Adolescenti, effetto Greta: “Prima la protesta in piazza poi si mangia al McDonald’s”

Gentile Selvaggia, ho una figlia dell’età di Greta Thunberg che è stata alla manifestazione per l’ambiente a Torino e che da un po’ di tempo a questa parte si è messa a parlare di ambiente, clima, ghiacciai e potenti della terra. Prima dell’effetto Greta la sua attenzione era rivolta a un paio di cantanti e di influencer di cui neppure ricordo il nome, oltre che alla pallavolo di cui è giocatrice e fan appassionata. È sempre stata brava a scuola, non ha mai dato problemi. Naturalmente ritengo che questa nuova coscienza sia una cosa buona e mi fa piacere sentire che a tavola ci parli degli effetti disastrosi dell’allevamento intensivo della carne o dell’emissione dei gas e del surriscaldamento terrestre, però la sua vita è una contraddizione continua e quando glielo faccio notare si litiga come mai era accaduto prima. Per dire. La sua marca preferita di vestiti fabbrica tutto in India e Cina, posti in cui le colorerie scaricano sostanze tossiche in tutti i corsi d’acqua. Per non parlare poi del tema del riciclo dei vestiti che è una questione molto seria e di cui si parla poco. Va al fastfood con le amiche tutti i sabati e dice che rifiuta tutti i supporti di plastica, ma sorvola sul fatto che la carne non sia certo una scelta ecologica. Utilizza non so quanti spray diversi per colorare i suoi capelli. Non spegne mai il computer e le luci di casa, passa 20 minuti sotto la doccia calda, ha due cellulari, spesso e volentieri torna a casa dalla scuola accompagnata dai genitori di un’amica anziché prendere l’autobus e non fa che chiedere un motorino (che comunque non le compreremo più per una questione di sicurezza che di ecologia). Quando muovo queste obiezioni lei risponde infuriata che avere sedici anni e essere coerenti in tutto sarebbe impossibile a meno che non si voglia finire per sembrare delle sfigate. Dice che il mondo dovrebbe cambiare dall’alto e lei si adeguerebbe. Risposte da ragazzina ingenua, insomma. Quello che mi chiedo dunque è se l’effetto Greta si traduca davvero in una nuova coscienza o se sia solo una moda che anima le piazze ma non cambia nulla nelle abitudini di questi ragazzi. Io so solo che prima di Greta avevo un’adolescente poco eco–friendly ma sorridente, ora ho un’adolescente ugualmente poco eco–friendly ma incazzata.

Piera

Cara Piera, amo Greta e ciò che ispira, ma faccio i conti anche io, da madre, con la domanda: l’effetto sui ragazzi è verità o suggestione? Mio figlio ha manifestato a Milano. È andato con un cartello dallo slogan emotivo. Quando è tornato a casa gli ho chiesto se avesse mangiato. “Sì al McDonald’s”.

 

Temptation Island: l’orrenda ipnosi che inchioda al video

Ciao Selvaggia, mi dispiace molto scriverti questa lettera perché, anche se non mi conosci, mi piacerebbe parlarti di cose belle, colte e importanti. Invece ti scrivo perchè sono entrata nel tunnel di Temptation Island e ho bisogno di una parola amica che mi aiuti a spezzare questa orrenda ipnosi. Io ho un’istruzione, una cultura, amici intelligenti e frequentazioni intellettualmente evolute, eppure ogni benedetto lunedì vengo come posseduta dallo spirito del telecomando e, puntualmente, finisco ad imbruttirmi davanti a questo freak show fino a notte inoltrata. Non ho mai guardato nessun reality di nessun genere, nemmeno un innocente talent show, e ho faticato a capire il meccanismo psicologico che mi tiene incollata a questa spettacolo mostruoso. Non è la partecipazione emotiva, dal momento che non mi riconosco in nessuna delle tipologie umane che popolano l’isola (che poi isola non è). Non mi identifico nel fedifrago, né nell’ammaliante tentatrice. Non mi attirano le serate alcoliche, le tresche al riparo (ahahah) delle telecamere, né i falò di confronto, che la sabbia mi dà fastidio e comunque non mi interessa mettere in piazza i miei turbamenti davanti a una presentatrice fintamente partecipe di un dramma inscenato a favore di camera. Alla fine, arrivata all’ultima puntata, ho capito cosa, vigliaccamente, mi faccia sentire così coinvolta: la rappresentazione della vita senza problemi, senza vergogne né scadenze, senza paura di sbagliare un congiuntivo né di ferire la persona che amo, senza temere di distruggere un rapporto che dura da mesi o anni o lustri in cambio di un occhiolino languido al corteggiatore di turno. I concorrenti lo fanno per soldi, probabilmente, ma sembra che lo farebbero anche gratis, al riparo dalle preoccupazioni etiche o materiali che costellano la vita di noi persone razionali. Insomma, ecco cosa mi attrae: la facoltà collettiva di spegnere il cervello, anche solo per 21 giorni. La mia vita ne uscirebbe distrutta. La loro, invece, sembra continuare più leggera che mai.

Jessica

 

Cara Jessica, non posso nemmeno fingere di comprenderti perché, come immaginerai, non ho minimamente idea di che cosa tratti il programma, né dei suoi protagonisti. Sono soltanto molto indignata per il trattamento riservato alla Pettinelli, ecco tutto.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Commissariati gli Araldi del Vangelo: esorcismi per la morte di Bergoglio

Venerdì scorso, i loro amici erano davanti San Pietro per un “Appello agli Angeli” contro il prossimo Sinodo dell’Amazzonia, dove alcune questioni come il celibato dei preti e il sacerdozio femminile stanno chiamando a raccolta tutta la destra clericale anti-bergogliana, non solo italiana.

