“Il Papa ha chiuso la caccia a chi lotta per l’amore gay”

È tornata a indossare il velo della monaca di clausura, nel suo monastero di Sant Benet de Montserrat, poco distante dalla Barcellona dove 53 anni fa è nata. E così Suor Teresa Forcades – la “rivoluzionaria e pacifica”, come lei stessa ama definirsi, teologa femminista e queer, paladina della causa indipendentista catalana – conclusa la “brutta esperienza coi partiti politici”, è tornata sì dalle sue consorelle, ma ha ripreso anche a girare il mondo (sarà a Roma il 2 ottobre per la rassegna “Ripensare la comunità”), per continuare a denunciare “una Chiesa patriarcale e misogina”.

Alcuni giorni fa il Papa ha detto che, a causa del clericalismo, “ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale”.

Suona come una scusa, un alibi. È la stessa cosa che dicevano i leader dei movimenti negli anni 60-70: prima facciamo la rivoluzione, poi ci occuperemo dei diritti delle donne. O degli omosessuali. È un errore. La pedofilia ecclesiastica è un problema importante, così come la misoginia e l’omofobia: ma lo è pure l’ingiustizia sociale. In modo diverso, sono forme di violenza che si tengono tra loro. Non ha senso contrapporle.

Cosa chiede Dio all’uomo in tema di sesso?

Onestà rispetto alla propria esperienza. E chiede di non mettere la Legge al di sopra delle persone.

Lei ha “sentito” Gesù, mentre era studentessa di Medicina. Che rapporto ha col sesso?

Credo sia un dono di Dio, non finalizzato solo alla procreazione. L’intimità fisica di per sé non è sufficiente, ma, quando c’è un dono sincero di sé all’altro, consente un livello di unione che nessun altro tipo di relazione permette. Quando due persone si amano con impegno non può essere la differenza sessuale a ostacolare questo amore. L’amore è sempre sacramento di Dio, se si rispetta la libertà dell’altro.

Una suora o un prete avrebbero diritto a essere liberi di vivere la propria corporeità?

Sì, ma per me la libertà non è in contrasto con l’impegno o con la fedeltà. Una suora o un prete non possono prescindere da questo. Neppure, però, viverlo come un’imposizione. Dipende dalla responsabilità di ognuno.

Da teologa, crede davvero che la Chiesa necessiti di una “rivoluzione queer”?

Sì, lo credo, perché interpreto la parola queer alla luce del terzo capitolo del Vangelo di Giovanni: bisogna nascere di nuovo, non dalla madre, ma dall’acqua e dallo Spirito. Essere queer significa credere che la nostra vita abbia un’originalità radicale: Dio spera che noi la rispettiamo, senza seguire modelli o etichette, né di genere né di altro.

È stata spesso attaccata per le sue posizioni sull’amore omosessuale. Il papato di Bergoglio sta facendo passi in avanti?

Non ha apportato modifiche al Magistero ecclesiale, ma, nella prassi, sì. Le persone che parlano dell’unione omosessuale come voluta e benedetta da Dio hanno smesso di essere perseguitate. Me compresa.

Lei si definisce femminista.

Essere femminista significa essere consapevoli di una discriminazione che, se non c’è per legge, c’è di fatto, e lavorare per superarla.

In Germania, la Conferenza episcopale discute di sacerdozio femminile, di abolizione del celibato, di una maggiore libertà sulla morale sessuale.

È la mia battaglia: l’esclusione delle donne dai sinodi e, più in generale, dai luoghi di potere. Continuo a battermi contro il patriarcato, dentro e fuori la Chiesa.

Nella costruzione di un certo immaginario relativo alla donna, alcuni partiti conservano un ruolo attivo.

Sì, ma la questione non riguarda soltanto le destre. Ci sono più donne a guidare partiti di destra che di sinistra. Sebbene non affermino che la vocazione delle donne è di “essere mogli e madri”, molti, proprio a sinistra, continuano ad assegnare alle donne i compiti di cura.

A proposito di sinistra, lei nel 2015 si è candidata con Podemos.

Avevo contribuito a fondare un movimento per l’indipendenza catalana, “Processo Costituente”. Poi non abbiamo raggiunto l’intesa con Podemos. Mi sembrava, con la politica, di poter contribuire a un futuro migliore per la democrazia della mia Catalogna. Il mio posto è il monastero non la politica, ma ero disposta – e lo sarei di nuovo – ad adoperarmi in via eccezionale.

Prima di diventare monaca di clausura ha mai pensato a lei come madre?

Sì. Da adolescente volevo avere nove figli.

Cosa significa la fede?

Credere che io, lei, il mondo abbiamo un futuro che non è di morte. Significa credere che nessun gesto d’amore sia vano. Significa credere nel perdono.

In questi giorni in Italia c’è stato un duro scontro sul “fine vita”. C’è chi spinge per avere una legge sull’eutanasia, mentre un ampio fronte cattolico si oppone.

Che ci sia una legge o meno, è la realtà, come sempre, a imporsi. Quando si tratta di persone e non di cose, il criterio della maggioranza serve a poco. Per ogni persona che decide liberamente di morire, ce ne sono almeno altre dieci che, potendo scegliere, arriveranno a farlo, spinte da circostanze che esistono anche se la legge le ignora. Cosa farebbe lei se avesse una certa età, fosse malata, non particolarmente abbiente, e a casa sua avessero difficoltà a prendersi cura di lei?

Traduzione a cura

di C. Guarnieri e N. Forcano

I nuovi “re di Roma”: narco-albanesi e eredi Senese&Casamonica

Per arrivare ai nuovi “re di Roma” bisogna seguire le piste della cocaina. Chi gestisce la droga comanda in città e la traccia porta a una tenaglia che stritola l’Urbe (e che forse ha stritolato Diabolik) tra il clan degli Albanesi e gli storici camorristi Senese. Massimo Carminati, durante il processo “Mafia Capitale”, tenne a ribadire che “i giornali mi accollarono cose come il traffico di droga che io, per scelte personali mai ho fatto e mai farò”. Ma il suo amico Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, ucciso da un sicario il 7 agosto nel parco della Caffarella, era un noto narcotrafficante. Sono passati sette anni dall’ormai storica copertina de l’Espresso, dicembre 2012, che raffigurava i re di Roma, con l’inchiesta di Lirio Abbate: Carminati, Carmine Fasciani, Peppe Casamonica e Michele ’o pazzo Senese. Tutti rinchiusi oggi.

