La fragilità saudita aiuta la pace

Prodezze della guerra asimmetrica. Un po’ di droni, un po’ di missili e un po’ di imboscate delle milizie Houthi stanno mandando in rovina l’invasione dello Yemen da parte della terza potenza del pianeta, dopo Stati Uniti e Cina, per spesa militare. L’Arabia Saudita spende 68 miliardi di dollari all’anno – l’8,8 per cento del suo Pil, primato mondiale – per armare una forza che da quattro anni non è in grado di prevalere su una congerie di combattenti straccioni, privi di aviazione, carri armati e difese antiaeree.

Le truppe reali combattono con il solido appoggio logistico e di intelligence americano, e tutto ciò che sono riusciti a fare finora è una serie di schifose stragi di civili nonché generare una crisi umanitaria da fame, sete e malattie che si è portata via 80 mila vite e sta facendo indignare il mondo intero. Contemporaneamente, i droni e i missili di qualche giorno fa – il cui lancio è stato rivendicato dagli yemeniti – sono penetrati nello spazio aereo saudita facendosi beffa del sistema di difesa antimissile made in Usa Patriot e hanno distrutto il principale impianto petrolifero del Paese, dimezzandone la capacità produttiva e riducendo del 5 per cento l’offerta mondiale di petrolio.

L’ attacco ha scioccato la monarchia e Washington al punto che non sono stati in grado di articolare una risposta immediata contro i presunti autori, né di fornire una giustificazione decorosa di quanto accaduto. Ma l’insegnamento impartito da questi fatti è apparso subito molto chiaro: il Regno d’Arabia Saudita è incapace sia di attaccare sia di difendersi decentemente perché non è in grado di usare le armi che possiede e che ha acquistato a caro prezzo. E perché non è una vera nazione né uno Stato. È una pompa di benzina postmoderna (tirannia medievale più rendita finanziaria), e vulnerabilissima, che riesce a stare in piedi solo perché paga un enorme costo di protezione agli Stati Uniti, o meglio, all’élite plutocratico-militare di quel Paese.

Gli Usa non hanno più bisogno del petrolio saudita. La tecnologia fracking li ha resi indipendenti dalle importazioni di idrocarburi e ha mandato in soffitta la dottrina Carter secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero il diritto di difendere anche con la forza il loro approvvigionamento energetico dal Medioriente. Ma il legame tra la casa di Saud e l’America che conta è rimasto. Si basa sulla fornitura di armamenti e sul riciclaggio della rendita estrattiva tramite Wall Street e petrodollaro, e non va sottovalutato: è stato proprio l’11 settembre 2001 a dimostrarne la forza. 15 dei 19 attentatori erano sauditi, ma gli affari della famiglia Bush con la dinastia dei Saud hanno contribuito a deviare prima contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq la vendetta americana: Dollar First! Il tema è stato riassunto da Trump in campagna elettorale quando ha dichiarato che l’Arabia Saudita non è un alleato, ma spende centinaia di miliardi di dollari in armamenti americani. Perciò “è la nostra vacca da latte, e quando non sarà più capace di produrne, la macelleremo”. Il problema ora è che, invadendo lo Yemen e facendosi fare a pezzi senza reagire metà della sua industria petrolifera la settimana scorsa, la vacca si è macellata da sola. A beneficio di chi? Non certo degli Stati Uniti, che non possono pensare di raddoppiare le vendite di armi a un cliente che ha già raggiunto i propri limiti di esborso. E che, non sapendole usare, deve essere protetto d’ora in poi con un impegno militare diretto.

Il maggiore beneficiario immediato della palese vulnerabilità saudita è senza dubbio l’Iran, che è sia uno Stato che una nazione, nonché la massima potenza regionale da un paio di migliaia di anni. Potenza non aggressiva, che non inizia una guerra da 500 anni e che ha intrapreso da poco un percorso di riavvicinamento all’Occidente interrotto dall’avvento di Trump. L’idea, coltivata dai sauditi negli ultimi decenni, di poter seriamente competere con l’Iran per la supremazia nel Golfo e nella regione, è andata adesso in frantumi. Per di più è evidente che una guerra tra Arabia Saudita e Iran durerebbe poche settimane, e anche l’abbandono dei Patriot e la corsa all’acquisto degli S-300 russi si scontrerebbe con gli stessi ostacoli.

La palla ora è tutta nel campo di Washington. Ma il beneficiario di più lungo periodo della débâcle saudita è la pace internazionale. La guerra tra Usa e Iran era già improbabile perché non favorita né dal Congresso né dal Pentagono né dallo stesso Trump. E neppure, ovviamente, dall’Iran e dagli europei, impegnati a mantenere il Trattato nucleare del 2015. E le guerre non scoppiano per caso. Occorre che almeno una delle due parti sia fortemente decisa a iniziarla. Si è aperto così uno spazio ulteriore per una soluzione non militare dello scontro tra Stati Uniti e Iran. Ed è paradossale che stiamo tutti ad aspettare, a questo punto, l’esito finale del confronto tra l’anima isolazionista e quella bullista di un presidente americano lontano 7mila chilometri dal Medioriente.

Mail box

 

Più che il vincolo di mandato servirebbe il vincolo di partito

Un limite temporale dell’impegno politico è forse inapplicabile, e risulta controproducente nel momento in cui un parlamentare sia costretto a lasciare dopo aver acquisito la necessaria, specifica esperienza che gli permette di esercitare al meglio la sua funzione. Mentre l’indegna deriva del cambio di casacca andrebbe depotenziata. I deputati e i senatori, vengono eletti con un partito o un movimento, i quali perseguono ben conosciute ideologie. Il mandato ricevuto presuppone che, pur all’interno di un dibattito costruttivo, a queste ci si debba attenere. Certamente, la libertà, sta nel poterle ad un certo punto disconoscere. Ma, contemporaneamente, si dovrebbe prevedere la decadenza del ruolo ricoperto, a favore del primo non eletto.

