È la la prima volta, da quando il dittatore Al Sisi è al potere, che in Egitto ci sono manifestazioni e raduni contro il governo per chiedere la destituzione del presidente. Il regime, ormai alle strette, usa la sua arma principale per soffocare la protesta: la repressione. Più di 1.400 persone sono già state arrestate da venerdì 20 settembre ad oggi. “Erhal Sissi! Erhal!” (“Sisi vai via! Vai via!”): scandire oggi queste parole in Egitto, un paese asfissiato dalla dittatura di Abdel Fattah Al Sisi, significa rischiare la propria vita. La sera di venerdì 20 settembre, diverse centinaia di egiziani hanno deciso di correre questo rischio al Cairo, la capitale, e in altre città di tutto il paese. Le forze dell’ordine, colte di sorpresa, hanno rapidamente represso la manifestazione e disperso i coraggiosi dimostranti con i gas lacrimogeni. Gli egiziani sono tornati a mobilitarsi il giorno dopo, sabato, a Suez, nel nord-est del paese, bastione notoriamente ribelle. Circa 200 persone sono tornate a gridare “Sisi, vai via!” per il secondo giorno consecutivo. Ma a Suez, oltre ai gas lacrimogeni, la polizia ha utilizzato anche proiettili di gomma e munizioni vere.
Sono le prime manifestazioni contro il governo in Egitto da quando il maresciallo Al Sisi è salito al potere nel 2013, dopo il sanguinoso colpo di stato militare contro il presidente islamista Mohamed Morsi. La rivendicazione chiara e netta di oggi è la stessa che, nel febbraio 2011, al termine di tre settimane storiche, aveva portato alla caduta dell’inamovibile autocrate Hosni Mubarak: la destituzione del presidente egiziano. È una situazione al tempo stesso unica e straordinaria per l’Egitto, assoggettato da sei anni a uno dei peggiori regimi del pianeta, che vieta ogni forma di manifestazione, abusa di tortura e arresti, procede a detenzioni arbitrarie e esecuzioni extragiudiziali e ricorre a sparizioni forzate pur di mettere la museruola al popolo e far tacere le voci dissidenti. Anche se su scala ancora limitata, questa impressionante mobilitazione della società egiziana è un serio avvertimento per il regime di Sisi, che negli ultimi anni ha fatto in modo di soffocare anche i più esigui spifferi di libertà.
Il fischio d’inizio dopo il derby tra i club della capitale
È iniziato tutto una notte di calcio, dopo il derby tra l’Al-Ahly e lo Zamalek, i due grandi club del Cairo e del paese, mentre il presidente si trovava a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Da alcuni giorni degli appelli a destituire Al Sisi erano stati lanciati sui social network, in particolare da un uomo d’affari egiziano, esiliato in Spagna, Mohamed Ali. A inizio settembre, l’imprenditore quarantacinquenne ha cominciato a pubblicare dalla Spagna una serie di video diventati virali, guardati milioni di volte, in cui invitava gli egiziani a ribellarsi contro Sisi e contro i generali al potere. Mohamed Ali accusava il regime di corruzione, di non avergli mai pagato i milioni di sterline dovuti per i diversi lavori realizzati con la sua impresa edile, Amlak Contracting, e anche di aver “costruito molte opere inutili che non hanno apportato alcun guadagno alle persone”.
In uno dei suoi appelli Mohamed Ali ha affermato: “Dite che noi egiziani siamo poveri e che dobbiamo stringere la cinghia. Invece voi buttate via dei miliardi”. Prendendo di mira l’esercito, di cui Sisi ha fatto parte, l’imprenditore attacca uno dei pilastri del potere politico e economico del paese.
Il controllo schiacciante delle forze armate
In Egitto, l’esercito, quando non riunisce nelle sue mani tutti i poteri, esercita un controllo schiacciante su tutti i settori, dalla costruzione all’industria agroalimentare, passando per l’industria farmaceutica, monopolizza la ricchezza del paese, promuove progetti faraonici, come quello di ampliare il canale di Suez, e assicura a una minoranza, gli ufficiali, generosi guadagni. Ed è questo il problema, dal momento che invece la vita quotidiana è diventata insostenibile alla stragrande maggioranza dei 100 milioni di egiziani, sfiancati da una crisi economica e sociale che cresce insieme all’inflazione e vittime delle politiche di austerità imposte nel 2016 dal programma di aiuti di 12 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale (Fmi).
