“Io, uomo da 100 milioni”

Giacomo Maiolini nel 1982. “Una mattina avevo un colloquio in banca, ottenuto grazie a una mia professoressa. Non sento la sveglia. Quando mi rendo conto del dramma inizio a correre senza criterio, con l’affanno già prima del classico ‘buongiorno’ ai miei genitori. Vivevo ancora con loro. Tutto inutile. Appuntamento perso, così come la possibilità di un impiego certo”.

Giacomo Maiolini nel 2019. “Ho appena festeggiato i 35 anni della Time Records, la mia etichetta discografica. Quel giorno del 1982 ha cambiato la mia vita, e ogni tanto mi chiedo chi sarei stato se avessi sentito quel trillo ossessivo; e io che mi picco, da sempre, di essere un precisino, pignolo, uno che non arriva mai in ritardo”.

Pignolo lo è, e per capirlo basta superare il comune approccio a borchie, giacchetto in pelle, jeans strappati, camicie con le scritte sul colletto, tatuaggi (anche) sulle mani, occhiali con la montatura impegnativa.

È tutto studiato.

Studiato nei dettagli, nelle sfumature, nelle chiavi di ricerca umana e sociale di un uomo che sembra la versione nostrana di Benjamin Button, il racconto di Francis Scott Fitzgerald personificato sullo schermo da Brad Pitt: Maiolini nasce vecchio (“e in apparenza pure un po’ sfigato, o come si dice: nerd”) e con il passare del tempo ringiovanisce, l’apparenza è sostanza, fino a diventare un numero uno della musica non solo in Italia, ma nel mondo, con circa 100 milioni di dischi venduti e due premi Grammy (gli Oscar della musica) vinti in Giappone.

Lui è il Re di un regno creato da se stesso, con base fissa a Brescia, “perché da qui non ci penso proprio a muovermi. La prima volta che sono arrivato in città pensavo di essere a New York”. E nel suo regno è amato, invidiato, rispettato o temuto, a seconda delle latitudini mentali.

Ore 13:30.

Vuole pranzare?

È un’opzione?

Di giorno non mangio mai.

A dieta?

No, così non perdo tempo, preferisco lavorare.

Esagerato.

Entro in ufficio alle 10, e non mi muovo fino a sera.

Chi è lei?

Uno che ha un buon orecchio, capisce quali sono i potenziali successi, li produce e li lancia.

I suoi artisti sono spesso solo “stagionali”.

Il mio lavoro è da sempre così: abbiamo creato hit enormi, cantanti al top delle classifiche, che magari non sono in grado di follow up (passare all’azione successiva).

Cosa accade?

Quando raggiungono improvvisamente la vetta, spesso credono di aver capito tutto dalla vita, di poter decidere il caldo e il freddo, e lì quasi sempre finiscono.

Un classico.

L’anno scorso abbiamo prodotto un israeliano che ha generato due miliardi di streaming: oggi non se ne sente più tanto parlare.

Dennis Lloyd.

Esatto, lui. In un video appaio io mentre ascolto per la prima volta il suo brano, e profetizzo: “Questo sarà un successo”. Negli Stati Uniti è stato disco di platino.

Proprio da una stagione.

Questo accade soprattutto nel mondo dei deejay: magari imbroccano il prodotto, e neanche si rendono conto della magia generata.

Vincono al Superenalotto.

È così.

Lei in Giappone è molto conosciuto.

Fino a qualche tempo fa, sì, oggi un po’ meno perché quel mondo che avevamo creato è un po’ finito agli inizi degli anni Duemila.

Ma allora?

Abbiamo raggiunto la vetta della classifica, e superato pure Michael Jackson.

Lei esteticamente è molto diverso da quando era più giovane.

Un giorno mi sono guardato allo specchio e non mi sono più sentito credibile.

In che senso?

Sembravo il nonno dei ragazzi con i quali lavoravo; quindi è iniziato un lavoro su di me, uno studio approfondito per capire dove e come approdare.

Presa di coscienza.

Mi sentivo fuori luogo.

Benjamin Button.

Non lo conosco, andrò a vederlo; però alcuni mi dicevano che assomigliavo a Bill Gates: sempre in giacca e cravatta e pure paffutello.

È ossessivo?

Più che altro maniacale, ed è fondamentale per il successo: ancora oggi questa professione la vivo come una droga, e quando ascolto un pezzo che secondo me è una bomba, allora avverto l’adrenalina addosso e non riesco a dormire.

Sta sul pezzo.

Pochi mesi fa torno da una cena, controllo la posta elettronica, e trovo un’email di un collaboratore: mi aveva spedito un brano. Accendo lo stereo. Lo piazzo al volume giusto. E da lì non ho più chiuso occhio, e ho scritto a tutti per ottenere un contratto con il gruppo. Il prossimo anno li lancio.

Come ha iniziato?

Insieme a un carissimo amico del tempo, che poi all’ultimo, quando dovevamo produrre la nostra prima incisione, si è tirato indietro. Da quel giorno, e per trent’anni, non gli ho rivolto la parola.

Gli anni Ottanta spesso si dividono tra paninari e metallari. Lei?

Nessuno dei due, più che altro ero uno sfigato che frequentava le discoteche solo per ascoltare i dischi, mica per le ragazze.

Musica e basta.

Mi presentavo ai deejay con il taccuino in mano e gli domandavo cosa suonavano; il giorno dopo andavo al negozio di dischi, acquistavo, e poi subito a casa di quel mio amico per tentare le stesse sorti dei deejay.

Risultato?

Negato, eppure stavo sempre in quella casa, anche quando il mio amico non c’era; all’improvviso mi sono reso conto che capivo quali pezzi sarebbero diventati dei successi.

A scuola come andava?

Ero il più bravo di Ragioneria; un giorno leggo un articolo dedicato all’allora presidente dell’Inter, Pellegrini, e scopro che anche lui era diplomato ragioniere, così mi rincuoro: “Se c’è riuscito lui senza università, allora posso pure io”.

Già allora leader?

Solo quando giocavo a pallacanestro: volevo sempre vincere. Fa parte di me

Indole.

Sì, e poi provengo da una famiglia povera, cresciuto in un paesino sfigato di 550 persone, con mamma casalinga e papà commerciante di polli; per fortuna mi hanno sempre lasciato libero, un po’ viziato: ero l’unico maschio con due sorelle.

In paese come veniva giudicato?

Un matto! Ma quel contesto era fuori da ogni logica odierna: la prima volta che ho visto Brescia, arrivato in pullman, pensavo fosse New York.

Con quali soldi ha iniziato?

Grazie a un tizio che me li ha prestati; tempo prima ero andato in banca per ottenere un finanziamento, ma neanche mi hanno concesso di entrare, per loro ero troppo poco.

E invece?

Con una delle prime produzioni ho incassato cinque milioni di lire.