Giovanni Marini

 

Ambiente: Greta va avanti nonostante l’odio sui social

I Fridays for Future hanno coinvolto tutta Italia. Lo sciopero studentesco per il clima si è fatto strada, grazie all’indignazione contagiosa espressa dalla giovane attivista Greta Thunberg. Una “bambina” che sta insegnando molto a tutti. Soprattutto agli adulti. Molti la insultano sui social, alludendo a chissà quale complotto.

Se anche fosse vero, ciò non cancellerebbe l’estrema urgenza ed ineluttabilità dell’emergenza ambientale che Greta ha portato all’attenzione mondiale.

Cristian Carbognani

 

In Abruzzo l’unico aumento di stipendio è per i direttori Asl

In merito alla lettera del sig. Giuliano Mascitelli, che avete pubblicato nell’edizione del 27 settembre, nella parte conclusiva si parla di aumenti faraonici a favore dei dirigenti regionali. La Giunta che presiedo non ha disposto alcun aumento ai dirigenti regionali. Un aumento è stato invece deciso a favore dei direttori generali delle Asl. L’Abruzzo era l’unica Regione che aveva una media inferiore del 30% rispetto agli stipendi delle altre Asl d’Italia. Vorrei vedere chi sostiene che il lavoro svolto dai direttori generali delle Asl abruzzesi, a parità di mansioni, vale il 30% in meno dei loro colleghi in Italia. Abbiamo quindi predisposto un aumento che equipara gli emolumenti, pur lasciandoli al di sotto di quanto hanno stabilito le altre Regioni. Un aumento necessario per rendere appetibile concorrere per un posto in Abruzzo. Una scelta che aumenta la qualità dei direttori e che sicuramente porterà benefici a ciascun cittadino abruzzese.

Marco Marsilio
Presidente della Regione Abruzzo

 

Diritto di replica

Vi scrivo a seguito della pubblicazione in data 27 settembre 2019 sul quotidiano IlFattoQuotidiano.it di un articolo dal titolo “Il MsS perde pezzi in Parlamento: la senatrice Vono se ne va con Renzi”. L’articolo, nel riportare la notizia del passaggio ad altro gruppo della senatrice Vono, inserisce notizie false, infamanti e destituite di ogni minimo fondamento, riguardanti lo scrivente.

È infatti, destituito di ogni fondamento il seguente passaggio “però ieri Mario Giarrusso, infuriato per non essere stato nominato sottosegretario, si è astenuto in commissione giustizia sul provvedimento antiriciclaggio”. Interpellato dal giornalista sul punto, avevo motivato il mio voto, specificando che avevo condiviso le obiezioni sollevate dal collega Senatore Piero Grasso, che riferiva di pesanti obiezioni che erano state avanzate sul provvedimento, sia dalla Direzione Nazionale Antimafia che dalla UIF.

Risulta quindi falso e infamante, quanto riferito nell’articolo, per di più all’interno di una cornice del tutto fuori luogo (l’abbandono del gruppo da parte di una collega), volto a creare una suggestione nei lettori in ordine alla motivazione della mia posizione (peraltro condivisa da altri colleghi).

Da quando sono in parlamento, ogni mia azione giusta o sbagliata, è sempre stata orientata al contrasto, senza sconti, alle mafie. Vi chiedo dunque di voler provvedere, ai sensi dell’art. 8 Legge 47/1948, alla rettifica di quanto riportato nel citato articolo, comunicandovi che, in difetto, intraprenderò le azioni previste dalla vigente legge sulla stampa e che in ogni caso ho dato mandato ai miei legali di sottoporre il vostro articolo alla magistratura competente per le iniziative necessarie volte a tutelare la mia reputazione personale.

Mario Michele Giarrusso
portavoce m5s in senato

 

I nostri errori

Due precisazioni. La prima: nonostante Giarrusso scriva di essere stato “interpellato dal giornalista”, io e lui non ci siamo sentiti prima della stesura del pezzo. La seconda: nell’articolo a cui il senatore fa riferimento, riguardante la sua astensione, ho riportato un suo virgolettato di spiegazione diffuso dall’agenzia AdnKronos alle 20.06 del 25 settembre: “C’è un grave problema nel merito”.

Ldc

 

Nella rubrica di ieri “Ciak si gira” c’erano due inesattezze: il titolo del film di Sydney Sibilia è “L’incredibile storia dell’isola delle rose” e la produzione sarà a cura di Groenlandia con Netflix e non con Rai Cinema. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

F.C.

Japan Airlines. Posti a sedere “child free”: è un diritto di chi vola o nuova apartheid?

 

Buongiorno, sono rimasta molto colpita dalla notizia che la Japan Airlines ha introdotto una nuova funzione “child free” nella prenotazione dei biglietti aerei, localizzando sulla mappa dei sedili i passeggeri minori di 2 anni: in pratica, si potrà scegliere il proprio posto quanto più distante possibile dai bambini. Va bene che i “frugoletti” non sono tutti beneducati e silenziosi, anzi spesso molesti, ma questa operazione mi sembra tanto una forma di apartheid: indecente. Voi che dite?

