Poe, una vita ai “Marginalia”: amato all’estero, non in patria

Nei cieli dell’America degli anni ’40 del Novecento, preoccupata di costruire sé stessa e di accrescersi nel denaro e nella materia verticale, compare una meteora luminosissima che brucia l’atmosfera, ignorata dai nativi. Se ne accorgono alcuni francesi, dall’altra parte dell’Oceano: Baudelaire, Claudel, Mallarmé, Valéry. Sono tutti poeti, tutti dotati di cervello bollente e antenne sensibilissime che reagiscono urtate dal- l’impatto con quella strana creatura minerale. La stella è Edgar Allan Poe, un redattore di scarse fortune per periodici letterari, un orfano che ha tentato la carriera militare e si è messo a fare il poeta e lo scrittore di strani racconti perturbanti.

Oggi Adelphi pubblica i suoi Marginalia, critiche letterarie e brevi saggi (qui tradotti da Cristiana Mennella) scritti da Poe per le riviste di Boston e dintorni tra il 1844 e il ’49, l’anno della morte per delirium tremens.

Ricorda Ottavio Fatica nella bella postfazione che il primo ad accorgersi della nuova alba rischiarata dal fenomeno Poe fu lo scrittore francese Julien Gracq, che di lui disse: “Le vibrazioni tipiche di Poe sono emesse in una specie d’infrarosso o di ultravioletto di quella lingua – impercettibili agli indigeni, percepite soltanto da occhi selvaggi, meno esercitati ma più penetranti – come l’animale capta suoni emessi da strumenti che abbiamo fabbricato noi eppure per noi inafferrabili”. “Quell’uomo ha il diavolo in corpo”, commentò invece Dickens dopo averlo incontrato a Philadelphia.

Quelli dei Marginalia sono gli anni in cui Baudelaire, nel suo esilio doloroso a Bruxelles, legge solo Poe, l’unica creatura che senta simile a sé: orfano dall’età di tre anni, ipocondriaco, costretto dalla famiglia adottiva a studiare Legge, Poe, come lui, veste sempre di nero, con camicie abbottonate fino al collo. Come lui ama i gatti ed è attratto e terrorizzato dalla folla.

Questi scritti sembrano – per logica, lucidità e rigore – usciti da un goniometro. Sono meccanismi di precisione maniacale e anticonformismo, giudizi che cadevano presso “una popolazione stragonfia di millanteria” (Fatica), una società smascherata nella sua boria dalla furia di pulizia di Poe (il poeta William Carlos Williams parlò di un’opera di “self-purification”, un metodo per separarsi “dalla patina sporca dell’uso comune”). Tanto più se si paragonano questi scritti ai racconti di Poe, che secondo André Suarès erano frutto di “un démi-génie, intelligenza pura e ragione malata”.

Così scrive Poe sul Godey’s Lady’s Book nel settembre 1845: “Le parole – quelle stampate specialmente – sono letali. Tant’è che Keats morì (o non morì) per via d’una critica”. È il demone della perversità del suo omonimo racconto a fare di Poe un critico febbrile, un chirurgo spirituale che “pulisce” persino Voltaire, Dante, Seneca. “Vi sono momenti in cui, persino al freddo occhio della ragione, il mondo della nostra triste umanità non può che assumere le sembianze dell’Inferno; ma la tetra legione dei terrori sepolcrali non può ritenersi tutta opera della fantasia; essi invece, come i demoni, non vanno risvegliati o ci divoreranno – non vanno destati dal loro torpore o periremo”.

La più bella biografia di Poe in italiano è quella di Pierangelo Baratono, scritta nei primi anni ’20 e edita dall’editore Formiggini. È un’elegia tutta in bianco e nero: bianca quando vola sull’infanzia e la giovinezza difficile di Poe; nera, quando coincide con l’inceppamento della vita dello scrittore immaginifico, riproducendone la spezzatura, il tremito che lo condurrà alla morte nei bassifondi di Baltimora. “Brevi sprazzi di fortuna illuminano le ombre tetre di quegli anni di vagabondaggio allucinato. Un manuale di conchigliologia, raffazzonato per trarne un po’ di guadagno, ottiene un esito editoriale che nessun libro di Poe avrà, lui vivente”. Nonostante le promesse del cielo e dell’amore (sposò l’amata cugina 13enne, che morì giovanissima), Poe era tormentato da foschi presagi. “Parlava di sé come di un’anima perduta, senza speranza di redenzione”. E di sé scrisse, rabbrividendo: “La mia tristezza è inesplicabile”. “Fu senza volerlo e senza saperlo”, scrive Baratono, “per una feroce ironia del destino, l’uomo più rappresentativo di quella medesima folla da cui era ignorato o spregiato”. I meno astiosi lo chiamavano “scellerato di talento”, “scandaloso mostro del mondo letterario”, “maiale di genio”. Per Henry James era “un autore che non si può proprio leggere”. Resta l’immagine che secondo Williams lo riassume meglio, quella “di un fiore nel deserto, le radici sotto la sabbia del suo tempo”.

