Il Patto di Conte: “Pagamenti online contro l’evasione”

È una partita fatta di virgole, di commi, ma da cui Giuseppe Conte vuole far uscire un messaggio univoco: “Un patto con gli italiani” basato su riduzione delle tasse, interventi apprezzabili immediatamente, svolta sulla moneta elettronica e poi una serie di interventi che andranno dettagliati nei Collegati alla manovra. “Non ci accontentiamo di sterilizzare l’Iva”, ha spiegato ieri sera in conferenza stampa, “vogliamo ridurre le tasse”. La decisione, ieri mattina, di scendere fuori da Palazzo Chigi, non era stata quindi solo un messaggio a Matteo Renzi o a Luigi Di Maio, da cui è pressato costantemente, ma di rivolgersi al suo interlocutore privilegiato: il popolo italiano. E in serata, quando si presenta in conferenza stampa dopo l’approvazione della Nadef, Conte insiste sulle linee guida positive della manovra: il Green Deal e “la transizione energetica”; la digitalizzazione dell’economia e della Pubblica amministrazione, la riduzione del cuneo fiscale, il Family Act (tanto caro a Matteo Renzi) e un punto su cui si è assunto direttamente la responsabilità, il Codice per le disabilità.

“Vogliamo un patto sociale, economico e incentivi alla moneta elettronica, senza penalizzare nessuno”, spiega Conte e il messaggio passa per l’ipotesi di ridurre alcune tassazioni che più pesano nei portafogli famigliari, come le bollette di luce e gas, di fare un salto culturale nell’utilizzo di strumenti informatici per i pagamenti, in modo da tracciarli meglio e dare un colpo così all’evasione: “Non è solo un incremento dei pagamenti digitali, ma anche un recupero dell’evasione”.

Sull’ipotesi di una “carta di pagamento” Conte scommette molto. Per questo il governo ha già attivato i contatti con le banche “perché producano una carta base senza nessuna provvigione”, è il ragionamento che si fa a Palazzo Chigi. Conte vuole chiamare in causa anche Poste perché “chi non ha nemmeno il bancomat possa avere una prepagata gratuita” e attivare così una competizione virtuosa con il settore bancario. L’obiettivo è garantire transazioni prive di oneri, per lo meno quelle fino a 50 o 100 euro da esentare da qualsiasi commissione: “Non dobbiamo dare fastidio a nessuno”, ripete Conte ai collaboratori, “se non a chi fa il nero”.

Il Patto con gli italiani è dunque in primis questo, uno sconto per chi utilizza moneta elettronica con qualche disincentivo per chi utilizza il contante.

Ma a Palazzo Chigi si sta ragionando anche sull’opportunità di introdurre delle precise detrazioni fiscali per le spese effettuate verso quei lavoratori autonomi – elettricisti, idraulici, ma anche conti al ristorante o in albergo – in cui si annida il pagamento in nero. In questi casi, invece, si dovrebbe consentire di detrarre quelle spese, sia per chi effettua la prestazione lavorativa, sia per chi la riceve. Si potrebbe, nel caso la norma fosse introdotta in legge di Bilancio, ricevere così un bonus fiscale annuale da cumulare alla fine dell’anno.

L’idea di ridurre la pressione è una costante – se ci si riuscirà è tutto da vedere, la discussione di ieri non è stata molto benaugurante – e Conte vuole rimpolpare il Fondo per la riduzione della pressione fiscale, istituito nel 2014, e in cui riversare tutto l’extragettito che le nuove misure di lotta all’evasione fiscale potranno generare. Nella Nadef approvata ieri, l’ammontare di risorse da destinare al Fondo è valutato, “per ragioni prudenziali”, solo a 400 milioni. “Pertanto – si legge, in sede di predisposizione del disegno di legge di Bilancio 2020 –, saranno iscritti 0,37 miliardi nello Stato di previsione dell’entrata e, contestualmente, nel predetto Fondo per la riduzione della pressione fiscale”.

A chi nel M5S si è preoccupato per un intervento penalizzante verso le partite Iva, in particolare rivedendo la “flat tax” speciale che il governo aveva già varato portando la tassazione al 15% per i redditi fino a 65 mila euro, Conte invia un messaggio rassicurante. Non solo la norma non sarà modificata, come ha ribadito domenica scorsa il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ma forse si potrebbe pensare di ridurre l’aliquota anche per i redditi tra i 65 mila e i 100 mila euro. Non ci sono le risorse per applicare l’aliquota del 15% anche per redditi fino a 100 mila, si ragiona a Palazzo Chigi, “ma qualche segnale dovrebbe essere dato”.