Eleonora Doddi

 

È interessante come indicazione, ma a un patto: prima sarebbero utili le icone anche per chi ha problemi con la saponetta, chi russa, chi parla a voce alta, chi si sbriciola addosso e poi per pulirsi lancia i residui di cibo per un raggio di un paio di metri, chi lascia acceso il cellulare quando non potrebbe, chi non vede l’ora di alzarsi in piedi appena l’aereo tocca il suolo e ti costringe a “colloquiare” a lungo con le sue parti basse. Chi attacca bottone e non ti permette di dormire o leggere un libro (“Turista per caso” con William Hurt resta una pietra miliare rispetto a questo argomento). E pure chi ama applaudire al pilota (oramai fenomeno raro, va ammesso). Dopo questi suggerimenti, va benissimo l’icona dedicata ai bambini, con un enorme però: quasi sempre i più piccoli non hanno alcuna colpa, quasi mai la questione va inserita sotto la casella “capricci”, bensì va giudicata come fastidio oggettivo; i bambini soffrono sia la pressurizzazione del decollo che la depressurizzazione dell’atterraggio (dura mezzora): non riescono a compensare e diventa un dolore reale nell’orecchio; per i bambini si può attenuare con una caramella che permette al timpano di abituarsi; ovvio, la caramella non va bene per i neonati. Detto questo spesso non sono i più piccoli il dilemma, bensì i genitori quando decidono che il “loro” problema, il loro stress va condiviso con gli altri, e non ci riferiamo alle legittime e inevitabili lacrime, ma ai capricci: in questo caso quei signori quasi sempre rientrano pure in una delle categoria sopracitate, e quelle categorie sono peggiori di una lacrima di neonato.

Ps. Ieri in treno ho sentito dietro di me un bambino tossire e ogni tanto lamentarsi. Un paio di volte ho pensato di cambiare posto. All’arrivo in stazione mi sono alzato e ho visto una mamma con gli occhi tristi e affaticati mentre adagiava con dolcezza il suo piccolo di circa tre anni su una carrozzina speciale. È stato bello darle una mano a scendere, per fortuna non avevo fatto le bizze.

Alessandro Ferrucci

“Iniziai a recitare per caso, mi nascondevo da dario”

Tocca a lui, ora che Dario e Franca non ci sono più. Mario Pirovano reciterà il Mistero buffo, 50 anni dopo la prima. Nello stesso teatro, l’Ariston di Sestri Levante, dove Fo debuttò con la sua giullarata il 1° ottobre 1969. Poi Pirovano la porterà al Piccolo Teatro Grassi, dall’8 al 20 ottobre. Il 21 sarà sul palco della Sala Umberto di Roma. E infine Canada, Israele, Bielorussia… “E pensare che io non sapevo neppure che cosa fosse il teatro”, racconta. La sua è una storia da giullarata moderna. “Erano i primi anni Ottanta. Io, nato a Pregnana Milanese – un paese che si chiama Pregnana perché ci facevano la monta per rendere pregne le vacche – vivevo a Londra, dove vendevo voli charter tra l’Italia e l’Inghilterra. I miei miti erano gli Animals, i Beatles, i Rolling Stones. Amavo la chitarra elettrica, al teatro proprio non pensavo”.

Dario Fo arriva a Londra, per portare in scena il suo Mistero buffo. “Con un amico vado a trovarlo prima dello spettacolo, per onorare la sua figura politica, il suo essere un punto di riferimento per il Movimento. Lui ci accoglie, chiacchiera con noi. Poi ci dà appuntamento a dopo lo spettacolo. Ma io non avevo nessuna voglia di andare a vederlo. Consideravo noioso il teatro e non avevo neppure il biglietto. Mi sono sentito obbligato a restare. Mi sono seduto in platea. Ho riso per due ore. E ridevano anche gli inglesi, che evidentemente capivano il grammelot di Dario. Poi Franca Rame mi ha proposto di andare a lavorare con loro. Detto, fatto: per 15 anni sono stato con Dario e Franca, vivevo a casa loro”.

Pirovano ha fatto il trovarobe, l’autista, l’aiuto suggeritore, la comparsa… “Soprattutto vendevo il materiale durante gli spettacoli: libri, dischi, manifesti, audiocassette, videocassette…”. Poi, un bel giorno, gli capita la seconda occasione che gli cambia la vita. “Ero ad Alcatraz, dove Jacopo Fo, il figlio di Dario e Franca, gestisce la sua Libera Università. C’erano dei ragazzi in visita con i loro professori. Mentre lavoravo nell’orto, non visto, sento un gruppo di ragazzi che litigano furiosamente tra loro, dicendosene di tutti i colori. Salto fuori e li riprendo: ‘Ma cosa dite? Ma come vi trattate?’. Per far capire che avevano sbagliato, racconto loro un pezzo del Mistero buffo: Il primo miracolo di Gesù Bambino. Mi accorgo che lo so a memoria, glielo recito tutto. La sera le insegnanti, a cui i ragazzi avevano raccontato la cosa, mi chiedono di recitarlo di nuovo. Volevo scappare. Ma insistono, lo devo fare. Così ho cominciato a fare l’attore”.

Non ha più smesso, Pirovano. “Io non volevo farmi vedere da Dario. Mi vergognavo. Ho recitato Il miracolo di Lazzaro all’Università di Firenze, nel corso del professor Pio Baldelli, ma prima ho aspettato che Dario uscisse dalla sala. Una sera ho recitato il Mistero buffo a una Festa dell’Unità in Umbria. Dario era venuto e si era nascosto nel pubblico. Il giorno dopo viene da me e, ridendo, mi urla: ‘Ti ho visto ieri sera!’”.