Il suo obiettivo da ragazzo?

Diventare il più bravo in qualunque situazione che mi coinvolgeva.

Poster in cameretta?

Mai avuto.

Un idolo?

Come sopra: mai avuto.

Il sogno di conoscere qualcuno?

Mai.

Sei lei 56enne dovesse incontrare il lei 17enne?

(Scoppia a ridere) Mi spaventerei.

Se Brescia era una metropoli, allora Milano?

La prima volta ci sono andato in macchina. Arrivo e resto stupito: “Qui non esiste traffico, si parcheggia bene!”. La lascio, vado via, torno e scopro l’auto circondata da un nugolo vociante di persone: l’avevo piazzata sulle rotaie del tram.

E…

Mi sono vergognato, non avevo il coraggio di salirci.

I musicisti con i quali lavora, sono artisti?

In pochi, e sono pochi i veri professionisti alla Bob Sinclar (celeberrimo deejay).

Bob Sinclar è stato lasciato dalla moglie perché considerato noioso.

Se uno è nella musica e nel mondo della discoteca non deve per forza mantenere una quotidianità di feste, bevute o casino generale.

Non sia mai.

È la stessa storia dei comici: giù da un palco vengono etichettati come tristi; comunque solo i deejay con una concezione del lavoro da professionisti sono in grado di durare nel tempo.

Come Albertino.

Conosciuto perché a 21 anni ho organizzato il capodanno, e l’ho ingaggiato per suonare alla festa; alla fine sono arrivate 10.000 persone.

Lei un bell’incosciente.

Lo devi essere, altrimenti non combini nulla.

Nel libro che celebra i suoi trent’anni di attività c’è Fiorello che narra un’altra botta d’incoscienza.

Ogni volta che mi vede me la racconta, gli è rimasta impressa: negli anni Novanta Marco Baldini (conduttore radiofonico) aveva gravi debiti a causa del gioco d’azzardo, così anche io gli ho prestato dei soldi, 100 milioni di lire, e secondo Fiorello sono l’unico nella storia ad averli recuperati.

Perché la sua azienda è a Brescia e non a Milano?

Per trent’anni ho fatto avanti e indietro, tutti i giorni, anche due volte al giorno, ma non mi sono mai fermato per la notte. Al risveglio ho bisogno di vedere i campi, sentire il profumo del prato.

Primo tatuaggio?

La “L” gotica di Lorenzo, mio figlio.

I tatuaggi possono diventare una droga.

Per me no, mi sono fermato: quella stagione è chiusa, ma sono così.

Cioè?

In generale la mia vita è come un disco: lo metto, lo ascolto dall’inizio alla fine, poi lo reinserisco nella custodia e ne cerco un altro.

Per suo figlio è ingombrante?

Lo sostiene la mia ex moglie, e forse ha ragione, ma non me ne rendo conto: mi interessa solo la sua carriera universitaria, sul resto è libero.

Donne.

Solo in una fase ho ecceduto.

Anche qui.

Super delirio, poi ho capito l’errore.

I classici italiani li ascolta?

Poche cose, magari Rino Gaetano, in generale non mi emozionano.

Sotto la doccia cosa canta?

Niente.

Li guarda i talent?

Sono contro, hanno abbassato la qualità della musica.

Andrebbe come giudice?

Magari sì, ma li eliminerei tutti.

Torniamo alla domanda iniziale: chi è lei?

Uno che si dimentica immediatamente del successo ottenuto; e se da una parte è un bene per il lavoro, dall’altra si generano molti scompensi perché non vivo mai l’attimo.

Se si guarda allo specchio è contento?

Sì, ma voglio che siano gli altri a giudicarmi come vincente.

(Canta Francesco De Gregori in “Bufalo Bill”: “Se avessi potuto scegliere fra la vita e la morte, fra la vita e la morte, avrei scelto l’America”. E Giacomo Maiolini ha portato l’America a Brescia).

 

Il “modello carabinieri” per rifondare la sicurezza

Nel centro strategico del ministero della Sicurezza dello Stato di Hidalgo viene proiettato per la prima volta in Messico un filmato sull’Arma dei carabinieri. Una ventina di minuti, in spagnolo. Immagini efficaci, in rapida successione. I servizi di prossimità, i reparti operativi, quelli investigativi, la scuola ufficiali, i forestali, l’antimafia, i nuclei cinofili, i paracadutisti, la tutela dei beni culturali, l’antisofisticazione. E via via tutte le specialità, fino ai vincitori delle competizioni sportive, allo storico carosello a cavallo e a una fanfara trionfante in un teatro all’aperto. Gli uomini e le donne delle forze dell’ordine messicane assistono rapiti, gli occhi spalancati. Sguardi di ammirata incredulità di fronte a questo speciale corpo di polizia che sembra rappresentare un mondo intero. Ma due cose colpiscono, lì come poi al ministero dell’Interno e altrove, la fantasia dei presenti: l’Arma ha più di due secoli di vita; l’Arma è tradizionalmente in cima alla scala di fiducia dei cittadini italiani verso le loro istituzioni. Sogni, questi, per un Messico impegnato a rifondare da capo le sue strutture di polizia. Il cui nuovo presidente Andrés Manuel Lòpez Obrador promette di dar vita a una Guardia Nazionale che si sostituisca progressivamente alle polizie dei singoli Stati. Polizie che la stampa e gli osservatori internazionali indicano come patologicamente corrotte e spesso complici delle violenze peggiori, a partire dalle desapariciones forzadas. I carabinieri messicani. Potrebbe essere un passo avanti decisivo in un paese martoriato e che sconta l’assenza di alcune condizioni di base dell’esperienza italiana di resistenza al crimine: l’indipendenza della magistratura, una forte scuola pubblica, una struttura di polizia nazionale, efficiente e credibile. Da qui gli interrogativi di chi aspira al cambiamento. Quanto guadagnano i carabinieri? Che forme di assistenza hanno? Come vengono reclutati? I confronti illuminano ogni volta il cammino da percorrere. Non è solo questione di stipendi, infatti. Ma soprattutto di senso di appartenenza alla nazione e alle sue istituzioni. I poliziotti, spiegano i miei ospiti, non hanno infatti un lavoro a tempo indeterminato. Non fanno parte a vita di nulla. Quando cambiano i governi, cambiano anche migliaia di poliziotti: “Capisce la tentazione di chi sa maneggiare le armi e si trova d’improvviso senza lavoro? Los Zetas sono nati così”. E in effetti, come si fa a rappresentare lo Stato senza farne parte? Un ufficiale dell’Arma fa notare a tutti che contano anche i simboli. Se in Messico vengono uccisi dei poliziotti, la cosa non ha un grande valore pubblico. Se invece succede in Italia vanno ai funerali i ministri e a volte il capo dello Stato. Nel centro strategico dello Stato di Hidalgo passa come una scossa di consenso. Il ministro della sicurezza Simon Vargas, che sostiene il progetto di Obrador, annuisce. Eppure i dubbi della società civile i dubbi si inseguono. Non sul progetto in sé, ma sulla sua effettiva volontà o possibilità di realizzazione. Le cifre messe a budget bastano per una forza di settemila agenti, altro che gli 80 mila di cui si parla. Il resto, dice l’opinione pubblica più critica, andrà ai militari. Esercito e Marina sembrano crescere in potere nella gestione della sicurezza. Il che non aiuterà certo a costruire una polizia di prossimità. Di più: sono stati tagliati gli aiuti ai familiari dei desaparecidos, spesso costretti a lasciare il lavoro per cercare la verità sui propri cari. Nel Messico che prova a muoversi, i passi avanti si mescolano con i passi indietro. Il gelo plana su troppe speranze.