E così, a Roma per invocare gli Angeli – alla vigilia della festa di San Michele, l’arcangelo per antonomasia – c’erano lo storico Roberto de Mattei, guida della Fondazione Lepanto (ed ex consigliere di Fini presidente della Camera), e due alti rappresentanti di Tradizione, Famiglia e Proprietà (TFP), José Antonio Ureta e Juan Miguel Montes. Grandi amici, appunto, degli Araldi del Vangelo (Arautos do Evangelho) appena commissariati da papa Francesco, come ha rivelato il sito Vatican Insider della Stampa.

La storia: gli Araldi de Vangelo sono nati in Brasile e sono stati fondati da monsignor João Scognamiglio Clá Dias. Per tanti versi sono “figli” dell’associazione reazionaria e tradizionalista del controverso professore Plinio Corrêa de Oliveira, Tradizione, Famiglia e Proprietà (TFP), le cui opere in Italia sono divulgate da de Mattei, che ha scritto anche una biografia del “dottor Plinio” (morto nel 1995), come veniva chiamato dai suoi fedeli. Nella comunicazione del commissariamento, fatta dalla Congregazione per la Vita consacrata, si fa riferimento a varie “carenze”: dall’amministrazione allo stile di vita dei componenti. Sulla decisione pesa anche un video di tre anni fa: monsignor Clà riferisce a sessanta sacerdoti la trascrizione di un dialogo particolare, quello tra un prete e un demonio durante un esorcismo.

La riunione è del febbraio 2016, dopo il pellegrinaggio di Bergoglio in Messico. Il diavolo, a detta di monsignor Clà, è entusiasta di Francesco: “È mio, è mio, fa tutto quello che voglio, è uno stupido. Mi obbedisce in tutto, è la mia gloria, è disposto a fare tutto per me. Lui mi serve”. I sacerdoti ridono convinti. Continua il demonio per bocca del capo degli Araldi: “Il Papa morirà cadendo in Vaticano. Il dottor Plinio sta incentivando la morte del Papa”.

Madri perfette? Aumenta l’ansia. Meglio il cinismo delle nuove fiction

Allegra, un filino cinica, molto amante del sesso e senza tabù (tanto da innamorarsi perdutamente persino di un prete), sconclusionata sul lavoro, ma senza che questo la scuota più di tanto. Phoebe Waller–Bridge, protagonista della serie Fleabag, serie tv pluripremiata agli scorsi Emmy, è diventata un’icona femminile amatissima. Femminile, ma quanto femminista? Insomma, si sono chiesti in molti: sicuri che una donna che schiva ogni tipo di impegno, segue unicamente il richiamo del desiderio, non si preoccupa di che mangia perché da qualche parte deve avere dei soldi sia proprio il modello che ci serve? O in tempi complessi e critici non sarebbe meglio avere figure più impegnate e con un migliore equilibrio tra principio del piacere e principio di realtà? Diciamolo subito: difficile dare una risposta che sia neutra rispetto al Paese. È vero, di sicuro al mondo, e alle nostre figlie, serve più una Greta Thunberg che una Millenial che colleziona avventure senza realizzare nulla. Il problema è l’Italia: perché per le giovani donne italiane – che per la fase della libertà non ci sono mai passate, e oggi si trovano figli da curare senza asili e carriere da dimenticare – trovarsi di fronte a modelli di grande rigore morale rischia di aumentare sensi di colpa e ansia. Anche le serie tv americane che parlano di mamme, penso alla divertente Workin’ Mums, raccontano di mamme che si separano, tradiscono, abortiscono, trascurano i figli, anche parecchio, anche per difendere il loro lavoro con tutta la forza possibile. Insomma modelli vivi, lontani dalla nostra icona infelice di madre super dedita e oppressa. E allora ben venga Fleabag, ben vengano donne che comunque ci ricordano che un conto è impegnarsi un conto dimenticare di essere vive. Anche perché, soprattutto, un po’ di piacere è necessario persino per essere migliori su altri fronti.

Le solite storie: Suor Angela è l’emblema Rai della donna libera

Non amo le serie tv, sarà l’età: ormai fatico ad affezionarmi alle persone vere, figurarsi ad attori che fingono di esserlo. Il lato positivo è che dormo a sufficienza; quello negativo è che tutti continuano a ripetermi che mi sto perdendo cose geniali e rivoluzionarie. Anzi, “femministe”, come Fleabag, Workin’ Moms o The Let Down, dove si vedono trenta–quarantenni bianche e ricche incasinate fra lavoro, famiglia e relazioni. Praticamente, il vecchio Mary Tyler Moore Show, con il sesso orale. La vera differenza è che Mary Tyler Moore, regina delle sitcom Usa sulle working girls anni Settanta (la sua serie debuttò proprio nel 1970 e vinse quattro Emmy), divenne una vera tycoon e produsse decine di serie di successo, spesso con donne protagoniste. Il dettaglio più empowering di Fleabag non è la sua eroina maledettamente spiritosa che si sbronza e tromba con la qualunque (Mae West faceva lo stesso personaggio nel 1933) ma il fatto che BBC e Amazon abbiano investito su una Millennial con un viso anticonvenzionale e una penna brillante, Phoebe Waller–Bridge, e sul suo monologo Fleabag, nato quasi per scherzo. Lo hanno fatto per spirito pedagogico–femminista? No, semplicemente perché, come ha scritto Rebecca Liu, oggi la borghese bianca complicata che ride delle proprie complicazioni (dai tempi di Woody, la forma più raffinata di autocompiacimento) è un cliché che funziona, specie fra i borghesi bianchi. Ma non dice granché alle donne vere, affaticate e sempre economicamente più precarie dei maschi. Non solo nell’Italia dove in tv il massimo della donna liberata è suor Angela di Che Dio ci aiuti, ma anche nei paesi anglosassoni. La stessa Waller–Bridge ha detto che la sua Fleabag è “un prodotto del mondo che vediamo oggi, non un faro del femminismo”. Un prodotto, appunto. Dello stesso mondo che ragazze come Greta contestano ogni venerdì. E di cui ogni sera le loro madri si abbuffano davanti allo schermo.