Ma Conte sta riflettendo anche su un altro intervento molto difficile e delicato, ma dalla portata rilevante: le cassette di sicurezza. Intervenendo la scorsa estate alla festa del Fatto Quotidiano, il procuratore milanese Francesco Greco aveva ricordato che “nelle cassette di sicurezza ci sono 200 miliardi di euro che si possono recuperare. Tutti evasori”.

Conte ha già parlato con Greco e il governo ha già convocato la Banca d’Italia cui è stato chiesto di fare delle proiezioni sui possibili interventi e sulle entrate ricavabili.

Non c’è però al momento alcuna certezza sulle quantità effettive depositate nelle cassette di sicurezza, intaccabili da un intervento fiscale, e poi – si ragiona negli uffici del premier –, si dovrebbe evitare comunque di fare un favore a mafiosi e criminali nel caso di ipotesi di voluntary disclosure su risorse illecite e che potrebbero essere ripulite.

La tassa bifronte: storia di come è passata da cassa a spada di Damocle su tutti i governi

In 46 anni dalla sua entrata in vigore se ne sono viste di tutti i colori. E non potrebbe essere altrimenti anche oggi visto che l’Imposta sul valore raggiunto (Iva) è uno degli strumenti preferiti dai governi per far cassa e dalla sua nascita, l’aliquota ordinaria è quasi raddoppiata passando dal 12 al 22 per cento. Nel 1987 fu persino oggetto di uno scontro con Bruxelles che obbligò l’Italia ad abbassare l’Iva sullo champagne per allinearla a quella del prosecco.

Per coerenza ci fu chi domandò una sforbiciata anche all’imposta sulle ostriche, che correvano il rischio di essere classificate come prodotto di lusso con Iva al 38%. Toccò poi agli artisti che chiesero Iva “leggera” per le opere d’arte vendute in galleria. Infine, in tempi più recenti, è stato il turno degli assorbenti che, secondo una proposta di Possibile, dovrebbero averla al 5 % e non al 22. Proposta respinta dalla Ragioneria dello Stato per i 300 milioni di costo per le casse pubbliche.

Difficile trovare soldi per ridurre un’imposta con un gettito 2018 da 109 miliardi e con un meccanismo tutt’altro che progressivo: l’Iva è infatti una tassa pagata dal consumatore finale, che resta con il cerino in mano e non può scaricarla in alcun modo.

Dalle origini è stata strutturata su tre scaglioni per “modularne” l’effetto. Originariamente c’era un’aliquota sui beni di lusso, che negli anni 80 era al 38%. Poi è scomparsa e sono rimaste tre fasce: beni di prima necessità (4%), agevolata (10%) e ordinaria (22%). Ancora a fine anni 80 si ipotizzava che avrebbe dovuto allinearsi all’interno dell’Unione. Perché “è impensabile aprire le frontiere alle merci in presenza di prodotti tassati in maniera fortemente diseguale” spiegò il vicepresidente della Commissione, Lord Francis Arthur Cockfield nel 1987. Invece, nel tempo si è trasformata nella spada di Damocle che pende sulla testa di ogni governo italiano, specie dal 2011. Come è potuto accadere? Con la tecnica della quadratura dei conti a breve per ottenere il benestare di Bruxelles alla legge di Bilancio. Un’operazione che, in buona sostanza, si trasforma in una serie di promesse di tagli e rincari. È in questo quadro che nascono le clausole di salvaguardia, meccanismi di incremento automatico dell’Iva nel caso in cui il Paese manchi gli obiettivi di bilancio.

È stato il ministro Giulio Tremonti, nel bel mezzo della crisi che poi fece cadere il governo, a mettere le basi per un compromesso con l’Ue. Il 5 agosto 2011 i vertici entranti e uscenti della Bce inviano a Roma una lettera di fuoco in cui, secondo quanto riferirà poi il professore di Sondrio, si vincola l’acquisto di titoli di Stato italiani in piena febbre dello spread al varo di una serie di misure da parte del governo. Per uscire dall’angolo, l’esecutivo Berlusconi decide di impegnarsi a coprire 20 miliardi di spese già in bilancio entro settembre 2020 con una sforbiciata alle agevolazioni fiscali o, in alternativa, con un aumento dell’Iva.

