. Poi se siano “emersi elementi nuovi” dopo il 14 ottobre scorso, quando i giudici della III Corte d’assise hanno annullato il rinvio a giudizio disposto dal gup nel maggio scorso, rinviando gli atti per cercare di rendere effettiva la conoscenza del processo agli imputati.

A entrambe le domande il governo risponderà no: l’Egitto non ha mai risposto alla rogatoria del 2019 e finora non ci sono state novità nel rapporto tra Stati. Su questo, fonti del ministero della Giustizia spiegano al Fatto: “I rapporti di cooperazione con l’Egitto a livello di negoziazione di accordi bilaterali si sono interrotti quando è nato il caso Regeni”. Ma di certo non si sono interrotti i rapporti economici tra Stati: basti pensare alle due fregate della classe Fremm Bergamini (del valore di 1,2 miliardi) realizzate da Leonardo e cedute all’Egitto poco più di un anno fa, finite poi al centro di un esposto della famiglia Regeni che metteva nel mirino l’Italia per aver violato la legge sulla vendita di armi ai Paesi esteri. L’indagine su questo aspetto è ancora in corso.

Tornando all’aula di ieri, c’è un terzo quesito trasmesso dal gup: “Se il Sig. ministro della Giustizia intende interloquire con le Autorità egiziane per consentire la notifica degli atti agli imputati”. La questione da risolvere resta dunque quella dell’elezione di domicilio dei quattro indagati. I loro nomi si conoscono: si tratta di due uomini del dipartimento di sicurezza, Tariq Sabir e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e di due agenti della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono accusati del sequestro del ricercatore, mentre il solo maggiore Sharif è accusato anche di lesioni aggravate e omicidio. È lui l’uomo che, secondo la Procura di Roma, “con crudeltà cagionava a Regeni lesioni che gli avrebbero (…) comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo, con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni”.

I quattro indagati a oggi sono “irreperibili”. Secondo la Procura – come ha sostenuto in passato – non possono non sapere delle indagini a loro carico, anche alla luce del clamore internazionale dell’inchiesta. E pure l’avvocatura dello Stato in udienza preliminare ha parlato di “irreperibilità”, di fatto “conseguenza della assenza di cooperazione dello Stato estero”. Ma questa discussione è ormai superata proprio perché il 14 ottobre 2021 la Corte d’assise ha annullato la richiesta di processo e rinviato gli atti ai pm.

Il giudice Ranazzi nella sua ordinanza di ieri scrive: “Appare necessario notificare agli imputati personalmente l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare (i successivi verbali di udienza)”. In questa direzione è fondamentale il ruolo del governo italiano, che dovrà rispondere ai quesiti del Tribunale, mentre ai carabinieri del Ros il gup ieri ha chiesto di trovare la residenza o il domicilio degli indagati avvalendosi di banche dati, utenze telefoniche, social network ma anche di “fonti informative confidenziali, ma degne di fede”. Il tutto dovrà concludersi entro l’11 aprile, quando il gup farà il punto della situazione e in caso di stallo o ricerche infruttuose disporrà una nuova rogatoria. “Chiediamo al governo di fare la sua parte e di rispondere alle nostre pretese di giustizia”, ha detto ieri Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni. E il ministero della Giustizia ha fatto sapere che “continuerà a fare la sua parte, studiando nuove strade e le modalità operative più efficaci, per assicurare il corso della giustizia, in piena collaborazione con le richieste avanzate dall’autorità giudiziaria”. Vedremo cosa succederà in questi tre mesi.

Il presidente Toqaev reprime la protesta anche con armi italiane

Soprattutto quelle leggere: sono le armi che l’Italia esporta in Kazakistan da circa dieci anni. Gli agenti che in questi giorni hanno sparato ad altezza uomo sulla folla scesa in piazza a protestare contro l’aumento del costo del gas, da Astana ad Almaty, potrebbero utilizzare armi italiane. L’ultimo bilancio degli scontri riferisce di 164 morti, oltre 2.200 feriti e 8.000 arresti.

Sulla mappa dell’impero dell’ex Urss, il primo Paese che ha cominciato ad arricchire i suoi arsenali di sistemi militari made in Italy è stato il Turkmenistan. Nel 2012 tra Roma e Astana è stato invece stretto un “Accordo di cooperazione militare”. Entrato in vigore nel 2015, il patto ha consentito l’esportazione verso l’ex Repubblica sovietica di materiale bellico del valore di quasi 2 miliardi. Oltre alle pistole mitragliatrici della Beretta, decine di migliaia di cartucce le ha spedite la lombarda Fiocchi. Alla mostra internazionale di armi e attrezzature militari, la Kadex 2012, fu Franco Gussalli Beretta, oggi presidente dell’omonima azienda, a mostrare all’allora presidente kazako Nursultan Nazarbayev, i fucili prodotti dalla fabbrica bresciana: alcuni lanciagranate sono finiti in dotazione delle forze speciali al servizio del capo di Stato che, dal 1991, ha governato ininterrottamente fino al 2019. Non si sa ora dove sia finito Nazarbayev, se si nasconda in patria o sia già fuggito all’estero, da quando il suo successore, Toqaev, ha ordinato alle forze di sicurezza di sparare ad altezza uomo. “Il governo sospenda le esportazioni di armi e munizioni al governo kazako”: lo chiede, con un comunicato pubblicato in seguito alle recenti e sanguinose repressioni delle proteste, l’Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa. I primi interrogativi l’organizzazione cominciò a porli nel 2013, quando verso Astana cominciarono a confluire fucili e munizioni dalla provincia bresciana, la zona dove si concentrano le più grosse aziende produttrici di armi in Italia. “Secondo le statistiche del commercio internazionale, nel 2020 l’Italia ha effettivamente esportato in Kazakistan oltre 465.000 dollari di armi e munizioni, tra le quali è possibile che ci sia materiale in uso alle forze di polizia” scrive l’Opal che, insieme alla Rete italiana Pace e Disarmo, ha rinnovato l’ipotesi di mettere fine a ogni cooperazione militare con il Kazakistan, nel rispetto della legge 185/90 che “vieta espressamente l’esportazione di materiali militari a Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani”.

