2020: multe in arrivo. Ecco il piano anti–stangata

Nella guerra di religione tra auto e CO2, ora è tempo di confessioni private. A smartphone spenti, lontani dai selfie social dove le aziende si dichiarano più idealiste degli ambientalisti. Adesso l’unica richiesta di molti manager che abbiamo incontrato è l’anonimato, mentre raccontano il viaggio dell’auto europea e italiana verso questo grande imbuto. Dal primo gennaio prossimo ogni gruppo dovrà avere una media di emissioni di tutte le auto dei propri marchi pari a 95 g/km di CO2. La multa prevista per chi sfora è di 95 euro per grammo di CO2 oltre il limite, moltiplicato per il numero di auto vendute. Solo nel 2020 il 5% dei veicoli più inquinanti non sarà conteggiato, ma lo smottamento è tale da stravolgere le previsioni italiane di vendite già assestate per il 2019, a quota 1,9 milioni. Le aziende starebbero allestendo un vero Piano Marshall a chilometri zero, immatricolando cioè ai propri concessionari le vetture a maggiori emissioni in modo massiccio entro il 31 dicembre, dribblando così le multe in arrivo dal 1 gennaio, contabilmente maggiori della eventuale perdita. Le previsioni reali parlano di un totale di immatricolazioni a fine anno che può toccare quota 2,1 milioni, salvo l’inevitabile tracollo nei primi tre mesi del 2020, a mercato saturo e sindrome a batterie in corso.

L’organizzazione ambientalista Transport&Environment ha stimato che la produzione di veicoli elettrici in Europa dovrebbe superare i 2 milioni tra 6 anni, raggiungendo una quota del 13%. È l’unica strada che le case automobilistiche hanno a disposizione per abbattere il proprio monte emissioni, ma commercialmente la giudicano un vicolo cieco.

Per le aziende significa mettere a bilancio le mancate multe piuttosto che gli introiti, scalando fin da subito i prezzi al ribasso a caccia di clienti, innescando un meccanismo di obiettivi di vendite irrealistici. Con il paradosso di singole Case che già oggi, ma su documenti non ancora ufficiali, si propongono di commercializzare nel 2020 nel nostro Paese più auto elettriche di quante il mercato ne abbia assorbite nei primi otto mesi del 2019, ovvero 6.451, che poi è meno dell’1% del totale.

E intanto in Italia diventa virale l’ironia sull’ibrido plug-in, che consente di omologare auto con un livello di emissioni molto sotto la soglia dei 95 grammi di CO2, per via di batterie ricaricabili che permettono di percorrere alcune decine di chilometri in modalità solo elettrica. A patto di non eludere la norma in modo sfacciato, per sopravvivere, considerando la mancanza cronica di colonnine di ricarica. Solo nel 2020 arriveranno oltre 50 modelli di ibride alla spina. Come dire auto a metano in regioni sprovviste di distributori di gas, ma con a bordo regolare serbatoio di benzina. L’arma del trucco nella guerra di religione.

Alex&Milena, duo ritmico per spodestare la Russia

La ginnastica ritmica è uno sport che parla russo: in Russia è nata come disciplina e lì si è sviluppata; russe sono le più celebri e premiate atlete, e russe pure le più famose allenatrici. Ma vale per la lingua slava – che scrive ab origine la storiografia di questo sport – ciò che vale per tutte le lingue: subire le leggi del cambiamento. Così, dentro il lessico della ginnastica ritmica, si stanno finalmente scrivendo parole nuove. Tra queste, finanche una parola italiana. Le parole, a dire il vero, sono tre: la prima – ormai da un decennio – è “farfalle” (così sono chiamate le sei ginnaste della squadra italiana che compongono la nazionale azzurra più premiata di sempre e che racconteremo in un altro episodio di questa rubrica). Le altre due, vergate invece da poco, sono “Milena” e “Alexandra”, due atlete individualiste azzurre, due stelle. Sia detto assai elementarmente in un breve inciso: si tratta di una disciplina che fonde la danza classica con la forza acrobatica della ginnastica. Si concorre singolarmente (da individualiste) o in gruppo (a squadre), maneggiando di volta in volta uno dei cinque attrezzi codificati – che tecnicamente si chiamano “piccoli attrezzi” per distinguerli dai “grandi” della ginnastica artistica – quali palla, cerchio, fune, nastro, clavette. L’importanza a essi riconosciuta nella ritmica è dichiarata anche nella convezione linguistica internazionale. Quando un’atleta esegue l’esercizio – che in gergo tecnico si chiama routine –, non si dice per esempio “con il nastro” (“with the ribbon”), quasi l’attrezzo fosse uno strumento dell’atleta, ma “al nastro” (“at the ribbon”) poiché in quel momento l’atleta si consacra all’attrezzo, come fosse un’estensione di sé.

Le nostre Milena e Alexandra (Milena Baldassarri e Alexandra Agiurgiuculese) hanno appena conquistato ai Campionati del mondo di Baku la scorsa settimana la qualificazione alle Olimpiadi di Tokyo 2020: sono cioè rientrate tra le dieci migliori ginnaste al mondo. Non era mai capitato che l’Italia qualificasse ben due atlete. Entrambe sostenute dall’aeronautica militare, rispondono quasi in coro che è stata “un’emozione grandissima”. E domenica, Agiurgiuculese è stata ricevuta dal Papa, cui ha regalata una palla ritmica.