I nuovi padroni incontrastati nel mondo della droga romana sono gli “Albanesi”: erano la “batteria di Ponte Milvio”, in ottimi rapporti sia con i fascisti di Carminati e Diabolik sia con i Senese. Oggi è a loro che gran parte del milieu criminale romano si rivolge per acquistare la polvere bianca a 28 mila euro al chilo. Prezzo imbattibile. Le partite di droga, chiamate in gergo “birre”, vengono trasportate nei doppi fondi delle auto. I carichi sono di 20 o anche 30 chili per viaggio dall’“emporio” di Rotterdam. Il giro d’affari è di milioni di euro: nel 2018 a Roma sono stati sequestrati 572 chili di cocaina. Gli Albanesi sono suddivisi in quattro, cinque gruppi criminali. Ogni tanto c’è una figura più carismatica che emerge: l’ultima è Dorian Petoku, già in carcere in patria per l’operazione Brasile low cost, droga importata dal Sudamerica, il suo nome è finito anche nelle carte dell’operazione Lucifero 2017 eseguita la scorsa settimana dall’antidroga della polizia agli ordini del vicequestore aggiunto Mariangela Sciancalepore. Petoku sarà estradato in Italia, è il cugino di Arben Zogu, detto Riccardino, “amico” di Diabolik, in rapporti dai tempi dell’esperienza comune nel carcere di Avellino con Rocco Bellocco, uno dei capi della ’ndrangheta a Rosarno.

Era il 2013. Ed è noto quanto la benedizione delle ’ndrine conti nel traffico internazionale di droga. I punti di forza degli Albanesi sono diversi, stanno lontani dallo spaccio, fanno toccare le “birre” solo a corrieri, spesso ragazzini o gente che ha disperato bisogno di soldi. Non tengono “piazze di spaccio” proprie e non controllano nessun territorio. Non gli interessa. Senza Zogu e Petoku ci sono altri considerati “personaggi di spessore nel traffico degli stupefacenti” attualmente attivi, come un certo “Jimmi”, 37 anni. Hanno un punto debole gli Albanesi: non riescono a rinunciare a fuoriserie e lusso un po’ troppo appariscente.

E i padrini di una volta? Per Cosa nostra sono lontani i tempi di Pippo Calò, il tesoriere della mafia di casa a Roma sepolto al 41-bis, ed Ernesto Diotallevi, privato recentemente della sua dimora principesca con vista sulla Fontana di Trevi dall’ultima offensiva del pm Luca Tescaroli. Anche ’u zio Ciccio d’Agati, 83 anni, è al tramonto sul Litorale romano dei Fragalà-Santapaola, arrestato a giugno. A Ostia gli Spada sono in ginocchio dopo gli ergastoli per mafia di qualche giorno fa. È terra di conquista, quindi, dove girano liberi, però, due personaggi secondo i magistrati “da ritenersi tuttora di rilievo nel panorama del crimine organizzato: gli stessi si rendevano responsabili della gambizzazione di Vito Triassi (Cosa nostra, ndr) in data 20 settembre 2007, fatto per il quale hanno scontato una condanna definitiva”: Roberto De Santis detto Nasca e Roberto Giordani detto Cappottone; l’agguato a Triassi, come emerso dall’indagine Nuova Alba della squadra mobile romana nel 2013, garantì la pax mafiosa tra i Fasciani e i Senese. Non re di Roma, ma oggi Nasca e Cappottone sono almeno viceré di Ostia.

Le famiglie storiche che resistono, con il relativo territorio inespugnabile, sono i Senese e i Casamonica, nel quadrante est della città. La direttrice Tuscolana è l’incontrastato regno della famiglia di ’o pazzo e il quartier generale è un loro bar in zona. Angelo Senese, considerato alla stregua di un colletto bianco, è rimasto l’unico ovunque nella capitale a suscitare a tutti “rispetto”, cosa di cui prima si potevano vantare solo il fratello Michele e Carminati, entrambi detenuti. Anche i Casamonica hanno subito colpi importanti, non solo quelli delle ruspe sulle ville abusive. In questo momento il reggente è Guerino Casamonica detto Pelé, raccontato così da Nello Trocchia in Casamonica (Utet, 2019): “Nel suo passato c’è una sequela di indagini, precedenti per rapina, porto abusivo di armi, truffe”, con una “condanna definitiva in Germania per traffico di sostanze stupefacenti – continua Trocchia, autore anche di un docu-film prossimamente in onda su Canale Nove –; ma non solo dalle indagini risulta essere fornitore di cocaina di un gruppo criminale romano, a leggere il dossier della Dia, Guerino ha fatto da mediatore coi trafficanti colombiani”. Basta seguire le piste di coca, ancora una volta, per arrivare ai nuovi re di Roma.

Il mio Silvio Novembre, l’uomo con il vizio capitale dell’onestà

Questa volta se ne è andato come un eroe. Se glielo avessero detto mentre era in servizio non ci avrebbe creduto. Auto della Guardia di Finanza a cingere con affetto il portone del Preziosissimo Sangue di corso XXII marzo a Milano da cui sarebbe uscito tra due ali di cittadini. Gli allievi dell’Accademia ordinati con solennità sul lato sinistro della chiesa a salutarlo, invitati dal loro generale a considerarlo un esempio “senza se e senza ma”, “splendida” e “luminosa” figura di finanziere, “incarnazione dell’etica” del Corpo. Magistrati e giornalisti. E la Milano che lo ha amato, quella della legalità e della giustizia uguale per tutti: Società Civile, girotondi, Libera, scuola Caponnetto.