Tra i baroni e i “figli di bottana”: l’università nelle mani dei padri

Tra le sventure che ci inseguono senza perderci mai di vista c’è un vizio capitale, una questione nazionale: il familismo.

È una tragedia, che di volta in volta assume i contorni della commedia. Per brevi intervalli si assopisce ma poi ricompare. C’è stato un tempo, assai recente, in cui i giornali davano conto della condizione universitaria. Famiglie intere traslocate in cattedra, mariti e mogli, figli, cognati, cugini espatriati dalla cucina e destinati alla fulgida carriera docente. È il vizio storico, la condizione immutabile che trascina l’università a volte nelle aule di giustizia, quasi sempre sulla bocca degli studenti. Che nel loro transito incontrano immancabilmente il barone, il figlio di, il padre di, e commentano, giudicano, e perdono la partita senza neanche giocarla. Tuttapposto, scritto così, è il film con cui Gianni Costantino, il regista, muove il suo primo passo importante nel cinema, destinandolo sul sistema baronale, il criterio familistico che fa piegare l’università, che malgrado tutto vanta ancora una buona reputazione nel rating internazionale, in una succursale domestica dove i voti si scambiano, a volte si vendono così come le carriere che si aprono per pochi e si chiudono per molti.

Il film, in uscita il 3 ottobre, ha il tono lieve della commedia italiana, pop per natura e forse per missione. L’iperbole, declinata in ogni passaggio, non riduce la forza della denuncia, la allevia forse dalla cupezza, la semplifica (a volte anche con qualche eccesso), ma non la tradisce. La storia del rettore (il compito è affidato a Luca Zingaretti) che governa grazie a una rete familiare che nell’università e sull’università allarga le sue maglie e si spande, come panna sul cioccolato, e quella di suo figlio (il bravo Carlo Lipari) che invece lotta, contesta, protesta e infine vince.

Basta un’app, la quintessenza del mondo digitale, a mandare in frantumi la rete secolare ed eversiva in cui il ceto affluente e potente domina e condiziona il sapere. Promuove i famigli, fa arretrare tutti gli altri.

L’app, che si chiamerà Tuttapposto, introduce una inceppatura nel vizio antico: attribuisce agli studenti il potere del giudizio, concede loro, come fa Tripadvisor con le pietanze che ci piacciono o ci disgustano, l’approvazione o la riprovazione verso questo o quel professore. L’app la promuoverà proprio il figlio del rettore, e sembra un paradosso: l’opposizione al familismo frutto di uno scarto familiare che esplode non in piazza ma nelle mura del salotto di casa.

È un espediente narrativo che serve al regista per rendere intrigante la storia. Crediamo purtroppo che questa trama però conduca, inconsapevolmente, anche al giudizio opposto. Che cioè non possano esistere forze esterne (la pubblica opinione, i giornali, gli studenti, la magistratura) a ridurre il vizio, a condurlo sulla strada della virtù.

È sempre dentro alla famiglia, che nell’università prende le forme di una monarchia assoluta, che la contraddizione esplode. E se esplode, ecco la rivoluzione. Il figlio contro il padre (“figlio di buttana”, dice il rettore siciliano dell’università siciliana), il figlio che sconfigge il padre con lo strumento della modernità. Il like è lo strumento del dissenso, la chiave che apre la porta al diritto e fa perdere al rovescio la sua supremazia.

Sembra una soluzione semplice, persino banale. Ma noi sappiamo che può bastare un granello di sabbia per fermare una ruota d’acciaio. O almeno lo speriamo.

Bertolucci-PPP: quel 5-2 che cambiò le sorti del cinema

“Pasolini era incazzato da morire. Penso fu una delle cose più brutte della sua vita, quella partita, e infatti non ne parlava mai”. Non che ebbe tanto tempo per farlo: neanche otto mesi, tra quel 16 marzo alla Cittadella di Parma e il 2 novembre all’Idroscalo di Ostia. 1975, Pier Paolo Pasolini ha 53 anni, muore dietro una porta da calcio, fuori dal gioco della vita, ancora dentro una passione: “Un bravo calciatore”, risponde due anni prima al ‘che cosa le sarebbe piaciuto diventare?’ di Enzo Biagi. “Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.

