Sospesa e rinviata, a causa dell’aggressione a uno dei 24 imputati, la seconda udienza preliminare sul disastro dell’Hotel Rigopiano di Farindola. Ieri mattina, dopo un’ora di udienza, il gup del tribunale di Pescara, Gianluca Sarandrea, ha disposto una pausa dopo che Maria Perilli, madre di Stefano Feniello, una delle 29 vittime, ha incrociato al bar l’imputato Massimiliano Giancaterino, ex sindaco di Farindola, e lo ha preso a pugni. “È colpa tua – gli ha urlato – hai condannato a morte mio figlio”. Giancaterino è stato accompagnato in ospedale, dal quale è stato dimesso nel pomeriggio con una prognosi di 10 giorni per “trauma cranico non commotivo in policontuso da aggressione fisica”. La signora Perilli ha spiegato di considerare responsabile l’ex sindaco: “È stato lui a firmare i documenti per l’ampliamento dell’albergo, dando al resort la possibilità di restare aperto anche nella stagione invernale e non solo d’estate, e quindi firmando la condanna a morte di mio figlio”. La donna ha anche riconosciuto di averlo “preso a pugni, dopo averlo visto prendere allegramente un caffè”. L’ex sindaco ha, invece, riferito di essere “stato riempito di botte” e ha annunciato che sporgerà querela. Al rientro in aula il suo legale ha chiesto e ottenuto la sospensione dell’udienza, con rinvio al 25 ottobre, per legittimo impedimento.
“Qualità” alle Poste: dietro i trucchi c’era “una regia centrale”
Quella di Poste Italiane e dei controlli sul suo operato è una storia complessa e lontana dalla conclusione. Ha inizio nel 2014, quando il Fatto ha rivelato alcune irregolarità sul monitoraggio della qualità nella consegna delle lettere prioritarie. Il ministero dello Sviluppo economico aveva incaricato una società terza, l’Izi Spa, di testare la qualità del servizio di consegna, monitorando le tempistiche grazie a un gruppo di mittenti che si spedivano lettere tra loro, in gergo “lettere civetta”. Il punto è che qualcuno all’interno di Poste conosceva, per anni, molti nominativi dei controllori scelti da Izi e ha alterato i dati, in misura da verificare, per raggiungere gli standard qualitativi contenuti nel contratto con lo Stato. Come conseguenza, Poste ha licenziato 15 dipendenti, accusati di aver manipolato i risultati del monitoraggio. Tuttavia oggi c’è chi sostiene che dietro questa irregolarità, “perdurata per almeno 12 anni ed estesa a tutto il territorio nazionale”, è “plausibile” l’esistenza di “una regia centrale”, così come si legge nella sentenza del Tribunale di Venezia dello scorso 24 luglio.
Durante la discussione del ricorso contro il licenziamento di un ex dipendente, un testimone ha dichiarato che Poste già dal 2007 accedeva ai nominativi di chi spediva le “lettere civetta”, facendo il nome di Gianfranco Arena, che all’epoca dirigeva il ramo di Poste che controllava la qualità del servizio. “I miei superiori, tra cui Arena, sapevano che erano stati identificati il gruppo di mittenti (dropper) e destinatari (receiver) di Izi . Non ci fu mai detto di smettere di monitorarli”. Lo stesso Arena aveva all’epoca ricevuto due messaggi che andrebbero chiariti: “Caro Gianfranco (…) abbiamo rilevato che il dropper ha dichiarato falsamente di aver spedito il 21/10 un invio”, si legge in una email del 2008. Nell’altra c’è anche un’immagine in allegato: “Ciao Gianfranco, ti invio due immagini scannerizzate rinvenute OGGI, nella vuotatura cassette della provincia di Pistoia”. Lettere sottoposte al monitoraggio di Izi: i dipendenti, infatti, lamentavano il fatto che i receiver facevano emergere risultati peggiori di quanto auspicato. In un’altra email, un collaboratore di Gianfranco Arena si lascia sfuggire: “Si rende necessaria, come concordato con Gianfranco, un’operazione di cleaning tra Posta Prioritaria e Postatarget degli indirizzi riportati in allegato”. Erano gli indirizzi dei receiver. Eppure il nome di Arena non risulta tra i soggetti sanzionati da Poste.