Malagò, il Robin Hood de noantri

Sbaglia chi fa buu a un giocatore di colore, ma sbaglia ancora di più uno che guadagna tre milioni e si lascia cadere in area, magari anche contento di prendere il rigore se l’arbitro non va a vedere al Var”. All’indomani del duro j’accuse all’Italia razzista del calcio pronunciato alla Scala dal presidente Fifa Gianni Infantino, a uscirsene con questa bella pensata è stato Giovanni Malagò, presidente del CONI, il numero uno dello sport italiano. Più che una gaffe, l’ennesimo lapsus freudiano che svela la vera natura dei dirigenti del carrozzone italico. Uno dice: vabbè, guardiamo il bicchiere mezzo pieno, abbiamo dirigenti che parlano di banane (Tavecchio) e minimizzano i cori della scimmia (Malagò) ma parliamo di uomini tutti d’un pezzo: se dicono una cosa la fanno, se fanno una promessa la mantengono. Come no.

Sono passati sei anni e forse nessuno se lo ricorda. Ma il 18 marzo 2013, alle sette della sera, l’agenzia Ansa invadeva le redazioni di giornali e siti web battendo la seguente notizia: “Il CONI comunica che, al fine di evitare strumentalizzazioni su favori e privilegi riservati ai Parlamentari della Repubblica, ha deciso di non rilasciare più la concessione della tessera riservata ad onorevoli e senatori per l’accesso alle manifestazioni sportive che si svolgono sul territorio nazionale”.

Firmato Malagò, presidente del CONI da nemmeno un mese. Erano i tempi della montante rivolta popolare anti–casta, il M5S aveva denunciato il Comune di Milano per i 14.000 biglietti omaggiati a politici e vip per le partite di Inter e Milan (con Matteo Salvini presente a babbo morto a tutti i derby e i match–clou del Milan, come da lista resa pubblica da Marco Cappato) e Malagò cavalcava l’onda indossando i panni del grande moralizzatore. È arrivato il Robin Hood che toglierà ai ricchi per dare ai poveri, pensò qualcuno. Beh, sapete in cosa consistette la svolta etica di Malagò? Niente più tessere, ma biglietti omaggio. Partita per partita. Sempre alle stesse facce illustri e potenti. Solo lo scorso anno Malagò ne distribuì 8856 per vedere la Roma e 7930 per vedere la Lazio. Secondo il quotidiano La Verità, “facendo una media al ribasso e assegnando a ogni tagliando un valore di 150 euro, nell’ultimo campionato il CONI ha avuto disposizione 2,5 milioni di euro di biglietti da donare agli amici e agli amici degli amici”. Con i politici Gasparri e Cicchitto primatisti dello scrocco e la solita variopinta fauna al seguito: ex prefetti (Achille Serra), magistrati della Corte dei Conti (Antonella Menna, Marco Villani), attori (Claudio Amendola, Claudia Gerini), presentatori tv (Giovanni Floris, quello che a DiMartedì commissiona inchieste sui privilegi degli altri). Ora a Malagò hanno tolto la dotazione. E piange e strepita.

Malagò. Quello che nell’81 si laureò con 110 e lode all’Università La Sapienza di Roma, nell’85 fu indagato per aver falsificato statini di esami mai sostenuti (Economia e Politica, 30 e lode; Diritto Privato, 30; Diritto Commerciale, 30), nel ’93 condannato a un anno e 10 mesi e nel ’99, in appello, prescritto. Con laurea annullata, però, perchè i professori disconobbero le firme, falsificate, sugli statini. La faccia di Malagò, alla Sapienza, loro non l’avevano mai vista. L’Europa chiede ora a Malagò e allo sport italiano il rispetto delle regole civili. Campa cavallo.

Salzano, una guida preziosa contro il culto del mercato

Mercoledì scorso, al piano terreno aperto sul Canal Grande di Cà Tron a Venezia, sede del Dipartimento di Pianificazione del territorio, si sono tenuti i funerali di Edoardo Salzano: urbanista, autore di alcuni tra i piani territoriali più illuminati, fondatore del sito collettivo Eddyburg. Questa è una parte di ciò che ho detto in quella occasione. “I giovani della mia generazione hanno avuto, indubbiamente, dei maestri. Ma quanti di questi hanno tradito, o si sono compromessi, o stancati! Gli uomini sulle cui parole avevamo giurato rivelarono poi incrinature fatali tra le qualità critiche o creative e quelle più largamente umane della coscienza”. Subito dopo la Liberazione, queste parole furono rivolte da Francesco a Arcangeli a Roberto Longhi. In quel quadro morale devastante, Arcangeli riconosceva al suo maestro di non aver tradito: “Alcuni si salvarono nel silenzio. Longhi fu tra i rarissimi che continuarono a parlare senza venir meno alla loro dignità”. Ebbene, quanto più vale oggi questo altissimo riconoscimento per Edoardo Salzano. La sua voce – alta, forte, sicura – è stata in tutti questi anni una delle più preziose guide su cui orientare il cammino: una delle poche luci sempre accese, e non riflesse, nel buio in cui siamo sprofondati.