A detta di Tremonti, la clausola è priva di valore giuridico perché non ci sono effetti vincolanti e specifici. Fatto sta che a Bruxelles la prendono seriamente. Caduto il governo Berlusconi, Mario Monti dà attuazione alle clausole con tagli alla spesa previdenziale, Imu e incrementi Iva dal 2013. Concretamente, il primo ritocco dell’imposta (da 21 al 22%) arriva con il governo di Enrico Letta che promette alla Ue nuovi aumenti Iva e tagli ad agevolazioni e detrazioni per assicurare maggiori entrate fra il 2015 e il 2017 per un totale di 20 miliardi. Non è da meno il governo Renzi che con la stessa tattica fa lievitare il conto finale. Così quando Paolo Gentiloni arriva a palazzo Chigi può solo disinnescare le clausole 2018 e ridurre in parte quelle 2019 passando la palla governo Conte, che, nella prima versione, amplia ancora i ritocchi all’insù di Iva differiti. Il risultato? Dei quasi 30 miliardi di aumenti futuri un terzo è riconducibile all’eredità di Letta, un terzo a Renzi e un terzo a Conte.

Reddito all’ex brigatista, l’Inps: “Verifiche, ma la legge è chiara”

Federica Saraceni, ex Br condannata a 21 anni e mezzo di carcere per l’omicidio di Massimo D’Antona e attualmente ai domiciliari, sta ricevendo il reddito di cittadinanza. La notizia, data nelle scorse ore da La Verità, ha generato una forte polemica politica, tanto che il ministero del Lavoro ha annunciato una verifica, di concerto con il Ministero della Giustizia e l’Inps “al fine di accertare l’eventuale presenza di anomalie”.

Era il 20 maggio 1999 quando un commando uccise il giuslavorista Massimo D’Antona. Federica Saraceni, figlia dell’ex magistrato Luigi, fondatore di Magistratura democratica e parlamentare con Pds e Verdi, in primo grado era stata assolta dall’accusa di omicidio; la seconda Corte di assise di Appello di Roma, invece, le ha inflitto complessivamente 21 anni e 6 mesi di reclusione. Agli arresti domiciliari, vive a Roma con i due figli, sotto la soglia di povertà e per questo le è stato riconosciuto l’aiuto di 623 euro al mese. Secondo quanto dichiarato ieri dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, è tutto regolare. “Stiamo verificando. I requisiti reddituali, patrimoniali e occupazionali, requisiti che competono all’Inps, ci sono – ha detto -. La norma prevede che se la persona ha ricevuto una condanna nei dieci anni precedenti c’è il blocco. Lei l’ha ricevuta 12 anni fa. Basta leggere la legge.” Il Pd, con una nota dell’ex ministro Marianna Madia, parla di una “norma sbagliata” sulla quale “bisogna intervenire.” Durissima la Lega: “La Lega non parteciperà a nessun lavoro d’aula e di commissione finché il governo non spiegherà questo scandalo e quest’ingiustizia sarà sanata” hanno detto i due capigruppo Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari. È intervenuta anche Olga D’Antona, ex parlamentare e vedova di Massimo D’Antona: “Ho provato un grande senso di ingiustizia. Non sempre quello che è legale è giusto. L’ingiustizia non la subisco io, ma – conclude – la subiscono tutti i cittadini. La norma va rivista”.

Aumenti selettivi, la linea Pd-Chigi (per ora) non passa

La sintesi, brutale, è questa. Una volta stabilito che il deficit non salirà oltre il 2,2% del Pil, la manovra pone la maggioranza di fronte un bivio. Per finanziare qualsiasi brandello di programma elettorale, che in sostanza si traduce nel taglio del cuneo fiscale, servono coperture che al momento non ci sono. O meglio, il Pd le ha individuate in aumenti selettivi dell’Iva da compensare con sconti per chi usa i pagamenti elettronici. Una linea ostacolata da M5S e Italia Viva di Matteo Renzi, ma che vede concorde il premier Giuseppe Conte.