La declinazione è rossoblu, l’idolo Biavati e il doppio passo che proverà a imitare con successo, la denominazione d’origine i Prati di Caprara, “i pomeriggi che (ci) ho passato a giocare a pallone sono stati indubbiamente i più belli della mia vita”. I colori del Bologna se li tiene addosso anche in trasferta, in quella domenica di primavera sottratta alla provincia e riguadagnata al mito: “Sarà una partita epica, leggendaria nei racconti della gente di cinema che vi partecipò, ma praticamente sconosciuta al pubblico”, osserva il regista Alessandro Scillitani. Partita larger than life, già numericamente: non si affrontano i canonici undici contro undici, bensì Centoventi contro Novecento. Uno scazzo – lo scarso apprezzamento di PPP per Ultimo tango, vai a sapere – val bene una partitella riparatoria, anzi, la madre di tutte le partite: la rappresentativa della troupe di Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini affronta l’omologa di Novecento di Bernardo Bertolucci. I set sono vicini, l’amicizia tra PPP e BB antica, la pasoliniana – e fascista nell’affresco di Bernardo – Laura Betti apparecchia la singolar tenzone: Centoventi contro Novecento, l’icastico titolo del documentario di Scillitani, scritto da Alessandro Di Nuzzo “ricostruendo minuziosamente la storia di quella domenica e la memoria ancora viva dei protagonisti”. Un film ricchissimo, quello “dei capelloni”, l’altro povero, “con i ragazzi di strada”, l’utopia di BB, tesa “all’emancipazione dell’uomo” e rischiarata dal “sol dell’avvenire”, e la distopia di PPP, concentrazionaria e sadiana: le due anime del secolo breve a rincorrere il pallone e cercare il goal.

Così lontani, così vicini, Bernardo e Pier Paolo: il primo osserva dalla panchina, si ritaglia il ruolo dell’allenatore e fa tagliare alla costumista Gitt Magrini casacche viola con banda gialla “novecentesca” e, addirittura, calzini arcobaleno psichedelici per disorientare l’avversario; il secondo tiene fede a se stesso, che a Parma come a Bologna, la borgata Donna Olimpia e Ciampino in campo ritorna bambino, che per qualcuno giocava “ala sinistra e correva sempre”, per altri “ala destra ed era una farfalla”, per tutti “anche due contro due voleva vincere”. Triste solitario y final solo all’Idroscalo, prima nel calcio, da lui inteso quale “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo: è rito nel fondo, anche se evasione”, Pasolini si trasfigura, il suo volto abitualmente atteggiato a “pugno si fa carezza”.

Eppure, il 16 marzo 1975 non basta per vincere: i valori in campo non direbbero, giacché PPP “sembra Maradona” e la sua compagine “il Brasile”, ma Centoventi contro Novecento non raddrizza le sproporzioni oltre il due a cinque goal. Pasolini esce per infortunio – intenzionale entrata omicida di un armadio chiamato Barone – e subito i bertolucciani recuperano i due gol di svantaggio: l’arbitro del secondo tempo è di Salò, ma la prospettiva di lavorare con i “ricchi” alletta, sicché fischia due rigori inesistenti per il team di Novecento. C’è di più: l’animus pugnandi che i parmensi rivendicano viene rinforzato alla bisogna con qualche elemento professionistico, non troupe cinematografica, ma giovanili calcistiche. Tre, quattro virgulti di talento per volgere a proprio favore le sorti dell’incontro, e tra questi – udite, udite – più di qualcuno annovera Carlo Ancelotti, all’epoca quindicenne del Parma: che l’attuale allenatore del Napoli, già centrocampista sopraffino Roma e Milan, sia stato l’uomo in più per Bertolucci, e in meno per Pasolini, be’, bella storia. Presente o meno in quella Cittadella agonistica, Carletto non bevve dalla coppa dei vincitori: Bertolucci la fece riempire di Dom Perignon e la offrì ai vinti. Molti dei Centoventi declinarono l’offerta, “il rosicamento era generale”. Ma la torta, quella sì, la mangiarono tutti, con le mani, a centrocampo. Anche Pasolini: era il 16 marzo del 1975, era il trentaquattresimo compleanno del suo amico Bertolucci.