Sportive per caso, sognando il cinema

Alexandra (classe 2001), nome di battaglia “Alex”, è di origine rumena, concorre per l’Italia dal 2016, e ha iniziato per caso: “Mentre passeggiavo per la mia città natale, Iasi, vidi un volantino che pubblicizzava una palestra. Non appena mi presentai, mi fecero fare qualche spaccata, mi presero e in pochi mesi iniziai a gareggiare”. Casuale è stato anche per la ravennate Milena (classe 2001), che dalla madre – Natalia Choutova ex nazionale russa di nuoto sincronizzato – ha ereditato la passione per il nuoto, che ha praticato da piccola. E a Tokyo, Milena non vuole ancora pensarci: “Per ora, voglio godermi la felicità di avercela fatta”. Simili nella preparazione e nel ritmo giornaliero: si alzano presto, colazione leggera con yogurt magro, frequentano la scuola (meno ore perché atlete professioniste) e poi subito in palestra a fare danza classica e riscaldamento. A pranzo un’insalatona – “la pasta non più di due volte a settimana,” confessa Milena – e poi di nuovo in palestra a lavorare fino alle otto. Oltre alla dieta, una vita di rinunce quotidiane. “D’indole sono molto spericolata,” spiega Alex, “da piccola a scuola giocavo a rugby e a calcio, ma ora sto attenta a qualsiasi cosa possa farmi male”. E se da un lato si somigliano anche nell’ambizione di voler diventare attrici una volta lasciata la ginnastica, come atlete sono invece molto diverse: più magnetica ed elegante Milena, più esplosiva e brillante Alex. Nei loro body paillettati, vedere dal vivo un’esibizione ha un che di sublime, di ultraterreno.

Ribaltare il pronostico: “Insieme siamo più forti”

E contro lo strapotere della Russia, contro cioè le gemelle Dina e Arina Averina, campionesse negli ultimi anni di ogni kermesse, hanno iniziato a dire la loro. Ai Mondiali di Sofia nel 2018, Milena ha vinto uno storico argento al nastro, e Alex un ottimo bronzo alla palla che mancava da 27 anni dal medagliere italiano. In quelle occasioni, si sono abbracciate forte, ringraziandosi vicendevolmente. Ringraziandosi, sì. Perché “essere in due,” spiega Alex, “ti dà la forza di fare cose impossibili. Quando ho vinto io, ho vinto anche grazie a lei”. Milena è dello stesso avviso: “Siamo rivali, ma siamo soprattutto amiche, una sempre accanto all’altra”. Anche noi, allora, abbiamo le nostre gemelle azzurre della ritmica, che per Tokyo – superando un po’ di timidezza – sognano un podio, “magari insieme,” ammettono. Magari!

Tutor autostrade, un pasticcio costato allo Stato 200 milioni

Duecento milioni di euro. Tanto è costato allo Stato italiano in termini di minori incassi per multe lo spegnimento per un anno e mezzo del Tutor, il sistema per il controllo della velocità media piazzato soprattutto lungo i 3 mila chilometri della rete autostradale gestita da Autostrade per l’Italia (Aspi) dei Benetton. Un danno economico notevole a cui vanno aggiunti i morti in autostrada che si sarebbero potuti evitare e gli altri costi sociali ed economici causati dagli incidenti. Le vite umane perse a causa dell’oscuramento del Tutor sono state almeno 300 se si prende per buono il calcolo su base annua comunicato con enfasi più volte dalla stessa società Autostrade che prima di bloccare il dispositivo si vantava del contributo che esso stava fornendo alla diminuzione della mortalità. Mentre i costi sociali patiti dalla collettività sono enormi. Sempre secondo stime effettuate dalla società dei Benetton e basate su dati Istat, il peso dell’incidentalità sulle strade italiane (compresa la grande rete gestita da Aspi) è intorno ai 17 miliardi di euro l’anno. Così ripartiti: 5 miliardi per i decessi, 10 miliardi per i feriti e 2 miliardi di euro per la rimozione dei mezzi coinvolti, il ripristino delle infrastrurre danneggiate etc…

Ad aprile 2018 la società dei Benetton decise di spegnere il Tutor dopo essere stata condannata dai giudici della Corte di Appello di Roma. In quell’occasione i magistrati stabilirono che i 750 Tutor installati lungo i circa tremila chilometri delle autostrade Benetton e gli altri 250 venduti dai Benetton ad Anas, Autovie venete, comune di Roma, province di Ferrara e Brescia, non sono altro che una copia del congegno brevettato vent’anni prima dalla Craft di Romolo Donnini, un piccolo imprenditore di Lucolena, Greve in Chianti, Firenze. A sorpresa, però, un mese fa la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza d’Appello e Autostrade ha così potuto decidere di riaccendere il Tutor. Ovviamente la telenovela giudiziaria non è finita e la faccenda ora torna in Corte d’Appello, mentre tra poco più di un mese scade il brevetto di Donnini. Stando così le cose è lecito chiedersi: spegnendo un anno e mezzo fa il Tutor, Autostrade non fece altro che il suo dovere di obbedire ai dettami di una sentenza? Sì e no. Sì se la faccenda viene valutata solo in termini formali: neanche la potentissima Autostrade può sottrarsi a un deliberato della magistratura. Ma prima di bloccare il Tutor, con tutte le conseguenze negative che quella decisione si sarebbe portata dietro per la collettività, la società dei Benetton sarebbe potuta ricorrere ad altre soluzioni.

A cominciare da quella più semplice e a portata di mano: un accordo con la controparte, la Craft del piccolo imprenditore toscano che avrebbe sottratto una volta per tutte il Tutor a un contenzioso legale che si trascina da 13 anni. Proprio dall’anno in cui il signore assoluto della rete autostradale divenne Giovanni Castellucci, il manager immolato alcuni giorni fa dagli stessi Benetton quando hanno capito che non era più possibile coprire ancora il suo operato dopo il crollo del ponte di Genova e le porcherie scoperte dagli inquirenti sulle ispezioni fasulle dei viadotti.

