“Prescrizione: niente melina. Disposto a incontrare Renzi”

Il ministro che è rimasto dov’era doveva ripartire da lì, dalla sua riforma della giustizia: “Uno dei motivi per cui Matteo Salvini ha fatto saltare il governo è stato quello di fermarla”. Venerdì scorso, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, numero due di fatto del M5S, si è ritrovato a Palazzo Chigi con un altro alleato di governo, il Pd, a misurare la distanza su prescrizione e riforma del Csm. Mentre quello rimasto fuori, Matteo Renzi, gli ricordava che dovranno comunque passare da lui per varare qualsiasi legge.

Uscendo da Palazzo Chigi, lei si era mostrato molto soddisfatto sull’incontro con i dem. Ma poi il Pd ha diffuso comunicati critici sulla sua riforma della prescrizione. Spiazzato?

Non esiste alcun problema sulla prescrizione. Noi e il Pd partiamo da posizioni differenti sul tema, ma quelle sono norme già approvate, che entreranno in vigore a gennaio. Io e gli esponenti democratici siamo stati invece pienamente d’accordo sul varare una legge delega per una riforma che dimezzerà i tempi dei processi penali e civili.

Tanti dem hanno parlato contro la prescrizione: il problema esiste.

Non capisco perché se ne continui a parlare. E comunque io non accetto che qualcuno possa fare melina sulla riforma per poi magari dire a dicembre che esiste un nodo sulla prescrizione. Lavoriamo per ridurre i tempi dei processi.

Conferma che la riforma verrà spacchettata in due leggi delega?

Potrebbe accadere, per permettere al Parlamento di valutare tutto nel modo giusto. La riforma penale e del Csm e quella civile partirebbero in contemporanea in due rami differenti del Parlamento. Ma la priorità sarà approvare entro il 31 dicembre la riforma penale.

Prima della prescrizione, perché non si sa mai…

Guardi, un fatto che nessuno ricorda mai è che i primi effetti processuali della riforma sulla prescrizione entreranno in vigore non prima di quattro anni. Con le nuove norme elimineremo un’isola di impunità, innanzitutto per i colletti bianchi, ed è doveroso nei confronti di persone come i familiari delle vittime della strage di Viareggio.

La nuova prescrizione non piace neanche a Renzi. Non lo avete invitato al tavolo, ma con lui dovrete parlare.

Intendo incontrare gli addetti ai lavori e tutte le forze di governo, prima che la riforma della giustizia arrivi in aula. Per esempio mi interessa molto confrontarmi con Pietro Grasso di LeU.

È disposto a incontrare anche Renzi?

Certamente.

La riforma della prescrizione non convince neanche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini. Soprattutto, è assolutamente critico al sorteggio per i membri del Csm. E venerdì su questo le ha detto no anche il Pd.

È suo diritto esprimere perplessità, ma il punto principale è che la riforma del Consiglio non è contro i magistrati, bensì contro le degenerazioni del correntismo. Io ho difeso le istituzioni e la magistratura quando è scoppiato lo scandalo del Csm, e dal vicepresidente mi aspetterei un atteggiamento positivo, perché è innegabile che ci siano cose da cambiare.

Sul sorteggio sono critici anche tanti addetti ai lavori. E, insisto, il Pd. Lei stesso ha parlato di “divergenze”.

I democratici sollevano un problema di legittimità costituzionale del sorteggio. So che questo aspetto è stato posto da altri, e lo valuteremo assieme. Continuo a pensare che sia una misura giusta, ma l’essenziale è riformare il Csm, cancellando le porte girevoli tra politica e magistratura. È un pacchetto di norme molto ambizioso, e chi lo ostacola rischia di difendere un sistema malato.

Lei è in un governo di cui fa parte Luca Lotti, al centro del caso del Csm. Non è un problema politico che la pone a disagio?

Non parlo di inchieste o di singoli elementi di altre forze politiche. Io valuto quello che mi arriva sul tavolo. Il Pd era consapevole del patto di governo sottoscritto con il M5S, dove tra i punti c’è anche l’esigenza di interrompere i rapporti tra politica e magistratura. I democratici non possono avere dubbi su questo. Anzi, la riforma della giustizia rappresenta un’occasione per eliminare qualsiasi tipo di equivoco sull’argomento.

Invece il Renzi che difende Berlusconi che equivoci genera? Ha detto che a Firenze lo hanno indagato senza prove. Grave, non pensa?

Non mi interessa rispondere a un singolo senatore. Da quando sono ministro però ripeto che la politica deve rispettare la magistratura, a maggior ragione quando si tratta di magistrati che indagano su mafia e terrorismo, mettendo a rischio la propria vita per servire lo Stato.

Torniamo alla trattativa con il Pd. Lei ha bloccato la riforma delle intercettazioni del precedente ministro della Giustizia, quell’Andrea Orlando con cui ora deve trattare. Un problema in più?

Ma no. Venerdì non abbiamo parlato di questo, ma ci confronteremo. Le intercettazioni sono uno strumento fondamentale per la lotta alla corruzione e alla criminalità. Vanno tutelati tutti gli interessi in gioco, a partire da quello alla privacy, e quella riforma pregiudicava per esempio il diritto alla difesa e la qualità delle registrazioni perché i magistrati venivano estromessi nella prima parte delle indagini.

Promettete da tempo il carcere per i grandi evasori. Darete corpo alle promesse, e come?

Certamente, anche se dobbiamo ancora decidere lo strumento. Di certo verranno rideterminate le soglie di punibilità, abbassandole.

Manettari, diranno. E magari hanno ragione…

L’intenzione è colpire persone condannate in via definitiva. Chi sbaglia deve pagare.

