Il M5S teme i renziani: “Lasciate in pace i nostri”

Al rientro da New York, i problemi non sono spariti. Così, come prima cosa, Luigi Di Maio ha riunito i suoi colleghi ministri e viceministri 5 Stelle alla Farnesina. Per dettare loro la road map legislativa dei prossimi mesi, fa sapere ufficialmente, e per assicurare “novità a breve sull’immigrazione”. Ma si è parlato, eccome, anche dei fuoriusciti passati e forse futuri. Perché dopo l’addio di Silvia Vono, che a Palazzo Madama siederà nei banchi di Italia Viva e non più su quelli M5S, c’è il senatore Ugo Grassi assai in bilico. E l’emorragia rischia di allargarsi. Per questo, il capo politico sta sentendo e incontrando gli scontenti, per provare a convincerli che d’ora in avanti nel M5S ci saranno più democrazia e condivisione. Ma in diversi in Senato e soprattutto alla Camera parlano con la Lega e con i renziani, chiedono informazioni e si fanno corteggiare. Un problema tale che un paio di big del Movimento, raccontano, hanno chiesto alla capogruppo di Italia Viva a Montecitorio, Maria Elena Boschi, di fermare la caccia nel M5S.

Sanno che l’obiettivo di Renzi è quello di arrivare a 50 parlamentari (al momento ha 26 deputati e 16 senatori, Vono compresa). E sanno dei contatti in corso. Però c’è un nodo che complica tutto, ossia Di Maio continua a sostenere che Renzi è un problema del Pd: “Noi non lo dobbiamo riconoscere”, ha ripetuto ancora ieri ai colleghi di governo grillini. Ma è chiaro che Nicola Zingaretti al partito e Dario Franceschini al governo non possono ignorare che un nuovo gruppo è nato e che ha pure numeri importanti. Un dato che anche alcuni dei convocati ieri alla Farnesina hanno fatto notare al capo politico: “Non possiamo escluderlo dai tavoli”. D’altronde, ha ribadito ieri sera l’ex premier dem, “non è che andare con gli altri è bene e con Renzi è peccato”. E il messaggio è anche per lui, per Di Maio.

Giustizia, la prescrizione e Renzi dividono il governo

Nel vertice a Palazzo Chigi sono sorrisi e toni pacati. E si arriva anche a un accordo di massima: ridurre la durata massima dei processi a quattro anni e spacchettare la riforma della giustizia del Guardasigilli Alfonso Bonafede in due leggi delega da incardinare in due rami diversi del Parlamento, così da far viaggiare più veloci le nuove norme sul processo penale e sul Consiglio superiore della magistratura e approvarle entro il 31 dicembre. Però ci sono tre parole che allontanano Pd e Cinque Stelle sulla giustizia: prescrizione, Csm e Renzi. Perché le prime due sono nodi che segnano una vecchia distanza tra gli alleati per forza, e riemergono come scogli dopo la riunione di ieri mattina tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Bonafede, l’ex Guardasigilli e attuale vicesegretario del Pd Andrea Orlando e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, anche lui dem.

Ma ad alimentare i dubbi veri o presunti dei democratici c’è lui, Renzi, pronto ad accusare il Pd di cedere su un tema chiave. E infatti in serata l’ex segretario ricorda che lui è lì, fuori della porta: “Al vertice non ci ha chiamato nessuno, si sono messi d’accordo Bonafede e Orlando. Vorrà dire che quando vengono in aula daremo i nostri suggerimenti”. Traduzione, noi abbiamo già 40 parlamentari e se vogliono far passare la riforma da noi dovranno passare. Lo sanno bene Orlando e Giorgis che, raccontano, in riunione sollevano il tema della prescrizione senza forzare. Cioè insistono sulla necessità che la riduzione dei processi si faccia prima dell’entrata in vigore in gennaio della riforma Bonafede, quella che bloccherà il decorrere della prescrizione dopo le sentenze di primo grado. Ma senza porre condizioni. Però poi a riunione finita seminano agenzie come moniti. E comincia Giorgis, comunque cauto: “Nell’incontro sono emerse questioni che hanno visto il Pd su posizioni diverse, come il tema della prescrizione in assenza di una certezza dei tempi del processo. Confidiamo tuttavia di risolvere”. Poi parla Franco Vazio, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, e la gamba è proprio tesa: “Per noi la riforma della prescrizione che va bene è la riforma Orlando, quella oggi in vigore. Una norma che elimini l’istituto può essere valutata solo se i tempi del processo fossero radicalmente più brevi”. Soprattutto, torna a fare muro il vicepresidente del Csm David Ermini, renziano di antico rito: “È forte il rischio che con la riforma della prescrizione i tempi si allunghino senza un intervento sui tempi dei processi”. E comunque Ermini è contrarissimo anche a un’idea che non è ancora norma, il sorteggio per la composizione proprio del Csm: “Si percepisce una certa volontà di ‘normalizzare’ l’organo di autogoverno quale garanzia dell’autonomia della magistratura”.

