Giacomo Maiolini nel 1982. “Una mattina avevo un colloquio in banca, ottenuto grazie a una mia professoressa. Non sento la sveglia. Quando mi rendo conto del dramma inizio a correre senza criterio, con l’affanno già prima del classico ‘buongiorno’ ai miei genitori. Vivevo ancora con loro. Tutto inutile. Appuntamento perso, così come la possibilità di un impiego certo”.
Giacomo Maiolini nel 2019. “Ho appena festeggiato i 35 anni della Time Records, la mia etichetta discografica. Quel giorno del 1982 ha cambiato la mia vita, e ogni tanto mi chiedo chi sarei stato se avessi sentito quel trillo ossessivo; e io che mi picco, da sempre, di essere un precisino, pignolo, uno che non arriva mai in ritardo”.
Pignolo lo è, e per capirlo basta superare il comune approccio a borchie, giacchetto in pelle, jeans strappati, camicie con le scritte sul colletto, tatuaggi (anche) sulle mani, occhiali con la montatura impegnativa.
È tutto studiato.
Studiato nei dettagli, nelle sfumature, nelle chiavi di ricerca umana e sociale di un uomo che sembra la versione nostrana di Benjamin Button, il racconto di Francis Scott Fitzgerald personificato sullo schermo da Brad Pitt: Maiolini nasce vecchio (“e in apparenza pure un po’ sfigato, o come si dice: nerd”) e con il passare del tempo ringiovanisce, l’apparenza è sostanza, fino a diventare un numero uno della musica non solo in Italia, ma nel mondo, con circa 100 milioni di dischi venduti e due premi Grammy (gli Oscar della musica) vinti in Giappone.
Lui è il Re di un regno creato da se stesso, con base fissa a Brescia, “perché da qui non ci penso proprio a muovermi. La prima volta che sono arrivato in città pensavo di essere a New York”. E nel suo regno è amato, invidiato, rispettato o temuto, a seconda delle latitudini mentali.
Ore 13:30.
Vuole pranzare?
È un’opzione?
Di giorno non mangio mai.
A dieta?
No, così non perdo tempo, preferisco lavorare.
Esagerato.
Entro in ufficio alle 10, e non mi muovo fino a sera.
Chi è lei?
Uno che ha un buon orecchio, capisce quali sono i potenziali successi, li produce e li lancia.
I suoi artisti sono spesso solo “stagionali”.
Il mio lavoro è da sempre così: abbiamo creato hit enormi, cantanti al top delle classifiche, che magari non sono in grado di follow up (passare all’azione successiva).
Cosa accade?
Quando raggiungono improvvisamente la vetta, spesso credono di aver capito tutto dalla vita, di poter decidere il caldo e il freddo, e lì quasi sempre finiscono.
Un classico.
L’anno scorso abbiamo prodotto un israeliano che ha generato due miliardi di streaming: oggi non se ne sente più tanto parlare.
Dennis Lloyd.
Esatto, lui. In un video appaio io mentre ascolto per la prima volta il suo brano, e profetizzo: “Questo sarà un successo”. Negli Stati Uniti è stato disco di platino.
Proprio da una stagione.
Questo accade soprattutto nel mondo dei deejay: magari imbroccano il prodotto, e neanche si rendono conto della magia generata.
Vincono al Superenalotto.
È così.
Lei in Giappone è molto conosciuto.
Fino a qualche tempo fa, sì, oggi un po’ meno perché quel mondo che avevamo creato è un po’ finito agli inizi degli anni Duemila.
Ma allora?
Abbiamo raggiunto la vetta della classifica, e superato pure Michael Jackson.
Lei esteticamente è molto diverso da quando era più giovane.
Un giorno mi sono guardato allo specchio e non mi sono più sentito credibile.
In che senso?
Sembravo il nonno dei ragazzi con i quali lavoravo; quindi è iniziato un lavoro su di me, uno studio approfondito per capire dove e come approdare.
Presa di coscienza.
Mi sentivo fuori luogo.
Benjamin Button.
Non lo conosco, andrò a vederlo; però alcuni mi dicevano che assomigliavo a Bill Gates: sempre in giacca e cravatta e pure paffutello.
È ossessivo?
Più che altro maniacale, ed è fondamentale per il successo: ancora oggi questa professione la vivo come una droga, e quando ascolto un pezzo che secondo me è una bomba, allora avverto l’adrenalina addosso e non riesco a dormire.
Sta sul pezzo.
Pochi mesi fa torno da una cena, controllo la posta elettronica, e trovo un’email di un collaboratore: mi aveva spedito un brano. Accendo lo stereo. Lo piazzo al volume giusto. E da lì non ho più chiuso occhio, e ho scritto a tutti per ottenere un contratto con il gruppo. Il prossimo anno li lancio.
Come ha iniziato?
Insieme a un carissimo amico del tempo, che poi all’ultimo, quando dovevamo produrre la nostra prima incisione, si è tirato indietro. Da quel giorno, e per trent’anni, non gli ho rivolto la parola.
Gli anni Ottanta spesso si dividono tra paninari e metallari. Lei?
Nessuno dei due, più che altro ero uno sfigato che frequentava le discoteche solo per ascoltare i dischi, mica per le ragazze.
Musica e basta.