È stato proprio Castellucci a sbarrare pervicacemente la strada a un possibile accordo preferendo continuare la lite in tribunale. Lo ha fatto senza sentire ovviamente il parere dei soggetti a suo tempo coinvolti nel lancio del Tutor, dalle associazioni dei consumatori, molto sensibili all’aspetto sicurezza, per finire con la Polizia stradale che usa il Tutor per fini istituzionali.

Stanco per aver dovuto passare una vita a difendere la sua invenzione nelle aule di tribunale misurandosi in una lotta impari con il Moloch Autostrade, Donnini sarebbe stato più che contento di aderire a una transazione e parlando con Il Fatto fa capire che si sarebbe accontentato di una somma assai lontana anche dalle centinaia di milioni persi nel frattempo dallo Stato italiano per le multe mancate. Come sempre ha fatto in questi ultimi anni, tra tutte le alternative possibili Autostrade di Castellucci ha scelto quella più vantaggiosa per la sua cassa mettendo in secondo piano gli interessi pubblici.

Confidando sulla ormai rodata passività dello Stato che per decenni ha di fatto rinunciato a svolgere il suo ruolo di concedente di un bene pubblico (la rete autostradale con cui i Benetton si spartiscono dividendi stellari) accettando ogni pretesa del concessionario.

Dopo aver conteggiato pure il Tutor tra gli investimenti effettuati sulla rete e quindi averlo fatto pesare sui pedaggi, ad Autostrade costa poco continuare con i suoi numerosi legali il braccio di ferro contro la piccola Craft di Donnini.

Se la società dei Benetton dovesse di nuovo perdere di fronte ai giudici, poco male: spegnerebbe di nuovo il Tutor scaricando ancora il danno sui cittadini.

Lotta all’evasione, le buone intenzioni non bastano

Per la prima volta da vent’anni tutti parlano di lotta all’evasione fiscale: non è che gli italiani sono diventati più onesti e i politici meno sensibili al voto degli evasori. Il problema è che bisogna trovare così tante coperture per la legge di Bilancio che, se proprio bisogna tassare qualcuno, anche i politici più riottosi si sono convinti che è meglio colpire gli evasori. Ma come?

Siamo così arrugginiti in questo dibattito che alcune delle proposte che circolano son o bislacche. Per esempio quelle sul contante. Partiamo dai punti fermi: l’evasione si regge sul contante, è assai difficile aggirare il fisco se i pagamenti dei clienti e quelli ai fornitori sono fatti con bonifici e carte. Chi lo nega è in malafede e non può produrre evidenza scientifica a supporto delle sue tesi. Secondo punto fermo: si vive benissimo anche senza contante, le solite obiezioni culturali (“siamo abituati così”) o anagrafiche (“gli anziani come fanno?”) sono assurde. Da un mese vivo negli Stati Uniti e non ho mai – dico mai – pagato qualcosa con una banconota: l’unico prelievo al bancomat che ho fatto serviva ad aprire un conto corrente americano, i bonifici internazionali restano complicati. Anche il biglietto dell’autobus si paga avvicinando la carta, o con smartphone e impronta digitale: quante competenze digitali richiede appoggiare un dito su un tasto?

Ridurre l’uso del contante è utile e possibile, ma circolano idee poco efficaci su come farlo a scopo anti-evasione. Sembra allettante la prospettiva di incentivare le transazioni elettroniche, con un rimbors da parte dello Stato tra il 2 il 4 per cento dell’importo. Anche il centro studi di Confindustria propone qualcosa di simile, con i rimborso sottoforma di credito di imposta. Ma le misure di lotta all’evasione dovrebbero, lo dice il nome, colpire gli evasori. Cioé far emergere gettito che ora lo Stato non riesce a incassare perché le transazioni che dovrebbero generarlo restano sommerse. L’incentivo ai pagamenti elettronici serve a questo? In una parola: no.

Al commerciante o al professionista evasore basta offrire al cliente uno sconto superiore al bonus fiscale per cancellare ogni effetto dell’incentivo governativo: se il cliente guarda solo al beneficio immediato e non si cura della legge, preferirà sempre pagare 90 euro in nero invece che 100 regolari con la prospettiva di riceverne indietro poi 2 o 4 quando farà la dichiarazione dei redditi. In un caso paga 90, nell’altro 96 o 98. Lo Stato sosterrebbe un costo ingente – tra i 2 ei 6 miliardi il primo anno, a seconda di come si struttura il bonus – ma l’unico vero effetto sarebbe quello di premiare i contribuenti onesti che già ora, per varie ragioni, pagano con la carta. Gli onesti ringrazierebbero, ma gli evasori continuerebbero a evadere come prima. Sarebbe pure un premio iniquo, perché i più poveri spesso non hanno un conto corrente e dunque una carta e sono incapienti, non pagando tasse non saprebbero che farsene del credito di imposta (a meno di non trasformarlo in un sussidio, comunque minimo per loro viste le scarse transazioni).

Altre idee lasciano presagire una enorme macchina burocratica dagli esiti incerti: una carta gestita da Poste per aver rimborsi Iva sui pagamenti elettronici. Se queste proposte servono soltanto a indorare la pillola di un aumento dell’Iva che colpirà come sempre più gli onesti che i disonesti, lo capiremo in fretta.