A causa delle indagini avviate dalla Procura di Roma, dal garante della Privacy e dall’Agcom, Poste decise di avviare un audit interno nel 2015, configurandosi parte lesa, che si risolse in sanzioni disciplinari per 1.147 dipendenti. La responsabilità fu quindi rinvenuta sulla condotta dei singoli lavoratori, in particolare in 15 di loro che vennero licenziati, di cui 4 impiegati direttivi e 11 dirigenti, come ha specificato Poste contattata dal Fatto. Vero. Ma si tratta di dirigenti a livello territoriale, in basso nella catena gerarchica. Il segretario nazionale del sindacato Slp-Cisl, Luca Burgalassi, il 18 maggio 2017 ha dichiarato: “Mille tra capi e capetti sono stati ingiustamente sanzionati e, invece, quei 3 o 4 papaveri che stanno a Roma che hanno ideato quel meccanismo truffaldino di taroccamento della qualità, non sono stati nemmeno sfiorati”. Non sappiamo se Burgalassi abbia ragione. Sappiamo che l’audit interno fu affidato a Maurizio Baggio, che tuttora lavora per l’azienda e dal 2005 al 2008 (il triennio in cui è stata effettuata l’attività di controllo) è stato il responsabile della funzione operativa dello smistamento postale. In sostanza, in quell’audit, ha controllato e giudicato anche se stesso. E questo ci riporta ai giorni nostri. L’esistenza di una “regia centrale” è stata ribadita da un testimone lo scorso aprile, durante il processo di Venezia. Intanto nel marzo del 2018 il giudice della Corte d’appello di Firenze ha dichiarato illegittimo il licenziamento di due dipendenti. E con la sentenza del 24 luglio scorso, il Tribunale di Venezia ha dichiarato illegittimo anche il licenziamento di un’altra dipendente avvenuto nel 2016, contro cui Poste ha già presentato ricorso. Il Tribunale di Treviso il 5 aprile scorso ha, invece, annullato un altro dei 15 licenziamenti riconoscendone “la natura pretestuosa e ingiustamente vessatoria”. Il giudice è convinto che sia stata dimostrata una “condotta arbitraria, superficiale e quantomeno gravemente colposa”.
Poste Italiane ribadisce al Fatto che questi episodi appartengono al passato. Ma se ci sono stati licenziamenti “pretestuosi e vessatori”, è alla gestione attuale che tocca rimediare. Anche facendo luce sulla loro origine.
Global Goal Live 2020, l’evento green ispirato al Live Aid
Stavolta Bob Geldof non c’entra. Ma la sua visione di voler cambiare il mondo alzando il volume della musica ha trovato epigoni. Trentacinque anni dopo il Live Aid, un nuovo evento planetario tenterà di dare un colpo di maglio alla povertà estrema, che affligge 800 milioni di esseri umani, augurandoci che i proventi della kermesse non finiscano nelle mani sbagliate come nel 1985, quando gli aiuti raccolti furono intercettati da Menghistu, signore della guerra nell’Etiopia flagellata dalla carestia. Incrociano le dita quelli di Global Citizen, organizzatori del Global Goal Live-The Possible Dream, in agenda il 26 settembre 2020 in cinque location intercontinentali. Una sarà Lagos, l’altra New York, si attendono conferme per Europa (Parigi?), Sudamerica, Asia. Sarà un Festival di dieci ore con una diretta destinata a surclassare il record di spettatori grazie a tecnologie inimmaginabili al tempo del Live Aid. La campagna (servono 350 miliardi di dollari l’anno per l’obiettivo che l’Onu si è prefisso entro il 2030) è partita alla vigilia di un altro concertone del Global Goal, domani al Central Park. Ma l’appuntamento con la Storia sarà tra dodici mesi, con un cast di stelle in divenire: già dentro Metallica, Red Hot Chili Peppers, Coldplay, Muse, Eddie Vedder dei Pearl Jam, Miley Cyrus, Billie Eilish, Alicia Keys, Pharrell Williams, Usher, Shawn Mendes, Cyndi Lauper. Tra i presentatori Hugh Jackman, Katie Holmes e Rami Malek, qui nei panni di se stesso. A meno che non salga sul palco con i Queen, per vedere davvero l’effetto che fa.
Robot e raccolta dati: l’ecologia si può fare anche dentro le classi
Ci abbiamo lavorato anche di notte, fuori dalle lezioni, i professori erano sempre pronti a darci una mano. Credevamo che non fossimo abbastanza bravi”: e invece gli studenti dell’IIS Fortunio Liceti, di Rapallo, con il loro robot ecologico hanno vinto le olimpiadi nazionali di robotica nella categoria acqua. “È un progetto nato da un disastro – hanno raccontato ieri al ministero dell’Istruzione durante l’evento ‘Ambiente: la lezione più importante’-. Il 29 ottobre 2018 una mareggiata terribile ha distrutto il porto di Rapallo. Ci sono stati danni materiali, barche in pezzi ma anche idrocarburi dispersi in acqua tra i quali si pescava o si nuotava”. Hanno così deciso di realizzare un robot: galleggia, si muove grazie all’energia solare e raccoglie gli oli per poterli riutilizzare. Ora rappresenteranno l’Italia ai mondiali di robotica di Dubai.