Muri e droga: il Messico nel labirinto della solitudine

Qui la storia decide in che direzione andare. Con tutte le sue partite. A incominciare da quella dei muri e delle grandi migrazioni. Perché ai confini del Messico il muro è lungo, infinito, disperato. A Tijuana. A Ciudad Juárez soprattutto. Gli fiorisce accanto, dalla sua parte povera, un sottomercato della droga. Pullula nei picaderos, i tuguri dove si rifugiano i “terminali”, quelli che ormai nemmeno si trovano le vene. Li attendono degli esperti, tre iniezioni in cambio di una dose. Fantasmi che producono altri fantasmi. Viaggi gonfi di cicatrici, stupri e violenze lì si fermano sbigottiti. A Ciudad Juárez, metafora della immensa partita di quest’epoca, gruppi di religiosi danno rifugio temporaneo nelle casas del migrante ai diseredati dell’America latina: Guatemala, Salvador, Honduras, da un po’ anche agli africani che arrivano dal Brasile.

Piccoli e impervi sentieri sembrano assicurare ai più intraprendenti un passaggio verso il paradiso. Qualcuno ce la fa. Ma troverà il deserto. Che ne sarà di quel ragazzo ventenne e della sua giovanissima moglie con bambina? Resisteranno alle centinaia di chilometri a piedi senz’acqua? Incontreranno i volontari che portano soccorsi, o i suprematisti americani che sorvegliano i confini della patria con tanto di cani lupo da lanciare contro i clandestini? Il giovanissimo padre non teme nulla. Lo spiega all’incredulo missionario: gliel’ha detto il cielo che giungerà sano e salvo. Non sta forse nelle Scritture che il popolo di Dio troverà la terra promessa?

 

Dagli anni 90 non è un Paese per donne: oggi sempre peggio

Ciudad Juárez però è anche simbolo di un’altra partita da cui la storia deve passare. La donna, i suoi diritti, le sue libertà, con i pronunciamenti solenni degli Stati che si fanno ripetutamente carta straccia. Qui più che altrove. È dagli anni 90 che in questo Paese i corpi delle donne assassinate occupano le prime pagine dei giornali, molto spesso accanto a nudi femminili pornografici. Al punto che il Messico, nota Giulia Marchese, ricercatrice e consulente delle Nazioni Unite, è il primo Paese al mondo ad avere tipificato penalmente il femminicidio. Lo ha fatto nel febbraio del 2007, dopodiché molti suoi singoli Stati sono venuti al seguito. Eppure la strage continua. Dicono le statistiche che la maggioranza degli assassini sia opera di familiari, coniugi, fidanzati, “ex” di ogni genere.

In agosto, dopo gli ultimi casi di giovani donne scomparse e ritrovate uccise, è scattato un appello in Internet a costituire una rete di autodifesa collettiva. Su un muro di via generale Francisco Fogaoga, a Città del Messico, la denuncia è un urlo scritto: “Cada dìa mueren 6 mujeres, por crímines de violencia de genero”. Ma c’è un Messico sordo. Il dialogo con un noto penalista della Capitale lascia di stucco. A Ciudad le donne in genere scompaiono per scappare con l’amante, spiega con una certa levità. E invece scompaiono, lì come a Città del Messico come altrove, mentre vanno al lavoro, mentre la povertà le costringe a percorrere da sole a piedi strade solitarie.

 

Non solo migranti, le mujeres e i femminicidi. E i narcos

Ma nel Messico la storia decide anche per l’altra terribile partita che vi si sta giocando: quella sulla realizzazione o meno del primo narcostato al mondo. Non vi riuscì Pablo Escobar con la Colombia, né Riina con la Sicilia, ma nella antica e grande democrazia latino-americana l’impero della droga sembra quasi farcela. In più della metà dei 32 Stati è realtà consolidata lo strapotere dei cartelli, che gareggiano in violenza e sangue per controllare il territorio, i luoghi da cui passa droga di ogni tipo, anche quella chimica che arriva dalla Cina, per sfamare la domanda che cresce dall’altra parte del Muro.

C’è una contabilità pazzesca che il mondo o non conosce o archivia negli stereotipi del folclore criminale. I 200 mila morti dei neanche vent’anni del nuovo millennio: sullo sfondo, i volti dei trafficanti o dei poliziotti corrotti. Gli oltre 40 mila desaparecidos, ormai battuto il record argentino, di cui invece il mondo sa o ha parlato. Fosse comuni ovunque, 8.500 “corpi freschi”, così vengono chiamati, stipati in 5-6 tir sparsi nel Paese, cadaveri in frigo da nessuno riconosciuti. Qui non si sparisce per le proprie idee politiche ma per qualsiasi o nessuna ragione. Perciò le ideologie e la politica internazionale tacciono.

All’Università di Sor Juana a Città del Messico giungono una quindicina di madri di desaparecidos per intervenire al convegno su verità e memoria. La commozione diventa abisso quando parla Veronica. Racconta di quando giunse una segnalazione: forse il tuo bambino è sepolto lì sotto. Di quando andò sul posto a scavare con la pala. Si era vestita bene, si era truccata, perché se ritrovava il suo bambino voleva che rivedesse la propria mamma bella. Si commuove anche la rettrice, e anche Erika, un’attivista che mai ha parlato in pubblico, mi dicono, e invece ora ha appena preso la parola, per disperazione, perché non si può andare avanti così.

 

Qui si fa la Storia: chi vince tra crimine e democrazia?

Ad Acapulco, un giorno paradiso e simbolo delle bellezze di questa terra, ci sono otto morti al giorno. A Tijuana ormai sono dieci. Nello Stato del Guerrero, quello della strage degli studenti di Ayotzinapa, vige di fatto il coprifuoco. In molti luoghi va in scena il romanzo nero di un’infanzia perduta. Eduardo, il grande “squartatore” di Acapulco, ha iniziato a uccidere a nove anni. È sorta una intera generazione di coyote, come si chiamano i bimbi-vedetta.