Sono tante le storie che si sono via via aggiunte a Mistero buffo. “A recitarle tutte non basterebbero due giorni”, ride Pirovano. Alla serata di Sestri per ricordare i 50 anni metterà in scena le sue preferite: Nascita del giullare; La fame dello Zanni; Resurrezione di Lazzaro; Bonifacio VIII e Il primo miracolo di Gesù Bambino. “Nella prima, si racconta che il giullare nasce da un miracolo di Gesù: un contadino era stato privato di tutto, del suo campo, dei suoi figli, della moglie violentata dal Signore. Arriva Gesù che con un bacio gli dà la capacità di reagire, raccontando la sua storia: lo trasforma in giullare”.

“Mistero buffo” e quella prima alla statale: Milano, anno ’69

Silenzio surreale negli atrii, nei corridoi, nelle aule, nei chiostri dell’Università Statale, deserta come dopo una guerra nucleare. Solo l’aula magna è gremita all’inverosimile e fumosa, perché le sigarette sono ancora ammesse negli spazi pubblici. Migliaia di ragazzi occupano ogni poltroncina e, seduti a terra, ogni millimetro della grande sala. Alcuni sono saliti anche sul palco, dove di solito sta il gruppo del Movimento Studentesco incaricato di guidare le assemblee. Al centro della scena, illuminato da un faretto, questa volta c’è un uomo solo, alto, allampanato, pantaloni neri, maglietta nera. Quando comincia a parlare si fa silenzio. Per oltre due ore, parla una lingua mai udita e racconta storie mai narrate. Vicende lontane, buffonerie medioevali, storie di contadini e di santi, di potenti spietati e ribelli irridenti, di preti untuosi e poveracci pieni di dignità, di ubriachi che si sostituiscono agli arcangeli e di papi usi a far inchiodar per la lingua, alle porte delle città, i frati poveri che predicano contro i signori. Il pubblico in jeans e minigonne è subito incantato, ascolta, ride, s’indigna, ride ancora, applaude.

Il Medioevo lontanissimo in cui si dipanano quelle favole esilaranti e tremende sembra proprio il presente vicinissimo. Era il 30 maggio 1969. L’uomo che sul palco saltava e raccontava, sussurrava e urlava, piangeva e rideva, entrando e uscendo da mille personaggi, era Dario Fo. Quella rappresentazione era la prima assoluta di Mistero buffo. Una “giullarata popolare”. La recita l’attore che sette anni prima, nel 1962, era stato cacciato dalla tv di Stato dove insieme a Franca Rame conduceva Canzonissima. Usciti dalla televisione, Dario e Franca entrano nelle fabbriche, nelle università, nelle case del popolo, preferiscono le piazze ai teatri, vogliono far ridere e pensare e indignare “il popolo” e non “i borghesi”. Usano una lingua inventata, il grammelot, in cui s’incrociano dialetti padani, echi di linguaggi antichi, scherzi e onomatopee. Riscrivono storie che dicono di aver trovato in testi storici e vangeli apocrifi, citano fonti colte e autori antichi. Una felice impostura per presentare la gioiosa, assoluta contemporaneità politica del teatro di Dario Fo, alle prese non con il Medioevo, ma con il presente della storia italiana che stava vivendo il suo ’68 studentesco, il suo ’69 operaio.

Sono passati 50 anni. Il debutto in teatro di Mistero buffo fu poi il 1 ottobre 1969 all’Ariston di Sestri Levante, ma quella “prima” clamorosa alla Statale di Milano resta il sigillo di un testo così anticonvenzionale ed eversivo da non poter avere la sua partenza sul palcoscenico di un normale teatro italiano. Se lo ricorda, quel debutto, chi fu, quasi suo malgrado, l’informale organizzatore della serata. Ezio Rovida, allora studente di Lettere alla Statale, era stato indicato dall’Assemblea generale – allora supremo organo deliberante del Movimento Studentesco che funzionava per democrazia diretta – come responsabile dell’Interfacoltà e del finanziamento. “Sì, avevo ereditato 10 mila lire in monetine dal mio predecessore, Michelangelo Spada. La serata con Fo fu la nostra prima iniziativa culturale in aula magna. Intensissima, affollatissima, applauditissima. L’effetto del monologo di Dario fu dirompente. Il linguaggio del Mistero buffo era un’assoluta novità, l’interpretazione scoppiettante e la gestualità di Fo furono per noi una scoperta assoluta. All’ingresso organizzammo una raccolta fondi a offerta libera per il Movimento che fruttò circa 200 mila lire in monete da cento e da cinquanta, poi utilizzate per produrre volantini e striscioni”.

Fu un momento di cultura e di grandi risate, ma in un clima di grande tensione politica. Lo ricorda Giuseppe Liverani, allora studente di Scienze politiche, che con Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero era uno dei leader del Movimento della Statale. “La tensione era alta. Le mobilitazioni continue. L’11 marzo 1969 avevamo contestato in aula il professor Pietro Trimarchi: fu fatto passare per ‘sequestro’. I fascisti provocavano con spedizioni e bombe molotov contro la Statale e l’Hotel Commercio di piazza Fontana, occupato dal Movimento Studentesco e dagli anarchici. Il 25 aprile erano scoppiate bombe alla Fiera e alla Stazione Centrale: accusati gli anarchici, erano invece i primi attentati terroristici del gruppo nero di Franco Freda e Giovanni Ventura. Noi, per tutta, risposta abbiamo occupato l’aula magna per farci entrare la cultura”. Primi invitati, Dario Fo e Franca Rame.