Addio a Delia Vaccarello, a l’Unità raccontò il mondo Lgbt senza diritti

Quando Delia Vaccarello, morta ieri a Palermo a 59 anni uccisa da un tumore con il quale conviveva da 13 anni, fece il colloquio con Furio Colombo e Antonio Padellaro per collaborare all’Unità che stava per rinascere in quel 2001 dopo la prima e traumatica chiusura dell’anno prima, le domandarono quale fosse l’articolo al quale era più legata. E lei andò indietro (non tanto) con la memoria a ricordargli quello che, a metà gennaio del 1996, aveva firmato in prima pagina sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci, all’epoca diretto da Walter Veltroni. Era una “lettera aperta” in cui invitava i colleghi giornalisti a casa sua per comprendere la “vita quotidiana di una famiglia lesbica”. Chiedeva un diritto, Delia. Quello che la Casagit, la cassa che assicura le prestazioni mediche ai giornalisti “e alle loro famiglie”, riconosceva alle coppie sposate e a quelle di fatto, ma non ancora a quelle gay. Ne nacque un dibattito pubblico, anche violento, che si concluse con quel riconoscimento.

Laureata in filosofia alla Sapienza, giornalista professionista dal 1992 (all’Unità da qualche anno prima), Delia Vaccarello divenne la “specialista” dei diritti sociali. Il 17 luglio del 2001, l’Unità di Colombo e Padellaro tenne a battesimo la sua pagina. Si chiamava “1, 2, 3… liberi tutti!” ed apriva con il titolo: “Mio figlio è gay. E il tuo?”. Erano “le storie” la forza di quella pagina: ragazzi e ragazze che fanno outing, genitori, associazioni e istituzioni che provano a farci i conti. In quegli anni il “tema” viveva ancora nel cono d’ombra del “meglio che non se ne parli”. Lai vinse due volte il Journalist Award “For diversity against discrimination”, indetto dalla Commissione europea. Il primo nel 2004 sui militari gay discriminati nell’esercito. Il secondo nel 2008 con l’articolo “Vivere da gay, morire da etero”, che raccontava due compagni vittime di un incidente aereo che, dopo essere morti, non si doveva dire fossero amanti. Ha scritto diversi libri e curato una collana “Principesse azzurre” per Mondadori. L’ultima opera è Desiderio. Racconti di Eros, Segreti e Bugie (Villaggio Maori, Catania 2019).

Ora JustEat taglia i rider e li riprende più precari

Centinaia di rider che consegnano per conto di JustEat rischiano di perdere il lavoro tra qualche settimana. I più fortunati tra loro, al massimo, lo riotterrranno ma a condizioni peggiorative, ancora più precarie delle attuali. La piattaforma danese del cibo a domicilio, presente in molte città italiane, ha infatti disdetto il rapporto con FoodPony, società che finora le ha fornito il servizio logistico svolto dai fattorini. Questi ultimi finora sono stati inquadrati come collaboratori coordinati e continuativi, i famosi “co.co.co.”, ma – venuta meno la grossa commessa – adesso risulteranno in esubero. “Per i lavoratori del partner che volessero continuare a svolgere l’attività di rider – chiariscono da JustEat – sarà possibile applicarsi per consegnare con Just Eat nelle diverse città”.

Il colosso è disposto a riassorbire la flotta ma senza applicare i co.co.co., che garantiscono una cornice minima di diritti. Sarà offerta solo la prestazione occasionale, con partita iva per chi guadagnerà più di 5 mila euro all’anno. Condizioni riportate nel punto 6.4 dell’accordo di collaborazione presente sul sito di Justeat. Proprio da quel link molti ragazzi avevano intuito le intenzioni dell’azienda: fino a poco fa, cliccando su “diventa un rider”, si veniva reindirizzati al portale FoodPony.

JustEat, diversamente da Glovo e Deliveroo, aveva sposato il modello di “marketplace”: non un servizio di trasporto, ma solo intermediazione tra il cliente e il ristoratore. Ora cambia strategia: “Abbiamo iniziato a testare una soluzione di delivery basata su una tecnologia proprietaria del gruppo in Italia – spiegano al Fatto – con l’obiettivo di sostenere e sviluppare il business dei ristoranti e fornire la più ampia scelta possibile ai clienti. Questa soluzione di delivery prevede rider che consegneranno in modo diretto con Just Eat”. Quindi addio Food Pony, i rider risponderanno direttamente a JustEat: “Nelle scorse settimane – aggiungono – abbiamo dato disdetta al nostro partner” specificando che “il rilascio sarà graduale” e che “le dinamiche legate alla cessazione sono in via di definizione e saranno gestite con la massima cura per ogni aspetto, comprese le loro risorse”. A lanciare l’allarme sulle conseguenze per i fattorini è stato il Nidil Cgil di Firenze, secondo il quale i lavoratori coinvolti sono un migliaio in tutta Italia e cento solo nel capoluogo toscano. La storia assomiglia a quanto successo un anno fa con Glovo che, acquistando Foodora, non si è fatta carico dei rider con le stesse condizioni dell’azienda precedente – anche in questo caso co.co.co. – ma solo con prestazione occasionale.

La mossa di JustEat arriva mentre il Parlamento sta convertendo il decreto che contiene le norme che regolamentano il lavoro dei fattorini. Il testo prevede l’obbligo di un salario orario mentre il bonus per la consegna non potrà essere prevalente rispetto al cottimo. Tante le critiche: le associazioni dei rider lo definiscono troppo debole. Un nuovo gruppo formato da 700 fattorini, in polemica con i collettivi, chiede invece più flessibilità e quindi di non cancellare il cottimo ritenuto “la forma più meritocratica che ci sia” ed è convinto che, limitando il legame tra guadagni e numero di consegne, si ridurranno le retribuzioni. Di uguale parere sono le aziende, da Glovo a Deliveroo e JustEat: secondo Assodelivery, associazione che le riunisce, con il nuovo sistema i rider prenderanno il 40% in meno anche a causa della “disincentivazione di merito ed efficienza”.

La neo-ministra Nunzia Catalfo sembra invece più propensa a irrobustire l’impianto e ha annunciato una modifica “per assicurare le tutele della subordinazione a chi svolge stabilmente l’attività di ciclofattorino e per garantire a tutti gli altri un nucleo minimo di diritti inderogabili tra cui una retribuzione collegata ai contratti collettivi”.