Più che investire miliardi in complessi incentivi dall’impatto nullo o negativo, sarebbe molto più efficace costringere i negozianti ad avere il Pos: la legge c’è, ma le sanzioni per chi non permette pagamenti elettronici sono di fatto assenti. É così difficile stabilire che i taxi senza Pos funzionanti non possono circolare o devono rinunciare al pagamento della corsa da parte dei clienti che vogliono pagare con carta? É mai possibile che ci siano ancora ristoranti che esbiscono il solito foglio con scritto a penna “bancomat rotto” (che poi significa: “Sono un evasore”). Certo, con il Pos pagheranno più commissioni bancarie ai gestori dell’infrastruttura elettronica di pagamento. Ma anche il contante ha i suoi costi di gestione – cassette di sicurezza, protezioni varie, il tempo che si perde ad andare e tornare dalla banca – ma sono meno percepibili e percepiti di quelli delle carte di credito perché sono spalmati su una vasta platea: tutti i contribuenti sostengono i costi di produzione e gestione delle banconote, e tutti i clienti delle banche devono contribuire pro quota alle spese per guardie giurate, furgoni blindati e telecamere che servono a proteggere il denaro degli evasori senza Pos.

Va benissimo la lotta all’evasione e la lotta al contante. Ma bisogna essere sicuri di colpire il bersaglio giusto. Sprecare i soldi incassati dai poveri contribuenti onesti e tartassati in nome della battaglia contro i ladri sarebbe l’ultima beffa. Da due anni i Cinque Stelle promettono di rivedere la soglia di non punibilità per i reati fiscali che è stata alzata dal governo Renzi nel 2015 così da rendere di fatto impossibile ai pm perseguire gli evasori in sede penale. Abbassarle non costa nulla alle casse dello Stato, porterebbe gettito e darebbe un segnale chiaro. Lo faranno, ora che non c’è più la Lega al governo e il Pd, almeno a parole, vuole contrastare l’evasione? Sarebbe un buon test per verificare se la convivenza giallorossa (e con Matteo Renzi) è davvero possibile.

I 130 anni (mai) di solitudine del Moulin Rouge di Parigi

Quando il Muro di Berlino crollò, il Moulin Rouge aveva già compiuto un secolo. Di feste. Di glamour. Di successi. Di illusioni erotiche. Cent’anni mai di solitudine. Di desideri (soprattutto) maschilisti sino alla spossatezza. Di quando mademoiselle La Goule, il 26 ottobre del 1890, la più celebre delle cocottes ed attrazione numero uno, vide in sala Edoardo VII, principe di Galles, e l’apostrofò: “Ohé, Galles, paghi tu lo champagne?”…

Con la medesima insolente sicumera e altrettanta sovrana leggerezza, domenica prossima 6 ottobre, il Moulin Rouge festeggia nel cuore di Pigalle – il vecchio quartiere a luci rosse di Parigi – gli anni diventati ormai 130. Lo fa con un tradizionale spettacolo di son et lumières proiettato sulla “sua leggendaria facciata”, come si legge negli avvisi pubblicati dai giornali e nei siti web, “all’insegna del divertimento”. E ci mancherebbe altro che non fosse così. Il Moulin Rouge è un’icona dei nostri tempi. Del nudo sdoganato, per usare una trita formula del politcally correct. Di Dio creò la donna. Di Toulouse-Lautrec che ne dipinse l’anima e il peccato, les affiches e le suggestioni. Mica è un anniversario trascurabile: si celebra un lungo viaggio nella storia del futile (ma non dell’inutile). Un vegliardo cabaret che di anni ne conta quanto quelli della Tour Eiffel, di cinque mesi più anziana. E né l’uno né l’altro vogliono arrendersi all’usura del tempo.

Sono infatti i simboli più noti e visitati (col Louvre) di una Parigi che nel 1889, in occasione dell’Esposizione Universale, volle celebrare il mito del progresso costruendo l’edificio più alto del mondo ma affiancandolo anche ad un tempietto laico – la ricostruzione di un mulino (primo edificio parigino illuminato dall’elettricità) in cui si coltivava l’essenza e l’estetica dell’erotismo. Ma anche la stordente sensazione di varcare, senza impedimenti se non quello dei quattrini, la frontiera notturna “proibita” del divertimento osée che nella capitale francese era una sorta di marchio. Una meta dei provinciali. E dei turisti che provenivano da Paesi in cui frequentare locali del genere era considerato riprovevole, e i nudi severamente sanciti, se qualcuno ne denunciava l’oscenità.

Il Moulin Rouge fu fondato con la specifica intenzione di convalidare, all’interno del vasto locale decorato con fantasie rococò, uccelli del Paradiso, gorgone e altre creature fantastiche, l’imprimatur del carattere licenzioso parigino. In realtà, lì dentro si sollecitavano i limiti e le trasformazioni del comune senso del pudore. Il 6 ottobre del 1889, all’inaugurazione si vantò l’ardimento tecnologico di Parigi, ma pure l’emancipazione di una città moderna proiettata verso il futuro che poteva assecondare la liberazione dei costumi e tollerare le audacie immorali. Il sogno di Totò, nel film che lo vede fiondarsi a Parigi per una serata trasgressiva…

Ma senza sconfinare nella volgarità. Il Moulin Rouge ha sempre puntato sulla qualità e la fantasia dei suoi spettacoli, mai banali. E sul fascino delle sue artiste: come Mistinguett, La Goulue, La Môme Fromage, Joséphine Baker. Sul suo palcoscenico si sono esibiti Edith Piaf, Yves Montand, Frank Sinatra e tanti altri mostri sacri della musica e del varietà. L’elenco è sterminato. Pure l’esasperata cura delle meravigliose coreografie è diventata leggendaria. Spesso, parentesi incantate. Come l’attuale rivista Féerie, dove il French Cancan è indiavolato ed impeccabile, coi froufrou e le giarrettiere come si deve. La nudità delle bravissime e stupende ballerine (le Doriss Girls) è ormai un pretesto. Danzano con straordinaria professionalità, e questa loro perfezione stilistica, abbinata ad un’alterigia imposta dagli organizzatori del locale, mitiga il timore dell’immoralità. Anzi. Semmai, incombe la cauzione dell’arte. L’alibi che allontana ogni rimorso del voyeur. Dell’occhio impuro.