La protesta contro il cambiamento climatico e i danni all’ambiente passa quindi anche per i banchi di scuola. A Cesena, il liceo Vincenzo Monti applica un serrato sistema di raccolta differenziata in ogni classe. A turno i ragazzi devono gestire i secchi e portarli fuori dall’aula per facilitare il lavoro agli addetti delle pulizie. Li monitorano, fanno statistiche sui consumi e cercano di ridurli. Hanno distribuito borracce e fatto installare distributori dell’acqua. A Pordenone, invece, i ragazzi dell’Istituto tecnologico Kennedy hanno sviluppato un drone che rileva il monossido di carbonio nell’aria, così come umidità e temperatura. Ha anche un sistema wifi per essere connesso e trasmettere i dati che raccoglie. “Non ha funzionato subito, ci abbiamo lavorato a lungo sia a scuola ma anche a casa” spiegano. Poi, però, ci sono riusciti. La robotica piace. L’Itt Giovanni Giorgi di Brindisi ha realizzato un robot a quattro ruote che si muove soprattutto in contesti critici e che può trasmettere immagini e voce. Hanno utilizzato materiali di scarto e sistemi open source, collegato al robottino una app che incamera i dati e da cui lo si può governare tramite bluetooth. “È un prodotto libero da diritti e royalties – dicono orgogliosi – perché abbiamo utilizzato solo sistemi realizzati da noi”.
Al Gae Aulenti di Biella, invece, il “Barbalbero” (citazione dal Signore degli Anelli) è un robot che sembra proprio un albero, ma parla. È un tramite tra uomo e piante, usa i sensori delle serre a distanza ed è in grado di stabilire e regolare acqua e luce necessari per eliminare gli sprechi. Riconosce grazie alla videocamera le piante, fornisce informazioni di base e se identifica animali nocivi li allontana con segnali sonori. Poi, sensibilizza recitando filastrocche scelte dagli studenti più piccoli.
E se i bambini della scuola dell’Infanzia Umberto I di Roma hanno mostrato al ministro Lorenzo Fioramonti i loro disegni e le poesie imparate per l’occasione, i ragazzi del “Di Vittorio – Lattanzio” di Roma hanno compito una vera e propria misurazione statistica del consumo di acqua e plastica nell’istituto e dato vita a un giornale scolastico digitale (“Il Fattanzio”) che assiduamente segue la cronaca della scuola e le tematiche ambientali. I ragazzi dell’istituto comprensivo di Trinitapoli (“Garibaldi – Leone”) e di Brolo hanno raccontato i progetti e iniziative che li hanno coinvolti durante l’anno, dall’incontro con le guardie forestali allo studio delle api, passando per la riscoperta dei lavori di un tempo legati all’acqua e al fiume che attraversa la loro cittadina. Infine, Caserta. Nell’istituto comprensivo San Prisco, gli studenti hanno unito ambiente e inclusione. Materiale di scarto, flaconi, tappi, bidoni e barattoli sono stati decorati e trasformati in strumenti musicali. Per suonare, cantare e ballare – in 40 – brani della tradizione araba.
“Occhio ai facili proclami: politici e aziende hanno detto una cosa e fatto altro per anni”
Non solo i ragazzi, ma tutti noi: bisogna ribellarsi alle affermazioni delle aziende che pretendono di pulirsi la coscienza con la retorica green, ma poi continuano a trarre profitti dagli affari ‘tradizionali’. E i governi? “Devono smettere di sovvenzionare, in qualsiasi forma, le fonti fossili”: Simon Pirani è uno storico e un ricercatore senior all’Oxford Institute for Energy Studies.
Pirani, è solo una operazione di “greenwashing”, marketing verde?
Guardiamo alle pubblicità: negli anni 70 parlavano solo di petrolio perché si pensava fosse positivo. Ora le pubblicità delle stesse aziende petrolifere parlano solo di ‘soldi spesi per sviluppare tecnologie ecologiche ed essere verdi’. Ma se poi guardi i loro bilanci ti accorgi che la spesa che destinano a queste tecnologie è minima se confrontata con i profitti che arrivano dalle fonti fossili.
Da dove si può iniziare a fare qualcosa?
In Gran Bretagna c’è stata una campagna durata quattro anni: un gruppo di attivisti ha chiesto alle gallerie d’arte, alle fondazioni, alle istituzioni artistiche e culturali, alle scuole e ai college di non accettare sponsorizzazioni dalle compagnie petrolifere. Sono soldi sporchi. Questo potrebbe essere un primo passo efficace.
La tecnologia può salvare il pianeta?
Deve essere sicuramente parte della soluzione ma dipende da chi la usa e per che cosa. La società che usa la tecnologia per ridurre le fonti fossili ha una grande opportunità, soprattutto se le azioni avvengono a livello locale. E poi, ci sono tecnologie nuove ma anche tecnologie vecchie che possono essere utili: i pannelli solari sono perfetti per una delle due principali fonti di emissioni nelle città, le abitazioni. Ma una tecnologia vecchia, come la bici, può esserlo per l’altra, i trasporti. Devono poi essere utilizzate sia che siano profittevoli sia che non lo siano. L’importante è che siano utilizzate per il bene comune.