La voce di un eretico, che non cessava di decostruire e denunciare i dogmi dell’unica religione del nostro tempo, il culto del mercato, signore e padrone delle nostre vite. Nell’ultimo testo che mi mandò per una iniziativa che avevo promosso – un testo politico, scritto insieme alla sua compagna Ilaria Boniburini – è messa a nudo con straordinaria efficacia la doppiezza mortifera del principale di quei dogmi: “Sviluppo non significa aumento della nostra capacità di ascoltare e comprendere gli altri, qualunque lingua essi adoperino, utilizzando insieme cervello e cuore: significa solo aumento della produzione e consumo di merci, aumento della ricchezza di chi produce e induce a consumare merci sempre più inutili, sacrificando per una merce inutile ma fonte di maggior ricchezza il produttore a un bene che veniva distrutto (un bosco antico per qualche tonnellata di legname, una città storica per una marea di turisti, un paesaggio di struggente bellezza per una selva di palazzoni o una marea di villette). Questo sviluppo, da un obiettivo è diventato una religione, una credenza cui tutti si inchinano obbedienti. In nome di questo sviluppo abbiamo invaso, saccheggiato, distrutto altre regioni e altri popoli, abbiamo trasformato paradisi in inferni da cui fuggire. E alla fine del ciclo abbiamo trasformato i fuggitivi da nostri simili in cerca di salvezza in nemici da abbattere”. In questa capacità di guardare con lucidità e sintesi straordinarie il buco nero che inghiotte il futuro del pianeta, la dignità di milioni di migranti e la nostra stessa umanità, sta l’eredità più preziosa di Salzano.

Per me, la lezione di Eddy più profonda, e insieme impervia, riguarda la capacità di tenere insieme – di più: di tenere in tensione – il più autorevole e profondo specialismo e la misura universale di un intellettuale capace di aprire quello specialismo a un impegno largo, tanto largo quanto il mondo grande e terribile che vogliamo cambiare. La parabola scientifica e politica di Edoardo Salzano dimostra nel modo più alto che la gabbia dello specialismo si può rompere: e insegna anche come farlo. Se egli ha potuto vedere con tanto anticipo e tanta lucidità il nesso intimo che unisce il governo dell’ambiente alla giustizia sociale per chi abita quell’ambiente, ebbene: non è forse per la conoscenza profonda che egli aveva di Venezia e della sua Laguna? L’apparente non modernità di Venezia come paradigma di una vera modernità: di un progresso che non corra verso la morte, ma verso la vita.

“L’Europa perde uno dopo l’altro i suoi direttori di coscienza”, scrisse Marcel Proust dopo la morte di John Ruskin: anche noi oggi ci sentiamo più soli, ancora più soli, senza le parole, le critiche, i richiami, le illuminazioni di Eddy.

Quante volte, già da domani, ci chiederemo cosa avrebbe detto, come avrebbe giudicato, con quali parole ci avrebbe esortato alla speranza e alla lotta. Eppure, lo avremo sempre con noi: con la forza tutta intera e dirompente di una lunga vita, saggia e giusta. Di una vita felice: riascoltiamolo: “Mi piace il mio lavoro: mettere insieme le cose con le parole dette e le parole scritte; raccontare e scrivere, parlare e proporre a proposito di città, territorio, ambiente, pianificazione. Facendo quel mestiere che ho cominciato, quasi per caso, molti anni fa”. Rileggiamola, una di quelle pagine: “Può succedere (ed è quello che accade nei nostri anni) che il politico assuma come valori da privilegiare non quelli dell’interesse collettivo e dell’equilibrio tra persona e società, ma quelli dell’individualismo liberato da ogni regola volta a garantire il perseguimento di interessi generali (come quello della giustizia sociale, della libertà per tutti, dell’espressione di ogni pensiero). In una simile situazione all’urbanista si aprono due strade: rimanere fedele ai principi propri del suo ruolo sociale, e allora entra in conflitto con quella politica che si è piegata ai venti dominanti; oppure piegarsi anche lui: che è quello che successo largamente in Italia, i nostri maestri sono diventati dei cattivi maestri”. Grazie, Eddy: per essere rimasto fedele sempre. Grazie per essere stato fino all’ultimo un maestro buono. Non sarà facile, ma proveremo a meritarci la luce che hai portato nelle nostre vite.

“Durante i colloqui prevale un maschilismo violento”

Susanna Camusso le definisce “funambole del tempo”. Acrobate della cura dei piccoli e degli anziani, del quotidiano tour de force tra lavoro e incombenze domestiche. E doppiamente vittime, perché intrappolate anche da un “grande tranello culturale, quello della conciliazione, che di fatto le costringe a conciliarsi solo con se stesse. Tutto con l’idea che la soluzione sia magari qualche permesso retribuito in più. O che bastino due o tre giorni di congedo di paternità per risolvere ogni cosa. Ma ciò che manca davvero è la cultura della condivisione della cura”. Camusso, segretaria generale della Cgil per nove anni, oggi è la responsabile delle politiche di genere del sindacato. E sfata miti, come quello che alimenta l’idea che gli investimenti delle imprese sul welfare aziendale siano una panacea: “Erogare buoni pasto o buoni per andare in palestra – dice – non significa fare welfare. Sono interventi che non giustificano i vantaggi fiscali”.

Camusso, partiamo dai numeri. Le donne che abbandonano il lavoro alla nascita di un figlio sono in fortissimo aumento. Come si spiega?

I Comuni non hanno più soldi, l’operazione di decentrare le responsabilità e accentrare le risorse è stata una mannaia per il welfare, calata sugli enti locali con la copertura ideologica dello Stato sociale come costo che non possiamo più permetterci. È scattata la stagione delle privatizzazioni, di un modello ideologico e liberista che, taglio dopo taglio, riduce i servizi facendo esplodere costi che le madri lavoratrici non riescono ad assorbire. I bonus mamma sono stati un altro escamotage per non mettere mano al miglioramento dei servizi. Quelle risorse avrebbero potuto e dovuto essere usate per gli asili nido e per l’assistenza agli anziani, due facce dello stesso problema per le donne: il carico che grava sulle loro spalle. In Lombardia abbiamo fatto una indagine sulla continuità lavorativa femminile. Ci sono due interruzioni: intorno ai 40 anni, per la cura di un bimbo, e oltre i 50, per l’assistenza a un anziano.