Persino lo strip-tease, con i suoi rituali movimenti – e la gelida, studiata indifferenza delle spogliarelliste – scaccia ogni morbosità: proprio quei gesti perfetti e apparentemente maliziosi, frutto di sofisticata tecnica, le tiene a distanza dallo spettatore, e l’indifferenza acuisce l’impressione che “la loro scienza le veste come un abito”, scrisse il grande semiologo Roland Barthes (“Miti d’oggi”). Demistificando le mitologie contemporanee, Barthes scoprì già nel febbraio del 1957 (!) che al Moulin Rouge, con questa minuziosa esorcizzazione del sesso, si cercava di addomesticare l’erotismo tentando di dare agli strip-tease e ai balletti scollacciati uno “statuto piccolo-borghese rassicurante”. E familiarizzato. Tanto che lo strip assume contorni patriottici. Le ballerine del French Cancan slanciano gambe infinite, chiudono con spaccate mozzafiato, indossano strasses e paillettes trasparenti e svolazzanti coi colori della bandiera francese. È il travolgente clou che scatena entusiasmi da concerto rock. Da un secolo e tre decadi. Ogni sera, due spettacoli (il primo alle 21, il secondo alle 23), tutti i giorni dell’anno, senza requie. Il sold out impressionante del 97 per cento (600mila spettatori l’anno, in una sala che ne può ospitare 900) dimostra la validità commerciale della formula. Oggi il Moulin Rouge è incluso nei pacchetti turistici. Prenotazioni on-line. Il cabaret “piccante” più famoso del mondo attira clienti da ogni parte del mondo. Metà sono infatti stranieri e i più numerosi sono cinesi, russi, americani. Felici di sedersi ad un tavolino in platea, di ordinare l’immancabile champagne (altro eterno made in France) e stare in un luogo che un tempo era considerato, dai benpensanti, un posto di perdizione. Che forse non lo era mai stato.

Mazzette e bavagli ecco perché l’egitto è in rivolta

È la la prima volta, da quando il dittatore Al Sisi è al potere, che in Egitto ci sono manifestazioni e raduni contro il governo per chiedere la destituzione del presidente. Il regime, ormai alle strette, usa la sua arma principale per soffocare la protesta: la repressione. Più di 1.400 persone sono già state arrestate da venerdì 20 settembre ad oggi. “Erhal Sissi! Erhal!” (“Sisi vai via! Vai via!”): scandire oggi queste parole in Egitto, un paese asfissiato dalla dittatura di Abdel Fattah Al Sisi, significa rischiare la propria vita. La sera di venerdì 20 settembre, diverse centinaia di egiziani hanno deciso di correre questo rischio al Cairo, la capitale, e in altre città di tutto il paese. Le forze dell’ordine, colte di sorpresa, hanno rapidamente represso la manifestazione e disperso i coraggiosi dimostranti con i gas lacrimogeni. Gli egiziani sono tornati a mobilitarsi il giorno dopo, sabato, a Suez, nel nord-est del paese, bastione notoriamente ribelle. Circa 200 persone sono tornate a gridare “Sisi, vai via!” per il secondo giorno consecutivo. Ma a Suez, oltre ai gas lacrimogeni, la polizia ha utilizzato anche proiettili di gomma e munizioni vere.

Sono le prime manifestazioni contro il governo in Egitto da quando il maresciallo Al Sisi è salito al potere nel 2013, dopo il sanguinoso colpo di stato militare contro il presidente islamista Mohamed Morsi. La rivendicazione chiara e netta di oggi è la stessa che, nel febbraio 2011, al termine di tre settimane storiche, aveva portato alla caduta dell’inamovibile autocrate Hosni Mubarak: la destituzione del presidente egiziano. È una situazione al tempo stesso unica e straordinaria per l’Egitto, assoggettato da sei anni a uno dei peggiori regimi del pianeta, che vieta ogni forma di manifestazione, abusa di tortura e arresti, procede a detenzioni arbitrarie e esecuzioni extragiudiziali e ricorre a sparizioni forzate pur di mettere la museruola al popolo e far tacere le voci dissidenti. Anche se su scala ancora limitata, questa impressionante mobilitazione della società egiziana è un serio avvertimento per il regime di Sisi, che negli ultimi anni ha fatto in modo di soffocare anche i più esigui spifferi di libertà.

Il fischio d’inizio dopo il derby tra i club della capitale

È iniziato tutto una notte di calcio, dopo il derby tra l’Al-Ahly e lo Zamalek, i due grandi club del Cairo e del paese, mentre il presidente si trovava a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Da alcuni giorni degli appelli a destituire Al Sisi erano stati lanciati sui social network, in particolare da un uomo d’affari egiziano, esiliato in Spagna, Mohamed Ali. A inizio settembre, l’imprenditore quarantacinquenne ha cominciato a pubblicare dalla Spagna una serie di video diventati virali, guardati milioni di volte, in cui invitava gli egiziani a ribellarsi contro Sisi e contro i generali al potere. Mohamed Ali accusava il regime di corruzione, di non avergli mai pagato i milioni di sterline dovuti per i diversi lavori realizzati con la sua impresa edile, Amlak Contracting, e anche di aver “costruito molte opere inutili che non hanno apportato alcun guadagno alle persone”.