 

Non solo Brexit: una bionda inguaia Johnson

Ora Westminster fa i conti con i demoni scatenati da Brexit, fatti di violenza fisica e verbale fra e contro esponenti politici. Reagisce richiamandosi all’idea di fair play britannica sconfessata dagli ultimi eventi: la Camera dei Lords ha lanciato ieri un premio per “la civiltà in politica”. È un cubetto di ghiaccio nell’inferno che nei prossimi giorni non può che esasperarsi. Boris Johnson, sconfitto dal parlamento e dalla corte Suprema, ha reagito con una aggressività feroce, stigmatizzata anche da membri del suo partito, come il ministro del Lavoro Amber Rudd, oltre che dal grosso dei media. “Boris goes full Trump”, ha suggerito il Financial Times. Non è, come ha vuole qualche commentatore, la reazione scomposta di un leader in difficoltà: fa parte piuttosto di una strategia, già elettorale, che guarda oltre Brexit e vuole sfruttare la contrapposizione People vs Parliament, per esempio presentando il Benn act, cioè la legge approvata dai parlamentari per scongiurare un’uscita dall’Ue senza accordo, come una “resa” all’Europa. Che intanto sta a guardare: fonti di Bruxelles fanno capire che la possibilità che si riesca a trovare un accordo sono vicine allo zero, e che in ogni caso, è improbabile che il parlamento approvi un compromesso che porta la firma di Johnson. Quindi gli scenari sono due: l’uscita senza accordo il 31 ottobre o la richiesta di un’estensione di tre mesi, come vuole il parlamento britannico. L’Ue sembra orientata a concederla, ma Johnson insiste che non la chiederà mai, malgrado la legge Benn lo obblighi a farlo. Non è chiaro se possa trovare degli escamotage legali per ignorarla: l’ex premier conservatore John Major ha suggerito che il governo potrebbe ricorrere a una arcana procedura per far passare un editto senza coinvolgere la regina, ma è un’ipotesi liquidata dagli esperti.

C’è sempre la possibilità che il premier si dimetta o sia sfiduciato: si andrebbe a un governo ad interim che avrebbe 14 giorni per trovare una maggioranza. Il candidato naturale è il leader laburista Jeremy Corbyn che però non ha il sostegno dei Lib-Dem, e non è chiaro se possa avere quello degli indipendentisti scozzesi. Per orientarsi nella nebbia l’unica è affidarsi ai bookmakers: William Hill dà 7 a 2 una uscita senza accordo entro il 2019, 25 a 1 elezioni a ottobre, 2 a 1 Corbyn prossimo primo ministro, 1 a 6 uscita con accordo o revoca della Brexit o estensione. Intanto su Johnson pesa l’ombra di uno scandalo molto scivoloso, portato alla luce dal Sunday Times. Fra il 2008 e il 2016, quando è sindaco di Londra, Boris si dimentica di dichiarare la sua amicizia con la giovane, biondissima ex modella diventata imprenditrice Jennifer Arcuri. In pausa pranzo va spesso a trovarla nel suo appartamento, per delle “lezioni di tecnologia”. Jennifer non solo lo accompagna in tre missioni, pur senza avere nessuno dei requisiti necessari: la sua società, Hacker House, riceve quasi 126mila sterline di fondi da due diversi dipartimenti del comune, supervisionati quindi da Boris. Conflitto di interessi? Alla domanda dei giornalisti lui per sei volte non ha risposto, e infine ha assicurato: “Tutto è stato fatto in modo ineccepibile”. Ha pochi giorni per chiarire di fronte ad una apposita commissione, o rischia una incriminazione per abuso d’ufficio.

Kiev, Trump sotto accusa già a ottobre “Siamo in guerra”

Adesso, tutti i leader avranno paura di parlare con Donald Trump, al telefono o di persona: primo, devono evitare di restare coinvolti in qualche sua “proposta indecente”; secondo, sono preoccupati che il contenuto della conversazione venga reso pubblico per qualche inghippo di politica interna degli Stati Uniti. Il segnale d’allarme l’ha azionato il Cremlino: i colloqui tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo Usa “devono restare classificati”. Il portavoce russo Peskov definisce la pubblicazione della telefonata tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky “una pratica insolita”. “Vorremmo sperare che non ci capitino cose del genere: le nostre relazioni bilaterali hanno già problemi abbastanza seri”.