Imola, la giunta 5S balla: 6 eletti su 14 contro la sindaca

Divergenze politiche, certo, ma anche relazioni sentimentali, antipatie personali e simpatie politiche. Ce n’è abbastanza per mettere in crisi un governo, figurarsi una Giunta. E infatti a Imola quella M5S traballa: 6 consiglieri su 14 hanno presentato un documento in cui si dissociano dalla sindaca Manuela Sangiorgi, minacciando di non votare il prossimo bilancio. Sembra una bega di paese, ma nella mappa dei Comuni a 5 Stelle Imola ha un posto speciale: con circa 70mila abitanti, è la quarta città d’Italia governata dal Movimento, dietro solo a Roma, Torino e Guidonia (Lazio). Qui nel maggio 2018 il M5S celebrò una delle sue vittorie più clamorose, strappando al Pd una roccaforte rossa dopo 73 anni di governo.

Al centro delle scontro c’è il programma, che la sindaca non starebbe rispettando su almeno due temi: la gestione dell’autodromo, simbolo della città ormai senza la Formula 1 (troppe deroghe sul rumore, l’accusa) e la raccolta dei rifiuti, che non è gestita in house – cioè con una società interamente comunale – sul modello di Forlì (“c’è il veto della holding che detiene la raccolta e non vuole cedere, i consiglieri fanno finta di non saperlo”, spiega lei).

Scontro politico, ma pure personale. Prima l’allontanamento di due assessori, Roi e Lelli, stimati dagli attivisti, poi l’accusa di eccessiva vicinanza alla Lega, che è un po’ scivolosa vista la relazione tra la sindaca e il capogruppo leghista Carapia. “La mia vita privata non influisce sulle scelte politiche: chi lo insinua ha scarsa considerazione delle donne oppure è geloso”. La sfida finale è prevista a dicembre, sul bilancio. “Noi non stiamo lasciando il Movimento, questa è casa nostra: se non cambia sarà lei a doversene andare”, dicono i dissidenti. “Bambinate per avere attenzione, non avranno il coraggio di votare una sfiducia”, taglia corto la sindaca. Non sempre passare da gialloverde a giallorosso è indolore.

Torino, il film della crisi è al Museo del Cinema

In un tempo neppure troppo lontano – quando i torinesi, per intenderci, fotografavano i turisti come fossero dei panda albini – al forestiero che domandava cosa vedere in città si rispondeva: “Il museo Egizio”. La prestigiosa collezione sabauda mantiene il primato tra i punti d’interesse locali, ma da qualche lustro la risposta al forestiero è cambiata: “Museo del Cinema”. Quello della Mole Antonelliana, infatti, prima ancora che un omaggio alla settima arte, è un formidabile giocattolone ospitato nel più assurdo – e per questo unico – degli edifici. Tramontata l’epoca dei panda albini, il museo attira circa 700 mila visitatori l’anno ed è stato il perfetto simbolo della “rinascita” torinese degli anni 2000.

È stato, ahimé. Perché se i simboli sono simboli (e la Mole lo è per eccellenza), l’allestimento di via Montebello è anche il perfetto paradigma di una città che – passati i fasti olimpici – vive costantemente con il fiatone e gioca inesorabilmente al ribasso. Cos’altro potrebbe rappresentare, infatti, lo stallo che paralizza i vertici del Museo? Da ben tre anni (999 giorni, per l’esattezza) la Mole è senza direttore, da quando cioè Alberto Barbera (direttore artistico della Mostra di Venezia) se ne andò sbattendo la porta. Da allora si sono susseguiti tre bandi: il primo nel 2016, all’alba dell’era pentastellata, vinto dall’ex segretario della Fondazione Sandretto di Torino e del
Maxxi di Roma Alessandro Bianchi, subito “silurato” dalla neo giunta 5S (nel Comitato di Gestione siedono Comune, Regione Piemonte, Gtt, Fodazione Crt e Fondazione San Paolo) perché troppo organico al Pd. Quindi un secondo nel 2018, vinto da Alessandro Moreschini (Accademia Albertina e Residenze Sabaude) che rinunciò subito all’incarico.

L’ultimo bando è di queste settimane e ha visto vincitore Domenico Di Gaetano, 54 anni, vicepresidente della Torino Film Commission. Tutto risolto dunque? Macché. La nomina da parte del cda di De Gaetano ha provocato le immediate dimissioni del presidente Sergio Toffetti che – nemmeno troppo velatamente – contesta il curriculum del direttore in pectore. Lo stesso fa il favorito della vigilia, il critico d’arte ed ex direttore del Circolo dei Lettori Luca Beatrice, 56 anni, che – non senza ragioni – rivendica la forza del suo curriculum sulla base dei requisiti richiesti dal bando.

La bagarre si è fatta politica. De Gaetano è considerato in buoni rapporti con l’amministrazione comunale 5 Stelle, il dimissionario Toffetti un uomo dell’ex governatore Pd Sergio Chiamparino, il quale (Toffetti) era il grande sponsor di Beatrice, uomo di centrodestra ben visto dai nuovi vertici della Regione guidata da Alberto Cirio (Forza Italia), Regione che – dato l’impasse – ha deciso di convocare una riunione straordinaria del Collegio dei Fondatori.

Al netto delle beghe politiche, che meritano il giusto spazio nelle cronache cittadine, e della lecita domanda se non fossero meglio le vecchie – e tracciabili – investiture politiche, la questione Museo del Cinema è l’impietoso specchio di una città in evidente (e risalente ad assai prima dell’era Appendino) affanno. il Museo della Mole (che dà lavoro a 77 persone e ingloba il cinema Massimo e il Torino Film Festival) è un gioiello che pare minacciato dalla polvere del tempo dei panda albini, alimentata da un pubblico gioco al ribasso che sa di ineluttabile, come ineluttabile è il sold out dei Frecciarossa dei pendolari che ogni mattina vanno a Milano. Una situazione ben riassunta da un episodio: “L’altro giorno ero a Roma a Cinecittà – racconta un nome storico del cinema torinese – e mi chiedevano notizie di Toffetti. Ebbene, nessuno sapeva che si fosse dimesso”.