Silvio Novembre non ha avuto una carriera generosa di onori. Stare accanto all’ “eroe borghese” Giorgio Ambrosoli, spedito sulla trincea più invisibile e più esposta che lo avrebbe costretto a fronteggiare il più forte grumo di potere degli Anni 70 – di qua la finanza di Sindona, di là la politica di Andreotti – gli aveva fatto scoprire il volto peggiore dell’Italia. Un paese cavalcato senza scrupoli da bande di mestatori e truffatori, traditori e cospiratori, codardi e mercenari. Anche in toga. Anche in divisa. Anche la “sua” divisa. In quel paese l’onestà era un vizio capitale. E il maresciallo Novembre si era schierato appunto con il vizio. Assistendo con tenacia l’avvocato Ambrosoli, nominato liquidatore dalla Banca d’Italia per difendere i risparmiatori della Banca privata italiana truffati da Sindona. L’avvocato non era protetto, però. E forse non avrebbe nemmeno voluto esserlo. Novembre si prese cura della sua incolumità, metà scorta metà investigatore, rendendosi progressivamente conto del rischio a cui il suo assistito andava incontro. I segni obliqui, le telefonate minacciose, le telefonate silenziose: tutto prendeva consistenza nell’indifferenza altrui senza sfuggire a lui, investigatore di intuito e di esperienza. Fino al killer spuntato d’improvviso sotto casa dell’avvocato a mezzanotte, dopo una sera di spensieratezza, l’11 luglio 1979.

Conobbi Silvio Novembre chiedendogli di essere tra i fondatori del circolo “Società Civile”. Parlammo più volte. Mi voleva bene soprattutto per il mio cognome. Poi anche, credo, per essere professore di sua figlia Isabella alla Bocconi. Non parlava mai volentieri del marcio che aveva visto tra le sue stesse file attraversando quella vicenda. Le complicità, le paure e gli accomodamenti che – quando meno se l’aspettava – indossavano la divisa da generali. O il suo sentirsi corpo estraneo mentre difendeva gli interessi dello Stato.

Serbò, per l’avvocato, un affetto e una riconoscenza come solo i grandi uomini sanno averne per i propri superiori. Li riversò sulla moglie di lui, Annalori, e sui suoi figli, piccolo gruppo straziante nei funerali della solitudine, dove nessun ministro sentì il dovere di presentarsi.

Ho di lui un ricordo vivo e malinconico. Risale al 2013. Umberto, il piccolo bimbo costretto quasi a trotterellare dietro la bara del padre, era ormai diventato avvocato famoso, leader civile. Ed era stato candidato dal centrosinistra alla presidenza della Regione Lombardia, costretta a sciogliersi e ad andare a elezioni anticipate per questioni di mafia. Ambrosoli era sembrato il candidato perfetto da contrapporre agli eredi del celeste Formigoni, sempre più impigliato in scandali e casi giudiziari. Ci credette lo schieramento progressista, convinto di avere in mano la carta ideale da giocare, un nome prestigioso e cristallino. Ci credette anche lui. Non per desiderio politico, ma proprio pensando al suo avvocato. Ucciso dalla mafia a Milano, suo figlio sembrava destinato a governare in nome dell’onestà la Lombardia. Una meravigliosa nemesi storica.

Non andò così, come sappiamo. Quando al teatro Litta in corso Magenta la Milano del centrosinistra si diede convegno per seguire i risultati e fu chiara la sconfitta, certo più contenuta rispetto ai turni precedenti, uscii per strada. Fuori, solo, appoggiato a un piccolo pilastro, con un bastone in mano, stava Silvio Novembre. Aveva l’occhio perso, che guardava altrove.

Il “suo” bambino, il figlio del “suo” avvocato, non sarebbe diventato presidente. Nessuna nemesi, nessuna giustizia della storia. Anche per questo quando ieri ho visto rendergli gli onori che si rendono agli eroi al suono del Silenzio ho pensato che un poco di giustizia, infine, la storia l’ha pur fatta. Anche se in ritardo, come sempre.

I pm su Siri: “Investimenti per coprire soldi sporchi”

“Somme di provenienza delittuosa (…) utilizzate per investimenti economici con il preciso intento di dissumularne l’origine”. È questo uno dei passaggi con il quale il Tribunale del Riesame di Milano riassume la posizione della Procura riguardo la condotta del senatore della Lega Armando Siri indagato per autoriciclaggio in relazione a un mutuo ottenuto dalla Banca agricola di San Marino. Il passaggio è contenuto nella sentenza depositata il 25 settembre con la quale il giudice respinge il ricorso contro i sequestri effettuati il 26 luglio a carico di Marco Luca Perini, segretario di Siri. Durante le perquisizioni sono stati trovati due pc riferibili al politico leghista, sul cui sequestro discuterà oggi la Giunta per le autorizzazioni del Senato. Siri è anche indagato per corruzione dalla Procura di Roma. Sul piatto del Riesame il finanziamento per acquistare una palazzina a Bresso (Milano). Per la prima volta si può osservare, contenuto nella sentenza di quattro pagine, il capo d’imputazione a carico di Perini “in concorso con il senatore Siri”.