I dati però dicono che sono in deciso aumento anche i padri che lasciano il lavoro…

Non abbiamo nessuna prova che questi papà gettino la spugna per stare a casa ad accudire un figlio. Basta guardare le statistiche per vedere che la mobilità professionale riguarda gli uomini e non le donne. Il mercato del lavoro viaggia a due velocità, con un forte gender gap. Anche l’uso limitato del ricorso al congedo di paternità dimostra che non possiamo fare automatismi.

Perché secondo lei non sono state ancora intraprese azioni politiche forti a sostegno della genitorialità, a dispetto delle tante parole?

Perché l’Italia è un Paese paternalista e maschilista. Si è preferito continuare a fare scelte, come quella della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che richiedono alle donne di essere delle equilibriste. Come se la maternità fosse solo un fatto privato, e non anche un fatto sociale.

Cosa occorrerebbe?

Serve un meccanismo paritario di congedo obbligatorio e retribuito per la maternità e la paternità: anche un maschio può allevare un bambino. Ma per far questo occorre cambiare la logica del nostro sistema imprenditoriale, logica in base alla quale le donne sono inaffidabili e sono un costo perché fanno figli e hanno permessi per l’allattamento. Nei colloqui di assunzione le aziende hanno ricominciato a fare certe domande alle candidate, tipo “sei fidanzata”, “sei sposata”, “vuoi fare figli”. C’è il ritorno di un maschilismo violento: siamo rientrati nella grande fiera del pregiudizio.

Cosa si aspetta dal nuovo governo?

Il premier ha annunciato un investimento sui nidi. Ma serve un piano per realizzare una rete efficiente di servizi, considerando il fatto che in una vasta area del Paese, il Meridione, è quasi inesistente. Servono una idea e un progetto vero, che però al momento non vedo.

Le lavoratrici madri lamentano anche una organizzazione del lavoro poco flessibile. A cosa si deve?

Deriva da una concezione maschile del modello di lavoro. Il nostro sistema produttivo è parcellizzato e non ha progettualità. Rendere più flessibile un sistema non può significare che il lavoratore deve essere a disposizione in ogni momento. Richiede energia, richiede una gerarchia altrettanto flessibile. Il massimo dello sviluppo di pensiero si limita a uno o due giorni di telelavoro. Ma questo significa solo ritagliare un comodo angolino sul quale apporre il titolo “pari opportunità”.

Mamme al lavoro: l’incubo italiano

Non ci sono solo le preoccupazioni economiche. C’è anche un amaro senso di frustrazione, una percezione di inadeguatezza. “Ho una laurea conseguita con 110 e lode in Scienze della comunicazione. E dieci anni di esperienza professionale. È davvero avvilente dover rinunciare a tutto: licenziarmi significa non solo dire addio alla retribuzione, che mi serve, ma anche alle ambizioni, alle mie legittime aspirazioni…”. Giulia (la chiameremo così) ha 35 anni e vive a Roma con il compagno. Hanno un bimbo di tre anni e mezzo, un altro in arrivo. E sono di fronte a un bivio. Sì, perché Giulia è una delle tante. Probabilmente sarà costretta, suo malgrado, a dimettersi come hanno fatto prima di lei migliaia di donne alla nascita di un figlio.

Nel 2018 sono state quasi 36mila. In impetuosa crescita. Dal 2011, quando i licenziamenti furono 17.175, si è assistito infatti a un incremento costante, fino ad arrivare a una impennata che sfiora il 110%. Tra rette degli asili nido troppo alte, liste d’attesa per l’iscrizione troppo lunghe, scarsa propensione delle aziende a concedere il part time – nel 2018 solo un quinto delle donne che lo ha chiesto lo ha ottenuto – il Paese appare sempre più distante dalle esigenze delle lavoratrici madri.

Una consolazione, seppure magra, c’è. Il modello sociale sta gradualmente cambiando, crescono anche i papà che si dimettono: otto anni fa se ne contarono appena 506, nel 2018 sono saliti a 13.500. Ma è sempre sulle donne che grava il peso maggiore della genitorialità. Costituiscono il 73% del totale dei dimissionari (circa 49.500): vale a dire che, complessivamente, sempre dal 2011, sono aumentati del 180%.

La grande ritirata

“Ci ho provato a conciliare il lavoro con la cura di un figlio piccolo”, dice Giulia. “Ma ho capito che la situazione è ingestibile. Dovrei trovare una soluzione che mi consenta di far combaciare la professione con la famiglia e di sentirmi così anche appagata, ma per ora è solo un sogno”. È così che Giulia, con la seconda gravidanza, deve scegliere se lasciare il posto di lavoro in un’agenzia di comunicazione, oppure tentare l’impresa – che le appare come un’impossibile scalata – di trovare un bilanciamento tra maternità e impegno professionale. Un equilibrio insidioso come un filo teso nel vuoto. Per arginare l’aperta ostilità dei vertici della sua azienda verso la flessibilità degli orari. E per permetterle di far quadrare tutto, compresi i conti, con le rette dei nidi privati che volano fin verso i 500-600 euro al mese.

“Per un’azienda – spiega Giulia – una dipendente incinta o con un figlio piccolo continua ad essere un problema. Quando ho annunciato la mia seconda gravidanza mi è stato detto: ‘Non sappiamo se quando tornerai troverai quello che hai lasciato’. Velata minaccia. Con il primo figlio le due ore di allattamento sono state di fatto una pura formalità: spesso ero costretta a rientrare in ufficio con il bimbo in braccio. Tutto mi veniva fatto pesare, mi obbligavano a trasferte, si lamentavano della mia scarsa disponibilità. Il mio compagno ha anche valutato la possibilità di prendere un congedo parentale. Ma se lo facesse la sua carriera subirebbe un arresto. Non potrò mandare il secondo figlio all’asilo pubblico, perché il bando comunale si è già chiuso. E il ricorso a un nido privato per noi è troppo costoso”.