“Greta, una generazione intera ha preso la parola senza seguire un capo”

“La breccia nel muro è aperta. Questi ragazzi hanno osato aprire il varco. È un passaggio che porta alla responsabilità. E io guardandoli mi sono sentito felice. Non speravo di vedere ancora una scena simile nella mia vita”.

Marco Revelli, da sociologo e politologo, che cosa rende così diversa questa folla che ha riempito le nostre città?

Un’intera generazione ha preso la parola.

Senza violenza…

Sì, come nei movimenti che rappresentano scelte radicali. E gli avversari che hanno di fronte sono così radicati nel torto che non sanno come reagire. Non sono pronti a organizzare una risposta.

Qual è la forza dei ragazzi del ’19?

Essere scesi in piazza senza seguire un leader, ma semplicemente ascoltando l’appello di una coetanea. La forza di Greta è proprio questa, essere una persona della loro età. Ma soprattutto la potenza sua e di tutti i suoi compagni è l’innocenza. A loro non può essere imputata alcuna colpa. Possono metterci sul banco degli imputati per le colpe o semplicemente per i fallimenti. È sotto gli occhi di tutti: abbiamo portato il mondo al collasso.

Che cosa ci dice Greta che non sapessimo già?

Le svolte generazionali fanno emergere un sentire comune. Ma questi ragazzi hanno avuto il coraggio di parlare. Il sociologo Sidney Tarrow ha usato un’espressione: “Quelli che osano”. Ecco, Greta e i suoi compagni sono quelli che osano e aprono la breccia culturale di cui parlava già Edgar Morin.

C’è chi, come Norma Rangeri, ha suggerito un paragone con il 1968. È d’accordo?

Ci sono somiglianze. Le generazioni del 1968 e del 2019 si credevano entrambe perdute. Allora si parlava di “gioventù bruciata”, oggi di ragazzi dell’iPhone. Ma di colpo queste generazioni si sono ritrovate protagoniste, unite dall’innocenza e dalla responsabilità che hanno in mano. Non solo: anche il ’68 nasceva come reazione a una minaccia che poteva distruggere l’umanità. Allora era la bomba, adesso l’emergenza ambientale.

E le differenze?

Il ’68 metteva in scena una simbologia politica che questo movimento non pratica. E infatti la politica politicante ha rovinato il movimento nato dagli anni Sessanta.

Lei parla di muro caduto. L’aria che si respira oggi ricorda anche il 1989 e il crollo del Muro di Berlino?

No, non direi. Allora quando si chiuse un’epoca di oppressione non si aprì un tempo di libertà.

La politica di fronte ai ragazzi del ’19 si sente ancora una volta spiazzata. C’è qualcuno che può sperare di rappresentarli?

I grandi movimenti di massa hanno cambiato il mondo e le urne elettorali sono venute dopo. La protesta non si traduce immediatamente in elettori ed eletti.

Ma c’è qualche partito, secondo lei, che può pensare di arruolare chi sfilava venerdì in piazza?

How dare you, come osate, come vi permettete, dice Greta. Il suo dito è puntato contro tutti noi. No, non credo che ci siano partiti che possano pensare di appropriarsi di queste piazze. E comunque tra quei giovani ho visto tanti sedicenni che nemmeno considerano le logiche politiche e di partito. Questi giovani vivono in un mondo diverso.

Chi sono i nemici di Greta e dei suoi compagni di protesta?

Ci sono quelli che pensano che intanto le acque non saliranno. Che il cambiamento climatico non esiste. Che chiamano questi ragazzi “gretini”. Ma in fondo sono i nemici più manifesti e meno insidiosi. Poi ci sono quelli, anche nel mondo dell’informazione, che oggi corteggiano la protesta e domani continueranno a fare i loro affari. E poi c’è chi prima di Greta ha provato e ha fallito.

Di chi sta parlando?

Penso, per esempio, ai nostri verdi che erano arrivati su questo terreno, ma non sono riusciti ad abitarlo. Penso alla sinistra che si porta sulle spalle le madamine amiche del Tav e lo sblocca-Italia.

Il Fridays for future si è attirato critiche e dubbi anche da chi ha radici politiche negli anni Sessanta. Perché?

Ci vedo diffidenza o senso di superiorità. Ma anche invidia, gelosia o timore di diventare superati. Ogni rivoluzione dichiara vecchi i rivoluzionari precedenti, anche il ’68 lo fece. Certe parole mi fanno male, anche quelle di Massimo Cacciari che ha invitato a usare le ore delle manifestazioni per seminari autogestiti.

C’è chi considera protesta e rabbia come sinonimi di violenza. Perché?

Questa rabbia nasce dall’istinto di autoconservazione. È una rabbia civile, che scaglia concetti e non pietre.

“Signora Von der Leyen, ora cambi quel nome”

Signora Presidente Ursula von der Leyen, le parole fanno la Storia. Fra gli scivoloni tragicomici del presidente Usa e gli echi di una saga della Brexit tanto farsesca quanto preoccupante, ci è pervenuto l’organigramma della nuova Commissione europea insediatasi sotto la sua presidenza. Ci dicono, signora, che ha voluto scegliere con particolare cura la denominazione di ogni commissione, dando talvolta prova di audacia, come nel caso della “economia che lavora per le persone”.

Lei è quindi consapevole del peso delle parole. Pertanto siamo ancor più indignati nel vedere che il titolo del commissario per la Migrazione, gli Affari interni e la Cittadinanza è diventato “per la Protezione del nostro stile di vita europeo”. In questa dicitura, ogni parola – o quasi – dice qualcosa che noi, vincitori del Premio del Libro Europeo che viene consegnato nella sede dell’Europarlamento dal 2007, noi, narratori e saggisti profondamente e altrettanto lucidamente attaccati all’idea europea, non possiamo che disapprovare.

Parlare di “protezione” esorta fin da subito a un atteggiamento difensivo, come se fosse necessario, in una Europa trasformata in fortezza, difenderci da un’invasione esterna. In questo modo, signora presidente, Lei non fa altro che aprire la strada agli individui che fanno commercio di questo pericolo immaginario e ai movimenti che prosperano sulla paura dei popoli. Paura di chi? Per proteggere cosa? Uno spirito? Un’anima, per quanto se ne possano definire i contorni europei?