Il reato di autoriciclaggio, secondo la Procura, si forma perché Siri ha “partecipato alla commissione di delitti di appropriazione indebita e amministrazione infedele in relazione alla somma di 748.205 euro indebitamente corrisposte il 28 novembre 2018”. Si tratta del finanziamento ottenuto da Siri “usufruendo di condizioni di particolare favore in contrasto con i principi di sana e prudente gestione del credito”. Per il pagamento dell’immobile verranno utilizzati due assegni circolari “emessi il 31 gennaio 2019 dalla Banca popolare di Sondrio”. A Siri viene contestata anche un’aggravante. Recitano le ultime righe del capo di imputazione: “Con l’aggravante di aver commesso il fatto giovandosi del contributo di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato”. Nello specifico dell’acquisto della palazzina il Tribunale spiega: “L’importo ricevuto è stato utilizzato da Siri per l’acquisto di un immobile (…) ma invece di essere trasferito al venditore è stato accreditato sul conto corrente del notaio rogante (non indagato, ndr) sul quale poi sono stati tratti gli assegni per il pagamento del bene”. L’acquirente “è stato individuato non in Siri ma nella figlia Giulia (non indagata, ndr), che ha rilasciato una procura irrevocabile a vendere l’immobile in favore del padre”. Il tutto “con l’intento di dissimulare l’origine” del denaro. Al reato, così come spiegato dal Riesame, partecipa anche Marco Luca Perini, il quale “risulta acquirente di uno dei subalterni dell’edificio”. La Procura ha intercettato un secondo mutuo da 600 mila euro (non contestato penalmente a Siri) concesso nel marzo scorso sempre dalla banca di San Marino alla società Tf Holding. Uno dei soci, Fiore Turchiarulo, fu candidato nel movimento Italia Nuova fondato da Siri.

L’indagine su Berlusconi spiegata (anche) a Renzi

Matteo Renzi si è detto “attonito” quando ha scoperto con due anni di ritardo che Silvio Berlusconi è indagato per le stragi del 1993. Eppure Renzi quella storia la dovrebbe conoscere bene se non altro perché sulla bomba del 27 maggio a Firenze ha fatto il trailer del documentario Firenze Secondo me. Ovviamente non ha detto in tv nel dicembre 2018 che Marcello Dell’Utri e Berlusconi erano già indagati (dunque innocenti fino a prova contraria) anche per quella strage. L’argomento meriterebbe un approfondimento e un dibattito serio ma resta tabù per Renzi come per la stragrande maggioranza dei politici e giornalisti italiani.

Il mondo di Dell’Utri e soprattutto di B. deve restare lontano da quello della mafia, anche solo a livello di ipotesi investigativa. Forse perché “quello del Canale 5”, come lo chiama il boss Gaspare Spatuzza, fa parte da decenni del nostro album di famiglia. Per tutti. E per Renzi ancor di più. Matteo in persona a 19 anni ha vinto 48 milioni di vecchie lire nel 1994 al quiz di Canale 5 La Ruota della fortuna. A raccomandarlo per la prima selezione è stato lo zio Nicola Bovoli, fratello di mamma Laura, amico di Mike Bongiorno. Zio Nicola era un grande imprenditore nel settore dei giochi per finalità di marketing editoriale ed è scomparso lo scorso anno. Negli anni 90 aveva un’impresa a Milano 2 e ha operato nel settore pubblicitario anche con un manager amico di Marcello Dell’Utri come il palermitano Carmelo Antonio Raspa.

Matteo è cresciuto con lo zio di successo che chiamava “genio” Berlusconi. A 20 anni, nel 1996, lo imitava con gli amici sul palco del teatro parrocchiale di Rignano sull’Arno. Sul web si può vedere con che gusto il Renzi ventenne fingeva di essere il Cavaliere che diceva “mi consenta” al Costanzo Show. L’unico Costanzo ammesso in questo quadro non è quello dell’attentato di via Fauro ma quello dello show.

Comprensibile che Renzi si dica “attonito”. è in buona compagnia. La quasi totalità degli italiani considera assurda l’ipotesi perché non dispone di una serie di informazioni. Non tutti sanno che il leader di Forza Italia è stato già indagato e prosciolto due volte dai pm per le stragi del 1993 e che è stato indagato e prosciolto due volte pure a Caltanissetta per le stragi del 1992. Pochi ricordano che il co-fondatore di Fi, Marcello Dell’Utri, è stato condannato definitivamente per mafia e per la sua attività di mediazione “ai danni di B.”, fino al 1992. Certo, molto probabilmente il fascicolo sarà archiviato anche questa volta. Ma non vuol dire che tutto ciò sia un gioco per magistrati un poco folli.

Il fatto è che anche stavolta ci sono nuovi elementi, emersi soprattutto dalle intercettazioni in carcere del boss Giuseppe Graviano nel 2016 e 2017. Quelle conversazioni imponevano ai pm di cercare la verità, in un senso o nell’altro. L’ipotesi di lavoro sembra un meteorite caduto dal cielo solo a chi non dispone del quadro precedente. A beneficio di Renzi e dei tanti “attoniti” incolpevoli, a partire da oggi proviamo a spiegare perché Berlusconi sia indagato per gli attentati del 1993, compreso quello di Costanzo.

Questa storia inizia nella seconda metà degli Anni 90 quando per la prima volta, sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, in particolare Salvatore Cancemi e Tullio Cannella, la Procura di Firenze iscrive Berlusconi e Dell’Utri con l’ipotesi che possano avere avuto un ruolo di “mandanti esterni” nelle stragi a Milano e Firenze e negli attentati a Roma del 1993-1994. L’indagine fu chiusa per carenza di riscontri. Passa un decennio e si pente il fedele killer del boss Graviano, Gaspare Spatuzza. Nel 2009 racconta le confidenze del suo boss su Dell’Utri e Berlusconi. I pm lo ascoltano con attenzione perché si è accusato per la strage di via D’Amelio quando nessuno lo sospettava e ha fatto scarcerare molti innocenti. Spatuzza racconta di avere incontrato il suo boss al bar Doney nel gennaio 1994. Gli fu chiesto di fare un ultimo attentato contro un centinaio di Carabinieri il 23 gennaio 1994, allo stadio Olimpico. L’Italia viveva un momento di svolta.

I giornali davano per probabile la candidatura di Berlusconi che infatti il 26 gennaio fece in tv il celebre annuncio della discesa in campo. Spatuzza ha riferito che Giuseppe Graviano con espressione felice, “gli disse di avere ottenuto ciò che volevano grazie a ‘persone serie’ subito indicate in Silvio Berlusconi e nel ‘compaesano’ Dell’Utri che aveva fatto da intermediario e che, quindi, si erano ‘messi il paese nelle mani’.”. La sentenza di appello del 2010 del processo Dell’Utri riteneva Spatuzza sul punto non credibile. La sentenza di primo grado sulla Trattativa, che ha condannato nel 2018 Dell’Utri a 12 anni, ribalta la tesi: “Spatuzza è un collaboratore di elevata attendibilità”.