Più di un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà con appena un euro al giorno. Ritrovandosi con le spalle al muro, è stato lo stesso maresciallo Sisi a rispondere agli attacchi di Mohamed Ali che ha spazzato via come “semplici bugie”. Il 14 settembre, Al Sisi ha negato le accuse di corruzione e ripetuto ciò che ripete da sei anni: “Sto costruendo un paese nuovo”, “Ci sono forze che agiscono contro l’Egitto”. Per contrastare la rivolta popolare e pacifica, il regime ha dispiegato i suoi blindati nella piazza Tahrir, il centro nevralgico della rivoluzione del 2011, e ha sfoderato la sua arma più feroce: la repressione.
Stando ai dati delle associazioni dei diritti umani e degli avvocati mobilitati, in particolare del Centro egiziano per i diritti economici e sociali e le libertà, sono state arrestate quasi 1.400 persone dai primi raduni ad oggi: manifestanti, tra cui anche molti minori, giornalisti, attivisti politici. Tra questi, Mahinour el-Masry, celebre avvocato e attivista per i diritti umani, arrestata mentre si trovava in tribunale per assistere dei manifestanti, e due docenti dell’Università del Cairo, Hazem Hosni, ex membro dello staff di campagna elettorale di Sami Anan, il candidato alle presidenziali che nel marzo 2018 era stato imprigionato poco dopo aver annunciato la sua candidatura, e Hassan Nafaa, entrambi critici nei confronti del potere.
Il guinzaglio della stampa e il blocco di Internet
Il regime ha anche fatto ricorso ad altri due strumenti che sembra prediligere: la censura mediatica e il blocco di Internet. Ha per esempio bloccato il sito della BBC, sostenendo che la copertura delle proteste da parte della tv britannica era “inesatta”. Molti egiziani segnalano di aver avuto difficoltà a comunicare e ad accedere alle informazioni sui social network e sulle piattaforme di messaggistica come WhatsApp, Signal o Facebook Messenger. Nuovi appelli a manifestare, incluso un nuovo video dell’imprenditore Mohamed Ali, sono stati lanciati per una “marcia del milione” in tutto il paese. Ma intanto Sisi continua la sua repressione nella più totale indifferenza internazionale. Alleato di un Occidente che chiude gli occhi su un regime di terrore e tortura, in nome della lotta al terrorismo, il leader egiziano non ha ricevuto neanche un avvertimento.
La Francia, che vende armi come non mai alla dittatura di Al Sisi, uno dei suoi principali clienti, con 7,4 miliardi di euro di armi acquistate tra il 2014 e il 2018, tra cui 24 aerei Rafale, non ha battuto ciglio. Né ha battuto ciglio l’Unione europea. Solo la commissione per i diritti umani dell’Ue (una sottocommissione della commissione per gli Affari esteri) ha reagito e denunciato la repressione in corso. Amnesty International, che da anni documenta l’uso di armi francesi nella repressione egiziana, ha analizzato diversi video di violenze commesse dalla polizia su manifestanti pacifici durante il fine settimane di scontri. In diverse sequenze, l’Ong ha riconosciuto dei blindati francesi Mids del gruppo Arquus (ex Renault Trucks Defense), veicoli che erano già stati al centro della sanguinosa repressione dal 2013 al 2015 e recentemente identificati (nell’ambito delle nostre rivelazioni #FrenchArms) come strumenti della lotta contro l’insurrezione jihadista nel Sinai, dove l’esercito egiziano è accusato di gravi violazioni dei diritti umani. Martedì 17 settembre, pochi giorni prima della rivolta, Jean-Yves Le Drian, il ministro francese degli Esteri, era di nuovo al Cairo a stringere la mano del maresciallo Sisi. Era la sua ennesima visita ministeriale in Egitto dal 2012 prima come ministro della Difesa di François Hollande e poi come capo della diplomazia francese di Macron.