Ma è difficile raccontare tutto questo perché in Messico, ecco la quarta sfida che vale per il mondo, il diritto all’informazione è la posta di una lotta sanguinosa. Dodici giornalisti uccisi solo quest’anno, l’ultimo una ventina di giorni fa. È appena nata la rete dei Periodistas de A Pie, guidata da Marcela Turati, donna coraggiosa. Vogliono reagire, terranno un grande convegno a novembre. Loro, le donne, i familiari, qualche università, i religiosi, le Nazioni Unite, i diritti umani con un ministro appassionato, Alexandro Encinas. Uno stormir di fronde da aiutare, vietato voltarsi dall’altra parte.

Il caso Kievgate – “Insabbiate”: Trump fa i conti con le stesse accuse a Nixon

Cover up: il 9 agosto 1974 Richard Nixon si è dimesso per colpa di queste due parole, “insabbiamento”, prima di andare al voto del Congresso sull’impeachment, la messa in stato d’accusa. Donald Trump non è tipo che si dimette, anzi, si prepara allo scontro. Ed è per quelle due parole “cover up”, cioé per aver cercato di insabbiare la telefonata con il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky, che rischia di cadere.

Sulla carta, Trump sembra spacciato: dopo aver rinviato la questione per mesi durante il Russiagate, i Democratici si sono decisi a metterlo in stato d’accusa. In questi casi non conta tanto il punto d’arrivo, ma il percorso: all’improvviso una campagna elettorale che era partita sui grandi temi dell’economia, per i Democratici diventa soltanto l’assedio a Trump, a colpi di audizioni al Congresso, fughe di notizie, dichiarazioni serie e indignate come quelle della speaker al Congresso, l’eterna Nancy Pelosi. Un calvario per Trump, che però avrà occasioni continue per aizzare i suoi sostenitori contro l’establishment che lo vuole cacciare, contro i Democratici che accusano lui di corruzione e tradimento soltanto per nascondere i propri misfatti, che lo accusano di voler truccare le elezioni mentre mobilitano il deep state, il potere non elettivo, per fermarlo nel 2020.

C’è del vero in entrambe le versioni. Mettiamo in fila quello che è emerso nella settimana più sorprendente della politica Usa recente. Il 23 luglio 2019 finisce il primo Russiagate: il procuratore speciale Robert Mueller, nominato dal governo per indagare sul presidente ma che risponde al Congresso, riferisce che non ci sono prove di una cospirazione tra la squadra di Trump e la Russia nella campagna elettorale del 2016. A leggere il suo rapporto, è tutto piuttosto chiaro: la Russia ha fatto di tutto per favorire Trump, passando anche a Julian Assange di Wikileaks le mail rubate allo staff di Hillary Clinton, e molti uomini del futuro presidente hanno incontrato quelli di Putin. Ma non c’è il coordinamento esplicito. Trump capisce che ha vinto la battaglia di comunicazione e non rischia più il carcere. Due giorni dopo l’audizione del procuratore, che chiude la vicenda, Trump chiama il presidente neo-eletto dell’Ucraina Zelensky.

Prima di procedere, ricostruiamo la diffusione delle notizie sulla vicenda: il 9 settembre l’ispettore generale dell’intelligence riferisce alla commissione del Congresso sui servizi segreti che esiste una denuncia da parte di un whistleblower, cioè un funzionario che scopre gravi violazioni di legge e le denuncia in un canale ufficiale che garantisce ascolto alla segnalazione, ma tiene coperta la sua identità. Il direttore dell’intelligence, Joseph Maguire, invece di portare la lettera al Congresso sottopone la questione al Dipartimento di Giustizia, cioè al governo, che si consulta con i legali della Casa Bianca, cioè con Trump, che è anche l’oggetto dell’esposto. Una violazione del protocollo? Sì e no, perché la questione riguarda la sicurezza nazionale. Sintesi dei giorni successivi: il dipartimento di Giustizia non vuole divulgare il testo dell’esposto, ma il Congresso viene comunque informato del contenuto, una telefonata tra Trump e Zelensky, e costringe il governo a sbloccare il documento. A questo punto Trump fa una cosa all’apparenza incomprensibile: prima che il Congresso riceva la denuncia del whistleblower, divulga la trascrizione della telefonata. Trasparenza, o forse un estremo depistaggio, perché si tratta di un riassunto, non del verbale stenografico. Il Congresso ottiene l’esposto, il New York Times lo pubblica e rivela: l’autore è un alto funzionario della Cia che in passato ha lavorato alla Casa Bianca. Torniamo alla cronaca degli eventi sulla base dei documenti disponibili. Il 25 luglio Trump chiama Zelensky: a luglio il presidente degli Stati Uniti ha detto al suo capo di gabinetto di congelare 400 milioni di dollari di aiuti militari all’Ucraina. Non ne fanno menzione, nella telefonata, ma tanto Trump quanto Zelenski sanno che gli Usa hanno questa leva negoziale. Trump e il suo avvocato personale, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, sono ossessionati dall’Ucraina. Sono convinti che tutti i guai di Trump sul Russiagate sono dovuti a un asse tra il precedente presidente ucraino Petro Poroshenko e l’establishment Democratico che voleva Hillary Clinton alla Casa Bianca. L’ex capo della campagna elettorale di Trump nel 2016, Paul Manafort, è finito in carcere proprio per colpa delle rivelazioni ucraine sulle frodi fiscali commesse sui pagamenti che aveva ricevuto quando faceva da consulente al presidente filo-russo Viktor Yanukovich. Rivelazioni emerse quando al potere c’era Poroshenko, appoggiato dall’amministrazione Obama e quando Manafort lavorava per Trump.

“Si parla molto del figlio di Biden, che Biden fermò l’inchiesta e molte persone vogliono scoprire cosa è successo – dice Trump a Zelenski – se potessi darci un’occhiata…”. I fatti a cui si riferisce Trump sono noti, anche se New York Times e giornali liberal li liquidano come inezie. Dopo la crisi della Crimea nel 2014, il vicepresidente di Obama, Joe Biden, è l’uomo che per l’amministrazione segue l’Ucraina, partita geopolitica cruciale. Le manifestazioni di piazza ribaltano il regime di Yanukovich, arrivano al potere gli anti-russi di Poroshenko. Uno degli oligarchi più vicini a Yanukovich, Mykola Zlochevsky, inizia a preoccuparsi: da ministro dell’Energia ha assegnato concessioni di gas alla sua società Bursima e si è arricchito. Cambiato il vento politico, ora si trova nel mirino del governo inglese che gli ha congelato 23 milioni di dollari a Londra e del procuratore nazionale Viktor Shokin che risponde a Poroshenko. Per cautelarsi, il 12 maggio 2014, Zlochevsky coopta nel consiglio di amministrazione di Burisma Hunter Biden, figlio di Joe Biden, avvocato dal curriculum poco brillante, privo di alcuna esperienza nel campo dell’energia. Nell’arco di due anni, inoltre, Burisma versa oltre 3 milioni di dollari a una società di cui il giovane Biden è partner insieme a Christopher Heinz, figliastro di quel John Kerry che in quel momento, guarda caso, è a capo della diplomazia americana, come segretario di Stato. Mentre il procuratore Shokin indaga per corruzione la società Burisma dove lavora Biden figlio, Biden padre si mette alla testa dei partner internazionali dell’Ucraina che chiedono di cacciare Shokin con la motivazione ufficiale che è troppo morbido. Detto, fatto: due mesi dopo la visita di Biden a Kiev del dicembre 2015, il Parlamento ucraino licenzia Shokin. Il fascicolo sulla Burisma passa a un’altra autorità anticorruzione che archivia tutto.