Nel 2009 c’erano solo le parole del pentito che riferiva le confidenze di Graviano. Nel 2018, invece, la Corte dispone della viva voce del boss, intercettato in carcere nel 2016-2017. Graviano nei suoi colloqui con il compagno di cella fa più volte riferimento a Dell’Utri e Berlusconi. La Corte richiama anche “i copiosi riscontri acquisiti (ivi compreso quello sulla contestuale presenza a Roma di Marcello Dell’Utri)”. Che vuol dire? La Dia scopre che Marcello Dell’Utri è arrivato a Roma il 18 gennaio del 1994 per alloggiare con i suoi collaboratori e il fratello. Stavano selezionando i candidati di Forza Italia e dormivano tutti all’hotel Majestic di via Veneto. Secondo la Corte, Graviano giunge al bar Doney in via Veneto per incontrare Spatuzza con il cappotto delle grandi occasioni (raggiante per il paese nelle mani grazie a Dell’Utri e B., secondo Spatuzza) il mercoledì 19 gennaio o il giovedì 20 gennaio. Potrebbe essere una mera coincidenza, ma per la Corte sarebbe invece un riscontro al racconto di Spatuzza.

1 (continua)

Renzi non sfonda in FI e lascia in pace M5s

“I miei parlamentari saranno presto 50”. Matteo Renzi continua a dirlo, ma in realtà il suo scouting sta avendo qualche battuta di arresto, sia nel Pd, sia in Forza Italia e nel Movimento 5 Stelle. I primi motivi riguardano le incognite dell’operazione: Italia Viva continua a stare sotto il 5% nei sondaggi. Dunque, tra taglio dei parlamentari e incognite su come sarà la legge elettorale, sarà già molto difficile che Renzi possa garantire un posto anche ai componenti del drappello già esistente. Tanto più che si parla per la maggior parte di gente senza voti. Dunque, perché spostarsi? La domanda se la fanno in molti.

L’ex premier, però, ha necessità di “stressare” il Pd di Nicola Zingaretti. E dunque, continua a insistere sui senatori a lui più vicini. Quelli considerati borderline sono l’ex governatore dell’Abruzzo, Luciano D’Alfonso, Caterina Bini e Caterina Biti (entrambe, queste due, molto legate inizialmente a lui, ma che adesso hanno altri riferimenti, soprattutto dentro Base Riformista). E poi il vice capogruppo Dario Stefàno; il tesoriere, Stefano Collina; Alan Ferrari; Mauro Laus. Da vedere, se davvero lasceranno il Pd prima della Leopolda. Poi, c’è la questione dei Cinque Stelle. La senatrice Silvia Vono, appena passata a Italia Viva, ha detto che ci sarebbero contatti anche con altri del Movimento. Ci sono una serie di senatori, arrivati al secondo mandato (e quindi non ricandidabili), che non hanno nulla da perdere. Ma il Movimento ha chiesto a Renzi di smettere di lavorare sui suoi. Ed è stato ccontentato per ora. Il capitolo più importante riguarda Forza Italia. L’operazione Italia Viva nasce soprattutto dalla volontà di occupare lo spazio lasciato libero da Silvio Berlusconi. Uno spazio che, per dire la verità, il fu Rottamatore insegue dai tempi d’oro. Gli azzurri per adesso non hanno mostrato troppo interesse. Prima di tutto, aspettano di capire cosa succede al centro, con il partito di Cairo (l’editore di La7) ancora atteso e quello di Carlo Calenda annunciato per dicembre. La trattativa con Mara Carfagna si è arenata soprattutto a causa di Maria Elena Boschi: è stata eletta capogruppo alla Camera, potere e visibilità sono tutti per lei.

I renziani sostengono che alla Leopolda annunceranno gli arrivi dal territorio. Per ora, non hanno preso neanche un sindaco che conti, anche perché avendo scelto di non presentare le liste alle Regionali, non hanno nulla da offrire.

I giochi si potrebbero però riaprire più in là: se le elezioni in Umbria, Emilia Romagna, Calabria dovessero andare male, Zingaretti e il Pd ne usciranno indeboliti. E anche il governo potrebbe risentirne.

Presto quota 1000 per i voltagabbana di Camera e Senato

È un fenomeno che pare inarrestabile: in poco più di dieci anni sono stati oltre 900 i cambi di casacca in Parlamento. E la cifra è destinata a salire sfondando agevolmente quota mille. Perché Matteo Renzi conta di poter vampirizzare ulteriormente il Pd a cui ha già sfilato 40 eletti tra cui l’ex capogruppo Rosato, la neo ministra Bellanova, il già tesoriere del Nazareno Francesco Bonifazi. Ma l’emorragia non è finita. L’ultima arrivata è Silvia Vono che si è trasferita nel gruppo Italia Viva dopo aver abbandonato i 5 Stelle che già erano dimagriti a causa delle espulsioni, 13 tra deputati e senatori solo dall’inizio della legislatura. Ma accanto agli epurati ora c’è che si guarda intorno: la Lega cerca di fare proseliti e non solo tra i 5 Stelle. Silvio Berlusconi teme che pezzi da novanta di Forza Italia, con il loro abbandono, diano il colpo di grazia al partito in calo vertiginoso nei sondaggi. Per molti azzurri è appetibile l’approdo nel Carroccio e in Fratelli d’Italia: il coordinatore azzurro dell’Emilia Romagna, Galeazzo Bignami con le Regionali alle porte è passato con FdI.