Le proteste dei ragazzi di questi tempi rischiano di essere strumentalizzate?
I ragazzi in strada che lottano per il loro futuro possono solo essere positivi. Ma c’è una cosa che ho imparato sui governi in questi anni di ricerche per il mio libro, Burning Up (Pluto Press) sulla storia globale del consumo dei combustibili fossili. La correlazione tra i cambiamenti climatici e l’inquinamento è diventata chiara grazie a metà degli anni 80. A inizio degli anni 90 i governi si sono riuniti, hanno iniziato a discuterne, ad attivarsi tra conferenze e intese. Per noi storici, guardare i risultati di quel processo è stupefacente. In una società guidata dalla logica, ci saremmo aspettati che le emissioni diminuissero per le terribili conseguenze che ci sarebbero state. E invece? Sono aumentate anche del 60% in pochissimo, tra negazionismi e attività di lobbying. Il pericolo, di fronte a queste manifestazioni è che i politici dicano una cosa e facciano l’opposto come hanno fatto per 30 anni.
Cosa possono fare politica e governi? Anzi, cosa dovrebbero fare?
Smettere di applicare meccanismi di mercato per risolvere il problema. L’Unione europea, ad esempio, vent’anni fa ha introdotto un sistema di scambio delle quote di emissione che di fatto prevede una tassa su ogni tonnellata di carbone utilizzata da parte delle aziende. La fee, però, è davvero troppo bassa per fare la differenza. Forse ha aiutato a far passare alcune centrali elettriche dal carbone al gas ma non è abbastanza.
Servirebbero anche più investimenti di Stato?
Sì, ma soprattutto si dovrebbe smettere di sovvenzionare l’industria delle fonti fossili. E devono farlo i governi. Questo potrà avere un impatto enorme.
Quelli che “su Marte vacci tu”. Le duecento piazze di Greta
La risposta ai critici di Greta Thunberg l’hanno data le immagini, quelle pubblicate dalla stessa Greta per ore, a partire da ieri mattina. Fiumi di persone in piazza in Nuova Zelanda, Bangladesh, Slovenia. E poi Copenaghen, Stoccolma, Tel Aviv, Vienna, Budapest, Mumbai, Madrid, Malaga, Seoul, Tenerife, Monaco, Bonn, Sofia, Helsinki, L’Aja e Montreal, dove ha manifestato la stessa Greta. Ma a stupire la giovane attivista è stata proprio l’Italia: “Incredible pictures from all over Italy!”, ha scritto ieri su Twitter, inoltrando le foto delle piazze di Roma, duecontomila mila persone secondo gli organizzatori, Torino (20mila), Napoli (80mila), Milano (150mila), Firenze (50mila), Genova, Bari, Bologna, Catania, Reggio Calabria, Palermo, Pisa, Perugia, Trento, Cagliari, Parma e altre ancora.
D’altronde l’Italia è stata la quarta delle nazioni con il maggior numero di città – 210 – che hanno aderito alla Climate Action Week For Future, con un milione di manifestanti totali. Benedetti dal ministro della Pubblica Istruzione Fioramonti – anche se non tutti hanno detto di essere stati “giustificati” dai presidi, alcuni dei quali hanno preteso le foto – i ragazzi si sono riversati nelle piazze di tutta Italia di primissima mattina.
Alle nove, piazza della Repubblica a Roma era già gremita, arrivati quasi tutti con i mezzi pubblici. Molti anche gli adulti, insegnanti e genitori dei “Parents For Future”, il movimento di madri e padri che si è formato sulla scia di quello dei ragazzi. Il corteo romano si è svolto pacificamente, all’insegna di slogan molto romani – “Vacce te su Marte”, “Daje Greta”, “Sto a schiumà”, “Se non facciamo qualcosa avremo più leggende che Totti” – fino alla grande Piazza Venezia, dove è stata avvistata anche Laura Boldrini.
A Milano, dove era presente il sindaco Sala, è andato in scena un atto simbolico: in piazza del Duomo un grande pianeta di cartapesta ha preso fuoco. A Palermo c’è stata tensione per un’irruzione di un gruppo di ragazzi di estrema destra, fermati dalla polizia. Dappertutto, bandiere delle associazioni ambientaliste, dei sindacati, dei movimenti femministi erano mescolate ai cartelli dei ragazzi, molti dei quali, anche questa volta, sotto il segno dell’ironia. “Salvate la Terra, è l’unico pianeta con la birra”, “Bollente voglio il fidanzato, non il pianeta”, “Le stagioni sono più irregolari del mio ciclo”, altri del sarcasmo esasperato: “Credo più io in Babbo Natale che i nostri politici nel salvare il pianeta”.