In uno dei suoi appelli Mohamed Ali ha affermato: “Dite che noi egiziani siamo poveri e che dobbiamo stringere la cinghia. Invece voi buttate via dei miliardi”. Prendendo di mira l’esercito, di cui Sisi ha fatto parte, l’imprenditore attacca uno dei pilastri del potere politico e economico del paese.

Il controllo schiacciante delle forze armate

In Egitto, l’esercito, quando non riunisce nelle sue mani tutti i poteri, esercita un controllo schiacciante su tutti i settori, dalla costruzione all’industria agroalimentare, passando per l’industria farmaceutica, monopolizza la ricchezza del paese, promuove progetti faraonici, come quello di ampliare il canale di Suez, e assicura a una minoranza, gli ufficiali, generosi guadagni. Ed è questo il problema, dal momento che invece la vita quotidiana è diventata insostenibile alla stragrande maggioranza dei 100 milioni di egiziani, sfiancati da una crisi economica e sociale che cresce insieme all’inflazione e vittime delle politiche di austerità imposte nel 2016 dal programma di aiuti di 12 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale (Fmi).

Più di un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà con appena un euro al giorno. Ritrovandosi con le spalle al muro, è stato lo stesso maresciallo Sisi a rispondere agli attacchi di Mohamed Ali che ha spazzato via come “semplici bugie”. Il 14 settembre, Al Sisi ha negato le accuse di corruzione e ripetuto ciò che ripete da sei anni: “Sto costruendo un paese nuovo”, “Ci sono forze che agiscono contro l’Egitto”. Per contrastare la rivolta popolare e pacifica, il regime ha dispiegato i suoi blindati nella piazza Tahrir, il centro nevralgico della rivoluzione del 2011, e ha sfoderato la sua arma più feroce: la repressione.

Stando ai dati delle associazioni dei diritti umani e degli avvocati mobilitati, in particolare del Centro egiziano per i diritti economici e sociali e le libertà, sono state arrestate quasi 1.400 persone dai primi raduni ad oggi: manifestanti, tra cui anche molti minori, giornalisti, attivisti politici. Tra questi, Mahinour el-Masry, celebre avvocato e attivista per i diritti umani, arrestata mentre si trovava in tribunale per assistere dei manifestanti, e due docenti dell’Università del Cairo, Hazem Hosni, ex membro dello staff di campagna elettorale di Sami Anan, il candidato alle presidenziali che nel marzo 2018 era stato imprigionato poco dopo aver annunciato la sua candidatura, e Hassan Nafaa, entrambi critici nei confronti del potere.

Il guinzaglio della stampa e il blocco di Internet

Il regime ha anche fatto ricorso ad altri due strumenti che sembra prediligere: la censura mediatica e il blocco di Internet. Ha per esempio bloccato il sito della BBC, sostenendo che la copertura delle proteste da parte della tv britannica era “inesatta”. Molti egiziani segnalano di aver avuto difficoltà a comunicare e ad accedere alle informazioni sui social network e sulle piattaforme di messaggistica come WhatsApp, Signal o Facebook Messenger. Nuovi appelli a manifestare, incluso un nuovo video dell’imprenditore Mohamed Ali, sono stati lanciati per una “marcia del milione” in tutto il paese. Ma intanto Sisi continua la sua repressione nella più totale indifferenza internazionale. Alleato di un Occidente che chiude gli occhi su un regime di terrore e tortura, in nome della lotta al terrorismo, il leader egiziano non ha ricevuto neanche un avvertimento.

La Francia, che vende armi come non mai alla dittatura di Al Sisi, uno dei suoi principali clienti, con 7,4 miliardi di euro di armi acquistate tra il 2014 e il 2018, tra cui 24 aerei Rafale, non ha battuto ciglio. Né ha battuto ciglio l’Unione europea. Solo la commissione per i diritti umani dell’Ue (una sottocommissione della commissione per gli Affari esteri) ha reagito e denunciato la repressione in corso. Amnesty International, che da anni documenta l’uso di armi francesi nella repressione egiziana, ha analizzato diversi video di violenze commesse dalla polizia su manifestanti pacifici durante il fine settimane di scontri. In diverse sequenze, l’Ong ha riconosciuto dei blindati francesi Mids del gruppo Arquus (ex Renault Trucks Defense), veicoli che erano già stati al centro della sanguinosa repressione dal 2013 al 2015 e recentemente identificati (nell’ambito delle nostre rivelazioni #FrenchArms) come strumenti della lotta contro l’insurrezione jihadista nel Sinai, dove l’esercito egiziano è accusato di gravi violazioni dei diritti umani. Martedì 17 settembre, pochi giorni prima della rivolta, Jean-Yves Le Drian, il ministro francese degli Esteri, era di nuovo al Cairo a stringere la mano del maresciallo Sisi. Era la sua ennesima visita ministeriale in Egitto dal 2012 prima come ministro della Difesa di François Hollande e poi come capo della diplomazia francese di Macron.