E che dire di Giovanni Toti? Per ora pochi azzurri lo hanno seguito nella avventura di “Cambiamo” ma la diaspora azzurra è iniziata da tempo, almeno dall’addio di Denis Verdini che qualche hanno fa ha fondato l’Alleanza Liberalpopolare-Autonomie. E da quello di Raffaele Fitto che aveva scommesso sul big bang berlusconiano e si era messo su il partito dei Conservatori & Riformisti. Dilettanti al confronto di Luigi Compagna che in Parlamento ci era entrato una prima volta con il Pli per poi passare all’Udc e via nel Popolo delle Libertà e di lì nella Federazione delle Libertà non prima di un passaggio nel gruppo Misto, in Grandi autonomie e libertà (Gal), in Area popolare, ancora in Gal, poi coi fittiani, al Misto e di nuovo a Gal.

Se Compagna ha fatto scuola pure gli altri ci hanno dato dentro: solo nella XVII legislatura (2013-2018) si è registrato un record di cambi di casacca: 566 che hanno coinvolto ben 347 parlamentari, il 36,53% degli eletti. “Il parlamentare è libero di cambiare partito e anche di votare come vuole, in dissenso dal suo gruppo. Ma, se lascia la maggioranza con cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa (caso molto più frequente), subito dopo deve decadere da parlamentare: perché ha tradito i propri elettori e ha stravolto il senso politico della sua elezione” aveva suggerimento Gustavo Zagrebelsky, con una proposta legislativa diversa dal vincolo di mandato, in un’intervista al Fatto. Ovviamente inascoltato.

Perché l’andazzo prosegue da tempo: nella XVI legislatura (2008-2013) le giravolte sono state un po’ meno (261 per 180 parlamentari coinvolti) ma di un certo rilievo: come dimenticare la pattuglia dei “Responsabili” di Razzi e Scilipoti che impallinarono il governo di Romano Prodi favorendo il ritorno di B.? “Io sono un fan, dipendente, anche schiavo, ma sì, mettiamoci pure schiavo di Berlusconi” si giustificò Antonio Razzi nel frattempo rieletto grazie ai voti di Forza Italia.

Ma c’è chi ha fatto di più: 11 parlamentari hanno battuto ogni primato, cambiando maglia sia nella XVI che nella XVII legislatura. Come nel caso di Dorina Bianchi eletta nel 2008 con il Pd poi passata nel Popolo delle Libertà. Una volta ricandidata con Berlusconi lo aveva infine abbandonato per il Nuovo Centro destra di Angelino Alfano. Ma poi nell’elenco c’è pure Linda Lanzillotta che partendo dal Pd dopo un lunghissimo giro era tornata nella XVII legislatura alla casa madre come pure Alessandro Maran.

Ancora: Benedetto Della Vedova. Onora fedelmente il motto caro ai radicali “rendetevi irriconoscibili senza timore di fare scandalo”: ha alle spalle due legislature in cui ha infilato l’elezione con Berlusconi, il passaggio con Futuro e Libertà di Gianfranco Fini per poi aderire al partito di Mario Monti che ha lasciato per il gruppo Misto: ora è deputato di +Europa per il futuro chissà.

Bruno Tabacci era invece stato eletto con l’Udc, con cui si era candidato nella XVI legislatura, per poi fare un percorso che lo ha portato a concludere la legislatura successiva con il Centro democratico: ora è di nuovo in Parlamento con +Europa non immune dal virus della scissione: Tabacci ha annunciato il divorzio da Emma Bonino.

Non gli è da meno Paola Binetti oggi eletta per Forza Italia ma che, andando a ritroso, si era unita a Alfano dopo aver abbandonato Scelta Civica. E prima ancora era passata all’Udc dopo aver salutato il Pd. Scatenando le ire dell’allora Rottamatore dem Matteo Renzi che a un certo punto sbottò contro di lei e gli altri che avevano traslocato: “Se uno smette di credere in un progetto politico, non deve certo essere costretto con la catena a stare in un partito. Ma, quando se ne va, deve fare il favore di lasciare anche il seggiolino”. Appunto.

Il Pd ci ripensa e si toglie la multa anti-trasformisti

Obbligatorio prendere le distanze. La penale anti voltagabbana da 30 mila euro inserita dal Pd umbro nei confronti dei consiglieri regionali che si candidano alle elezioni del 27 ottobre, sta creando un cortocircuito tra i dirigenti del Pd nazionali e locali. Tra scaricabarile, versioni che non collimano e rivendicazioni.

Sullo sfondo un dato: di fatto, si tratta di un modo per rendere effettivo il vincolo di mandato, di cui si discute a livello nazionale. Ieri il commissario Walter Verini, dopo aver detto al Fatto che la responsabilità della proposta era da attribuire al candidato Giacomo Leonelli e al tesoriere Paolo Coletti, ha fatto marcia indietro: “È un accordo morale, volontario, che fa onore a chi l’ha sottoscritto – ha spiegato –. Dico di più: essendo su base volontaria tra candidato e partito, un candidato che volesse ripensarci, potrebbe farlo. Perché è stata una scelta condivisa, non una imposizione”.

Al Nazareno hanno passato due giorni a rimarcare tutte le distanze possibili e immaginabili. Si racconta di un Dario Franceschini fermamente contrario, al quale questa storia proprio non è piaciuta. “Si tratta di un’iniziativa locale”, hanno ripetuto fino all’esaurimento. Zingaretti non ha voluto fare nessuna dichiarazione ufficiale. E i suoi negano persino che abbia parlato direttamente con Verini. Pure se, a livello nazionale, la versione finale (per quanto ufficiosa) è che il Commissario avesse semplicemente parlato con il tesoriere umbro, che poi ha agito di sua iniziativa.

A multa tolta, il problema è che tutti i candidati al consiglio regionale del Pd quel documento con cui si impegnavano a versare 75 mila euro in cinque anni, più 30mila in caso di cambio di casacca in corso, lo hanno già firmato. E non è chiaro come adesso possano tornare indietro. Non solo: dal Pd umbro i diretti interessati hanno smentito la “chiamata in correità” di Verini. L’ex segretario dem umbro e candidato al consiglio regionale Leonelli, a cui è stata attribuita la paternità della proposta, dice di non saperne niente: “Ho letto che secondo Verini io avrei fatto la proposta della penale durante l’ultima segreteria – dice al Fatto – ma io non me lo ricordo proprio ed escludo categoricamente di aver mai parlato di 30mila euro. Non solo, quando la cosa è venuta fuori tutti si sono detti favorevoli e non capisco perché vengano fatte le polemiche solo adesso”.