Lo scontro, sfociato in una tesa riunione di domenica sera a Palazzo Chigi, è presto spiegato. Al ministero dell’Economia, lo staff di Roberto Gualtieri, nonostante le smentite, ha avviato le simulazioni da giorni. Per tagliare il cuneo fiscale servono 5 miliardi. Ma tra maggior deficit, risparmi su Quota 100 e Reddito e sul costo del debito a stento si riescono a sterilizzare i 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva previsti per il 2020. Giovedì sera, a Palazzo Chigi sono arrivate le prime simulazioni concrete. Gualtieri ha proposto due ipotesi: nella prima l’aliquota Iva del 4% resta com’è, mentre quelle del 10% e del 22% salgono di 1,5 punti. Un aumento compensato da un meccanismo di cashback. Funziona così: chi paga in contanti si sobbarca l’aumento pieno; chi usa la carta avrà uno sconto del 3%, che verrà versato nel mese successivo. La seconda ipotesi è di far passare solo l’aliquota intermedia dal 10% al 13%, con un cashback intorno al 4%. È quella che si paga su prodotti e servizi del settore turistico (alberghi, pizzerie, hotel, ristoranti), che sicuramente vi rientreranno, ma anche su alimenti come carni, pesce, dolciumi e latte. Ieri Conte ha spiegato che l’intenzione è di retrocedere alcuni beni da un’aliquota all’altra per compensare la misura: il pane, per dire, passerebbe dall’aliquota agevolata al 4% all’1% “per le fasce di reddito basso” e le bollette dal 10 al 5%. Entrambe le misure portano in dote 5-7 miliardi, ma colpirebbero soprattutto le fasce di reddito più basse e si basano su meccanismi complessi: serviranno accordi con le banche e le Poste, e in ogni caso i turisti (e gli stranieri non residenti) sono esclusi dal cashback.

Il nodo, però, è politico. Giovedì i 5Stelle avevano già manifestato i propri dubbi. Che domenica sera, vista l’insistenza di Gualtieri e del Pd, si sono tradotti in una bocciatura formale di Luigi Di Maio, spalleggiato da Italia Viva. Anche perché entrambe le ipotesi, nei calcoli del Tesoro, sono accompagnate da un taglio alle detrazioni fiscali, e ai sussidi ambientali dannosi da 1,7 miliardi, che si traduce in un aumento delle tasse. A questo verrebbe aggiunto un altro cashback annuale, sotto forma di rimborso fino a 475 euro per un massimo di spesa di 2.500 euro, sulle spese compiute nell’anno precedente con la carta in settori più a rischio evasione, dai lavori di idraulica alle prestazioni professionali (il “bonus befana” l’hanno ribatezzato i comunicatori di Palazzo Chigi). Sempre per fare cassa, la mini flat tax al 20% per le partite Iva fino a 100 mila euro di reddito – che doveva scattare quest’anno – salirebbe al 23% e per redditi fino a 85 mila euro.

Nel weekend, Di Maio ha realizzato che presentarsi alle prossime elezioni regionali (il 27 ottobre, per dire, si vota in Umbria) con un aumento delle tasse, per quanto selettivo e calmierato da misure compensative, aprirebbe il fianco alla Lega e regalerebbe spazio a Renzi, che ieri ha annunciato che Italia Viva al Senato “voterà contro qualsiasi aumento dell’Iva”. Anche perché metà del gettito se ne andrà comunque per sterilizzare le clausole di salvaguardia e così il taglio del cuneo si ridurrebbe a 2,5 miliardi e partirebbe da luglio. Per i 5Stelle è meglio non fare nulla e limitarsi a evitare gli aumenti. Il Pd, però, insiste. Ieri Conte ha chiesto a Di Maio di trovare un’alternativa. Dal M5S è filtrata l’ipotesi di un “software anti frodi”. Gettito previsto: 7 miliardi. Vasto programma.

Stop all’Iva e poco altro: il primo Def dei giallorosa

L’obiettivo finale sarà raggiunto: disinnescare i 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva previsti nel 2020. Oltre questo, però, al momento la manovra giallo-rosa promette poco o nulla, se non un libro degli impegni fatto di maggiori investimenti verdi, la riduzione del cuneo fiscale, ma anche tagli di spesa, qualche aumento di imposte e una lotta all’evasione che dovrebbe portare una dotazione monstre di 7 miliardi. Tutto grazie a una tregua sul 2020 per quanto riguarda la riduzione del deficit, che però ripartirà dal 2021.

È in sintesi il quadro che emerge dalla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Sul primo documento, che fa da cornice alla legge di Bilancio, attesa dopo la metà di ottobre, c’erano forti aspettative. La realtà, però, è che per ora si tratta di piccolo cabotaggio.