Le preoccupazioni del Cremlino non sono probabilmente in cima alla lista dei pensieri di Trump, che difende il suo operato, attacca i suoi critici, dice “siamo in guerra” – con chi? – e sta cercando un’“arma di distrazione di massa” per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’avvio della procedura di impeachment nei suoi confronti. La politica estera è una fonte d’ispirazione e l’Iran gli offre uno spunto: “Teheran mi chiede di togliere le sanzioni, ma io dico no”. Avviata con l’audizione in Congresso del capo dell’Intelligence Usa, l’ammiraglio Joseph Maguire, l’istruzione della procedura d’impeachment potrebbe stilare i capi d’accusa entro ottobre: lo scrive il New York Times, citando deputati democratici. La speaker della Camera Nancy Pelosi vuole, però, andarci con i piedi di piombo, per evitare passi falsi: “Ci muoveremo rapidamente, ma non avventatamente”; e – aggiunge – “non c’è nulla di cui essere contenti, questo è un momento triste per il nostro Paese”. Mentre il NYT replica alle critiche per avere rivelato elementi dell’identità della talpa, che ora vive sotto protezione – è un agente della Cia di stanza alla Casa Bianca –, i media scavano nel rapporto da giovedì al Congresso. La Casa Bianca avrebbe saputo dei rilievi dalla talpa poco tempo dopo la telefonata “incriminata” fra Trump e Zelensky, nella quale il magnate chiedeva al collega il favore di indagare sui Biden padre e figlio, Joe e Hunter. La talpa s’è prima rivolta al legale della Cia con un processo anonimo, poi ha presentato la propria denuncia. Per due mesi la Casa Bianca si sarebbe affannata nel tentativo di tenere il presidente al riparo dai suoi propri errori. L’esposto tira in causa funzionari del Dipartimento di Stato, che saranno forse chiamati a deporre nelle prossime settimane. Tra la “dozzina” di figure dell’Amministrazione che il 25 luglio ascoltarono la telefonata tra Trump e Zelensky ci sarebbe Ulrich Brechbuhl, un consigliere legale del Dipartimento di Stato, amico dai tempi di West Point del segretario di Stato Mike Pompeo – insieme fondarono la Thayer, una società attiva nel settore aerospaziale –. Fonti anonime smentiscono, però, tale circostanza.

Fra i funzionari in vista del Dipartimento di Stato coinvolti dalla talpa ci sono Kurt Volker, l’inviato speciale Usa in Ucraina, e Gordon Sondland, l’ambasciatore presso l’Ue. I due avrebbero incontrato il team di Zelensky per aiutarlo “a gestire i divergenti messaggi che arrivavano da canali ufficiali Usa”, un’eco delle interazioni tra l’avvocato personale del presidente, Rudy Giuliani, e gli ucraini. Giuliani avrebbe avuto contatti di vario tipo e in tempi diversi con ben cinque emissari ucraini – muovendosi, pare, con l’avallo del Dipartimento di Stato –. Ma Zelenski nega di avere ricevuto pressioni da Trump. Pompeo difende i suoi collaboratori, che – dice – lavoravano a sostegno dell’Ucraina contro l’influenza russa crescente. “Per quel che ne so, ogni azione dei funzionari del Dipartimento è stata completamente appropriata”. Le dichiarazioni s’intrecciano. Biden, in calo nei sondaggi, accusa Trump di cercare di rubare Usa 2020; Hillary, che nel 2016 fu forse davvero derubata – torna d’attualità il Russiagate – definisce il presidente “un tornado umano corrotto”; Trump dice che la talpa è “faziosa” e vuole le dimissioni del presidente della Commissione Intelligence della Camera Adam Schift. E siamo all’inizio.

Mohammed Ali, l’attore-diavolo e “le oscure forze del male”

“Nano maledetto, corrotto. Stai rapinando il tuo popolo”, così Mohammed Ali chiama il dittatore egiziano Abdel Fattah al-Sisi in uno dei suoi video che, in Egitto, stanno infiammando la protesta. Al Sisi, che non ha una statura elevata, 1,66 metri, ha risposto con un ammonimento in tv, evocando il diavolo: “Ci sono forze del male che cercano di prendervi di mira. Comunque state tranquilli; nessuno può ingannare gli egiziani e non c’è da preoccuparsi. Il nostro popolo ha capito ed è diventato più cosciente”. Mentre la figura di Al Sisi è ben definita, un dittatore che con la sua cricca di militari sta spolpando il Paese, meno conosciuta e piuttosto controversa quella di Mohammed Ali.

I suoi estimatori lo osannano come un sincero combattente per la libertà, i suoi detrattori invece lo dipingono come un approfittatore in cerca di denaro che mira solo a ricattare il regime. Fatto sta che Mohammed Ali ha ricevuto molto dalla cricca di potere attuale. I militari in Egitto controllano un buon 70 per cento dell’economia. La sua società di costruzioni ha ricevuto diversi appalti dalle forze armate o da società a compagnie loro legate. L’attore, che ha girato L’altra terra, un film finanziato dal regime per convincere gli egiziani a non emigrare in Europa, presentato nel 2016 al Cairo Film Festival, accusa Al Sisi di aver investito cifre da capogiro in case faraoniche nella nuova capitale amministrativa del Paese, in costruzione a una quarantina di chilometri dal Cairo. Naturalmente la cifra stanziata – secondo Mohammed Ali – è finita in tangenti e prebende per i fedeli di Al Sisi. Il regime ha risposto postando sui social foto di lui al volante di una Ferrari e presentandolo come un dissoluto donnaiolo. Molti ritengono che non sia lui il vero motore della protesta che sia manovrato da quella parte dei militari più liberale che non vede di buon occhio lo strapotere arrogante di Al Sisi o addirittura dai Fratelli Musulmani.