 

Il popolo dei figli di… Tersicore

“Sto fijo de ’na ballerina!”. Un grido mi distrae mentre percorro una strada laterale della via Flaminia, via Fracassini, come tutti i giorni la mattina, per andare ad allenarmi allo Ials. Lo Ials è il tempio romano della danza e delle arti, è un’istituzione, il pantheon dei tersicorei, è la mia casa. Tersicore, musa della danza, solida, scolpita, armoniosa, è la madre di tutti noi che versiamo sudori e speranze su una sbarra, noi che non saltiamo mai una lezione. Noi popolo dello Ials. Figli, tutti, della stessa ballerina. Il destinatario del grido è Renato, un amico, un grande danzatore disoccupato, che attraversa di corsa la strada per non saltare l’inizio della lezione. In qualche modo il gridatore, come si dice a Roma, “cià preso”. E comunque, anche nell’inconsapevolezza di un insulto generico che mortifica chi vive di danza, anche se l’intenzione dell’offesa è retaggio di un’antica diceria tra ballo e prostituzione, anche se quello non sapeva neanche cosa stava gridando, a me mi girano. Perché la bacheca dello Ials, quella destinata alle audizioni o alle offerte di lavoro, è piena ormai di annunci di villaggi turistici. E basta, o quasi. I corpi di ballo dei teatri stanno scomparendo, e in televisione la danza, un tempo appuntamento irrinunciabile di ogni trasmissione, è un siparietto che troverebbe spazio solo a Chi l’ha visto!. Eppure mi vado ad allenare, e come me, tutto il popolo dei figli di… Tersicore, la ballerina madre. Ragazze e ragazzi di tutte l’età, che segnano tenacemente sul loro corpo e sul loro volto un segno di dignità, anche il lavoro non c’è più. Una mia collega attraversa la strada di corsa per non arrivare tardi a lezione, so che ha appena partorito e deve allattare, ma vuole allenarsi e vive di corsa… come tutte le ballerine con un figlio.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Il grande romanzo: giovani antifascisti e irriducibili

Un buon istinto a fare la cosa giusta al momento giusto ha spinto Mirella Serri, brava e stimata autrice, ma mai così brava, a scrivere un libro esemplare su come si lotta senza sostegni e senza difese per salvare un Paese dal fascismo. Il Paese è l’Italia e la vittoria degli antifascisti sull’orrore fascista la conoscete, è la Storia. Tanto è vero che tutti passano in punta di piedi intorno a Giorgia Meloni (quando si arrabbia esige che si affondino le navi dei migranti se hanno salvato qualcuno, e tutti sanno che lo farebbe se trovasse un re tipo Savoia o un alleato con molti voti per governare come si deve). Ecco quello che la Serri ha capito.

I gesti di noia che si compiono in ogni gruppo in attesa di nomine e incarichi, quando si dice che torna il fascismo (ma dove, ma chi, ma te lo immagini, ti dicono mentre “dei ragazzi immaturi” stanno ammazzando di botte un pakistano) coprono una certezza. Se non tornano sono vicini e se mi passano accanto non voglio che mi trovino antifascista. Per introdurre il libro di Mirella Serri (Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini, Editore Longanesi) cito il capitolo in cui Nello Rosselli, in un giorno di tempesta a Livorno riesce a raggiungere il teatro dove sono riuniti a convegno i giovani ebrei della città, si impossessa del palco e spiega affannato e appassionato di essere un ebreo senza fede e senza riti ma in una cosa legato profondamente al suo ebraismo al punto da potervi mai rinunciare: il senso, il culto, la difesa della libertà.

È questa voce di giovane irriducibile che ci fa strada per entrare nel momento di grandiosa nobiltà italiana che la Serri vuole che si conosca. Infatti in questo libro, come nella lista di un grande party, ci sono tutti i nomi del grande rischio, accettato con sfrontatezza e nessuna esitazione, di fare barriera, con la dovuta ripugnanza, al fascismo (che aveva già lasciato a terra i suoi morti, aveva già sottomesso i suoi umiliati, e prometteva molto di più) e a prendere un impegno pubblico e collettivo a non cedere. Con l’autrice entrate nelle stanze italiane degli anni Venti piene di vita, di coraggio, della volontà di resistere, di gente giovane, di una sorta di tragica euforia di persone giovani che vinceranno, ma non per sé, e hanno capito subito la miseria morale e politica del regime nero e ne pagheranno il prezzo perché altri siano liberi e vivano con dignità.

Le due aree più intense e più calde di queste stanze piene di un entusiasmo tragico e felice, sono giovani ebrei e giovani comunisti, o almeno i due poli caldi e gremiti da cui parte con più intensità il segnale. Entri nella tesa e febbrile narrazione del libro e ti trovi tra Amendola e Sereni (tutta la famiglia Sereni), tra i Rosselli e Di Vittorio, tra Gobetti e Colorni. E capisci perché è così disorientante vivere in uno squallido vuoto tra il fascismo polacco, il nazismo ungherese e i sindaci e presidenti di regione della Lega. Si dice di un buon libro che dovrebbe essere diffuso nella scuole. La conoscenza de Gli irriducibile di Mirella Serri dovrebbe essere rischiesta a insegnanti e genitori. È giusto, è necessario che sappiano che c’è stata anche un’altra italia.

Napoli, regno d’incanto e mistero: magia e ferocia della sirena partenope

Se nel sogno si sognano i baci, non è peccato. L’amore, infatti, accade al di là del bene e del male. Lo spiega una canzone di tanto tempo fa, un brano di Peppino Di Capri e solo in assenza – presenti a se stessi – si sta sulla soglia dell’aldiqua e dell’aldilà a prendersi il dovuto di luce, di rugiada e di sempre nuove chanches. E di tanti altri baci. Capitano i sogni. Di notte sono presagi e poco può Sigmund Freud mentre Friedrich Nietzsche, tredicenne, vi inciampa spaventosamente: “Vidi spalancarsi una tomba, dalla quale uscì mio padre, avvolto nel sudario. Egli corre in chiesa e poco dopo ne ritorna con un bimbo in braccio. Il tumulo si apre, mio padre vi rientra e il coperchio si richiude sul sepolcro”. I sogni afferrano la vita. Nietzsche si sveglia e Joseph, il fratellino più piccolo, muore. La piccola salma viene deposta davvero tra le braccia del padre.