In conferenza stampa, il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia sono cauti. “Non si tratta di una manovra restrittiva”, spiega Roberto Gualtieri. Difficile, però, chiamarla espansiva. La crescita nel 2019 si fermerà allo 0,1% per salire allo 0,6% il prossimo anno. Il governo porterà il deficit pubblico nel 2020 al 2,2% del Pil, sostanzialmente in linea con quello del 2019 e di poco superiore agli impegni fissati ad aprile scorso. In sostanza una tregua sul 2020: invece di correggere il deficit strutturale (al netto del ciclo economico e delle misure una tantum) dello 0,6% come chiesto da Bruxelles, il saldo peggiora dello 0,1%. Già dal 2021, però, il governo si impegna a ridurre il deficit all’1,8% per arrivare all’1,4 nel 2022. Una stretta fiscale da quasi 7 miliardi l’anno in un biennio. Il debito pubblico è previsto in lieve calo il prossimo anno, dal 135,7 al 135,1% del Pil.

Nonostante le pressioni della sua maggioranza, Gualtieri non ha voluto scontrarsi con Bruxelles e la nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen, dove pure agli Affari economici siede un italiano, Paolo Gentioloni, accontentandosi di un piccolo ritocco del disavanzo.

Dalla cornice ristretta discende tutto il resto, comprese le fibrillazioni della maggioranza. A conti fatti la manovra vale quasi 30 miliardi, di cui 14 arrivano dal maggior disavanzo. Gli altri 14 andranno trovati. Nel documento il governo spiega che oltre 1,7 miliardi arriveranno da tagli di spesa, altrettanti dalle riduzione delle tax expenditures, cioè le detrazioni fiscali e dei sussidi ambientali dannosi. Stesso importo si pensa di ottenere prorogando l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione di terreni e partecipazioni. Il grosso, però, arriverà dai 7 miliardi cifrati sotto la voce “lotta all’evasione”. È la cifra da aggiungere ai 23 miliardi di aumenti Iva automatici da sterilizzare (le “clausole di salvaguardia”) per chiudere il conto della manovra. Queste risorse serviranno per finanziare un primo taglio del cuneo fiscale, cavallo di battaglia del Pd, che per il 2020 vale solo 2,5 miliardi. Dovevano essere 5 ma la coperta è corta e quindi la misura partirà da luglio. Nel 2021, promette il governo, raddoppierà.

Per riuscire anche in questa piccola operazione è vitale che dal capitolo fiscale arrivino tutte le risorse previste. Sulle misure, però, nella maggioranza è guerra aperta (lo leggete a destra). Il Pd, con l’avallo di Conte, vorrebbe prenderle con aumenti selettivi dell’Iva da compensare con rimborsi per chi paga con strumenti elettronici e riducendo le aliquote su alcuni beni (come la pasta o le bollette). Ipotesi bocciata da M5S e Italia Viva di Matteo Renzi. L’accordo finora non c’è stato e quindi il documento si limita solo a fissare l’obiettivo.

Impegni vaghi e ridimensionati riguardano anche l’altro capitolo rilevante del programma giallorosa: la riconversione energetica (il green new deal. Il governo punta a chiedere flessibilità a Bruxelles per scorporare gli investimenti dal deficit per lo 0,5% del Pil nel 2020, circa 9 miliardi. Difficile riesca a ottenerli tutti. Il Def annuncia che saranno creati due nuovi fondi di investimento, assegnati a Stato e Enti territoriali, per un ammontare complessivo di 50 miliardi “su un orizzonte di 15 anni”, cioè circa tre l’anno. Le risorse andranno a finanziare progetti di rigenerazione urbana, riconversione energetica e incentivo alle rinnovabili. Al momento, poco o nulla c’è sul fronte università, scuola e sanità. Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti aveva chiesto 3 miliardi (“O mi dimetto”). Ieri ha preso atto “che sulla scuola non ci sono tagli”. La partita si sposterà nella manovra. Salvini già attacca: “È una truffa, hanno tradito tutte le promesse”