Non a caso, nella riunione Orlando e Giorgis hanno ribadito che il sorteggio non va affatto bene neanche per il Pd. E all’uscita Bonafede conferma: “È l’unico punto di divergenza che andrà approfondito”. Lo faranno già la prossima settimana, in un nuovo vertice a Chigi. Però a Via Arenula sono rimasti un po’ sorpresi dalle note del Pd sulla prescrizione. Parole che nel M5S leggono come frutto della voglia dei dem di non sembrare arrendevoli, soprattutto se paragonati a Renzi. Poi ci sarebbe anche un altro tema, il carcere per i grandi evasori rilanciato giorni fa da Conte. Ieri alla riunione non se ne è praticamente parlato. Ma in serata il premier giura: “C’è la volontà di colpire la grande evasione, ed è un pilastro della nuova manovra. Dobbiamo creare meccanismi per ricavare nuove risorse e ci devono essere anche pene detentive per i grandi evasori”.

Affari dell’Eni in Congo, corruzione a casa Descalzi

La moglie di Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, è indagata a Milano per corruzione internazionale. Maria Magdalena Ingoba detta Madò, donna d’affari nata in Congo, è accusata di aver partecipato allo schema di corruzione su cui sta indagando da tempo la Procura milanese: è ipotizzato il pagamento di tangenti da parte di Eni a pubblici ufficiali del Paese africano, in cambio della riconferma, avvenuta nel 2012, delle concessioni petrolifere per alcuni giacimenti offshore congolesi, chiamati Marine 6, Marine 7 e Marine 11.

Madò e il marito sono indagati anche per omessa comunicazione di conflitto d’interessi: un reato previsto dal codice civile con conseguenze penali (e pene da 1 a 3 anni di reclusione) che si consuma quando un dirigente di vertice di una società quotata non comunica affari in conflitto d’interessi che provocano danni all’azienda (eventualità subito esclusa da Eni).

La signora Descalzi, secondo l’ipotesi d’accusa, attraverso società schermo in Olanda, Lussemburgo, Cipro e Nuova Zelanda, controlla cinque società chiamate Petro Services – in Congo, Gabon, Ghana e Mozambico – che tra il 2007 e il 2018 hanno fornito a Eni servizi (affitto di navi e sostegno logistico) per circa 300 milioni di dollari.

Il controllo era diretto dal 2009 al 2014. Poi l’8 aprile 2014, sei giorni prima che il governo Renzi indicasse Descalzi come amministratore delegato di Eni, Maria Magdalena Ingoba vende l’intera società lussemburghese Cardon Investments sa, che controlla le Petro Services, ad Alexander Haly, uomo d’affari britannico con base a Montecarlo, ritenuto dagli investigatori una sorta di socio-prestanome della coppia Descalzi-Ingoba.

Nell’inchiesta sulle concessioni in Congo sono indagati Roberto Casula, capo delle attività di esplorazione del gruppo petrolifero italiano, la manager Eni Maria Paduano, l’ex dirigente Agip Andrea Pulcini, l’allora dirigente nigeriano di Agip Ernest Olufemi Akinmade, l’uomo d’affari Alexander Haly e la stessa Eni, in forza della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società.

Due giorni fa la Guardia di finanza ha perquisito l’abitazione di Claudio Descalzi e della moglie, su richiesta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dei pm Sergio Spadaro e Paolo Storari, le cui attività d’indagine sono coordinate con i magistrati francesi che stanno indagando su affari in Francia dell’entourage del presidente del Congo, Denis Sassou Nguesso, e dunque anche sugli incroci societari tra la signora Ingoba e la figlia del presidente congolese.

Da Oltralpe era arrivata nei mesi scorsi una battuta d’arresto alle indagini milanesi sugli affari Eni in Congo: la Corte d’appello del Principato di Monaco il 6 giugno aveva bloccato la rogatoria della Procura di Milano che chiedeva la trasmissione dei documenti sequestrati durante le perquisizioni realizzate nel febbraio 2018 negli uffici monegaschi di Haly. Documenti e materiale bancario da cui la Procura milanese spera di ricostruire eventuali pagamenti anche a uomini Eni. La Corte di Monaco motivava lo stop con errori della gendarmeria del Principato, che non aveva fatto una selezione del materiale da inviare. La Procura di Milano ha reagito rinnovando la sua richiesta e spiegando che aveva invece subito inviato alle autorità del Principato le parole-chiave con cui selezionare i documenti da mandare a Milano. Ora è in attesa della risposta, sapendo che i file e i documenti sequestrati ad Haly potrebbero far decollare l’indagine sulla presunta corruzione internazionale in Congo e chiarire i rapporti tra Haly e i coniugi Descalzi.