Mi presentavo ai deejay con il taccuino in mano e gli domandavo cosa suonavano; il giorno dopo andavo al negozio di dischi, acquistavo, e poi subito a casa di quel mio amico per tentare le stesse sorti dei deejay.
Risultato?
Negato, eppure stavo sempre in quella casa, anche quando il mio amico non c’era; all’improvviso mi sono reso conto che capivo quali pezzi sarebbero diventati dei successi.
A scuola come andava?
Ero il più bravo di Ragioneria; un giorno leggo un articolo dedicato all’allora presidente dell’Inter, Pellegrini, e scopro che anche lui era diplomato ragioniere, così mi rincuoro: “Se c’è riuscito lui senza università, allora posso pure io”.
Già allora leader?
Solo quando giocavo a pallacanestro: volevo sempre vincere. Fa parte di me
Indole.
Sì, e poi provengo da una famiglia povera, cresciuto in un paesino sfigato di 550 persone, con mamma casalinga e papà commerciante di polli; per fortuna mi hanno sempre lasciato libero, un po’ viziato: ero l’unico maschio con due sorelle.
In paese come veniva giudicato?
Un matto! Ma quel contesto era fuori da ogni logica odierna: la prima volta che ho visto Brescia, arrivato in pullman, pensavo fosse New York.
Con quali soldi ha iniziato?
Grazie a un tizio che me li ha prestati; tempo prima ero andato in banca per ottenere un finanziamento, ma neanche mi hanno concesso di entrare, per loro ero troppo poco.
E invece?
Con una delle prime produzioni ho incassato cinque milioni di lire.
Il suo obiettivo da ragazzo?
Diventare il più bravo in qualunque situazione che mi coinvolgeva.
Poster in cameretta?
Mai avuto.
Un idolo?
Come sopra: mai avuto.
Il sogno di conoscere qualcuno?
Mai.
Sei lei 56enne dovesse incontrare il lei 17enne?
(Scoppia a ridere) Mi spaventerei.
Se Brescia era una metropoli, allora Milano?
La prima volta ci sono andato in macchina. Arrivo e resto stupito: “Qui non esiste traffico, si parcheggia bene!”. La lascio, vado via, torno e scopro l’auto circondata da un nugolo vociante di persone: l’avevo piazzata sulle rotaie del tram.
E…
Mi sono vergognato, non avevo il coraggio di salirci.
I musicisti con i quali lavora, sono artisti?
In pochi, e sono pochi i veri professionisti alla Bob Sinclar (celeberrimo deejay).
Bob Sinclar è stato lasciato dalla moglie perché considerato noioso.
Se uno è nella musica e nel mondo della discoteca non deve per forza mantenere una quotidianità di feste, bevute o casino generale.
Non sia mai.
È la stessa storia dei comici: giù da un palco vengono etichettati come tristi; comunque solo i deejay con una concezione del lavoro da professionisti sono in grado di durare nel tempo.
Come Albertino.
Conosciuto perché a 21 anni ho organizzato il capodanno, e l’ho ingaggiato per suonare alla festa; alla fine sono arrivate 10.000 persone.
Lei un bell’incosciente.
Lo devi essere, altrimenti non combini nulla.
Nel libro che celebra i suoi trent’anni di attività c’è Fiorello che narra un’altra botta d’incoscienza.
Ogni volta che mi vede me la racconta, gli è rimasta impressa: negli anni Novanta Marco Baldini (conduttore radiofonico) aveva gravi debiti a causa del gioco d’azzardo, così anche io gli ho prestato dei soldi, 100 milioni di lire, e secondo Fiorello sono l’unico nella storia ad averli recuperati.
Perché la sua azienda è a Brescia e non a Milano?
Per trent’anni ho fatto avanti e indietro, tutti i giorni, anche due volte al giorno, ma non mi sono mai fermato per la notte. Al risveglio ho bisogno di vedere i campi, sentire il profumo del prato.
Primo tatuaggio?
La “L” gotica di Lorenzo, mio figlio.
I tatuaggi possono diventare una droga.
Per me no, mi sono fermato: quella stagione è chiusa, ma sono così.
Cioè?
In generale la mia vita è come un disco: lo metto, lo ascolto dall’inizio alla fine, poi lo reinserisco nella custodia e ne cerco un altro.
Per suo figlio è ingombrante?
Lo sostiene la mia ex moglie, e forse ha ragione, ma non me ne rendo conto: mi interessa solo la sua carriera universitaria, sul resto è libero.
Donne.
Solo in una fase ho ecceduto.
Anche qui.
Super delirio, poi ho capito l’errore.
I classici italiani li ascolta?
Poche cose, magari Rino Gaetano, in generale non mi emozionano.
Sotto la doccia cosa canta?
Niente.
Li guarda i talent?
Sono contro, hanno abbassato la qualità della musica.
Andrebbe come giudice?
Magari sì, ma li eliminerei tutti.
Torniamo alla domanda iniziale: chi è lei?
Uno che si dimentica immediatamente del successo ottenuto; e se da una parte è un bene per il lavoro, dall’altra si generano molti scompensi perché non vivo mai l’attimo.
Se si guarda allo specchio è contento?
Sì, ma voglio che siano gli altri a giudicarmi come vincente.
(Canta Francesco De Gregori in “Bufalo Bill”: “Se avessi potuto scegliere fra la vita e la morte, fra la vita e la morte, avrei scelto l’America”. E Giacomo Maiolini ha portato l’America a Brescia).