Egitto, ritorno in piazza Tahrir “Vada via Al Sisi il corrotto”

Un’ondata di proteste ha investito l’Egitto nei giorni scorsi. L’ultima grande manifestazione si è tenuta ieri al Cairo. I dimostranti si sono riuniti non solo in piazza Tahrir, nella capitale, dove i sit-in nel 2011 costrinsero alle dimissioni il presidente Hosni Mubarak, ma hanno invaso anche le strade di Mahalla, Alessandria, Suez, Damietta. A differenza della scorsa settimana la partecipazione è stata massiccia. Sono stati scanditi slogan per chiedere le dimissioni del dittatore Abdel Fattah al-Sisi.

In Egitto le dimostrazioni sono cominciate dopo che un attore, famoso con lo pseudonimo di Mohamed Ali, aveva postato sui social una serie di interventi durissimi contro il regime accusato di corruzione, appropriazione indebita, furto e, ovviamente, “cieca repressione” e violazione dei diritti umani. Ma Mohammed Ali non è solo un attore. È un costruttore edile cui la dittatura militare guidata da Abdel Fattah al-Sisi, aveva affidato una serie di lavori – secondo le accuse – mai pagati. Si tratta di fatture per 13 milioni di dollari.

Naturalmente il presidente ha negato ogni addebito liquidando le critiche come “bugie e calunnie”. Mentre l’attore non solo ha insistito – postando in continuazione dalla Spagna dove vive nel terrore di essere ucciso, in un “volontario esilio”, come lui stesso lo chiama, video ricolmi di accuse – ma la scorsa settimana ha lanciato l’appello – raccolto – di scendere in piazza. Così è stato venerdì scorso e così ieri.

Il regime ha risposto con il pugno di ferro. La polizia più volte ha caricato i manifestanti con manganelli e lanciato lacrimogeni. La settimana scorsa sono state arrestate più di duemila persone e infatti ieri una delle richieste dei dimostranti era la liberazione incondizionata di tutti coloro finiti dietro le sbarre.

Il regime di Al Sisi, al potere dal 2013, controlla almeno il 70 per cento di tutte le attività economiche del Paese o direttamente o attraverso società controllate dai militari. Le maglie della struttura sociale egiziana sono strettissime in una sorta di organizzazione mafiosa. In Egitto chiunque voglia lavorare deve fare i conti con i generali.

Le manifestazioni attuali stanno profondamente spaccando il Paese, provocando una reazione opposta; infatti anche ieri c’è stata una contro-dimostrazione a difesa del regime.

Molti egiziani, specialmente nelle classi medio-alte e benestanti, ricordano come le rivolte del 2011 abbiano portato al caos politico ed economico, sconvolgendo l’importante industria turistica della nazione, fonte di ricchezza un po’ per tutti e spalancando le porte alla Fratellanza Musulmana e alle loro confraternite che mirano a impedire la modernizzazione della società. Dopo le proteste della scorsa settimana la borsa e i mercati azionari sono crollati, suscitando parecchia apprensione.

Preoccupazioni queste alimentate anche dal governo che ha orchestrato una campagna di paura attraverso i giornali e le televisioni gestiti dallo Stato, oltre che sui social media, a difesa Al Sisi, dipinto come onesto, affidabile e non corrotto.

Ma non si può pensare che alla base della protesta ci siano solo gli appelli lanciati da Mohamed Ali. I video del- l’attore/costruttore hanno trovato un terreno fertile su cui attecchire.

Il malcontento ormai è salito a livelli di guardia con un egiziano su tre che vive sotto la soglia di povertà. Il reddito dei più poveri si ferma a un dollaro e mezzo al giorno. Da quando è salito al potere Al Sisi ha proibito tutte le manifestazioni e varato sanzioni severissime per chi viola il divieto. Probabilmente per questo motivo, la settimana scorsa è scesa in piazza poca gente: i più coraggiosi. La maggior parte della popolazione dissidente è rimasta in casa, terrorizzata: “Molti di coloro che intendevano raggiungere le manifestazioni sono stati bloccati dalla polizia in strada – rivela al Fatto Quotidiano uno dei dimostrati raggiunto al telefono –. Le notizie degli arresti si sono subito diffuse consigliando a chi intendeva partecipare di non muoversi. Questa volta però è andata diversamente. La protesta si espanderà ancora di più”.