Il piacere dell’onestà

Questi giallo-rosa sono dei bei tipi. Hanno l’occasione storica di cambiare l’Italia con una manovra che non solo combatte per la prima volta l’evasione, ma rende pure conveniente pagare le tasse a chi non le paga, le taglia a chi le paga e manda in galera chi continua a non pagarle. Questo è il senso del “patto con gli onesti” lanciato da Conte a tutti gli italiani: agli onesti perché lo rimangano senza sentirsi i soliti fessi, pagando meno tasse; e ai disonesti che vogliono diventare onesti perché si mettano in regola a condizioni vantaggiose, prima che cali la mannaia giudiziaria. Ma, anziché fare a pugni per intestarsi questa campagna, strapparsela di mano e metterci la faccia, i leader della maggioranza fanno a gara a prenderne le distanze, a lanciare ultimatum su Iva e manette, a fare gli schizzinosi. Renziani e pidini difendono le loro soglie d’impunità, che rendono impossibile arrestare (e pure scoprire, intercettare e processare) un evasore o un frodatore, anche se s’impegna allo spasimo per finire dentro. Il M5S, che pure ha l’ottima legge Bonafede bocciata da Salvini, insiste sui “grandi evasori”, come se i 110-150 miliardi all’anno di evasione non fossero la somma di operazioni di varia grandezza: quelle grandi verso i paradisi fiscali, quelle medio-piccole verso i materassi, le cassette di sicurezza, l’economia nera e i pagamenti in contanti. Perciò Conte vuole agire su più fronti con incentivi alle condotte virtuose e deterrenti a quelle viziose.

Il primo vizio è quello che fa dell’Italia l’ultimo paese Ue (persino dietro la Grecia) per pagamenti elettronici. Lo si combatte alzando un po’ l’Iva (dell’1-1,5%) a chi paga in contanti e abbassandola (sotto le soglie attuali) a chi paga con carta, previa garanzia di commissioni bancarie gratuite sotto una certa soglia. Chi non ha la carta di credito o il bancomat basterà che vada alle Poste, anche per la pensione, e chieda una prepagata a costo zero; o, se naviga online, usi una app ad hoc. Così l’Iva non aumenterà per nessuno, salvo per chi se la aumenta da solo ostinandosi a pagare in contanti. La seconda mossa è quella delle detrazioni fiscali sulle prestazioni da lavoro autonomo, sia a chi le fa sia a chi le riceve: se posso detrarre dalle tasse i lavori dell’idraulico, dell’operaio o dell’elettricista e anche qualche cena al ristorante, avrò interesse a chiedere la fattura o la ricevuta al professionista, che ci guadagnerà anche lui; e, se rifiuta, rischierà non solo la galera, ma anche la concorrenza dei colleghi pronti ad accettare. Un politico degno di questo nome si vanterebbe con gli elettori di questa rivoluzione e rischierebbe persino di guadagnarci dei voti: cosa vogliono di più, questi giallo-rosa?

“Moch’è domani”: la lingua irreale da Foggia a Lecce

Si va dalle concessioni ai bambini: “Va bene a mamma, puoi correre ma senza sudare”, “Vai piano con la bicicletta, ancora t’accappotti”, ai consigli per figli grandi: “E portati una cosa di soldi che non si sa mai” , “Vedi che fuori fa freddo, mettiti una maglia più doppia”. Dalle prescrizioni per le faccende domestiche: “Passami la pezza di a terra che devo dare un’altra botta alla cucina” (Trad. “passami lo straccio per i pavimenti che devo lavare nuovamente quello della cucina”), alle informazioni di servizio: “Dov’è tuo marito? Sta dentro sua cognata” (Trad. “È a casa di sua cognata”). La Puglia è uno stato d’animo, soprattutto per chi è costretto a lasciarla, ma è anche un meraviglioso fiorire di espressioni irriverenti ed esilaranti: “Ma quest’anno come cadono i morti?”. Lo sa bene Michele Galgano, che nel 2014 ha dato vita a quello che doveva essere un blog di nicchia e che oggi è diventato una “comunità” che conta quasi 400 mila followers sia su Facebook che su Instagram. “Inchiostro di Puglia” l’ha chiamato, e sicuramente quello del tacco d’Italia è un inchiostro indelebile, che non si cancella neanche quando vivi lontano da casa. “Stai bene tu, che là c’avete il lavoro, i soldi, fate la bella vita, che problemi avete voi”, ha scritto l’altro giorno Maurizio sulla pagina, “ma spesso mi viene da dirgli ‘cosa ne sai tu di come ci si sente, lontano dai genitori che pian piano vedi invecchiare’”. E fin qui potrebbe essere il racconto di qualsiasi emigrante.