Nel 2018, a un dibattito pubblico, Biden si vanta di aver fatto quello per cui ora Trump rischia l’impeachment: ha ricattato il governo ucraino, niente aiuti se non cacciava il procuratore (che indagava sul datore di lavoro di Biden jr): “Io gli ho detto che non gli davamo il miliardo di dollari, loro hanno detto: ‘Non hai l’autorità, non sei il presidente’, io gli ho detto ‘chiamalo’ (…) Gli ho detto: ‘Parto tra sei ore, se il procuratore non viene licenziato non avrete i soldi’. Be’, figlio di puttana, l’hanno licenziato e hanno messo uno più integro”. I Democratici non hanno mai alzato un sopracciglio di fronte al palese conflitto di interessi di Biden.

Trump e alcuni media di destra sono ossessionati da questa storia: sognano che il nuovo procuratore anticorruzione, Yurij Lutsenko, indaghi Biden padre e figlio per corruzione in piena campagna elettorale. E così si spiega l’affannarsi di Rudolph Giuliani, privo di incarichi formali ma vicinissimo a Trump, per incontrare funzionari ucraini e tenere sotto pressione il nuovo governo di Zelensky. Giuliani ha anche tessuto rapporti con il procuratore anticorruzione Lutsenko, fonte di vari articoli molto documentati sui Biden pubblicati sul giornale conservatore The Hill.

Veniamo quindi alle informazioni nel secondo documento di questa storia, l’esposto anonimo del whistleblower. Contiene alcune informazioni cruciali che danno elementi a Trump per gridare al complotto. L’informatore anonimo non ha assistito alla telefonata: “Nell’adempiere alle mie mansioni, ho ricevuto informazioni da vari funzionari del governo che il presidente degli Stati Uniti ha usato il suo potere per sollecitare una interferenza di un Paese straniero nelle elezioni americane del 2020”. Poi indica come parte dell’operazione il ministro della Giustizia William Barr e, appunto, Giuliani. L’anonimo non si riferisce a un solo episodio, parla di “una mezza dozzina di funzionari” che gli hanno riferito informazioni per “quattro mesi”. Alcune di queste persone erano presenti anche alla telefonata Trump-Zelensky che seguiva protocolli di riservatezza minimi perché doveva essere solo un saluto di congratulazioni dopo le elezioni in Ucraina. L’informatore anonimo delinea però un quadro che compromette non soltanto Trump, ma rende responsabili di depistaggio molti soggetti ai vertici della Casa Bianca: “I funzionari della Casa Bianca mi hanno riferito l’informazione erano molto turbati da cosa era emerso nella telefonata. Mi hanno detto che c’era già una ‘discussione in corso’ tra gli avvocati della Casa Bianca su come trattare la telefonata nell’eventualità che, dicevano i funzionari, avessero assistito a un abuso di potere da parte del presidente per perseguire interessi personali”.

Prima ancora che Trump metta giù il telefono, tutti quelli intorno a lui cominciano a preoccuparsi di come non essere travolti dalla violazione della legge. Nei giorni successivi, prosegue l’informatore, “molte fonti mi hanno detto che alti funzionari sono intervenuti per ‘mettere sotto chiave’ le registrazioni della telefonata”. Le trascrizioni ufficiali sono state fatte sparire, le normali pratiche di archiviazione violate. Eccoci tornati al punto di partenza: cover up. Insabbiamento, un abuso di potere che, innescato dal presidente, ha reso complice tutto l’esecutivo. Sono dichiarazioni per ora anonime, ma il nucleo centrale è già dimostrato: la telefonata Trump-Zelenski c’è stata.

I Democratici sono convinti di avere una storia comprensibile a tutti da raccontare: Trump voleva inquinare le elezioni 2020 e così procedono a quell’impeachment tanto a lungo rinviato. Trump è nei guai, ma ha ottenuto un primo risultato: ad oggi è sempre più probabile che sia Biden lo sfidante Democratico nel 2020. Cioè un uomo anziano, bianco, propenso alle gaffe, prodotto dell’establishment e corrotto, almeno secondo Trump. Tra la copia e l’originale, è l’ultima scommessa del presidente, gli americani sceglieranno l’originale. Cioè lui, The Donald.

Mail Box

 

Pagamenti elettronici: i costi solo a carico dei commercianti

Il problema dei pagamenti elettronici riguarda non tanto l’evasione fiscale, quanto il costo del giochetto. Il prezzo della linea telefonica, la cifra fissa per il Pos, le varie percentuali sulle transazioni che sono enormi per piccoli o piccolissimi importi, a cui si è aggiunta quest’anno la spesa per certificare che l’utente è in grado di utilizzare il Pos attraverso un pacco di carte in inglese. Questo meccanismo mi ricorda l’invito di Brunetta, il quale, qualche decennio fa, spingeva gli italiani a inventarsi il lavoro. In questo caso un compito della banca viene scorporato e affidato a una nuova società, che naturalmente chiede la propria remunerazione. E difficilmente un piccolo imprenditore può avventurarsi in una simile burocrazia. È un tentativo per far chiudere i piccoli, per creare ancora un maggiore divario di costi tra le piccole e le grandi imprese. Con tutte le leggi che sono state fatte (e mai revocate) per richiamare investimenti, si regalano (con esenzioni o riduzioni fiscali e altro) le attività italiane a gruppi con potenti mezzi finanziari. E chi controlla quando costruiscono, ristrutturano, assumono, lavorano, pagano o versano le poche tasse? Non capite perché i giovani imprenditori fuggono dal Paese?