No, neanche: Lei intende garantire il “nostro stile di vita europeo”. Siamo turbati quando pensiamo alla parola “nostro”, che si erge di fronte a un “loro” indistinto e straniero. Rabbrividiamo leggendo la parola “vita” quando, ogni giorno e ogni notte, nel Mediterraneo e alle frontiere dell’Europa, muoiono donne e uomini abbandonati alla loro sorte e alla nostra incuria. E ci colpisce vedere ostentare, come su uno stendardo o un cartellone pubblicitario, le parole “stile di vita” o “way of life”! Perché non “il nostro confort o benessere”?

Noi vogliamo, signora presidente, parlare di cultura, della cultura che fa parte delle stesse competenze attribuite al commissario Margaritis Schinas, assieme allo sport, la sicurezza e la migrazione. Vogliamo parlare di apertura, di dialogo e di scambio. Di umanesimo, quell’umanesimo che, a dispetto degli orrori di cui l’Europa si è resa colpevole all’interno e al di fuori delle sue frontiere, ha pervaso il suo pensiero nel corso dei secoli. Vogliamo proiettarci verso l’esterno e il futuro e non ripiegarci, timorosi, all’interno delle nostre frontiere e su un passato che viene mitizzato a forza di temerne la scomparsa. Le parole fanno la Storia, signora presidente. Non le auguriamo di iniziare il Suo mandato portando con sé il peso delle parole sinistre che rimandano ai peggiori demoni dell’Europa. Attendiamo fiduciosi il cambio del titolo del Commissario Schinas. E ci rivolgiamo al Parlamento europeo perché rifiuti a stragrande maggioranza l’attuale nome. Perché le parole possono salvarci. Oppure perderci.

Anna Bikont, Erri De Luca, Anthony Giddens, Paul Lendvai, Jean-Pierre Orban, Philippe Sands, Roberto Saviano, Raffaele Simone, Marius Szczygiel, David Van Reybrouck

 

(traduzione dal francese a cura di S. Guzzi)

“Dai pentiti a Graviano. Perché vanno indagati Berlusconi e Dell’Utri”

Giorni fa gli avvocati di Silvio Berlusconi hanno depositato al processo d’appello per la Trattativa Stato-mafia, per il quale Marcello Dell’Utri è stato condannato in primo grado a 12 anni, la documentazione secondo cui il leader di Forza Italia è indagato a Firenze nell’inchiesta sui mandanti occulti delle stragi del 1993. Matteo Renzi si è detto “attonito”. Secondo lui “sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell’attentato mafioso contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle istituzioni italiane”. Ecco alcuni motivi per cui dovrebbe essere un po’ meno sorpreso.

Commissione parlamentare antimafia, seduta del 13 settembre 2017, dall’audizione del pm Nino Di Matteo.

Di Matteo: Nell’ultimo periodo, anche grazie a indagini da me e da altri colleghi condotte a Palermo, sono emersi a mio avviso importanti elementi di prova che indicano ulteriormente che la strage (di via D’Amelio, ndr) non fu solo una strage di mafia. Però, proprio in questo momento – e temo che non sia un caso – il dibattito e l’attenzione, invece di concentrarsi sulla necessità di ulteriori approfondimenti in tal senso, si orientano a screditare e delegittimare il mio lavoro e la mia professionalità. (…)

Si finge di dimenticare – e comunque da più parti sistematicamente si ignora – che tra il cosiddetto “via D’Amelio bis” e, ancora più importante, il cosiddetto “via D’Amelio ter” ben ventisei imputati sono stati condannati definitivamente per concorso in strage, nella strage appunto di via D’Amelio. Nel Paese che purtroppo è stato definito “il Paese delle stragi impunite” non mi pare, quello dei ventisei ergastoli definitivi, un risultato irrilevante. Attenzione: ventisei imputati per cui l’affermazione di responsabilità per strage è stata confermata fino alla Cassazione e mai minimamente messa in discussione, neppure dopo le acquisizioni più recenti, che partono dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza. Ventisei condanne definitive: non sono stati venticinque anni persi nella ricerca della verità. Il processo di revisione ha riguardato, per quanto concerne le accuse di strage di imputati del cosiddetto “via D’Amelio bis”, sette posizioni. Nessuno dice, nessuno ricorda un dato di fatto che potete facilmente controllare: già all’esito del processo di primo grado di quel troncone “via D’Amelio bis”, sentenze di primo grado del 13 febbraio 1999, sei dei sette soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d’assise di primo grado. Nessuno ricorda, tutti fingono di dimenticare che per tre posizioni di quelle sei erano stati gli stessi pm a chiedere l’assoluzione. (…)

Io ho seguito, tra i processi per la strage, un solo processo dall’inizio delle indagini alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto processo “via D’Amelio ter”. (…) In quel processo sono state irrogate venti condanne per concorso in strage. Quel processo (…) prescinde completamente e assolutamente dalle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo. In quel processo, Scarantino Vincenzo non è stato chiamato neppure a testimoniare. (…)

Così parlò Cancemi

Quella è la sede processuale in cui il pm – all’epoca era un giovane pm che da allora fino a oggi ha cambiato la sua vita ed è costretto a vivere in un certo modo – ha fatto emergere, tra le altre, le piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via D’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei carabinieri. Quella, signor presidente, è la sede processuale dove per la prima volta Salvatore Cancemi, un pentito già appartenuto alla commissione provinciale di Cosa nostra, quindi a quella che giornalisticamente viene chiamata “cupola”, in quattro estenuanti udienze affermò che nello stesso contesto temporale – giugno 1992 – nelle stesse riunioni in cui Riina, di fronte agli altri membri della commissione, si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito, a meno di sessanta giorni di distanza da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino… Cancemi ha dichiarato in quella sede processuale che in quel momento, in quelle riunioni in cui Riina si assumeva la responsabilità di fare un’altra strage a meno di due mesi da quella di Capaci, citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti che bisognava appoggiare ora e in futuro, e rassicurava gli altri componenti della cupola dicendo che fare quella strage sarebbe stato alla lunga un bene per tutta Cosa nostra, anche per i soggetti già all’epoca detenuti.