Aggiunge il tesoriere dem in Umbria, Paolo Coletti, secondo cui è stato semplicemente ricalcato il modello dei versamenti che i parlamentari devono al partito nazionale: “Abbiamo preso quello e ci abbiamo aggiunto questo risarcimento ma non è stata una decisione presa da me, anche se la condivido”. La cosa paradossale è proprio questa: tutti nel Pd umbro condividono la sanzione per coloro che cambiano gruppo. “Certo che è giusto – continua Leonelli – la questione è economica perché la nostra struttura regionale si regge sul contributo degli eletti: se noi prendiamo 7/8 consiglieri regionali e mettiamo che se ne vadano in tre durante il mandato, perdiamo il 50 per cento dei contributi”. Leonelli mette nel mirino i dirigenti nazionali che adesso criticano Verini &co. E conclude: “Per me la penale andrebbe estesa anche a livello nazionale”.

Il tema è tutt’altro che banale. E tutt’altro che archiviato. Perché tutti coloro che sono stati eletti con il Pd sono tenuti a versare una cifra variabile (indicativamente, tra i 25 mila e i 35 mila euro, a seconda delle Regioni) ai territori.

In tempi di cambi di partito, che cosa accadrà? A chi dovranno versare questi soldi i vari esponenti locali? “I debiti devono essere pagati”, dichiara il tesoriere nazionale Luigi Zanda al Fatto. Che però, in un’intervista all’Huffington post, dà la linea: “Francamente considero uno sbaglio far sottoscrivere accordi che prevedono multe, risarcimenti, li chiami come vuole. Ed è un errore ancora maggiore per quel che riguarda i consiglieri regionali che vengono eletti con le preferenze, indicati dagli elettori. Però penso che tra i candidati e il partito vada sottoscritto un patto d’onore”. Il problema si riproporrà: al Nazareno non si sentono di escludere che altri territori possano fare come l’Umbria. E al Nazareno l’impressione è che si sia aperta una discussione di cui nessuno sentiva il bisogno. Ma anche che si tratti di una strada di non ritorno.

Matteo & Meb: un partito di cabarettisti e influencer

Poiché amiamo i nostri lettori, offriamo un’antologia di massime renziane dalla lenzuolata di ieri sul Foglio.

“Noi non stacchiamo la spina al governo: noi stacchiamo le correnti, non la corrente”.

Renzi deve aver fatto un patto col diavolo. Io ti do l’immortalità politica, ma tu dici almeno una cazzata a intervista.

“Siamo un’altra cosa rispetto al Pd, abbiamo un altro stile, abbiamo un altro entusiasmo”.

Lui si sente tipo Yves Saint Laurent che reinventa lo stile Dior e poi si mette in proprio, ma è quello di #enricostaisereno. E basta guardare in faccia Ettore Rosato per capire l’entusiasmo che anima Italia Viva.

“Il principio di realtà è il fondamento della serietà… Tutto cambia il 4 dicembre 2016. La mia sconfitta, certo… Io perdo, certo. E vado a casa, certo”.

Il principio di realtà, certo.

“Il Pd che festeggia la notte del 4 dicembre o che mette alla guida delle riforme chi ha votato No il 4 dicembre non può più essere casa mia”.

Qui c’è un tacet in partitura. Nessuno chiede a Renzi perché non se ne sia andato il 4 dicembre (del 2016!) o prima di appoggiare il Conte II.

“Il reddito di cittadinanza è un pilastro dei 5Stelle e noi l’accordo lo abbiamo fatto coi 5Stelle. Hanno già cambiato idea sulla Tav, sulla Tap, su Ilva, sulle Olimpiadi: non è che puoi imporre tutto tu”.

Questo è un colpo alla Renzi. 1) Sul Tav il M5S non ha cambiato idea. 2) Renzi si intesta la rieducazione del M5S dall’opposizione quando il rieducatore semmai è stato Salvini. Durante i 14 mesi di governo Renzi gongolava davanti allo spettacolo sperando che l’Italia andasse a picco. Secondo la fanfaluca, i 5Stelle avrebbero fatto una tale brutta figura da rimangiarsi i loro dogmi pur di andare al governo con Renzi, pregato in ginocchio da tutti gli italiani affinché tornasse. Cosa che però non è avvenuta.

“Noi non vogliamo far piangere i ricchi, vogliamo far star bene i poveri”.

Infatti le riconoscenti masse proletarie dei Parioli stanno tutte con lui.

“Fuori dal Pd, siamo tornati a scherzare, a sorridere, a prenderci in giro, a vivere con leggerezza”.

“I tacchi mi piacciono molto e quindi continuerò a metterli anche se costano un po’ di sacrificio, perché sono molto belli. È chiaro che poi ci sono altre giornate in cui uno magari usa delle scarpe da ginnastica, le ballerine… I tacchi per noi italiane sono sinonimo di moda italiana, di calzaturifici italiani” (M.E. Boschi, SkyTg24).

Un partito di cabarettisti, clown e influencer di moda. Daje a ride’.

“Non è pensabile che Berlusconi sia indagato per anni come mandante delle stragi mafiose o dell’attentato a Costanzo. Dico: hai le prove sul fatto che Berlusconi voleva uccidere Costanzo? Vai a processo e condannalo”.

1) È talmente pensabile che è esattamente quel che è successo. 2) Le prove servono ai giudici per condannare qualcuno, non per indagarlo. Possibile che Renzi, che è laureato in Legge e con queste materie ha una certa diciamo familiarità, faccia errori così grossolani?