Lo spirito di Bonco: libero cazzeggio in libera tv

Il programma più rivoluzionario della televisione italiana? Alto gradimento! Ma non era alla radio? Appunto. Il big-bang della ditta Arbore-Boncompagni sta lì, in compagnia di Scarpantibus, Max Vinella, il colonnello Buttiglione… Gli ospiti inventati, la goliardia, la surrealtà, libero cazzeggio in libero programma. Ma come nasce l’improvvisazione? Nasce dall’amicizia tra due autori di genio, dall’allegria, dalla vita travasata nell’etere, come ha raccontato Renzo Arbore nello speciale di Rai2, No non è la BBC. Un colonnello Buttiglione esisteva davvero e protestò formalmente. Poco male, lo si sostituì con il diretto superiore, generale Damigiani. Guai se non ci fosse stata la radio. Negli anni 70 certe cose si potevano fare solo in via Asiago; quando i due irriducibili guastatori portarono Scarpantibus a Canzonissima il risultato fu cinque anni di confino. Solo nel decennio successivo Arbore poté sperimentare alla grande la sua jazz television, mentre Bonco iniziava un profetico viaggio verso l’horror vacui, da Domenica in fino a Macao, pura contemplazione del video, ossia del vuoto. “In sei anni di Alto gradimento non abbiamo scritto un rigo”; ora che la tv è scritta da capo a piedi, le gesta di Non è la BBC sembravano arrivare da un altro pianeta. Eppure, nella conduzione di coppia brevettata da Arbore (lui in carne e ossa, Bonco in puro cartonato, il suo sogno), l’affiatamento era quello di sempre. Ci sono luoghi ad alto gradimento dove lo spirito sopravvive ai corpi.

I giornali “green” del padrone che fabbrica auto

 

“Vengo a prenderti stasera/ sulla mia Torpedo blu/ l’automobile sportiva/ che mi dà un tono di gioventù”

(da Torpedo blu di Giorgio Gaber – 1968)

Fa specie vedere i giornali del gruppo Gedi, entrati ormai nell’orbita della Fiat, pronti a schierarsi in prima linea sul fronte ambientalista, contro l’inquinamento e l’emergenza climatica. Da un lato, in un’ottica ecologista, il fatto che testate controllate dalla più grande azienda italiana di automobili assumano una posizione del genere può anche essere interpretato come un segnale confortante. Dall’altro, sul piano più strettamente mediatico, è una scelta che lascia qualche dubbio sulla sua autenticità e credibilità.

È vero che il traffico automobilistico non è l’unica fonte dell’inquinamento atmosferico, preceduta in quantità dalle emissioni nocive della produzione industriale, agricola ed energetica. Ma sappiamo anche che l’uso dei combustibili fossili come il petrolio, da cui si ricavano la benzina, il gasolio e altri derivati, è ancora alla base di un modello di sviluppo che avvelena l’aria, minacciando l’ambiente e la salute collettiva. E l’auto ne è il simbolo più comune, perché – volenti o nolenti – la utilizziamo quotidianamente più o meno tutti. Né possiamo dimenticare gli altri veicoli, a due o più ruote, che contribuiscono a inquinare l’atmosfera.

Ora, al di là di “Stampubblica” e della Fiat, si può celebrare con tale enfasi il summit dell’Onu sul clima a New York ed esultare contemporaneamente per l’ultima straordinaria doppietta della Ferrari in Formula Uno? Si possono sventolare coerentemente le bandiere verdi o arcobaleno degli ambientalisti e quelle rosse o tricolori dei tifosi del Cavallino rampante? E insomma, sulla stampa e in tv, è lecito accostare il viso slavato della giovane attivista svedese Greta Thunberg a quelli radiosi e trionfanti di Vettel o di Leclerc sul podio di Singapore?

Sono domande che ognuno di noi dovrebbe porre a se stesso, da semplici utenti o appassionati dell’automobile, per misurarsi con le proprie contraddizioni. E chi scrive, ambientalista di lungo corso e “piede pesante” alla guida, prova a farlo qui pubblicamente. Non tanto per rinnegare o demonizzare l’automobile, mezzo di viaggio o di trasporto e status symbol per eccellenza, che di per sé non ha alcuna colpa; quanto per riflettere sulla necessità di cambiare atteggiamento e mentalità rispetto all’emergenza ambientale e climatica.

È senz’altro utile adottare le marmitte catalitiche, i motori che consumano e soprattutto inquinano meno, le auto ibride o quelle elettriche. Ma a questo punto la retorica ambientalista non basta più. Se vogliamo combattere davvero l’inquinamento, dobbiamo modificare il nostro rapporto con la quattroruote, a cominciare dal mito futurista della velocità. Che senso ha, allora, organizzare gare o Gran Premi per bolidi elettrici se questa nuova generazione di auto è nata per risparmiare energia, andare più piano e non avvelenare l’aria?

