I ragazzi italiani sono buoni lettori? Frequentano con gioiosa assiduità librerie o scaricano con malandrina passione testi gratis dalla Rete? Passano pomeriggi scambiandosi opinioni sulle letture fatte?
Onestamente: no, direi proprio di no. Non voglio passare da disfattista, da moralista amareggiato, da fustigatore patetico delle inclinazioni culturali dei nostri studenti. Voglio solo essere chiaro e sincero. In Italia si legge pochissimo, è un dato di fatto. Chiunque abbia passato i confini nazionali per una gita a Parigi, Londra, Berlino avrà notato che nelle metropolitane europee è facile incontrare persone con una mano appesa a un sostegno e con l’altra a reggere un libro. E nei caffè è normale trovare qualche ragazza concentratissima nella lettura, indifferente ai rumori e al viavai dei clienti. Sono figure abituali che testimoniano che altrove la lettura, sia pur in crisi, resta un’abitudine diffusa.
In Italia non si vede mai nessuno con un libro in mano. I politici meno che mai. Un amico che gestiva una libreria davanti a Montecitorio mi raccontava che nessuno dei deputati e dei loro assistenti entrava per comprare un romanzo, o un saggio storico, o almeno le barzellette di Totti. Al limite si facevano avanti timidamente per provare a rivendere qualche libro arrivato in omaggio dalle case editrici. La nostra classe dirigente è riluttante alla lettura: del resto nelle mille interviste a deputati e senatori non vediamo mai nessuno che tenga un volume tra le mani, al massimo la mazzetta dei giornali. Il mio amico libraio, dopo molti tentativi di eroica resistenza, è fallito, schiantato dall’affitto e dalla mancanza di clienti. È così, il pesce puzza dalla testa, e figuriamoci cosa può accadere in coda. Quasi sempre, però, i nostri politici mandano alle stampe le loro memoriette, la loro microstoria, le scaramucce vinte o perdute. Il nome del politico appare a grandi caratteri in copertina, ma sotto, più piccolo, molto più piccolo, c’è il nome di un giornalista, che ha scritto veramente il libro, sbobinando le chiacchiere del politico e cercando di dar loro una forma decente, di sistemare i congiuntivi, di collegare frammenti gettati nella confusione. Anche la classe borghese nazionale non sembra particolarmente affezionata alla lettura. Prima c’è il padel, la partita di calcio, la magnata con gli amici al ristorante, il film “per farsi quattro risate”. Niente di male, solo che in questa giungla di impegni ludici non c’è spazio nemmeno per un haiku.
Tutta l’industria culturale italiana si regge sulle “cammelle”, così vengono chiamate affettuosamente nel cinico e spiritoso mondo del cinema le donne tra i 45 e e i 70 anni che pagano il biglietto per il film vincitore a Cannes o a Venezia, per uno spettacolo teatrale o per una conferenza, per un concerto e persino per un libro recensito bene sull’inserto letterario del quotidiano. Sono donne curiose, vedove, separate, mal coniugate, tendenzialmente poco felici, che cercano nella cultura quello che non hanno trovato nella vita, perché la vita spesso è cattiva. Loro, le cammelle, reggono sulla gobba tutto il peso della cultura, stanno in fila alle mostre delle Scuderie del Quirinale o per le conferenze di storia all’Auditorium. Loro leggono. I loro mariti o ex mariti no, e pure i figli poco o niente. O forse leggono i manuali universitari, perché bisogna finire in fretta e bene gli studi e trovarsi un buon lavoro, un lavoro redditizio. E gli studenti delle scuole? I professori ci provano, assegnano letture per l’estate, e d’inverno propongono qualche romanzo da commentare in due paginette scritte come si deve. Però i risultati sono scarsi, forse anche perché per troppo tempo ha imperato il sistema strutturalista secondo il quale i romanzi vanno frantumati in sequenze, e poi bisogna individuare protagonisti, deuteragonisti, antagonisti, sottolineare le similitudini e le metafore, le digressioni in giallo e le descrizioni in verde, come un motore da smontare in garage. (…) La lettura dovrebbe spalancare spazi mentali aperti come praterie, come palazzi illuminati o tenebrosi, come cieli azzurri o tempestosi, e invece si chiudono le porte e si pretende la consegna per lunedì di un commento scopiazzato su Wikipedia.