I rivali diventano fantasmi. Murati vivi da Bin Salman

Che la principessa saudita Basmah bint Saud bin Abdulaziz Al-Saud avesse timore di morire dietro le sbarre assieme alla figlia Souhoud bint Shuja Al-Sharif dopo l’arresto nel 2019 ordinato dal cugino Mohammed bin Salman – lo spietato principe ereditario che governa de facto l’Arabia Saudita – lo si era appreso l’anno scorso quando aveva potuto fare la sua prima e unica telefonata dal carcere. Durante la chiamata a uno stretto familiare, sembra che la donna avesse fatto in tempo a dire che stava male e pertanto desiderava dare le proprie disposizioni testamentarie quando la linea si è interrotta. Nonostante sia un segreto di Pulcinella che nelle carceri saudite si faccia abbondante ricorso alla tortura e siano già morti molti prigionieri, a una esponente della popolosa famiglia reale saudita non poteva venire concesso di esplicitarlo né tantomeno rivelare di averla subita.

Se la principessa e la figlia ora hanno potuto lasciare la prigione di massima sicurezza di Al-Ha’ir, vicino alla capitale Ryad, molti tra donne, attivisti, oppositori politici e membri della stessa casa regnante rimangono in carcerazione preventiva. Le purghe in ambito familiare del giovane Mohammed bin Salman, diventato noto per essere il mandante del raccapricciante omicidio del dissidente Jamal Khashoggi, erano iniziate nel 2017 poco dopo la sua designazione a ereditare le redini del Paese dopo la morte del padre, il vecchio e malato re Salman. Ma, fin da subito, Mbs aveva preso il comando della potenza del Golfo e allo scopo di consolidarlo ed evitare congiure di palazzo aveva mandato le sue guardie nelle lussuose dimore di parenti e dignitari affinché venissero arrestati per corruzione e rinchiusi in hotel a 5 stelle fino a quando non avessero restituito il ricavato delle tangenti bilionarie. Che, secondo l’allora neo reggente, avrebbero incassato grazie al loro ruolo in ambito politico. Quando gli incaricati delle Nazioni Unite avevano chiesto ai sauditi il motivo della carcerazione di Basmah e della figlia, la risposta era suonata surreale: la prima aveva tentato di viaggiare illegalmente fuori dal regno, mentre la ragazza era accusata di un crimine informatico non specificato. Insomma: per le donne, sempre e comunque il carcere duro, per gli uomini della famiglia quasi sempre residenze lussuose e super lussuose. Certo non si può affermare che ritrovarsi chiusi in una gabbia dorata cancelli il rischio di venire torturati sia fisicamente sia psicologicamente.

L’esempio più eclatante è la vicenda del predecessore di Mbs. Il principe Mohammed bin Nayef, figlio del precedente monarca Abldullah, e pertanto cugino di primi grado di Mbs, è l’ex ministro degli Interni che il principe Mohammed ha estromesso dalla carica di principe ereditario nel 2017 per rivendicare il titolo per se stesso. Dopo la sua rimozione, Mohammed bin Nayef è stato messo agli arresti domiciliari fino a marzo 2020, quando è stato arrestato e detenuto. All’inizio della detenzione, Mohammed bin Nayef è stato tenuto in isolamento, privato del sonno e sospeso a testa in giù per le caviglie, secondo due persone informate sulla sua situazione, che hanno parlato in condizione di anonimato. Lo scorso autunno è stato trasferito in una lussuosa villa all’interno del complesso che circonda il palazzo del re Al-Yamamah a Ryad, laddove ancora si trova. L’ex futuro re è in isolamento totale, senza neanche una televisione o altri dispositivi elettronici e può ricevere solo poche visite molto brevi da parte dei familiari più stretti. Il gracile Nayef sembra abbia subito danni permanenti alle caviglie a causa del trattamento subito in carcere e non può più camminare senza il bastone. Il governo non ha presentato accuse formali contro di lui né ha spiegato il motivo per cui è detenuto. Anche uno dei suoi fratelli rimane in prigione. Altri uomini blasonati e dell’entourage reale sono ancora privati della libertà.

Si tratta dell’ex ministro dell’Economia, Adel Faqih, e del veterano ministro di Stato ed ex ministro delle Finanze, Ibrahim Assaf, nonché importanti uomini d’affari tra cui l’uomo più ricco del Paese, il principe Waleed bin Talal, e i leader di alcune delle più note aziende e società di media, alcune delle quali erano strettamente associate agli ex re e ai loro parenti stretti, tra cui il direttore dell’emittente MBC, Waleed al Ibrahim, che aveva resistito ai tentativi di MbS di acquistare l’azienda.