“Nel Pd ti alzavi la mattina e dovevi guardarti le spalle dal tuo compagno di stanza”.

Qualcosa ci dice che d’ora in poi non sarà più così.

“È ipocrisia pura fingere che solo qualche corrente facesse le cene per accordarsi sugli incarichi direttivi (del Csm, ndr)”.

Molto astuto. “Qualche corrente” è in realtà Lotti, che prima di fondare la sua corrente era della corrente renziana.

“Venite a prendervi l’Italia Viva, venite a darci una mano”.

Pensavamo lo portassero a domicilio con Foodora.

“C’è una generazione di ragazzi che si è messa in moto e chi ironizza su Greta deve avere il coraggio di ammetterlo… Chiederemo di essere giudicati dal popolo delle piazze giovanili. Poi è chiaro: se vuoi difendere l’ambiente devi investire in tecnologia e infrastrutture, non rifugiarti nei boschi… Servono le metropolitane e le tramvie… servono i treni e le piste ciclabili, non la retorica e la demagogia”.

Tradotto: cercheremo di cavalcare l’onda elettorale prodotta dall’eco mediatica degli scioperi per il clima, ma non deluderemo mai il metafisico, sovraordinato e a me consustanziale partito del Pil.

Liti, rampogne e gli “strani alleati” Di Maio e Renzi

Hanno discusso forte, talvolta litigato. Soprattutto, hanno mischiato le squadre. Però non erano degli amici sparsi su un campo di calcetto, erano Cinque Stelle, dem e renziani, persi nella notte di domenica a Palazzo Chigi a darsi addosso sulla manovra prossima ventura, e in particolare sull’Iva. Un’annunciatissima rogna, sufficiente per il primo temporale dentro il governo giallorosso, con scene che già raccontano un pezzo di futuro. Per esempio a sera già inoltrata quelli del Pd, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e il capo delegazione Dario Franceschini, vanno a sbattere contro il muro dei renziani Teresa Bellanova e Luigi Marattin, fermi nel dire no a qualsiasi aumento selettivo dell’imposta. In mezzo a smussare c’è l’eterno mediatore, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che però nel contempo spinge per la linea concordata con i dem.

Invece zitti a guardare ci sono i 5Stelle, con Luigi Di Maio che ha lo sguardo fisso sul suo smartphone. Ma anche il Movimento non vuole toccare l’Iva, anche il ministro degli Esteri pensa e dice che il taglio del cuneo fiscale non è poi così urgente, casomai meglio non sfiorare le aliquote: proprio quello che sostiene Matteo Renzi. Ed è per questo che il discorsetto notturno con cui Conte alla fine rampogna i renziani sembra diretto anche al capo del M5S. “Niente giochini politici, siamo qui per fare le cose e non vogliamo certo aumentare le tasse”, scandisce l’avvocato. E sono parole che valgono pure per il giovane capo che ha occhi solo per il suo telefono, anche quando parla il premier.

Ovvero per il Di Maio che ha un’urgenza diversa, non aumentare l’Iva per non concedere voragini alla propaganda di Matteo Salvini, pronto a presentargli il conto elettorale. E soprattutto, per non farsi scavalcare da Renzi: quello un po’ dentro e un po’ fuori del governo, il bucaniere che promette di arrivare in fretta da 41 a 50 parlamentari per Italia Viva, e la differenza può colmarla imbarcando grillini. Di Maio, ovviamente, lo sa e sente il pericolo, avverte che Renzi è un avversario difficile da marcare. Così decide di coprirsi. La trattativa sulle cifre la lascia alla viceministra all’Economia Laura Castelli, grillina che riesce a parlare con Conte come con i dem, mentre certi passaggi diplomatici sono affare del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro. Ma l’obiettivo è non farsi superare da Renzi sul tema delle tasse e dell’attenzione per il ceto medio, un’ossessione per Di Maio. Per questo ordina ai suoi di fare muro sull’imposta, e pazienza se Conte va d’amore e d’accordo con Gualtieri, come confermano dal Pd: “Il ministro e il premier hanno sviluppato un’ottima intesa”.

Musica per le orecchie di Renzi, che deve sparigliare per guadagnare spazio, o meglio “deve fare rumore per far capire che lui è una cosa diversa innanzitutto da noi democratici” come sostiene un veterano del Pd. E anche per questo i renziani terremotano la linea di Palazzo Chigi e Mef sull’Iva. Mentre il capo gioca di sponda con Di Maio, quasi obbligato a mettere sul piatto le sue stesse carte. E già prova a confonderlo, quasi a irretirlo. Ieri dal Foglio gli ha addirittura lanciato complimenti che odorano di zolfo: “Devo ammettere che all’inizio del suo lavoro mi è sembrato molto saggio, ha scelto una bella squadra e si è mosso senza sbagliare nulla”. Per poi dirsi concorde con la proposta del Guardasigilli Bonafede sul sorteggio per scegliere i membri del Csm.

Franceschini, quello che aveva scongiurato Renzi di restare dentro il Pd, nota le convergenze parallele. E nel pomeriggio del Cdm picchia i renziani per dare un segnale anche ai 5Stelle: “La smania quotidiana di visibilità logora i governi, si inventano litigi sull’Iva quando nessuno vuole aumentarla”. E Marattin risponde in fretta: “Ciao Dario, a noi basta non aumentare l’Iva. Stanotte proponevi di aumentare di 5 o addirittura 7 miliardi di euro il gettito Iva”. Al che il ministro della Cultura va di rima: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Invece Renzi si nutre di prosa, e quindi in serata lo ridice a Stasera Italia: “Di certo non voteremo l’aumento dell’Iva”. Fuori, a tenersi a galla, ci sono sempre i 5Stelle. “Di questi tempi viviamo alla giornata” soffia un graduato grillino. Cioè primo non prenderle, per il Di Maio che ha diversi insorti alla porta e tanta stanchezza arretrata dalle Europee del 17 per cento. Quindi meglio dire no, sull’Iva. E se anche Renzi lo strepita, e vabbè, è la politica.