In generale c’è voglia di manifestare e (relativa) allegria, anche se gli slogan sono apocalittici – un gruppo di bambini piccoli salta gridando “Sempre più benzina, la fine si avvicina” – ma se poi ci parli, con questi ragazzi, capisci che sono spaventati. “Finirà tutto quanto”, dice Giulia, 14 anni. “Ho terrore dell’estinzione, anche noi siamo animali”, aggiunge Filippo. Se gli chiedi come risponderebbero a chi critica Greta quasi non capiscono la domanda: “Come puoi essere contro qualcosa di così ovvio? Vanno contro loro stessi, è assurdo”, commenta Alessio, 18 anni.
Anche se pacifici, i Fridays For Future non vogliono dare un messaggio conciliante a quei politici (tra cui Zingaretti) che ieri twittavano appoggio e slogan sulla terra morente. Angosciati veramente dal collasso climatico, sostengono che “non si può aspettare il 2040 per l’eliminazione dei sussidi dannosi” e invitano il ministero dell’Istruzione a tagliare con le aziende inquinanti. E a New York l’altro ieri notte, i rappresentanti dei Fridays hanno detto di essere a disagio nel ritirare il premio “Champions of The Earth”: “Non c’è nulla da celebrare”.
Lo stesso messaggio che arriva da Save The Children, che proprio ieri ha aderit1o allo sciopero. Rispondendo implicitamente a chi, sui social, metteva in contrasto la “ricca” Greta con i poveri del pianeta, la Ong ha ricordato come il cambiamento climatico incida proprio sui più deboli. Un bambino su 4 muore per cause ambientali e sempre di più sarà così a causa del clima. Non c’è più spazio, davvero, né per discussioni sulla barca di Greta né sul suo stile comunicativo.
La coperta dei soldi è corta: mancano 5 miliardi
Secondo la legge, la Nota di aggiornamento al Def – il Documento di economia e finanza che disegna il quadro triennale dei conti pubblici – che delimiterà la prossima manovra avrebbe dovuto essere pubblicata ieri. Il nuovo governo, però, non è ancora pronto e ha rinviato tutto a lunedì nel tardo pomeriggio: il termine di legge è ordinatorio, dicono, non perentorio e dunque possono fregarsene.
Non che sia una novità, più rilevante è il motivo: i conti (pubblici) ancora non tornano, mancano all’appello circa 5 miliardi tra maggiori entrate o minori spese. Motivo: coi saldi che si vanno profilando – cioè quanto deficit, quante spese, quanta crescita, etc. – l’esecutivo dovrà varare una manovra 2020 fortemente recessiva.
Prima la cornice. In molti, qualcuno dentro il Pd e tutti tra i 5 Stelle, si aspettavano di più dal terzo eurodeputato più influente del 2018 (almeno a stare a Politico.eu), vale a dire dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri: si sbagliavano, i pilastri di quello che chiameremo per convenienza Fiscal compact sono imprescindibili per i Paesi nordici e quel che resta è la “flessibilità”.
Tradotto: l’Italia aveva promesso di portare l’anno prossimo il rapporto deficit/Pil all’1,8%, Bruxelles le consentirà di arrivare al 2,2% (al Tesoro dicono 2,1; qualcuno spera nel 2,3). Qual è il problema? Solo disinnescando gli aumenti automatici dell’Iva da 23 miliardi totali, il disavanzo del 2020 è previsto arrivare oltre il fatidico 3%: solo per raggiungere l’obiettivo, insomma, Gualtieri deve trovare tra 15 e 20 miliardi di maggiori entrate o minori spese, cui vanno aggiunte le coperture per il taglio delle tasse sul lavoro (il famoso “cuneo fiscale” cui andranno 4-5 miliardi il primo anno) e qualunque altra priorità dell’esecutivo. Questi numeri, questi soldi così astratti, sono in realtà servizi, infrastrutture, stipendi, vite: il Conte 2 – mentre l’Ue e l’Italia entrano in recessione – dovrà fare una manovra che con tagli e tasse rallenterà la crescita ancora di più.
La situazione, insomma, è complicata e non stupisce che i tempi si allunghino: pare che al pallottoliere dei tecnici manchino ancora 5 miliardi nonostante ormai anche le barriere psicologiche siano cadute. Nelle simulazioni del Tesoro, ad esempio, peraltro pronte da quando il ministro era ancora Tria, l’Iva è prevista salire comunque di 6-7 miliardi col seguente meccanismo: alcuni beni considerati di lusso passeranno dalle aliquote ridotte (4 e 10%) a quella standard (22%), altri faranno il percorso inverso, ma il saldo finale sarà che più prodotti saranno più costosi. Un bell’assist a Matteo Salvini, che avrà buon gioco a ricordare che il governo nato per bloccare l’aumento delle imposte, in realtà le aumenterà.