È così che se scosti il paravento – quello della grancassa sui piani di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, della diffusione dei programmi di welfare aziendali, degli annunci su nuove politiche a sostegno delle famiglie, delle buone intenzioni per rilanciare la natalità – scopri che il fenomeno sta esplodendo. Soprattutto nel terziario e nell’industria, come annota l’Ispettorato nazionale del lavoro nel suo rapporto annuale.

Per oltre il 50% delle donne che l’anno scorso si sono licenziate ciò che manca è una rete parentale di supporto, un welfare efficiente e accessibile a tutti, una organizzazione del lavoro che si concili con la cura di un bambino. Perché i servizi pubblici all’infanzia arretrano. Mentre nonni e parenti (spesso ancora al lavoro) sono sempre meno disponibili a tamponarne le falle. Quanto al sistema produttivo, costituito soprattutto da aziende di piccole dimensioni, è molto rigido, di fatto incompatibile con la maternità.

Il divario con l’Europa

“È necessario partire dal contesto di un tasso di occupazione femminile che non arriva al 50% e ci colloca al penultimo posto, prima della Grecia: basti dire che Paesi come la Svezia e la Germania svettano con percentuali superiori al 75%”, osserva Maurizio Ferrera, docente di Scienza politica all’Università di Milano. “Il welfare non ha mai funzionato – prosegue Ferrera – e l’offerta di politiche di conciliazione è molto limitata, e ancora troppo scarsa quella dei servizi all’infanzia. Mentre il part time è regolato in modo molto rigido rispetto al resto dell’area Ue: richiede uno sforzo che le imprese, soprattutto quelle piccole, non vogliono fare. Ci portiamo dietro un deficit strutturale di politiche a sostegno della genitorialità. E la principale responsabilità è di una sindrome tutta italiana, quella che la sociologa Chiara Saraceno ha definito familismo ambiguo. Vale a dire che a dispetto del riconoscimento della famiglia come nucleo fondante della società non ci sono tutele, misure per favorire la natalità”.

Un problema, secondo Ferrera, al quale non è estranea la dottrina sociale della Chiesa: “La famiglia è centrale, ma lo è quella in cui la donna fa la madre e basta. Deve cambiare la mentalità. E dovremmo spendere almeno il 2 o 3% del Pil per allinearci al resto dell’Europa, dove il problema delle rette degli asili, sovente troppo alte, non esiste: il costo viene assorbito dal combinato tra assegni famigliari e detrazioni fiscali”.

Italia: si salva il Trentino

È cosi che mentre la Commissione europea prende come punto di riferimento l’esperienza della Finlandia – dove è stato stabilito che tutti i genitori hanno il diritto di avere a disposizione un asilo con orari elastici – l’Italia resta in coda. Uno scenario nel quale non si salvano nemmeno le regioni del Settentrione che storicamente possono vantare un alto tasso di occupazione femminile. Va sempre peggio, per esempio, in Emilia Romagna, dove le dimissioni alla nascita di un figlio sono aumentate del 23% in un anno. Va peggio in Veneto (+29%). Quanto al Sud è una débâcle. In Campania i licenziamenti volontari sono cresciuti in un anno del 104%, in Puglia dell’88%. Qualche lodevole eccezione conferma la regola. In Trentino, nel 2018, le dimissioni sono state solo 731. Ma qui il part time è diffuso (riguarda il 40% delle donne contro una media nazionale del 32%) e la Provincia autonoma, dopo aver approvato nel 2011 una legge sul benessere della famiglia, ha messo in moto un sistema di supporto alla maternità che comprende anche bonus per abbattere le rette dei nidi fino al 90% e la certificazione delle imprese che adottano piani di conciliazione (1 trentino su 5 lavora in aziende che ne sono dotate).

Giulia ha di fronte a sé la prospettiva di una tribolazione che conosce già bene. Le corse e la tirannia del tempo; lo sfiancante ricorso quotidiano all’arte di arrangiarsi, con i genitori lontani, che l’ha estenuata. E poi quella progressiva marginalizzazione sul luogo di lavoro, che spalanca le porte alla frustrazione. “In realtà non c’è alcun supporto concreto a una coppia che lavora e decide di avere un bambino. Quello che manca è prima di tutto la sensibilità. Quella culturale, e politica”.

Sardegna, poco governo: solo nomine provvisorie

Spoil system generalizzato e grandi riforme in cantiere, a partire da sanità e urbanistica: dopo un’avvio di legislatura faticoso, appesantito ulteriormente dall’onda d’urto della crisi politica nazionale ad agosto, la giunta sardo-leghista di Christian Solinas prova a premere l’acceleratore istituzionale per scrollarsi di dosso le accuse di “immobilismo” piovute dalle opposizioni proprio alla vigilia dei fatidici primi 6 mesi di mandato. Un giro di boa delicato, che avrebbe dovuto marcare il segno dell’azione politico-amministrativa dei prossimi anni, ma che per il momento lascia a bocca asciutta le commissioni in Consiglio regionale e tiene aperte anche vertenze nazionali di primo piano come quelle su entrate, energia e trasporti. Per non parlare del prezzo del latte, nuovamente al palo dopo che gli impegni presi coi pastori dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini non si sono concretizzati né sotto il profilo della ristrutturazione di filiera né sul piano degli investimenti promessi.