Questi sono due degli spunti che ho voluto citare, ma ce ne sono tanti altri, che sono stati alimentati anche recentemente – in particolare il secondo spunto che vi ho detto – da numerose altre acquisizioni che (questo però è il mio avviso) dovrebbero portare a una immediata riapertura delle indagini sui mandanti esterni a Cosa nostra e a un rinnovato impegno collettivo di tutte le Istituzioni nel senso del completamento del percorso di ricerca della verità. (…)

Ancora, presidente, c’è Salvatore Cancemi. Ecco quali sono i tanti spunti. Dal 1993 al 1996, nel momento in cui – credo unico tra i collaboratori di giustizia all’epoca – era sotto la protezione diretta, materialmente custodito, presso una caserma del Ros dei carabinieri… Quando facevamo le citazioni per interrogarlo, non le facevamo tramite il Servizio centrale di protezione, ma il Ros dei carabinieri, non di sua spontanea iniziativa – bisogna dire le cose come stanno – aveva ricevuto personalmente dai procuratori di Caltanissetta Tinebra e di Palermo Caselli l’incarico di custodire materialmente Cancemi. Cancemi viveva al Ros. Dal 1993 al 1996 dice di non sapere nulla della strage di via D’Amelio. Dopodiché, nel 1996 ci chiama e ci dice che aveva partecipato alla strage e, la mattina, ai pedinamenti degli spostamenti del dottor Borsellino. (…) Lui aveva sempre detto che Raffaele Ganci, un altro componente della cupola, gli aveva riferito che Riina aveva parlato con persone importanti e che aveva le spalle coperte da persone importanti. Continuo a chiedere quella cosa e lui risponde, per la prima volta, dicendo: “Ricordo una riunione a casa di Girolamo Guddo, nel giugno del 1992, tra Capaci e via D’Amelio, quando Riina ci disse: ‘Adesso dobbiamo mettere mano – così si esprimono – all’eliminazione del dottor Borsellino’”. Qualcuno degli esponenti chiese: “Perché in questo momento?”. Vi ricorderete tutti che, dopo la prima iniziale reazione che portò al decreto legge 8 giugno del 1992, con l’introduzione del 41-bis, in Parlamento stava maturando chiaramente, e se ne aveva conoscenza da parte dei giornali, una maggioranza contraria alla conversione in legge di quel decreto istitutivo del 41-bis.

Qualcuno a Riina fece notare che fare un’altra strage a ridosso avrebbe comportato delle conseguenze negative, con l’espressione plasticamente raccontata da due collaboratori di giustizia che c’erano alla riunione, Cancemi e Brusca, che Ganci Raffaele utilizzò nei confronti di Riina, dicendo: “Ma che dobbiamo fare, la guerra allo Stato ?”. Riina disse: “La responsabilità è mia. Si deve fare ora. Sarà un bene per Cosa nostra”. Secondo Cancemi, in quel momento avrebbe detto: “Ora e in futuro noi dobbiamo sempre appoggiare Berlusconi e Dell’Utri. Dobbiamo fare riferimento a queste persone. Cosa nostra ne avrà dei benefici”. Signor presidente, mi permetto semplicemente di dire questo a proposito dell’insabbiamento, della Procura para-massonica e via discorrendo. Eravamo due giovani magistrati in particolare all’epoca, io e il dottor Tescaroli, che con quelle dichiarazioni abbiamo chiesto, ottenuto e sostenuto – non siamo stati i soli, perché alcuni magistrati ci appoggiarono – davanti al procuratore capo, dottor Tinebra, che… Adesso, purtroppo, non può confermare, perché è morto. Mi dispiace citare certi particolari, ma è storia. Venne alla riunione con il quotidiano Il Giornale, che in prima pagina titolava “Le balle di Cancemi”. Noi pretendemmo che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri, i quali vennero iscritti con i nomi di copertura, a tutela del segreto, che infatti resse per moltissimo tempo, non mi ricordo se Alfa e Beta o Alfa e Omega. Facemmo delle indagini e delle deleghe di indagini che venivano firmate esclusivamente dai due giovani magistrati della Procura, Di Matteo e Tescaroli. Con riguardo agli spunti, non voglio… anche se ho sempre la tentazione di evidenziare le cose che emergono e che riguardano la competenza soprattutto di Caltanissetta e Firenze.

 

“Il piano per uccidermi”

Con riguardo ai mandanti esterni, prima di passare all’argomento credo più importante, ricorderò sempre il dato che poi è stato ripetuto processualmente anche da un collaboratore di giustizia più recente, Vito Galatolo. Si tratta di quel soggetto, appartenente a una famiglia stragista, che scrisse, nel novembre del 2014, chiedendo di avere un colloquio con me. Io ormai ero alla Procura di Palermo. Come è poi diventato noto a questa Commissione, che si è occupata tempestivamente e molto approfonditamente del caso, questo soggetto, quando fu al cospetto mio e dell’ufficiale di Polizia giudiziaria che mi accompagnava per verbalizzare, non volle verbalizzare niente, ma disse, in maniera molto agitata, che dovevo stare attento, perché l’attentato nei miei confronti era già pronto nei minimi dettagli. Raccontò di aver acquistato e visto l’esplosivo destinato a quell’attentato e, alla mia sommessa domanda “Scusi, ma perché?”, fece un gesto particolare. C’era in quell’auletta della sezione 41-bis del carcere di Parma la fotografia, molto nota, che si trova in molti uffici pubblici, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era molto agitato e disse: “La sua situazione è come quella – mi disse, indicando Giovanni Falcone – non come quello, ma come l’altro. A noi com’era avvenuto per l’altro ce l’hanno chiesto. Io ero giovane a quell’epoca, ma sono figlio di mio padre e queste cose le ho sapute”. (…)