“Quel 30 maggio 1969 la situazione era surreale”, racconta Liverani. “Migliaia di studenti in aula magna, il resto dell’università deserta. Solo le squadre del servizio d’ordine presidiavano gli ingressi e il chiostro del Filarete, pronte a difendere l’ateneo e a sventare possibili provocazioni dei fascisti. Io ricordo ben poco dello spettacolo, sentivo da fuori la voce tonante di Dario, le risate degli studenti, gli applausi del pubblico. Che sospiro di sollievo, quando lo spettacolo finì, e Franca e Dario se ne andarono raggianti: si era conclusa bene una delle giornate più significative del lungo Sessantotto milanese”.

Di lì a pochi giorni, il 9 giugno, Liverani fu arrestato, insieme a Capanna, Toscano e altri studenti, per il caso Trimarchi. Seguirono manifestazioni di protesta, mentre si preparava l’“autunno caldo” degli operai impegnati nel rinnovo dei contratti e nella richiesta di democrazia in fabbrica.

Indimenticabili quegli anni. Il 15 agosto 1969 la radio e la tv (allora era solo Rai) censura la canzone di Jane Birkin e Serge Gainsbourg, Je t’aime, moi non plus. Il 15 ottobre, 36 milioni di americani sfilano nelle principali città degli Stati Uniti contro l’intervento in Vietnam. Il 19 novembre, durante una manifestazione di operai e studenti caricata dalla polizia, muore a Milano l’agente Antonio Annarumma. “Il 12 dicembre – conclude Liverani – arriva la risposta violenta al ’68 studentesco e al ’69 operaio: scoppia la bomba in piazza Fontana; viene arrestato l’anarchico Pietro Valpreda; cade da una finestra della questura l’anarchico Pino Pinelli”.

Sui muri di Milano compaiono scritte che dicono: “Valpreda è innocente, la strage è di Stato”. Ma anche altre che piacevano molto a Dario Fo: “Una risata vi seppellirà”.

Culle vuote, aule ancor di più

Nel prossimo decennio al Nord resisteranno le superiori, ma i livelli inferiori e il Sud globalmente avranno una perdita di studenti del 20%. Come rispondere a questo calo? Con il potenziamento della qualità della formazione a partire dalla prima infanzia.

La demografia è strettamente interdipendente, in termini sia di cause sia di conseguenze, con il benessere sociale ed economico di un territorio. Se gli indicatori che riguardano la popolazione prendono un’inclinazione negativa è tutto il Paese che ne risente e viene trascinato verso il basso. In particolare, lo stato di salute e di benessere di una società e di una economia dipendono dalla consistenza quantitativa delle nuove generazioni e dalle possibilità di un loro qualificato contributo ai processi di sviluppo e innovazione.

Per lunga parte della storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, le classi giovanili hanno rappresentato la componente più abbondante della popolazione. Ancora a inizio del secolo scorso, oltre un cittadino italiano su 3 aveva meno di 15 anni e oltre la metà aveva meno di 25 anni. All’inizio del secolo attuale tali valori risultavano dimezzati. Oggi la prima fascia di età conta poco più del 13% e la seconda meno del 24%. Più che dalla longevità in sé, gli squilibri demografi ci sono prodotti dalla persistente bassa natalità. In particolare quando la fecondità scende sensibilmente e sistematicamente sotto tale livello, come nel ’68 italiano, ogni nuova generazione viene ridimensionata rispetto alla precedente. Di fatto si ottiene un processo di “degiovanimento”, vale a dire una progressiva riduzione della popolazione più giovane. Il confronto con la Francia è istruttivo, perché la longevità di tale Paese è molto simile a quella italiana e anche il numero di anziani è comparabile, ma il loro numero di giovani è marcatamente superiore.

Questa differenza si deve soprattutto al diverso andamento della fecondità, rimasta vicina alla media di 2 figli in Francia, mentre è crollata molto sotto a un figlio e mezzo (1,32 è il dato del 2018) in Italia. Se, come abbiamo detto, gli under 25 italiani sono oggi meno del 24%, i coetanei d’oltralpe sono oltre il 30%. Secondo le previsioni dell’Onu, è previsto tale valore si riduca ulteriormente nel nostro Paese, almeno fino all’orizzonte del 2035 (scendendo sotto il 20%). Va però considerato che lo scenario della natalità è stato negli ultimi anni peggiore del previsto. Nel 2018 le nascite sono state 449 mila. Si tratta del punto più basso d’un processo di continua riduzione che negli anni della recessione s’è inasprito. Rispetto al 2008 i bambini iscritti per nascita all’anagrafe sono circa 130 mila in meno. I nati da entrambi i genitori italiani son stati meno di 360 mila nel 2017, con una riduzione di oltre 120 mila nei confronti del dato pre-crisi. Ma va registrata anche una diminuzione di quasi 10 mila di nati con almeno un genitore straniero, scesi nel complesso sotto i 100 mila.

Se il contributo dell’immigrazione è in riduzione, l’incidenza rimane elevata, poco superiore al 20% del totale dei nati (ma con valori superiori al 30% in alcune regioni del Nord). Le comunità straniere che contribuiscono maggiormente, rappresentando assieme oltre la metà dei nati da genitori non italiani, sono nell’ordine quella di rumeni, marocchini, albanesi e cinesi. Altro dato di rilievo è l’accentuazione della riduzione delle nascite, anche al netto della componente migratoria, nelle aree in maggiore difficoltà economica, con più basse opportunità di lavoro per le nuove generazioni, con welfare meno efficiente. Il tasso di fecondità più basso è quello della Sardegna (1,06), mentre quello più alto corrisponde alla Provincia di Bolzano (1,74), seguita dalla Provincia di Trento (1,49). Eppure il numero medio desiderato di figli in Italia continua a essere vicino a due, e ancora più alto nel Sud. Mancano però le condizioni favorevoli per un riallineamento verso l’alto delle scelte di vita.