A occhi aperti se ne fanno di stupefacenti, sono propri di un’attiva vita invisibile e siccome domani non sarà più settembre, bisognerà darsene una ragione. Il punto perfetto da dove si dispiega l’accadere in gara con l’avvenire è Napoli: “Quando non piove a dirotto o a dispetto” – così scrive Francesco Palmieri – “l’ottobrata napoletana è come un maggio allo specchio, per la dolcezza del tempo e un ingiustificato senso di speranza: non si sa dove nasca e già si sa che resterà promessa”.

Capita l’in-canto. Come capita di incontrare i defunti. Gli è quando si va sovrappensiero, camminando senza contare i propri passi, che si possono vedere i morti. “Quando non ti aspetti nulla”, scrive ancora Palmieri in L’incantevole sirena (Giunti Editore), si scorgono i propri cari che non ci sono più – succede in mezzo alla folla dei passanti, sempre in pieno giorno – ed è allora che si può con noncuranza “fingere come già date tutte quelle carezze che vorremmo ricevere o dare”.

Non si sa da dove di preciso arrivi e si sa che è solo mistero, ferocia e magia l’eterno permanere di Napoli su se stessa, la Sirena Partenope che al minuto 2.16 nel video su YouTube – il messaggio del Presidente della Repubblica del 31 dicembre 1977 – suggerisce a Giovanni Leone, il Capo dello Stato, di allungare la mano destra sotto la scrivania, e adoperarsi nel gesto apotropaico, mentre pronuncia “drammi familiari”. La grazia del silenzio è un trofeo, un sogno che prende corpo nel pieno giorno – “perciò Virgilio appende all’olmo una cicala fatata” – e nulla può il freudismo. Quell’olmo – ulmus opaca, in gens – si fa carico dei sogni dispersi, mette radice nel vestibolo degli Inferi e trattiene in ogni sua foglia i fatui fuochi del dormiveglia, i rantoli d’imago di chi non può dormire e neppure riposare.

Si perde la testa, a Napoli, cade per terra e si continua a camminare senza accorgersene di non averla più sul collo. A capuzzella – la testa svestita di carne – è di per sé liturgia, porta e transito tra l’aldiqua e l’aldilà in una città che all’opposto del Paradiso non mette l’Inferno, bensì il Purgatorio, ovvero l’infinita catasta di anime purganti cui offrire pietà. Sono i resti mortali di ignoti che il “pervasivo Purgatorio riempiva e riempie spazi sopra e sotto e quelli sottili fra la vita e la morte”. L’aldiqua e l’aldilà, dunque. Tutto ciò che è morto, a Napoli, torna a nascere. Pulcinella va a prendersi dal regno dei morti la vedova Colombina diventata giusto lì una poco di buono: “E gghiammuncenne… Che ’nce facimmu cchiù ccà bbascio?”. Nulla nel fondo del mondo. Tutto dentro ’a capuzzella .

A ottobre torna il mese dell’educazione finanziaria. Al servizio delle banche

Come calpestare l’art. 46 della Costituzione per cui la Repubblica italiana tutela il risparmio. Viene infatti riproposto anche quest’anno il “Mese di ottobre dell’educazione finanziaria”. Uno scandalo che Il Fatto Quotidiano aveva già denunciato nel 2018. L’obiettivo dichiarato sarebbe apprezzabile, anche se è probabile che fin dall’inizio le intenzioni non fossero buone. In ogni caso la realizzazione è pessima ed è indecente che soldi pubblici finiscano a tale iniziativa.

In Italia dietro lo specchietto per le allodole dell’educazione finanziaria imperversano, direttamente o indirettamente, banche, società di gestione e venditori porta a porta. Cioè soggetti che tutto possono volere, salvo migliorare le competenze dei risparmiatori. Mirano al contrario a fargli il lavaggio del cervello, per imbottirli più facilmente di fondi, gestioni, polizze, certificati e altre trappole.

Per il mese di ottobre 2019 il Comitato ministeriale per l’educazione finanziaria vanta moltissime iniziative. Scorrendo il programma risultano però, arrotondando, i seguenti 180 eventi: 60 di banche o venditori di prodotti finanziari; 40 gestiti da fondi pensione o casse previdenziali; 10 riconducibili a compagnie di assicurazioni; 30 di fondazioni o associazioni; 40 dei cosiddetti consulenti finanziari. Nella penultima categoria rientrano: la Feduf, emanazione di una settantina di banche, fra cui Veneto Banca e Popolare di Vicenza, famigerate per i titoli–bidone rifilati ai clienti, poi fallite e pudicamente nascoste; la Global Thinking Foundation dai finanziamenti non dichiarati ma dai molti dirigenti bancari fra gli amministratori e consulenti; Alfafin–Associazione per l’alfabetizzazione finanziaria, presieduta da un dirigente di banca.

Cosa aspettarsi poi dall’Apsp–Associazione dei prestatori di servizi di pagamento? Ovviamente la lotta al contante, che non gli permette di raschiare commissioni. Inammissibile anche la presenza dell’Anasf–Associazione dei venditori porta a porta o promotori, ora etichettati come consulenti finanziari. Essa organizza corsi battezzati Economic@mente. Sorvolando sulla ridicola “@” al posto della “a”, anche qui il conflitto d’interessi è mastodontico: il loro vero obiettivo è incassare provvigioni. Guai per loro se il risparmiatore impara a fare da sé. Poi, spulciando il programma, troviamo anche un’iniziativa dell’Adusbef sul sovraindebitamento o quelle dell’Agenzia delle Entrate. Per salvare la faccia, non potevano dare spazio solo a banche, assicurazioni e loro propaggini.