Per anni, soprattutto da quando si è pentito Spatuzza, noi abbiamo saputo che il principale protagonista intanto della fase esecutiva della strage di via D’Amelio è stato Giuseppe Graviano. (…) Giuseppe Graviano – lo sappiamo da sentenza definitiva – è stato il principale protagonista degli attentati a Roma, Firenze e Milano del 1993. Oggi sappiamo – noi lo sappiamo da un po’ più di tempo, grazie alla collaborazione che abbiamo sempre avuto con la Procura di Reggio Calabria – che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista dell’accordo con la ’ndrangheta che portò, nei primi mesi del 1994, il 18 gennaio, al duplice omicidio dei due appuntati dei carabinieri a Scilla, Fava e Garofalo, e ad altri attentati, per fortuna falliti, nei confronti dei carabinieri, sempre in territorio calabrese. Soprattutto sappiamo che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista del fallito attentato all’Olimpico del 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio, assieme al fratello Filippo, viene arrestato a Milano. Quell’attentato – questo lo sapete meglio di me – è uno dei grandi misteri, in merito non tanto a perché non sia riuscito il 23 gennaio, quanto a perché non sia stato mai più tentato e ripetuto, io dico per fortuna, ma qualcuno… Ci dovremmo chiedere il perché.

 

Il boss di Brancaccio

Quando Spatuzza si pentì, fecero scalpore le dichiarazioni sull’incontro al bar Doney, qui a Roma, in via Veneto, incontro che riusciamo a collocare investigativamente proprio pochi giorni prima del 23 gennaio. Spatuzza dice: “Graviano, l’attentato lo dobbiamo fare lo stesso. I calabresi si sono mossi. Dobbiamo dare quest’ultimo colpo. Lo dobbiamo fare lo stesso, tanto ormai comunque ci siamo messi il Paese nelle mani”. Avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come i soggetti con i quali erano stati stipulati quegli accordi. All’epoca si disse e si scrisse abbondantemente “sì, ma sono delle dichiarazioni de relato. Comunque Spatuzza può essere attendibile, ma dice di avere saputo queste cose da Graviano”. Oggi, con la nostra attività alla Procura di Palermo, con un anno di intercettazioni ambientali dei colloqui tra Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità, c’è la viva voce di Graviano Giuseppe, cioè di quello che era ritenuto il perno di tutte queste vicende, che, quando parla del 1992-93 e delle stragi, parla di cortesie fatte e di contatti politici (si capisce in maniera assolutamente chiara con Berlusconi).

Presidente, mi auguro di sbagliare, rispetto a questa escalation di elementi di prova sul punto, ma temo l’indifferenza, la minimizzazione, lo svilimento ingiustificato della valenza probatoria anche di queste dichiarazioni di Graviano attraverso quella che è, a mio parere, ma questo verrà poi discusso nei processi, la discutibilissima affermazione che è stata prospettata da alcuni difensori, ma fatta propria dalla maggior parte dei giornali, che Graviano sapeva di essere intercettato. A noi risulta il contrario. (…) Ammesso e non concesso che sapesse di essere intercettato, il fatto che si riferisse a quelle vicende e a quelle persone in relazione a quel periodo delle stragi, in ogni caso, in un senso o nell’altro, un significato dovrà pure avere. Presidente, sono veramente tanti gli spunti che dovrebbero ancora essere approfonditi. Molti spunti sono stati il frutto del lavoro, non soltanto mio, per carità, ma di magistrati tra i quali ci sono stato io. Tutto viene concentrato sulla vicenda Scarantino. Si vuole fare credere che tutto il lavoro fatto finora da decine di magistrati non sia servito a nulla. Io temo che questo sia controproducente all’accertamento della verità. Spero che questa mia audizione, finora e per quello che voi mi vorrete chiedere, possa servire anche a stimolare quello sforzo di prosecuzione e completamento del percorso di verità sulle stragi che oggi – lo affermo con molta amarezza, ma con piena consapevolezza e senza enfatizzazione – è rimasto, nel disinteresse generalizzato, sulle spalle di pochi magistrati, pochi investigatori e pochi esponenti della politica. Vi ringrazio per l’attenzione.

Seduta pomeridiana del 19 settembre 2017

Di Matteo: (…) Presidente, (…) vorrei chiedere che si procedesse con la seduta segreta. (…) Credo che dovrò fare riferimento anche a fatti che magari per la Procura di Caltanissetta, di Palermo o di Firenze possono essere di inopportuna diffusione mediatica.

(I lavori procedono in seduta segreta)

Ripetizioni per somari

Com’era prevedibile, soprattutto da lui, il violento attacco di Renzi alla Procura di Firenze che indaga sull’ipotesi di B. e Dell’Utri mandanti esterni delle stragi ha scavalcato a destra Salvini, Meloni e i vertici di FI (molto più prudenti) e suscitato, oltre all’eterna gratitudine del Caimano, l’entusiasmo del Giornale di Sallusti e le congratulazioni di molti sedicenti “garantisti” del centrosinistra. Tutti accomunati dal non sapere una mazza né di quell’indagine, né delle sentenze (definitive) sulle stragi e su Dell’Utri che rendono l’ipotesi investigativa tutto meno che priva di “uno straccio di prova” (Renzi), “assurda” Macaluso”, “fantasiosa” (Ceccanti), “ardita” (Margiotta), “singolare” (Migliore), “politica” (Paita), “fiction” (Bruno Bossio). Da oggi, partendo da un’audizione del pm Nino Di Matteo in Antimafia e proseguendo con una storia a puntate curata da Marco Lillo, il Fatto regala a lorsignori e a chiunque voglia sapere una serie di ripetizioni sugli elementi fattuali a supporto di quell’ipotesi. Che forse, a distanza di 26-27 anni, non troverà prove sufficienti per sfociare in un processo. Ma che, alla luce dei fatti accertati, è pienamente logica, plausibile e coerente con la storia di Cosa Nostra, B. e Dell’Utri. Invece le versioni alternative fanno acqua e ridere. Per rendersene conto, basterebbe che Renzi e gli altri negazionisti increduli, stupiti e sbigottiti tentassero di rispondere a qualche domandina semplice semplice.