Emilio Baldrocco

 

Blocco della prescrizione: una norma “istruzioni per l’uso”

Il “caso Papa” che riempie i quotidiani e le bocche di tanti commentatori “garantisti à la carte” è la dimostrazione più palese delle scappatoie che offre la legislazione attuale a chi può permettersi buoni avvocati e conta su quel labirinto di norme e pastoie del codice di procedura penale. È a personaggi come Papa (e ce ne se sono tanti tra i politici e persone influenti) che fa paura il “blocca prescrizione” perchè, se fosse stato già vigente, i termini per la prescrizione sarebbero stati bloccati e probabilmente sarebbe stato tranquillamente condannato, come il giudizio di primo grado aveva sentenziato. Aspetto l’esito finale del blocca prescrizione, che darà l’esatta dimensione delle vere intenzioni del Pd. E qualche segnale, non certo positivo, si è visto già.

Leonardo Gentile

 

La mafia non è più quella di una volta, come la politica

Nel suo pessimismo antropologico cupo e disperato il film La mafia non è più quella di una volta del regista Franco Maresco è una metafora disperata della vertigine abissale raggiunta dalla società italiana. La grossolana omertà dei neomelodici dello Zen di Palermo può essere comparata tranquillamente a quella di certa politica, che strizza l’occhio al crimine organizzato, e ormai silente rispetto alla colonizzazione di intere parti di economia legale. Un film documentario da fare vedere necessariamente nelle scuole, dove non si sa nemmeno più chi siano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Claudio Careri

 

Caporalato e baraccopoli: impariamo dall’Australia

In questi giorni l’elemosiniere di Papa Francesco cardinale Konrad Krajewski ha visitato le baraccopoli della provincia di Foggia dove vivono in condizioni disumane migliaia di braccianti agricoli. In Australia, per prolungare il visto di lavoro, è obbligatorio lavorare per almeno 88 giorni in aziende agricole. Ma in vicinanza di queste fattorie, sono ubicati degli ostelli gestiti da privati dove, a costi contenuti, viene offerto un alloggio decente e c’è la possibilità di essere messi in contatto con i proprietari di aziende agricole della zona. Tutto questo è reso possibile da contratti di assunzione e pagamenti effettuati esclusivamente attraverso Internet. Di conseguenza i fenomeni di sfruttamento degli immigrati sono ridotti al minimo. Direi che dall’Australia c’è solo da imparare.

Antonio Bovenzi

 

Scuola: ci si preoccupi della qualità, non degli snack

Il neo ministro 5S esordisce subito con la tassa sulle merendine. Ma snack, bibite e distributori vari sono già “tassati” dalla scuola che, in genere, ne concede la vendita e/o l’installazione in cambio di un contributo. Vuole però mantenere l’Invalsi, che certifica quello che già si sa: il disastro. I nostri giovani, salvo rare eccezioni, sono maleducati, non hanno interessi o, peggio ancora, cultura. D’altronde la scuola la fanno gli insegnanti, ma i buoni docenti sono sempre più rari. Cosa vogliamo pretendere se gli insegnanti sono selezionati per sfinimento e non tramite concorsi? Se sono costretti al conformismo, mediante inutili (e assicuro: inutili) corsi di formazione? Come possiamo sperare in bravi insegnanti se i loro stipendi sono indegni o anche solo di trattenere laureati in questo sfortunato Paese? Nella scuola dell’autonomia e dei progetti s’insegna meno e peggio, ma che importa: in alternativa si fanno tante attività, spesso inutili, che però portano finanziamenti agli istituti! Quanto è migliorata la scuola da quando, con la riforma Berlinguer è stata introdotta l’autonomia scolastica, la figura del dirigente e si è umiliata l’attività del vero insegnamento? I risultati sono, tragicamente, sotto gli occhi di tutti.

Ing. Licio Raspanti docente di Meccanica ITIS G. Galilei Arezzo

Presto in libreria “Il Mattarella”, nuovo compendio di poesia

Purtroppo, lo diciamo con rammarico, lo psicanalista Claudio Risé (ieri su La Verità) è stato il primo a far notare un succoso intervento di Sergio Mattarella di giovedì ingiustamente ignorato dai media: a Recanati per i 200 anni dalla composizione de L’Infinito, il capo dello Stato s’è avventurato a braccio sui motivi del suo omaggio a Giacomo Leopardi e “alla cultura che non tollera confini”. Riferimento che suona bizzarro per un testo che nasce nascosto dietro a una “siepe”, “cara” al poeta perché gli “esclude” dallo sguardo un bel pezzo di orizzonte. Non sarà un caso isolato: Il Fatto può anticipare che è di prossima uscita Il Mattarella, nuovo e audace compendio di poesia. Sul tema dei confini, ad esempio, il capo dello Stato cita anche il D’Annunzio di “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”. Il cinque maggio di Manzoni, invece, viene letta (Ei fu) come una violenta filippica contro i dittatori, mentre S’i fosse foco di Cecco Angiolieri come un appassionato intervento contro l’inquinamento. Poi c’è il “Congedo alla sapienza / e congedo all’amore / Congedo anche alla religione / Ormai sono a destinazione” di Giorgio Caproni che Mattarella ritiene un accorato invito all’ottimismo e, soprattutto, a completare la Torino-Lione. Non può mancare Dante, la cui terzina Amor ch’a nullo amato etc verrà citata in un intervento contro lo stalking. Come si chiude il libro? “Non con uno sparo, ma con un singhiozzo” ovvero col celebre invito di T. S. Eliot a tenere basso il tono della voce e a non disturbare il conducente, specie se dorme.

Dio restituisce giustizia agli oppressi e pone fine all’orgia degli spensierati

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: “C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: ‘Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma’. Ma Abramo rispose: ‘Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi’. E quello replicò: ‘Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento’. Ma Abramo rispose: ‘Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro’. E lui replicò: ‘No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno’. Abramo rispose: ‘Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti’”. (Luca 16,19-31).

Nel Vangelo, Luca ci presenta due personaggi: il ricco senza nome, che si confonde con la sua ricchezza, la raffinatezza dei suoi vestiti e l’abbondanza della sua tavola, e il povero Lazzaro (che significa Dio-aiuta) che sta alla sua porta. Di lui, il ricco non si accorge: questo è il suo peccato. Mentre, persino i cani gli leccano le piaghe. I due, tanto “prossimi” nella vicenda narrata, sono lontanissimi e divergenti nei loro destini. La morte, che li unisce come comune esito della vita, li separa in modo inesorabile: Lazzaro è portato dagli angeli accanto ad Abramo, mentre il ricco innominato viene sepolto… negli inferi fra i tormenti, lontano da Abramo.

Il ricco rivolge suppliche disperate al Padre Abramo affinché autorizzi il povero, che non è mai stato oggetto della sua attenzione, ma che ora viene riconosciuto e chiamato per nome, ad attingere con la punta del dito una goccia d’acqua per portargli refrigerio tra le fiamme dell’inferno. Il Padre Abramo non può cambiare le sorti di due vite responsabilmente spese secondo la Parola di Dio o il proprio tornaconto. Questo ricco porta una preoccupazione per l’esito futuro dei suoi cinque fratelli che vivono come lui ha vissuto e, mosso da un improvviso atto di generosità, chiede che proprio Lazzaro sia mandato ad ammonirli severamente perché non finiscano anch’essi in questo luogo di tormento.