È interessante notare che alcune regioni, soprattutto del Nord, avevano mostrato un rilevante aumento prima della crisi economica. In particolare Lombardia ed Emilia Romagna erano salite da valori attorno a 1 a livelli vicini a 1,5 dal 1995 al 2008. Questa crescita non s’è verificata nel complesso del Mezzogiorno. Come conseguenza molte regioni del Sud si trovano con un numero medio di figli per donna sotto la media nazionale. Se l’impatto negativo della crisi economica sulle nascite è stato maggiore del previsto (lo scenario centrale delle proiezioni Istat con base 2011 indicava un numero di nascite che si manteneva sopra il mezzo milione), s’aggiungono due preoccupazioni.

In primo luogo per il rischio che l’impatto congiunturale della crisi porti a conseguenze irreversibili sulle scelte delle famiglie. Se le coppie che nel periodo di crisi hanno congelato le proprie scelte di allargamento della famiglia non recuperano in questi anni, rischiano di veder definitivamente trasformarsi il rinvio in rinuncia. Il secondo motivo è il fatto strutturale che siamo entrati in una fase di riduzione delle potenziali madri (come conseguenza della persistente denatalità passata), questo significa che da un basso numero medio di figli per donna si ottengono ancor meno nascite che in passato perché diventano di meno le donne in età riproduttiva (le potenziali madri). Questo dovrebbe ancor più incentivare a mettere le attuali coppie che entrano in età adulta (di meno che in passato) nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi di vita. Che sia possibile invertire la tendenza lo mostrano le politiche familiari realizzate dalla Germania e da alcuni Paesi dell’Est Europa, che hanno puntato a incentivare con misure ben mirate sostenute da adeguati finanziamenti. (…) Come conseguenza di una persistente denatalità, stiamo quindi vivendo la fase più accentuata della nostra storia di riduzione della popolazione giovanile, con una intensità maggiore rispetto al resto d’Europa. Le conseguenze più evidenti degli squilibri demografici prodotti sono quelle riscontrabili concretamente nelle aule scolastiche.

Inoltre, la spirale del degiovanimento quantitativo e qualitativo è accentuata dalla più alta dispersione scolastica dell’Italia rispetto alla media europea e dal saldo negativo di giovani qualificati nei confronti degli altri Paesi avanzati. Entrambi questi fenomeni sono più evidenti nelle regioni meridionali, che si trovano quindi con una riduzione degli studenti delle scuole secondarie superiori inasprito dall’abbandono prematuro e con una crescente propensione dei giovani con alte aspirazioni a iscriversi negli Atenei del nord o direttamente all’estero. Secondo i dati Istat, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che hanno lasciato precocemente gli studi (Early leavers from education and training – Elet) è stata nel 2017 pari al 14% a livello nazionale (contro 10,6% media Ue-28). Tra i maschi del Mezzogiorno si sale a ben il 21,5%. (…) L’aumento della fecondità nel Nord Italia tra il 1995 e l’inizio della recessione, in combinazione con una maggior capacità attrattiva nei confronti dell’immigrazione, consentirà nei prossimi 10 anni alla fascia d’età che corrisponde alla scuola secondaria di secondo grado di non ridursi (anzi di aumentare un po’). Per le fasce più basse e per il Sud le previsioni indicano, invece, una forte contrazione, in alcuni casi con perdite dell’ordine del 20%. Secondo le stime della Fondazione Agnelli, “la riduzione della popolazione scolastica comporterà dunque una contrazione degli organici dei docenti, a partire dai gradi inferiori, per un totale di oltre 55.000 posti/cattedre persi” (S. Molina, Scuola. Orizzonte 2028: anticipare il cambiamento per governarlo, Neodemos, 2018). Il rischio è quello di sprofondare in una spirale negativa di “degiovanimento” quantitativo e qualitativo della società.

Vi ricordate di +Europa?

Qui è necessarioun piccolo sforzo di memoria: vi ricordate di +Europa con Emma Bonino? Sì, sì, proprio quel simpatico agglomerato che secondo i meglio giornali doveva arrivare al millemila per cento alle elezioni e poi è rimasto sotto il 3% eleggendo 4 tizi nei collegi uninominali. Ecco, da ieri +Europa è sempre con Emma Bonino, ma senza Bruno Tabacci, che peraltro aveva pure vinto il primo e ultimo congresso del partito che piace alla gente che piace. Il nodo del contendere è il governo Conte 2: il democristiano alla Camera (coi due colleghi piùeuropeisti Magi e Fusacchia) lo appoggia, Bonino in Senato sta all’opposizione. E così Tabacci ieri ha dettato al CorSera: “Sinceramente non ho ancora capito perché Emma ha voluto distruggere +Europa” annunciando che lui e i suoi se ne vanno. Se ne va, l’ottimo Bruno, ma non prima di aver buttato lì che “Emma” forse ha votato No perché voleva un certo posto da ministra e invece… Al nostro ha replicato +Europa in quanto entità astratta (“un’insinuazione velenosa e rancorosa”) e poi pure il segretario in quanto persona, cioè Benedetto Della Vedova: “Se il Pd sopravvive all’uscita di Renzi, +Europa sopravviverà all’uscita di Tabacci”. Noi ne siamo convinti. E comunque l’ultimo spenga la luce: sennò chi la sente Greta…

“La Storia deve saper attendere. Un giorno capiremo Salvini”

Prendiamo due notizie degli ultimi giorni: la contestata risoluzione del Parlamento europeo sull’equiparazione di crimini nazisti e comunisti, e Berlusconi indagato per mafia. Nel suo ultimo libro Paolo Mieli, giornalista e storico, non ne parla. Eppure in qualche modo se ne occupa perché il saggio prende in esame falsi storici, credenze infondate e rivelazioni che illuminano di luce diversa trenta casi di verità nascoste, che danno il titolo al libro.