Ovviamente non di sola Iva si compone l’omaggio all’austerità a cui Gualtieri sarà costretto: ci saranno tagli alle cosiddette “spese fiscali” (detrazioni, deduzioni, etc.) per alcuni miliardi e anche tagli a spese vere e proprie che sono in via di quantificazione oltre, ovviamente, ai risparmi sugli interessi sul debito (circa 2 miliardi) e a quelli su Reddito di cittadinanza e Quota 100 sulle pensioni (circa 5 miliardi), le cui adesioni sono state inferiori a quanto stimato.
È quasi impossibile, così, che alcuni ministeri abbiamo più soldi da spendere: in nessuna delle bozze, ad esempio, è previsto l’aumento del finanziamento per scuola e università chiesto dal ministro Fioramonti a mezzo stampa (“sennò mi dimetto”).
Ora “Er Moviola” va veloce e promette più flessibilità
“Se sarò confermato Commissario al- l’Economia, in linea con le direttive della presidente Ursula von der Leyen, farò in modo che la Commissione applichi il Patto di Stabilità e Crescita facendo pieno uso della flessibilità consentita dalle regole”.
La frase che Paolo Gentiloni inserisce nelle risposte al Parlamento europeo in vista dell’audizione del prossimo 3 ottobre, e finalizzata a ottenere il via libera dei deputati della commissione Bilancio, è stata già sentita, ma è chiara.
L’ex primo ministro italiano, in linea con la neo presidente tedesca, sa bene che da quella parolina, “flessibilità”, dipende buona parte della prossima manovra di Bilancio italiana. Le risposte di Gentiloni all’Europarlamento, ovviamente, non sono finalizzate a tranquillizzare solo Giuseppe Conte, ma devono parlare a tutti e l’equilibrio scelto, rispetto delle regole e utilizzo di flessibilità rigorosamente al loro interno, si rivolgono a tutti i Paesi. Anche se, proprio il rispetto di quelle regole, continua a rappresentare un cappio al collo delle economie con difficoltà di crescita come è evidentemente l’Italia. In ogni caso, Gentiloni sta dimostrando di volersi muovere e di saperlo fare. Le risposte ai deputati europei, un testo di nove pagine, costituiscono un condensato di consumata abilità politica, rassicurazione tecnica – “sono stato un primo ministro, conosco bene l’Europa, il nostro rapporto si basa sulla fiducia, dovremo dare più peso alle scelte del Parlamento europeo” e così via – ma più di tutti valgono gli incontri. Con la Von der Leyen, con Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo all’Economia per le persone (di fatto il capo di Gentiloni) e, allo stesso tempo, con il governo italiano.
C’è poi da considerare il dibattito aperto in Europa, in particolare in Germania, con gli industriali tedeschi decisi a reclamare politiche più espansive da Berlino, finora frenata dall’ossessione del pareggio di bilancio rivendicata dal socialdemocratico Olaf Scholz. La questione ha sconvolto anche il paludato mondo della Bce dove la tedesca Sabine Lautenschläger, in rappresentanza dei “falchi” della Bundesbank tedesca, si è dimessa dall’incarico, tre anni prima della fine del mandato, in polemica con la politica di allentamento monetario perseguita da Mario Draghi.
Paolo Gentiloni si muove in un campo accidentato e con le risposte di ieri dimostra di voler fare la propria parte, sapendo bene che più di tanto non potrà fare.
Ma quanto vale l’impegno e cosa può significare? La comunicazione della Commissione europea sulla flessibilità risale al 2015 e prevede che alcuni investimenti strutturali possano “giustificare deviazioni temporanee dall’Omt”, cioè dall’obiettivo di medio termine verso il rientro dai deficit. Perché si verifichi questa eventualità occorrono alcune condizioni: tassi di crescita negativi, rispetto in ogni caso del limite del 3 per cento, spese per investimenti che producano effetti di lungo periodo. E, comunque, deviazioni temporanee, con rientri certi nel medio termine.
La maggior flessibilità finora ottenuta dall’Italia risale al 2016 e, dati del Def 2019, ammontava allo 0,83% del Pil (circa 15 miliardi). Nel 2017 è stato concesso lo 0,39% del Pil (6,7 miliardi) che furono accreditati su due voci: crisi dei rifugiati, salvaguardia e messa in sicurezza del territorio. Nel 2018 non c’è stata flessibilità, mentre nel 2019 è stato ottenuto uno “sconto” dello 0,18% sul Pil (poco più di 3 miliardi) anche qui per messa in sicurezza del territorio.
La nuova flessibilità difficilmente potrà superare lo 0,5% del Pil, quindi circa 9 miliardi da definire soprattutto sul piano ambientale su cui Gentiloni si dilunga nelle sue risposte. Il Green new deal su cui Conte ripone le sue speranze.