Ma la Puglia – ci sia concesso l’afflato nostalgico – non è solo questo. Non è neanche soltanto cibo (“Nonna, gli amici a scuola mi sfottono che sono grasso”. “Non dare adenza e finisci tutto il piatto alla nonna. Accompagna con il pane”), né vacanze (“Hai finito il mare?”), né geografia (“Vieni dalla Puglia?”. “Sì, da Marina di Lesina”. “Sono stato da quelle parti, a Santa Maria di Leuca”. Distanza 450 km). Quello che da sempre i non pugliesi cercano invano di imitare è, appunto, la lingua. I dialetti o gli accenti variano da provincia a provincia ma anche da centro a periferia, ma il linguaggio è unico, con il suo colore, la sua praticità, il suo espressionismo. E allora ecco che nascono le magliette, le tazze, le cover per i telefonini. Da Tokyo, Sharm el-Sheikh, Londra o anche solo dal profondo Nord Italia, i pugliesi emigrati postano foto con il proprio inchiostro in bella mostra. “Quanda moss” (Trad. “Quante arie”), verrebbe da dire, se uno non avesse trascorso almeno una vacanza in Puglia senza portarsi dietro una profonda saudade (oltre alla focaccia. A proposito, “è uscita?”). Non si pensi affatto a una cosa da niente: nel 2015 36 autori pugliesi hanno realizzato il libro di Inchiostro di Puglia, anche per supportare le piccole librerie. Ai raduni ci si va persino con Flixbus – l’ultimo, il 12 settembre scorso a Milano –, perché “la vita è una strada fatta di bivi e chitebbivi” (insulto) e non si sa mai domani, “moch’è domani si penza” (Trad. “Ora che è domani si pensa”). A proposito, adesso chi scrive deve andare, perché “le robbe vogliono essere stirate”.

Il “Re leone” ora vuole mettere alla porta 100 lavoratori italiani

In queste settimane, la rivisitazione del Re Leone sta ottenendo incassi da record, che in Italia hanno superato i 36 milioni di euro. Sempre in questi giorni, Disney e Fox – unite da marzo – stanno licenziando più di cento persone nelle sedi di Roma e Milano. E la cosa curiosa è che questi colossi mondiali dell’intrattenimento non siano nemmeno stati convocati al ministero dello Sviluppo economico. Finora se la sono cavata con due trattative regionali: una per 59 dipendenti Fox nel Lazio e l’altra per 42 dipendenti Disney in Lombardia. Come se si trattasse di due piccole imprese locali e non di due giganti che, tra l’altro, sono diventati un unico soggetto. Corretto sul piano formale, ma vista la particolarità i sindacati della comunicazione vorrebbero un solo tavolo presieduto dal governo.

Sommando il personale nel nostro Paese, oggi le due società occupano 366 addetti. Con questa sforbiciata diventerebbero 265. Ma non è detto che nel frattempo non se ne perdano altri, perché il progetto di Disney è tenere Milano come quartier generale. Quindi 99 lavoratori che oggi sono in servizio a Roma dovrebbero spostarsi e una parte potrebbe sentirsi costretta a lasciare. Oggi intanto ci sarà una riunione in Regione Lombardia. Il capoluogo ha già subito un taglio di 14 unità nel 2017; ora dovrebbe accogliere quelli “traslocati” dalla Capitale e nel frattempo perderne 59 tra i suoi. “Noi chiediamo che i lavoratori vengano ricollocati – dice Tommaso Argento della Slc Cgil di Milano – Un’azienda di queste dimensioni ha tutte le possibilità per trovare una soluzione. In ogni caso, ogni uscita dovrà essere su base volontaria. Stiamo cercando di ottenere le migliori condizioni possibili”. La posizione del sindacato è questa: Disney e Fox sono talmente grandi da poter ridurre l’impatto di questa operazione ma, se proprio hanno ricevuto il mandato internazionale di ridimensionare le sedi, che almeno accompagnino alla porta solo quelli che accetteranno un incentivo. Due partite parallele, bisogna convincere il colosso a non licenziare e nello stesso tempo a fare una buona offerta per chi è disposto ad andarsene con un indennizzo. “Se Disney non accetta che le uscite siano solo volontarie, non ci sarà nessun accordo”, avverte Massimo Luciani della Slc nazionale.