La risoluzione del Parlamento europeo ha fatto molto discutere.

Se si vuol dire che il patto Molotov-Ribbentrop è stato la causa scatenante della Seconda guerra mondiale, si dice una colossale sciocchezza.

Quindi nazismo e comunismo sono equiparabili, o no?

No perché un essere umano – è capitato anche a me – che voleva aderire all’ideologia comunista poteva farlo con il desiderio di difendere gli oppressi, senza nessuna idea di nuocere al prossimo. Chi aderiva all’idea nazista sapeva che il presupposto era fare del male ad altri. Nelle intenzioni sono cose completamente diverse. Certo: ovunque l’idea comunista sia stata messa in pratica – con l’unica eccezione del Kerala – ha prodotto morte.

Un capitolo si occupa dell’origine rivoluzionaria della mafia.

Il tema – coraggiosamente portato alla luce da Salvatore Lupo –, della mafia postunitaria che ha radici nella sinistra storica è imbarazzante, il senso comune la vuole legata alla destra. Addirittura all’epoca dell’impresa dei Mille, quando gran parte degli agrari misero a disposizione dei garibaldini i loro picciotti, che furono decisivi in alcune battaglie come a Calatafimi. Due volte la storia d’Italia s’è fatta dalla Sicilia risalendo verso il Nord, nel 1860 e nel ’43 quando la mafia si alleò con gli Alleati: sempre dalla parte ‘giusta’.

Che effetto le fa la notizia dell’indagine su Berlusconi per le stragi del ’92-93?

C’è una verità ufficiale che non convince e siamo in attesa di ulteriori verità, che forse arriveranno per via giudiziaria. Quello che sembra essere uno scontro tra Berlusconi e Dell’Utri potrebbe produrre nuove rivelazioni. Certo, da questa vicenda dipenderà quale reputazione futura avrà Berlusconi: se venisse fuori qualcosa di decisivo farebbe dimenticare le ragazze e le condanne. Non si libererebbe mai dello stigma della mafia. Per ora, però, supposizioni molte, evidenze zero. Quello che è in gioco è la sua immagine nei libri di storia, ormai politicamente è fuori dai giochi.

Ne Le verità nascoste lei cerca di smontare molti luoghi comuni che sono passati per verità insindacabili, tra cui il proto-fascista D’Annunzio.

Mussolini lo ha irretito, mettendolo ai margini, rubandogli molte idee e molti slogan, come Eia eia alalà. D’Annunzio passa per essere un precursore del Duce, per il quale aveva una nettissima antipatia fino all’impresa di Fiume.

A Trieste c’è stata molta polemica per la statua commemorativa dei cento anni dell’impresa.

Perché ancora adesso viene vissuta come la prova generale della marcia su Roma, cosa che non fu! Tanto è vero che molti dei legionari che parteciparono all’impresa non aderirono mai al fascismo.

Nel libro svela anche alcuni retroscena, per esempio il rapporto difficile di De Gasperi con la Chiesa.

Nel suo diario si legge quanto ha sofferto per i cedimenti della Chiesa al Fascismo. Come quando nel 1932 le suore della scuola Pio X a cui erano iscritte le sue due figlie pretesero che le ragazze prendessero la tessera del Partito fascista: lui non accettò e le spostò all’Istituto francese delle suore di Nevers. Sul diario annota la parola “lacrime”. La Storia deve sapere attendere, guardare da vicino ci fa cadere in errore.

Facciamo un esempio?

La crisi politica di questa estate è gravida di punti oscuri. Ci sono cose che non si spiegano: prima o poi usciranno dettagli che ci faranno capire di più. Quando un politico si muove di solito ha anche un piano B. L’8 agosto il piano A di Salvini erano le elezioni. Ma i giornali già parlavano della possibilità di un avvicinamento tra Pd e 5 Stelle: Franceschini, dieci giorni prima, aveva rilasciato un’intervista in cui la auspicava. Perché un politico navigato come Salvini non ha preparato un piano B? Su quello snodo saremo costretti a tornare, lo dico da storico.

“Alzare le pene agli evasori per usare le intercettazioni”

Ettore Squillace Greco qui, nella Toscana che lo ha adottato ormai vent’anni fa, ha trovato raramente ’ndranghetisti che chiedono il pizzo e fanno attentati. Prima a Prato, poi a Firenze e oggi a capo della Procura di Livorno, il magistrato calabrese ha messo nel mirino un obiettivo diverso, ma non meno pericoloso: la criminalità economica. Quotidianamente arrivano notizie di arresti, multe e sequestri che nella maggior parte dei casi provengono dall’evasione fiscale. “È una delle principali emergenze del Paese – esordisce – e in tempi come questi, in cui lo Stato ha pochi soldi da spendere, è diventato fondamentale aggredire questo fenomeno ormai endemico nel nostro Paese”.

Da quando si è insediato alla Procura di Livorno nel 2015 avete rafforzato la repressione dell’evasione fiscale con ottimi risultati. Con quale metodo?

Non c’è un metodo specifico, ma un modus operandi: quando sono arrivato a Livorno, ho riscontrato una piena sintonia tra il mio pensiero, secondo cui la criminalità economica va aggredita sui beni e i profitti illeciti, e le direttive e l’operato della Guardia di Finanza. Tutte le volte che troviamo degli illeciti penali, cerchiamo di colpire il profitto. Ho colleghi sostituti molto bravi e attenti.