1. Nel 1992-’93 B. e Cosa Nostra vedevano crollare i loro partiti di riferimento sotto i colpi di Mani Pulite: è così assurdo pensare che concordassero sull’urgenza di farne uno nuovo che li garantisse entrambi?

2. Il partito venne in mente nel giugno ’92 a Marcello Dell’Utri, che prima non s’era mai occupato di politica, ma “dal 1974 al 1992” era stato il “mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa nostra” (sentenza di condanna definitiva per mafia); e lo creò nel ’93 con i soldi e le tv di B. Che c’è di strano che ne abbia parlato con i mafiosi amici suoi e di B.?

3. Il 21 maggio ’92 Borsellino rivelò in un’intervista a Canal Plus (mai andata in onda) le indagini ancora in corso su Mangano, B. e Dell’Utri: Falcone saltò in aria due giorni dopo, lui 59 giorni dopo. Soltanto una spiacevole coincidenza?

4. Ai primi del ’93 Provenzano, Bagarella&C. fondarono il partito autonomista Sicilia Libera e poi lo sciolsero a fine anno per fare campagna elettorale alla neonata Forza Italia. É solo un caso anche questo?

5. Nei vertici ad Arcore dell’aprile ’93 sul partito Fininvest, Dell’Utri, Previti e Ferrara spingevano B., mentre Letta, Confalonieri e Costanzo lo frenavano.

Il 14 maggio Costanzo scampò per miracolo a un’autobomba mafiosa. Un’altra combinazione?

6. Le agende di Dell’Utri registrano a novembre ’93 due incontri con Vittorio Mangano, da poco uscito di galera 19 anni dopo l’ingaggio come “fattore” ad Arcore. Di che parlavano i due? Del partito che Dell’Utri stava creando o – come giura lui – dei problemi di salute di Mangano?

7. Il 19/20 gennaio ’94 il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano è a Roma e convoca il suo killer di fiducia Gaspare Spatuzza (già autore materiale delle bombe in via D’Amelio, via dei Georgofili, via Palestro e alle due basiliche romane) al Bar Doney di via Veneto: di fronte all’hotel Majestic, dove all’epoca soggiorna Dell’Utri per selezionare i candidati FI. Lì –racconterà Spatuzza – il boss gli confida che B. e Dell’Utri “ci stanno mettendo l’Italia nelle mani”. Ma occorre il “colpo di grazia”: l’attentato all’Olimpico di Roma. Perché Spatuzza, pentito sempre riscontrato, a partire dalla confessione su via D’Amelio che spazzò via i depistaggi, dovrebbe inventarsi proprio quella frase?

8. Il 23 gennaio ’94, a due mesi dalle elezioni anticipate, Cosa Nostra tenta ma fallisce l’attentato all’Olimpico. La strage è rinviata a una domenica successiva. Ma il 26 gennaio, col famoso videomessaggio, B. “scende in campo”. Il 27 i fratelli Graviano vengono arrestati a Milano (dove hanno procurato un lavoro a un loro favoreggiatore che deve seguire il figlio calciatore, dopo un provino nei pulcini del Milan ottenuto grazie all’interessamento di Dell’Utri). Cosa Nostra annulla la strage allo stadio e depone le armi: i boss sparavano da due anni a casaccio, o erano un po’ stanchini, o non volevano disturbare il partito amico?

9. Vinte le elezioni, B. va al governo e vara subito il decreto Biondi, con tre norme pro mafia, anticipate da Dell’Utri a Mangano nei loro incontri nella villa di Como. Intanto B., da premier, dopo tutte le stragi, continua a pagare 250 milioni di lire ogni sei mesi a Cosa Nostra. La pax mafiosa sta dando i primi frutti, o anche queste sono coincidenze?

10. Nel 1996 il boss Salvatore Cancemi, già membro della Commissione di Cosa Nostra e ora pentito (il più alto in grado della storia d’Italia), parla di B. e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi. Lo seguiranno decine di altri collaboratori di giustizia. Ma, anche fingendo che non esistano, c’è il boss irriducibile Giuseppe Graviano che, intercettato in carcere nel 2016-2017, racconta le stragi al compagno d’ora d’aria come di “una cortesia” chiesta da “Berlusca”. E freme d’ira contro B. perché “25 anni” fa “mi sono seduto con te, mangiato e bevuto”, “ti ho portato benessere” e poi “hai fatto il traditore”, “mi hai pugnalato”, “mi stai facendo morire in galera”. Perché mai, parlando delle stragi, dovrebbe tirare in ballo B. e incazzarsi per il tradimento, al punto di progettare un ricatto ai suoi danni? Si annoiava? Voleva divertirsi? O davvero B. e Dell’Utri nel 1993-’94 gli avevano chiesto e promesso qualcosa? Renzi e gli altri mafiologi della mutua ci facciano sapere la loro versione dei fatti. Ci sarà da ridere.

Un cortometraggio in 48 ore: la sfida italiana è già partita

Ai vostri posti, pronti, via… si gira! Torna “The 48 hour film project”, il concorso cinematografico più veloce del West. Solo 48 ore per ideare, scrivere e realizzare un cortometraggio dalla durata massima di 7 minuti. Una gara adrenalinica e globale: il contest si svolgerà dal 18 al 20 ottobre in 140 città nel mondo. In Italia sarà la Capitale a essere invasa dai giovani filmmaker in questa corsa contro il tempo. Una sfida nella sfida: verranno sorteggiati un personaggio, un oggetto e una linea di dialogo che dovranno necessariamente apparire nei corti. Le opere consegnate in tempo saranno proiettate di fronte al grande pubblico. Una giuria di esperti, fra cui Luca Bigazzi, direttore della fotografia, vincitore di 7 David e candidato agli Emmy Awards (The Young Pope, Romanzo Criminale), valuterà le pellicole. Il vincitore gareggerà al Filmpalooza 2020 per poter concorrere nella sezione “Short Film Corner” al Festival di Cannes 2020. Il Fatto Quotidiano sarà media partner dell’iniziativa.