Sullo sfondo di questa riorganizzazione, le nuove strategie della Disney, che sta per lanciare Disney Plus, un servizio di tv non lineare che farà concorrenza a Netflix. Per questo progetto, ha acquistato nel 2017 la piattaforma BamTech. L’intenzione è quindi liberarsi delle maestranze finora usate per i canali tradizionali, assumere nuove professionalità con un saldo negativo tra ingressi e uscite per contenere i costi. “Secondo noi – aggiunge Luciani – dovrebbero mantenere l’attuale organico come nucleo per gestire la transizione e poi far entrare i giovani per le innovazioni”. Anche perché “esendo stato posticipato di due anni il rilascio della frequenza 700 Mhz per il 5G – sostengono al sindacato della Cgil – nell’immediato l’Italia non sarà considerato il mercato ideale per le piattaforme non lineari”.

La lunga e tortuosa via verso l’elettrone

Che fatica, queste auto a batteria. I costruttori le incensano a parole, salvo poi maledirle in privato, come potete leggere nel pezzo qui accanto. Senza l’elettrone, comunque la si veda, non si potranno mai rispettare le norme Ue sulle emissioni in vigore da gennaio. Ma, anche qui, chi dichiara nei vari sondaggi di essere disposto ad acquistarle, arrivato al dunque fa altre scelte. E senza una massa critica a livello commerciale, addio al business. A fronte di investimenti miliardari, che la corsa all’elettrico ha imposto. Intendiamoci, non che l’offerta manchi: negli ultimi cinque anni si è praticamente raddoppiata, potendo contare ad oggi su una sessantina di modelli. E anche sul versante delle vendite pare che qualcosa si muova, se è vero che in Italia nei primi otto mesi dell’anno le auto ibride (comprese le plug-in) sono cresciute del 25,7% rispetto allo stesso periodo del 2018, arrivando a valere il 4,9% del mercato. Anche le elettriche, nel loro piccolo, sono in aumento: ad agosto hanno raggiunto quota 6.451 immatricolazioni, in pratica il doppio rispetto allo scorso anno, pur pesando ancora solo lo 0,6%. Eppure si continua a viaggiare col freno a mano tirato, vuoi per i listini ancora alti, vuoi per le infrastrutture di ricarica carenti. Tanto per fare un esempio, in Italia le colonnine sono circa 8.200, di cui mille nella sola Lombardia. La rete è tutta da costruire, così come la coscienza elettrica. Non bisogna dimenticare che una nuova tecnologia attecchisce solo se conviene di più rispetto alla vecchia, e se cambia in meglio le abitudini della gente.

BMW serie 3 Touring, l’Elica di nuova generazione

L’ingegnere Max Reisböck desiderava andare in vacanza con la sua famiglia a bordo della sua BMW Serie 3 berlina: ma a metà degli anni ’80 il bagagliaio dell’auto era troppo piccolo per le sue esigenze. Perciò, decise di costruirsi una versione giardinetta da solo, lavorandoci per sei mesi. L’auto piacque a BMW, che nel 1987 la mise in produzione con poche e minimali modifiche: da allora, di Serie 3 “Touring” ne sono state vendute oltre 1,7 milioni di unità. L’ultima edizione del modello è appena arrivata sul mercato italiano: lunga 4,71 metri, offre un bagagliaio da 500 litri di capacità e ribaltando gli schienali dei sedili posteriori il volume utile arriva a 1.510 litri. Nell’abitacolo, rifinito con grande cura, figurano il display della strumentazione digitale da 12,3” e quello del sistema infotelematico da 10,25”, completo di comandi vocali avanzati. La spaziosità interna, poi, va a braccetto col consueto piacere di guida delle auto dell’Elica: merito di una costruzione più rigida del 25% rispetto alla generazione precedente, del baricentro basso e di una distribuzione del peso del 50:50 fra i due assi. A richiesta l’assetto ribassato di 10 mm, la trazione integrale – di serie sulle versioni più potenti – ed i fari laser, capaci di illuminare fino a 530 metri di distanza. Chi ama la sportività apprezzerà le sospensioni adattive, i freni maggiorati e il differenziale posteriore autobloccante a controllo elettronico. La gamma motori comprende unità propulsive diesel e benzina con potenze da 150 a 374 Cv, quasi tutte abbinate al cambio automatico a 8 rapporti. Prezzi da 39.750 euro.