La verità è che occorrerà sempre più spostare quote di traffico dal trasporto privato a quello pubblico, soprattutto nelle grandi città e nei loro hinterland. Dalla gomma al ferro, per dire dai camion e dai Tir che viaggiano su strade e autostrade ai binari dei treni e delle metropolitane. Dall’auto individuale a quella collettiva, all’insegna del car sharing ovvero della mobilità condivisa. E l’industria automobilistica che una volta si opponeva ai limiti di velocità, dovrà adeguarsi di conseguenza per modificare la produzione con l’obiettivo prioritario di tutelare l’ambiente, la sicurezza e la salute dei cittadini. Magari non solo a colpi di titoli e articoli sui suoi giornali.

Giustizia, quale riforma è urgente

Uno dei settori cruciali in cui si misurerà l’effettiva vocazione riformatrice del governo Conte 2 è quello della Giustizia, da decenni in perenne crisi, in cui la carenza di moderne strutture organizzative e funzionali, anche in termini di personale (mancano oltre mille magistrati e altrettanti sono i vuoti nei ruoli delle cancellerie e segreterie) nonché di sistemi e tecnici informatici, si misura con un apparato giurisdizionale costretto ad applicare codici di procedura che risalgono al secolo scorso e che sono essi stessi la causa principale della progressiva, rovinosa, inarrestabile decadenza del “Servizio Giustizia” (nonostante le numerose “leggine” degli ultimi decenni rivelatesi improbabili rimedi contro l’accresciuto arretrato dei processi).

Nelle “Linee di indirizzo programmatico” del Conte 2 si legge che “occorre rendere più efficiente il sistema della Giustizia civile, penale e tributaria attraverso una drastica riduzione dei tempi”, ma non si precisa con quali strumenti tale ambizioso obbiettivo potrà essere raggiunto, né altre probanti indicazioni sono contenute nel discorso sulla fiducia pronunciato lunedì 9 settembre dal premier dinanzi alla Camera dei deputati.

Sul tavolo del ministro Bonafede è rimasto il suo progetto di riforma (da lui stesso definito “epocale”) naufragato nell’ultimo Consiglio dei ministri del governo Conte 1 per l’opposizione della Lega che lo ritenne “acqua fresca”, e oggetto di critiche da parte dell’Associazione nazionale magistrati, di autorevoli esponenti del Foro, e da ultimo, di Nino Di Matteo, senza contare il dissenso espresso dal Pd per bocca dell’ex Guardasigilli Orlando. Va ricordato che i motivi di contrasto riguardano: la nomina per sorteggio dei componenti del Csm, la prefissione di termini rigidi per la chiusura delle indagini del pm, il termine perentorio di 6 anni per la definizione dei processi civili e penali con sanzioni disciplinari per i giudici inadempienti, la soppressione della figura del procuratore della Repubblica aggiunto, la destinazione a vita nei ruoli amministrativi del ministero della Giustizia dei magistrati parlamentari non rieletti, ecc.

Occorre peraltro sottolineare che nessuna riforma congiunturale in materia di giustizia può funzionare se non è accompagnata da misure strutturali (e da nuove risorse umane) che ne rendano possibile il cammino. Per rimanere ad alcune gravi criticità del settore civile, di cui il progetto Bonafede non ha tenuto conto, si segnalano: 1) l’abnorme contenzioso delle cause di lavoro specie nei grandi tribunali, dove i lavoratori aspettano anni e anni per vedere riconosciuti i loro diritti; 2) l’ingente arretrato delle Sezioni Lavoro e Tributaria della Cassazione nelle quali la durata media dei processi è, rispettivamente, di 3 anni e 1 mese, e di 4 anni e 3 mesi.

Come affrontare, con interventi immediati, queste aree di crisi ? Innanzitutto mediante concorsi straordinari per titoli con cui reclutare avvocati e professori lavoristi e tributaristi; per la Cassazione attuando l’articolo 106 della Costituzione con la nomina di consiglieri “per meriti insigni” tra avvocati cassazionisti e professori ordinari di diritto. In secondo luogo trasformando in giudici monocratici gli attuali Collegi ternari delle Corti d’appello (salvo specifiche eccezioni) e riducendo da 5 a 3 i componenti dei Collegi della Cassazione, con il conseguente aumento di almeno un terzo dei Collegi giudicanti (più giudici più sentenze).

Nel campo della giustizia penale resta sullo sfondo, quale traguardo finora reso irraggiungibile dalla mancanza di coraggio e lungimiranza dei ministri della Giustizia degli ultimi decenni, il processo accusatorio che sarebbe, esso sì, la vera, risolutiva “riforma epocale”.