I beni non sono tutto e non c’è soltanto questa vita terrena; da Mosè ai profeti siamo istruiti e illuminati per riconoscere la nostra identità di figli di Dio chiamati, in Gesù Cristo, a lasciarci amare e riconciliare: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti. L’individuazione della volontà di Dio avviene nella normalità della storia delle nostre vicende personali di vita, in un continuo processo di umanizzazione di tutto quanto è contro l’uomo. Nulla sappiamo del modo di vivere di Lazzaro: la sua beatitudine presso il Padre Abramo ci immerge nella gratuità infinita del Signore che, anche con questa parabola, ci ricorda la sua predilezione per i piccoli, i poveri, gli ultimi, gli esclusi, i senza storia, quelli che fanno fatica a partecipare al banchetto della vita.

Ci incoraggi questa bella preghiera domenicale: O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo Regno.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Contro il ritorno di Salvini serve un federatore: Bersani

 

“La mucca nel corridoio sta bussando alla porta”. “Andiamo a riprendere chi è scappato nel bosco”. “Siam mica qui ad asciugare gli scogli”. “Tu vuoi un tortello a misura di bocca”. “C’è chi preferisce un passerotto in mano che un tacchino sul tetto”.

Alcune delle metafore politiche di Pier Luigi Bersani

 

L’ultimo sondaggio di Nando Pagnoncelli (“Corriere della Sera” di ieri) conferma che il blocco di centrodestra, targato Matteo Salvini, e quello di centrosinistra, targato Giuseppe Conte, si dividono quasi a metà l’elettorato italiano. Il che induce a tre brevi riflessioni.

Primo: il cosiddetto capitano leghista farebbe bene a non parlare più a nome esclusivo del “popolo italiano”, visto e considerato che, numeri alla mano, del succitato popolo egli rappresenta oggi circa il 30 per cento (tendente a calare). Per carità, pur sempre una consistente maggioranza relativa di elettori, ma ben lungi dal fargli pretendere i “pieni poteri”. Anche perché il partito di FdI viene dato in crescita (quasi il 9 per cento) e Giorgia Meloni, pur in sintonia sulla stretta immigrati con Salvini, non sembra il tipo da svolgere ruoli gregari (per non parlare di Silvio Berlusconi che il suo 7 per cento non intende regalarlo a nessuno). Secondo: il 4,8 per cento di Italia Viva dimostra che, per il momento, il partitino di Matteo Renzi gratta qualcosa a Pd e M5S, ma senza creare troppi sconquassi nell’area di centrosinistra. Insomma: se non è zuppa è pan bagnato. Terzo: è vero che la somma di Cinque Stelle, Democratici, La Sinistra, +Europa, con annessi e connessi sembra in grado di raggiungere, e forse superare, il 50 per cento. Si tratta tuttavia di una maggioranza troppa variegata per riuscire a trasformarsi, in tempi brevi, in una solida coalizione. A questo proposito ricordiamoci sempre che fine fece la composita e improvvisata Unione, nata a sostegno del breve governo di Romano Prodi, ma che finì per spianare la strada al trionfale ritorno del Caimano di Arcore.

Per non ripetere quel disastro (e spianare un’autostrada al ritorno di Salvini) sarebbe utile e forse anche indispensabile la figura di un “federatore” in grado di dare una forma politica non precaria ai tanti soggetti che oggi stanno nel campo opposto a quello della destra-destra.

Convinti di non fargli un favore, questa piccola rubrica propone per l’immane compito la figura di Pier Luigi Bersani. Perché è stato il primo a cercare il dialogo con i grillini, e se anche molti allora lo presero in giro per quel famoso e non fortunato streaming, egli dimostrò coraggio e intuito politico. Perché Bersani è uomo con solide radici di sinistra e che dunque può riscuotere la necessaria fiducia nella diaspora della sinistra-sinistra, oggi alla ricerca di un futuro. Perché Bersani è uomo di riconosciuto buon senso, beniamino del pubblico televisivo per il suo linguaggio mai tortuoso e con i piedi ben piantati per terra. Come dimostrano le sue strepitose metafore da contadino scaltro. Perfetto, quindi, per dare alla comunicazione del centrosinistra la stessa concretezza di Salvini, ma pacata, umana e senza urla e insulti. Che ne pensa Bersani?

Renzi e i suoi cari, il pm Creazzo, il Ros e la crisi del Csm

L’inchiesta giudiziaria su Alberto Bianchi conferma che pezzi del sistema giudiziario sono forti coi deboli e deboli coi forti. Non si sa se la Procura di Firenze lo accusi ingiustamente. Ma è forte il sospetto che troppi magistrati usino l’azione penale, e le vite degli altri, per la propria carriera. Bianchi è lo storico fundraiser di Matteo Renzi, presidente della fondazione Open (prima Big Bang) nel cui cda sedevano pezzi del governo italiano come Luca Lotti. Bianchi chiedeva soldi per Renzi e magari il donatore lo incaricava come avvocato di tutelarlo in un contenzioso contro lo Stato difeso dal governo Renzi. Per Bianchi non c’è conflitto d’interessi. Fino a che non escono prove della sua disonestà – come spiegò in una memorabile intervista alla sua amica Annalisa Chirico sul Foglio – l’accusa è solo un sillogismo da regime sovietico. Ora la procura guidata da Giuseppe Creazzo lo indaga per traffico di influenze ma, sostiene l’avvocato Antonio D’Avirro, senza elementi seri sui rapporti con il concessionario autostradale Carlo Toto. I pm sostengono il contrario, si vedrà. Creazzo è in corsa per prendere il posto di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma, partita sulla quale il Csm e la magistratura tutta sono stati travolti da un’ondata di fango indelebile, anche per i traffici di Palamara, Lotti e Ferri contro Creazzo. Quando Renzi era forte, suo padre era indagato da varie procure (Genova, Trani, Cuneo, Roma, Napoli) ma non da Firenze. Che si mosse su babbo Tiziano e mamma Laura solo il 17 marzo 2018, due settimane dopo il voto che aveva consegnato il figliolo, almeno all’apparenza, all’archivio dei decaduti rancorosi. Il 18 febbraio scorso l’arresto dei due augusti genitori scattò nel giorno in cui la piattaforma Rousseau votava l’assoluzione di Matteo Salvini sul caso Diciotti. Quella mattina Corriere della Sera e Repubblica aprivano sull’imbarazzo del M5S, il giorno dopo aprirono sull’arresto dei Renzi.