Ad incidere sulle performances dell’esecutivo regionale inizialmente era stato l’avvio in due tempi, con il varo di una “mini giunta” di 5 assessori su 12 integrata solo successivamente, dopo un estenuante braccio di ferro fra gli alleati della maggioranza, con le figure mancanti: era il 14 maggio e al giuramento andavano i leghisti Valeria Satta e Giorgio Todde (rispettivamente agli Affari Generali e ai Trasporti), il sardista Quirico Sanna (Urbanistica) e i rappresentanti dei partiti minori Gabriella Murgia (Forza Paris) all’Agricoltura, Roberto Frongia (Riformatori) ai Lavori Pubblici, Andrea Biancareddu (Udc) alla Cultura, Anita Pili (Sardegna 2020) all’Industria.

Nei mesi successivi però il tratto del work in progress viene trasferito anche nei criteri di scelta dell’organigramma amministrativo regionale, dove l’eccezione sembra trasformarsi in metodo: tutte le nomine più importanti effettuate finora nei ruoli apicali dell’organizzazione così come nelle principali agenzie regionali sono infatti provvisorie, con scadenza a sei mesi. Accade per le caselle di Agris, Argea e Laore, le tre agenzie che si occupano di agricoltura e pastorizia nell’isola, così come a Sardegna Ricerche, l’ente sardo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico che al suo interno ospita l’incubatore italiano per la sperimentazione del 5G individuato dal Mise nel gennaio 2019. Incarichi “pro tempore”, giustificati nel caso delle agenzie agricole dall’esigenza di mettere in campo “un progetto di riordino complessivo” , in vista del quale sarebbe “inutile e dispendioso dare avvio alle procedure per l’individuazione dei direttori generali”, e ritenendo quindi “maggiormente opportuna la nomina di Commissari Straordinari”. Nel caso di Sardegna Ricerche il ricorso al commissariamento sarebbe invece da individuare nell’assenza in organico di una figura sostitutiva al ruolo attualmente vacante. Conti alla mano, i commissari appena nominati dovrebbero cessare nel marzo 2020.

Scadenza ravvicinata invece al 31 dicembre per l’incarico a tempo affidato a Giorgio Steri, alla guida dell’Ats, l’azienda sanitaria unica regionale che Solinas aveva giurato di smantellare da subito in campagna elettorale. Steri, dirigente sanitario in pensione, era stato ripescato in tutta fretta il cinque agosto, per tappare il buco creato dall’inaspettata rinuncia all’incarico da parte del veneto Domenico Mantoan, vicino al governatore leghista Zaia, in ottimi rapporti con l’assessore alla Sanità Nieddu. Solo dopo l’annuncio in pompa magna ci si era accorti dell’incompatibilità di Mantoan con il suo incarico di direttore generale dell’Area sociale e sanitaria della Regione Veneto.

Ma non basta. L’incertezza domina anche i criteri di scelta delle massime cariche amministrative regionali, con effetti paradossali. In sei mesi ad esempio non è mai stata definita l’assegnazione della direzione generale della Presidenza, incarico ricoperto “di fatto” dalla funzionaria Giovanna Medde, in qualità di dirigente più anziano in ruolo. Il paradosso è che, scaduto giovedì scorso l’incarico provvisorio alla dirigente e non essendo stato individuato un sostituto, in teoria la Giunta non potrebbe neanche più riunirsi per deliberare. Si andrà quindi ancora una volta alla proroga “de facto”, nell’interesse superiore del governo regionale. Ma è indicativo che nello stesso limbo si trovi anche la casella della direzione generale della Protezione Civile, un ruolo delicato in una regione dove la perdurante siccità dilata la stagione degli incendi, mentre solo da poco più di 72 ore la Regione ha un nuovo direttore generale del Personale: si tratta di Carmine Spinelli, dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Ora, per ovviare all’accusa di immobilismo e di provvisorietà mossa dalle opposizioni, Solinas prova a dare la sterzata d’autunno, a partire dal nodo intricato della sanità annunciando un “Piano straordinario” per le assunzioni e la mobilità del personale nel sistema sanitario regionale. Circa settanta concorsi che saranno avviati entro l’anno, per un totale di oltre mille assunzioni e che riguarderanno i diversi profili del comparto. “Un numero di operatori che soddisfa il piano del fabbisogno a cui Ats non ha mai dato risposta”, ha dichiarato il Presidente della Regione. A stretto giro di posta è arrivata però la replica dell’ex assessore alla Sanità Luigi Arru, ideatore della contestata riforma sanitaria del centro sinistra in Sardegna: “La risposta in merito a quanto appreso dalla conferenza stampa della Giunta sta nelle deliberazioni dell’Ats 367 del 7 maggio e 491 del 25 giugno 2019. I concorsi cui fa riferimento l’attuale Assessorato sono quelli già programmati dall’Ats, e sono stati resi possibili grazie alle risorse liberate sulle azioni di razionalizzazione della spesa farmaceutica”.

Il dentista di vip e migranti: “Da me nascono i governi”

“Prima le dentiere agli italiani”. Quando Flavio Gaggero ha sentito urlare al telefono avrebbe voluto sorridere, come fa lui, socchiudendo le labbra. Ma restava pur sempre una telefonata di minacce: “Smetti di curare gli immigrati, sennò ti distruggiamo lo studio! Tu devi fare le dentiere prima a noi”. E non serviva che il mite dentista replicasse: “Curo gratis anche lei”. Niente da fare: “Smetti di curare i negri sennò te la vedrai brutta”. Già, la colpa di Flavio, 81 anni, storico dentista di Pegli – nel Ponente genovese – è di aver aperto le porte ai migranti: glieli manda la comunità di Sant’Egidio, arrivano dalla Comunità di don Gallo che di Gaggero fu più di un amico, quasi un fratello. Bussano, mostrano le gengive semivuote e lui spalanca le braccia: venga, e li fa accomodare sulla sedia. Restituisce loro un sorriso, sperando poi che trovino qualcosa di cui sorridere.