Derby Pd-Italia Viva alla Rai: si scaldano Orfeo e Di Bella
Con la nascita del nuovo partito di Matteo Renzi, Italia Viva, anche in Rai tutto si rimescola. Come si è visto in queste ore, con un esposto di Michele Anzaldi all’Agcom per il mancato spazio dato a Renzi in agosto nei Tg, tutto va ricalcolato: dal minutaggio nei telegiornali alle cosiddette quote. Chi sta con chi. E la nuova creatura renziana sta generando notevoli turbamenti a sinistra. Chi ha sempre fatto parte della squadra pidina in Viale Mazzini si trova davanti a un bivio: restare nella casa madre, che è pur sempre una sicurezza, oppure saltare sul carro dell’ex sindaco di Firenze? La scelta non è facile anche per i renziani di stretta osservanza. Oltretutto molti esponenti Rai in quota Pd negli ultimi anni sono andati avanti proprio grazie a Renzi, che tra Viale Mazzini e Saxa Rubra si è sempre mosso bene, abile nel piazzare le proprie pedine.
Cosa accadrà ora? Le ultime voci raccontano di un Nicola Zingaretti nervoso per lo spazio che viene concesso a Renzi e i suoi. Come l’intervista all’ex premier andata in onda due sere fa al Tg1, cronometro alla mano (sì, nei partiti ci sono quelli che durante i Tg cronometrano i tempi) più lunga di quella allo stesso Zinga. Ma a far andare su tutte le furie il segretario dem è il faccia a faccia tra Renzi e Salvini il 15 ottobre prossimo a Porta a Porta. “Su quella sedia ci dovrei essere io!”, va ripetendo Zinga, assai adirato con Vespa. Così sembra che dal Nazareno sia partito il diktat: Renzi in Rai non deve toccare palla. Sarà davvero così?
Mario Orfeo, vicino all’ex premier ma con buoni rapporti pure con Zinga, da qualche giorno scalpita. La presidenza di Raiway gli va stretta e gli manca un ruolo più giornalistico. Complice una Teresa De Santis sempre più in bilico, pare che l’ex dg abbia ricominciato a immaginarsi al timone di Raiuno. Poltrona molto ambita, quella della rete ammiraglia. L’occasione del cambio potrebbe fornirla l’uscita di Carlo Freccero da Raidue: a quel punto si cambia anche a Raiuno, dove potrebbe planare Antonio Di Bella. Al suo posto, a Rainews, arriverebbe Giuseppina Paterniti, lasciando la guida del Tg3 ad Andrea Montanari (ora al centro studi). Mentre a Raidue potrebbe arrivare Maria Pia Ammirati (ora alle Teche). Voci di corridoio, naturalmente. Ma è un po’ tutto il Tg del terzo canale, l’ex Telekabul, a essere in agitazione: Zingaretti o Renzi? Qui il primo dovrebbe raccogliere più proseliti. I renziani, però, si agitano. Come il vicedirettore del Tg1 Costanza Crescimbeni. O il direttore di Raitre, Stefano Coletta, che però ha ottimi rapporti anche col pentastellato Vincenzo Spadafora. O come il direttore dei palinsesti Marcello Ciannamea. O il direttore del giornale radio Luca Mazzà. Ma potrebbe rientrare in partita anche l’ex direttore di Raiuno Andrea Fabiano, che ora sta in Tim. In Rai, poi, spesso tutto si fa magmatico e i renziani di ieri possono diventare ex renziani oggi. Senza dimenticare Dario Franceschini. Sono in tanti anche quelli alla finestra, in attesa degli eventi. Perché c’è da capire pure se l’ad Fabrizio Salini (e il suo piano industriale) resterà in sella. E quale sarà il destino del presidente Marcello Foa.
A proposito di Spadafora, si dice che sarà lui d’ora in avanti a occuparsi di Rai per conto dei pentastellati, mentre per Zingaretti l’uomo Rai sarà Gian Paolo Manzella: appena entrato al governo come sottosegretario al Mise, sarà lui ad avere la delega alle Comunicazioni. E Renzi? Per lui c’è il fido Marco Agnoletti, che nel corso degli anni ha saputo tessere bene la sua tela nella tv pubblica (ora si occupa anche dalla comunicazione di Fabio Fazio), ma secondo alcuni il vero uomo forte dell’ex premier a Viale Mazzini è Lucio Presta, il potente manager dei divi, che con Renzi ora realizzerà un altro documentario dopo quello su Firenze, oltre a gestire la regia della prossima Leopolda, dove ormai è di casa.