Finisce l’estate, riparte la volata per la Procura di Roma e il sistema vuole silurare il prescelto di maggio, il Pg di Firenze Marcello Viola, e imporre a Roma la continuità premiando il vice di Pignatone, Michele Prestipino. Creazzo, avversato dai renziani, indaga Bianchi, il cassiere di Renzi. E qui viene il dubbio. Nel luglio del 2015, il Ros dei carabinieri di Firenze mandò alla Procura di Firenze un dettagliato rapporto sul triangolo tra il concessionario autostradale Beniamino Gavio, il suo avvocato Alberto Bianchi e il consigliere giuridico della Presidenza del Consiglio Maurizio Maresca. Quest’ultimo, scrivono i Ros a una Procura distratta, usa la sua posizione per curare “nel contempo (remunerato) gli interessi del gruppo Gavio”. Abituato bene con Maurizio Lupi, Gavio soffre con il suo successore Graziano Delrio e il capo di gabinetto Mauro Bonaretti alle Infrastrutture. Bianchi e Maresca, intercettati, cercano convulsamente una soluzione. Bianchi dice a Maresca: “Io avevo rappresentato al sottosegretario la situazione”, dove per il Ros il sottosegretario è Luca Lotti. Delrio non sa che Bianchi concerta le mosse sottobanco con il suo consigliere Maresca, mentre sa che i concessionari amano aizzargli contro il suo arcinemico Lotti, tanto che in quel periodo ad alcuni di loro si rivolge in modo schietto: “Smettetela di farmi rompere le palle da Lotti”. Tutto questo Creazzo lo ha letto quattro anni fa, quando Renzi e Bianchi erano all’apice del potere. A occhio e croce c’è più roba nel rapporto del Ros che nel fascicolo aperto quattro anni dopo. Però non è successo niente. Forse non erano maturi, come dire, i tempi politici. Una parte della magistratura italiana funziona così e il presidente del Csm Sergio Mattarella non può più fingere di non saperlo.

Il parlamento Ue perde la testa

Una mozione improvvisamente comparsa fra le carte del Parlamento europeo e messa subito in discussione, come l’inizio di una nuova vita, riduce la responsabilità del nazismo (che non è peggio del comunismo). Anzi, chiama il comunismo (a volte definito “stalinismo”) sul banco dei grandi colpevoli, come un’unica, delittuosa organizzazione, dimenticando (salvo due citazioni senza commenti) il fascismo italiano, le sue deportazioni, le sue stragi. Soprattutto sposta liberamente date e sequenze storiche. E, contro ciò che hanno finora narrato gli storici del mondo, vede l’inizio della Seconda guerra mondiale e i suoi 50 milioni di morti esclusivamente nella firma del trattato Ribbentrop-Molotov (dunque nazismo-comunismo) ai danni della Polonia, la cui distruzione sarebbe stata la vera ragione del conflitto, dominato comunque dai delitti dello stalinismo (la parola è sempre usata in alternativa a comunismo) e fondato esclusivamente sulle malefatte sovietiche. La mozione chiede dunque di condannare insieme, e alla pari, nazismo e comunismo e di vietare allo stesso modo ogni ricordo o simbolo o celebrazione del comunismo.

Per arrivare a questo punto, ovviamente segnato da una grave alterazione della storia, la mozione europea spiega che la Polonia è la vera, principale vittima dello spaventoso conflitto. Per farlo, occorre tagliare un pezzo della storia. Chi ha scritto (ovviamente in Polonia) il testo della mozione approvata in Europa si impegna a ignorare l’attività politica e militare che Polonia e Germania hanno svolto insieme, legati da accordi militari e politici, per lo smembramento della Cecoslovacchia, prima del patto Ribbentrop-Molotov. La mozione (240 righe tese a esonerare fascismo e nazismo dalle colpe peggiori) non presta grande attenzione all’ininterrotta caccia agli ebrei, al trasporto ed eliminazione di milioni di cittadini di tutta l’Europa occupata da nazisti e fascisti, e parla due sole volte della Shoah (una riga e due righe), dimentica che il campo di Auschwitz è stato aperto e liberato da soldati russi (come narra La Tregua di Primo Levi ) e che il punto cruciale della lotta contro nazismo e comunismo è stata la battaglia di Stalingrado, vinta con disperata tenacia dai “comunisti”. Ignora che quella durissima battaglia vinta dai comunisti russi ha determinato la ritirata disastrosa e poi la sconfitta definitiva del nazismo e del fascismo. E invita i governi europei a eliminare ogni celebrazione (strada o piazza o scuola intitolate a giornata della memoria) dedicata ai “comunisti” e di avviare un processo di “pacificazione”. Con chi?

La mozione, stranamente e vergognosamente votata anche dai deputati italiani del Pd, è un grave insulto alla Storia, alla Shoah, alla Resistenza e alla grande e lunga storia dell’antifascismo, e questo è il punto. Cogliendo in un momento di strano sonno morale e politico un’intera aula parlamentare, i fascisti polacchi (chiaramente gli autori del testo) hanno tentato di colpire la dignità e credibilità dell’antifascismo stravolgendone la memoria, al punto da far diventare “comunista” la guerra dei fascisti, delittuosa (e stalinista) la Resistenza e poi la distruzione del fascismo.

Per capire, bisogna partire dall’antifascismo, che non è simmetrico al fascismo. Il fascismo è un male piccolo e violento, privo di cultura propria, che infatti resta tuttora succube del nazismo (anche adesso di suo riesce a esprimere solo razzismo). L’antifascismo ha la missione vasta di affermare e difendere i diritti umani e civili, il rispetto di tutte le persone, di tutti i popoli, di tutte le religioni (quando non decidono di trasformare i loro dogmi e insegnamenti in leggi dello Stato per tutti). L’antifascismo è la difesa dei deboli, dentro e fuori dalle istituzioni, un impegno che tocca tutti (vedi l’accumulo di impegni politici, anche senza potere, di Marco Pannella, dalla Campania alla Cambogia). L’antifascismo è l’avvocatura pronta, gratuita e volontaria di tutti gli uomini liberi per tutti coloro che non possono difendersi da soli, dal malato disperato che chiede di morire a tutte le forme di razzismo per quanto camuffate da false accuse autorevolmente inventate contro le Ong. È l’immediato compito di fronteggiare il pericolo quando le idee disumane di qualcuno si saldano col potere privo di controllo.

La mozione del Parlamento europeo parla molto di conciliazione (la parola è ripetuta sette volte). Come vedete, torniamo al tentativo di ridare legittimazione alla destra estrema che sta tornando dovunque vi sia una vittima adatta a subire. Il primo tentativo è stato fatto col negazionismo. L’antifascismo lo ha stroncato. Ora viene avanti la conciliazione. C’è una obiezione invalicabile. Non si può essere più buoni di Dio. Dio non perdona chi non si pente.