In tempi di vacche magre il tema dell’evasione dovrebbe essere all’ordine del giorno e i governi precedenti hanno fatto poco.

Occuparsi seriamente di evasione fiscale è un impegno politico notevole che può risultare non pagante dal punto di vista elettorale.

Gli evasori votano.

Fare una lotta seria all’evasione può non essere conveniente, almeno nel breve periodo.

Secondo le stime, in Italia ci sono circa 10 milioni di persone che non pagano le tasse per circa 120 miliardi ogni anno. Un Paese di evasori?

Solo una parte evade. Ma penso che l’evasione fiscale in Italia sia un problema enorme: basta leggersi le relazioni della Corte dei Conti che ogni anno fanno emergere un quadro allarmante. E l’Italia ha dei grossi problemi ad aggredire questo fenomeno.

Ecco, appunto. Alla festa del Fatto il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, ha spiegato che nelle cassette di sicurezza degli italiani ci sono 200 miliardi di euro non tracciati, spesso frutto di evasione fiscale e che andrebbero recuperati. Che ne pensa?

Non ho dati precisi sul punto, ma conosco e stimo Francesco Greco che ha un osservatorio privilegiato sul tema: penso che la sua stima sia credibile. Non c’è dubbio che se si riuscisse a riscuotere anche una minima parte di questi soldi, basterebbero per fare almeno un paio di Finanziarie. E il modo di recuperarli c’è: bisogna selezionare gli obiettivi e in particolare ci vuole un cambiamento nell’attività di controllo e nella riscossione dei soldi.

Che vuol dire?

Il problema non è solo accertare l’evasione, ma riscuotere i soldi. Contemporaneamente occorre selezionare gli obiettivi dei controlli: a partire da grandi e medi evasori. Bisogna iniziare a ragionare selezionando gli obiettivi. Non solo, è fondamentale la riscossione: se chi vuole evadere sa che può essere scoperto e poi deve pagare, ci pensa prima di violare la legge. Questa è la migliore forma di prevenzione.

Qui entra in campo la politica.

Sì, da anni si parla di manette per gli evasori e poi facciamo condoni fiscali, spesso mascherati, che hanno un effetto controproducente. In primo luogo smettiamo di fare condoni.

Poi, vanno aumentate le pene per il carcere come vorrebbe il M5S?

Bisogna vedere in quali casi si aumentano le pene. La questione non è l’aumento delle pene: bisogna concentrarsi sulla loro effettività. Allo stesso tempo, se alzare le pene serve a rendere utilizzabili certi strumenti investigativi come le intercettazioni, è utile. Ma è fondamentale l’effettività della sanzione penale e amministrativa: bisogna colpire i guadagni illeciti.

La politica negli ultimi anni non ha dato un bel segnale sulla lotta all’evasione: nel 2015 il governo Renzi alzò le soglie per i reati di infedele e omessa dichiarazione da 50 a 150 mila euro e per l’omesso versamento Iva da 50 a 250 mila. Vanno abbassate?

Non voglio dare giudizi sui governi precedenti e non è tanto una questione di soglie, ma non si può dimenticare che siamo in un Paese in cui se uno ruba al supermercato rischia, a seconda dei casi, una pena che va da tre a dieci anni di carcere, mentre se omette di versare 250 mila euro di Iva non è penalmente punibile.

Il governo Conte vorrebbe eliminare il contante, tornare ad abbassare il tetto ai pagamenti e applicare sconti fiscali per gli idraulici che fanno pagare con la carta e così via. Misure utili?

Certo, meno circola il contante, più sono tracciabili le transazioni e maggiori sono le capacità di attivare i controlli. Questo anche in chiave di contrasto al riciclaggio. L’obiettivo di limitare l’uso del contante è stato indicato a livello internazionale.

In conclusione, qual è la sua ricetta?.

Figuriamoci se mi metto a dare ricette! Ma in base alla mia piccola esperienza posso dire che occorre semplificare la normativa, trovare un modo per versare l’Iva non a chi fornisce beni o servizi ma direttamente allo Stato, usare meglio le banche dati nel rispetto della privacy ed eliminare tutte le barriere diplomatiche a livello internazionale per favorire lo scambio dei dati, utile per andare a colpire i grandi evasori.

Buche da riparare: la Procura indaga per abuso d’ufficio sull’uso dei fondi

Accelera l’indagine della Procura di Roma sulle buche presenti in molte strade della Capitale. Il procedimento, aperto nell’aprile scorso dopo una denuncia del Codacons, punta a verificare se i fondi a disposizione dei vari Municipi e derivanti dalle contravvenzioni elevate dalla polizia municipale siano stati correttamente utilizzati per la manutenzione delle strade. Nel fascicolo, al momento contro ignoti, si ipotizza ora il reato di abuso d’ufficio, mentre sono stata già convocati, come persone informate sui fatti, alcuni funzionari dell’ufficio Ragioneria e della Segreteria generale che hanno messo a disposizione degli inquirenti una serie di documenti. Obiettivo di chi indaga è fare chiarezza sulle competenze e verificare se i Municipi abbiano aggirato in modo illecito quanto previsto dal punto di vista normativo ed amministrativo. Il sospetto del Codacons è che il flusso di denaro sia stato impiegato per tutt’altro, come spese per l’acquisto di stracci, detersivi, mobilio e, addirittura, armi e munizioni. Ma le voci che destavano più di una perplessità erano quelle relative a bonus e indennità in favore dei vigili urbani erogati senza un preciso criterio. Nel marzo del 2018 un procedimento sulla manutenzione stradale era stato aperto dopo una serie di esposti presentati anche da semplici cittadini che lamentavano la pessima condizione delle strade.