Ma il derby Zinga-Renzi sta andando in scena anche in Vigilanza. Dove Zingaretti ha perso due commissari, Anzaldi e Faraone, passati con Renzi. Qui il segretario dem dovrà intanto sostituire Salvatore Margiotta, diventato sottosegretario alle Infrastrutture e di sicuro piazzerà un suo fedelissimo. Il nome, però, non c’è ancora.
“Vado oltre Renzi, pure Salvini ha idee uguali alle mie…”
Gelsomina Vono, mamma e moglie, per gli amici Silvia, è la donna dell’oltre.
Oltre i partiti, oltre le ideologie, le casacche. Oltre le barriere.
Oltre.
Oltre Salvini, oltre anche Di Maio.
Oltre tutto.
Mi sento radicata nel territorio, legata alla mia terra, sono di Soverato, provincia di Catanzaro.
Silvia Vono era senatrice volitiva, generosa. Una tuttofare del M5S.
Ma ho sentito subito il freddo che gelava le mie spalle, il mio animo, la mia voglia di fare per il territorio, di dimostrare il valore di una presenza. Sentivo scoramento, astenia, distanza.
Sentiva il Movimento disinteressato alla sua energia creativa.
Lontano, evanescente, senza fiducia nelle mie capacità.
Hanno fatto sottosegretario cani e porci, lasciando lei a girarsi i pollici.
Sa quanti messaggi ho scritto a Di Maio?
E lui?
Silenzio.
Il dispiacere è l’anticamera della disillusione, poi dello sconforto. Il buio l’ha colta già dopo l’elezione.
Enorme tristezza, anche perché il mio desiderio di andare oltre, contribuire perché la mia terra di Calabria tornasse a essere il fiore dell’Italia, stava sbiadendosi. Vedevo le mie forze dileguarsi, benché fossi determinata. Come noto sono una donna dal carattere deciso.
Sapevano che la senatrice Vono ha un profilo di netta indipendenza e le stavano alla larga.
Autonoma, forte della mia identità.
Tra l’altro, a conferma della sua terzietà, non aveva mai votato Cinquestelle prima del marzo 2018.
Mai mai.
Ha votato Cinquestelle solo quando si è vista costretta perché candidata dei Cinquestelle.
Il voto dovrebbe essere segreto. Però sì.
Prima votava Pd, a me può dirlo.
Il voto dovrebbe essere segreto. Lei non dovrebbe proprio farmi questa domanda.
Dicono, e glielo riporto solo per dovere di cronaca, che lei di politica sia così digiuna da non avere presente neanche i punti cardinali: est, ovest, nord, sud.
Sono oltre questo paradigma, queste barriere.
Sapeva che Matteo Renzi era l’icona negativa del Movimento che lei andava a rappresentare?
Sono oltre ogni recinto di odio.
Ma lei era rappresentante proprio di quelli che chiama odiatori. Eletta dagli odiatori.
Ecco, sul punto vado oltre.
Renzi l’ha abbracciata.
L’ha presa assai bene.
Non è che ha sospettato che lei fosse un’infiltrata di Di Maio?
Nooooo! Ma che dice? L’ho fermato al Senato appena saputo del nuovo partito e gli ho detto: ma che bello!
Il partito dell’oltre.
Del fare.
E del dire.
Del dire e del fare. Del costruire con coraggio una speranza. Mi guida sempre Paolo VI nelle mie decisioni.
Renzi troverà in lei una donna mite ma forte.
Altroché!
Silvia Vono, già grullina, come dicevano quelli di Italia Viva.
Noooo!
I suoi ex colleghi gliele stanno cantando.
Invece ho ricevuto solo telefonate belle. Da chi mi vuol bene.
Ha visto quanti giornalisti ora la cercano?
Giornate intensissime.
Ma anche gratificanti.
Vado a letto serena.
Domani è il nuovo inizio.
La nuova alba.
Comunque Di Maio poteva anche ficcarla nel governo.
Sa quanti messaggi, quante richieste di una maggiore condivisione?
Aveva tutti i titoli per fare degnamente la sottosegretaria secondo me.
Ci sono tante storie personali. Ciascuna col suo valore.
Lei è pure avvocato, Di Maio doveva capire il suo disagio a non poter dare al Paese ciò che effettivamente poteva offrire.
Guardi: mi sarei impegnata per il territorio.
Avrebbe portato profumo di Calabria nell’esecutivo.
Il territorio!
Un territorio senza confini
Il territorio dove abito.
Lei è di Soverato
Certo.
Soverato avrebbe avuto diritto a essere rappresentato nel governo.
Mai una risposta.
Il dado è tratto. Ora lei è decisamente renziana.
Non ha capito: io sono oltre.
Oltre in che senso?
Che fondamentalmente mi piace prendere un po’ dell’uno, un po’ dell’altro. Le belle idee non hanno confini.
Un po’ anche di Salvini?
Magari non col suo tono.
Il meglio allora deve ancora arrivare.
Io sono e resto al servizio di tutti.