“Studio dentistico” è scritto sulla targa vecchia di decenni. Quasi introvabile: lasci la strada congestionata di Pegli, ti infili nel porticato di un palazzo grigio, sali una rampa di scale anni ’50. E infine suoni e dopo qualche secondo senti i passi lenti di Gaggero. È sempre qui, dall’alba al tramonto. Anche dopo. “Quando ero più giovane stavo fino alle tre di notte e alle sei rimontavo”, racconta. Nessuno è mai stato cacciato via, nemmeno nel cuore della notte, proprio come accadeva davanti alla porta di don Gallo. Per tenerlo a freno ogni tanto deve intervenire la moglie Gisella, quella donna che incontrò a 13 anni sulla spiaggia di Pegli: “È lombarda, veniva in vacanza qui quando a Pegli l’acqua era trasparente come ai Caraibi”, racconta Flavio. Per capire lui bisogna vederli insieme.

C’è chi racconta di essere entrato in sala d’attesa all’una di notte e di averla trovata affollata: clienti insonni, pensionati con l’ascesso, trans appena smontati dal marciapiedi, artisti come Ornella Vanoni, Gino Paoli o Beppe Grillo. C’è chi viene per un molare e chi per scambiare due parole. Già, questo non è solo uno studio dentistico, è un porto dove chiunque può trovare riparo tra la luce azzurrina delle lampade al quarzo e l’odore dolciastro dell’anestetico. Forse la vera Genova si trova molto più qui che nei palazzoni del centro, in questi cento metri quadrati scarsi dove è passata la storia del nostro Paese. Non è un’esagerazione: immigrati, clienti comuni, ma anche i più grandi attori, architetti di fama mondiale. Alla scrivania di Gaggero stava per formarsi addirittura un governo: una coalizione Pd-M5S, ma con sei anni d’anticipo. Leggende? Macché, tutto vero. Era il 2013, un giorno capitò qui Grillo – “stava seduto su questa sedia”, indica Flavio – perché Beppe viene spesso, non solo per i denti. Viene per stare tranquillo, per scambiare qualche idea con gli amici veri. Sta un paio d’ore e se ne va”. Bè, in quei giorni Pierluigi Bersani aveva appena ‘diversamente vinto’ le elezioni e dava la testa nei muri per formare il governo. La soluzione pareva allearsi con il M5S. Ma bisognava entrare in contatto con Grillo. Come? Alla fine l’unica strada sembrò la mediazione diplomatica dell’amico dentista. “Suonò il telefono, era Claudio Burlando – all’epoca governatore Pd della Liguria – che chiamava per conto di Bersani. Mi chiese: ‘Possiamo parlare con lui?’. Io alzai lo sguardo, ma Grillo fece cenno di no con l’indice, ‘non mi fido’. Non se ne fece niente”. È successo tutto in questa stanza piena di trapani, calchi di dentiere e foto di grandi reporter (altri amici di Flavio) appese alle pareti. Provate a sedervi sulla sedia del paziente, davanti a voi una grande finestra che dà verso Sud, dove vedi il bagliore un po’ oleoso del mare cittadino e un grande albero. Ecco, su questa sedia si sono incrociati i destini più diversi. A cominciare da Renzo Piano, l’architetto del Beaubourg e del nuovo ponte di Genova, che di Gaggero era compagno di scuola. Poi Gino Paoli, lui pure adolescente inquieto per le strade di Pegli. “Eravamo quattro amici al bar”, o forse dal dentista, canterebbe Gino. E chissà che proprio su questa sedia, guardando la stessa finestra non siano nate canzoni o schizzi di grattacieli. Poi arrivarono gli altri: Grillo era a cena da Piano quando fu preso da un ascesso e si ritrovò da Gaggero nel cuore della notte. Così Flavio è diventato il dentista degli artisti: Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Ornella Vanoni, Valeria Valeri, Paola Quattrini, Andrea Jonasson (la moglie di Giorgio Strehler), per citarne alcuni. Poi, ovviamente, l’altro genovese Paolo Villaggio. E non poteva mancare don Andrea Gallo: “Arrivava qui ogni giovedì. Si sedeva e diceva: ‘Adesso confessiamoci’, e cominciava a parlare, a confidarsi”. A togliersi di dosso quel peso che tutti scaricano addosso ai preti e resta loro sulle spalle. Con Flavio poteva farlo.

È certo la perizia con cui tiene il trapano, ma Gaggero ha un altro segreto: sa ascoltare. E tra un’otturazione e l’altra, quando non stai con la bocca spalancata ti lasci andare.

È capitato anche al cronista che rubò un’intervista a Piano imprigionato da Gaggero sulla poltrona. Ma poi si ritrovò lui stesso curato dal dentista. Non si scappa.

Oggi tocca ai migranti: “Arrivano dalla Libia con i denti martoriati dalle malattie, fatti a pezzi da manganellate. Parlano di violenze, stupri”, racconta Gaggero. Poi, con quel suo sorriso sottile, ironico e un po’ amaro, aggiunge: “Prima di lamentarci della nostra sorte, pensiamo se fossimo in mezzo al mare su un gommone che si sgonfia. Io sono felice, ho avuto tutto”. E aiuta gli altri: “Macché”, agita il trapano, “come diceva Gallo, dobbiamo ringraziare chi ci aiuta lasciandosi aiutare”. Però adesso arrivano le telefonate di minacce, qualche cliente se n’è andato perché non gli garbava di essere curato con i ‘negri’: “Amen, io vado avanti”.

Ora sulla sedia c’è Calogero, avvocato in pensione. Appoggia le terga dove sono stati Paoli, Piano, Grillo, Villaggio. È la democrazia del dentista. Su questa poltrona dove impari a conoscere il dolore, ma ti illudi che basti togliere il dente per venirne fuori.