C’è un problema di metodo, dunque, ma forse anche di scelte. Ai ragazzi vengono proposti spesso titoli ormai troppo coriacei per i loro denti, I Malavoglia, Fontamara, Senilità, Il giardino dei Finzi Contini, eccetera. Ho l’impressione che molti insegnanti siano, come me, avanti con gli anni e forse non abbiano rinnovato più di tanto le loro letture. Per agganciare gli studenti serve qualche titolo più in linea con la loro immaginazione e le loro attese, e che però sappia sorprenderli.
(…) È comunque un’impresa titanica far leggere i nostri ragazzi, lo so bene. Spesso ho l’impressione che non colgano il ritmo della frase, il senso preciso delle parole: leggono capolavori assoluti come fossero anonimi verbali, inciampando sui termini più rari, a volte quasi balbettando. E allora devo essere io a riprendere in mano il testo e a dare un timbro e un tono a tutte le voci dei dialoghi, abbassando la voce, rialzandola, gesticolando, inventandomi attore e seguendo le curve del racconto. Molti ragazzi confessano candidamente: “Mi dispiace prof, ma a me non piace leggere”, e se io insisto, magnificando la bellezza di tanti libri, la loro capacità di modificare, di approfondire i nostri pensieri, di commuoverci o rallegrarci, mi guardano senza replicare, ma come guarderebbero un povero matto innamorato dei vasi etruschi di Cerveteri. Del resto, la concorrenza è spietata: serie televisive a valanga, partite di calcio a tutte le ore, giochi e giochetti sulla Play, TikTok e trap e chat: il silenzio e la concentrazione necessari per immergersi in un romanzo sono svaniti, e di conseguenza sono svaniti anche i romanzi. Naturalmente ci saranno mille sacche di resistenza, ragazzi molto vivaci capaci di dividersi su tanti fronti e dunque di sapersi ritagliare qualche mezz’ora anche per leggere un libro, però la situazione complessiva non mi appare entusiasmante. Vanno bene i libri per l’infanzia, quando i bambini ancora obbediscono alle speranze dei genitori: ma quando quei bambini crescono e diventano più indipendenti, i libri vengono accantonati.
Detto questo, non bisogna farsi prendere dallo sconforto, non bisogna perdere fiducia. L’associazione “Piccoli Maestri”, ad esempio, sta svolgendo un ottimo lavoro nelle scuole, portando in classe scrittori che raccontano un romanzo del Novecento che per loro è stato fondamentale. Anche io sono stato coinvolto spesso e devo dire che sono incontri felici. I ragazzi si rendono conto che gli scrittori non sono busti di marmo impolverati, nomi morti su una pagina ingiallita, ma persone vive, appassionate di quello che scrivono, di quello che leggono: e allora ecco che un libro di Murakami o Salinger o London diventa un’esperienza da condividere, parole che si trasformano in nuovi pensieri. “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”, dice il Vangelo di Giovanni: le parole hanno una potenza imprevedibile e generativa, piantata nelle origini come una radice profonda, e pronte a fiorire ogni giorno. Le parole hanno qualcosa di sacro, nominano, indicano, creano, ma oggi questa dimensione interiore della letteratura, della poesia, sembra prosciugata. E allora, che fare? Teorie astratte ne girano molte, ma soluzioni sicuramente vincenti non ce ne sono. Credo che l’unica possibilità sia il contagio subliminale: è inutile che il professore magnifichi a chiacchiere il valore sublime della lettura o che si indigni con gli zoticoni impuntati davanti all’ostacolo del libro, ciò che forse può smuovere la curiosità è solo la fiducia che riesce a conquistarsi, dimostrando con la sua vita stessa, con il suo modo di essere, che la cultura è energia propellente, una ricarica continua, una spinta generosa. Il professore che legge, va al cinema, ama la musica e l’arte è mille volte più vitale e interessante di chi invecchia appiattendosi sulla miseria dell’esistenza, ripetendo tutti i giorni lo stesso giorno. Così il professore diventa, a sua insaputa, un maestro, uno che traccia una strada vivace e pensosa, la strada stessa dell’esistenza. Così qualche studente lo prenderà come punto di riferimento e forse comprerà un libro, e forse lo leggerà, per capire, per sollevarsi, per continuare quella strada.