Eni ribatte di aver ottenuto il rinnovo delle concessioni in Congo con procedure legittime e trasparenti. Quanto al contestato conflitto d’interessi sugli affari in Africa della moglie dell’amministratore delegato, la compagnia petrolifera ricorda di aver depositato già nel maggio scorso in Procura il report di due società indipendenti, Dla Piper e Protiviti, che certifica non solo la regolarità di tutte le operazioni realizzate da Eni in Nigeria e in Congo, ma anche il “sostanziale rispetto delle procedure di approvvigionamento” da parte delle Petro Services. Segnala contatti di Haly con la sorella della moglie di Descalzi, ma sostiene che i servizi sono stati assegnati con gara competitiva, rispettando le procedure e a prezzi corretti.

È intervenuto anche Descalzi: “Le transazioni tra Eni Congo e il gruppo Petro Services”, ha dichiarato, “non sono mai state oggetto di mie valutazioni o decisioni in quanto totalmente estranee al mio ruolo. Se mi fossi trovato in una qualunque situazione di conflitto di interesse, o ne avessi avuto conoscenza, non avrei esitato a dichiararlo, come è previsto dalle procedure aziendali di Eni e dalla legge. Ho l’assoluta certezza di avere sempre operato correttamente, in modo lecito, nell’interesse dell’azienda e degli azionisti. Riuscirò a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio”.

Lotti dice ai pm milanesi: “Cercai carte sul pm Ielo”

Nel giugno scorso, Luca Lotti aveva un appuntamento a Milano. Non di lavoro, ma in Procura, dove è stato interrogato come persona informata sui fatti nell’ambito di un’indagine (per ora senza iscrizioni né reati) che riguarda alcune intercettazioni tra l’ex ministro dello Sport e il pm romano, ora sospeso, Luca Palamara. Si tratta di un’inchiesta aperta dopo l’arrivo a Milano di alcuni atti inviati dai colleghi di Perugia che indagano su Palamara. L’ex presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati è infatti iscritto nel capoluogo umbro per corruzione, ma dopo aver istallato il trojan (un software capace di intercettazioni ambientali) sul suo cellulare, la Procura ha scoperto anche altro. Ossia le trame che si confezionavano, all’interno del Consiglio superiore della magistratura, per nominare i capi di alcune Procure italiane.

È stato un terremoto per il Csm: Palamara viene infatti intercettato mentre discute della nomina del procuratore di Roma con i parlamentari dem Cosimo Ferri e Luca Lotti (imputato proprio nella Capitale per Consip). I politici puntavano sul candidato Marcello Viola, oggi procuratore generale di Firenze.

Ma nelle intercettazioni c’è anche altro: le conversazioni in cui l’ex ministro discute con Palamara di un esposto consegnato al Csm dal magistrato capitolino Stefano Rocco Fava (ora indagato a Perugia per favoreggiamento e rivelazione di segreto).

Nell’esposto, Fava accusa il suo ex procuratore, Giuseppe Pignatone, di non essersi astenuto nei procedimenti che riguardavano Piero Amara, l’avvocato siciliano arrestato nel 2018 a Roma (e ora tornato in libertà). Durante una perquisizione nel suo ufficio era stata infatti trovata una consulenza, pienamente lecita, al fratello dell’ex procuratore di Roma, l’avvocato e professore Roberto Pignatone. Nell’esposto, Fava fa riferimento anche alla mancata astensione del procuratore aggiunto Paolo Ielo nel medesimo procedimento: il fratello di Ielo è un avvocato e ha lavorato (ma a partire da molti anni prima) con l’Eni. Per questo Paolo Ielo si era astenuto nel procedimento sui rapporti tra Eni e una società riferibile, per i pm, ad Amara.

Proprio delle consulenze di Domenico Ielo si sarebbe interessato Lotti. L’ex ministro, il 21 maggio 2019 – scrive L’Espresso – “mentre parla di Ielo e dell’esposto di Fava con Palamara e Ferri, confida agli amici che lui le carte sul fratello di Ielo, Domenico, ce le ha già. Aggiungendo che i documenti gli sarebbero stati consegnati da Descalzi”. Come anticipato ieri dal settimanale, Lotti è stato sentito lo scorso giugno dai pm di Milano proprio su questo. Secondo L’Espresso, l’ex ministro avrebbe ammesso che erano stati Palamara e Ferri a chiedergli di cercare, attraverso l’Eni, documentazione su Domenico Ielo.

Lotti avrebbe anche detto di aver cercato quei documenti anche tramite dirigenti di alto livello della multinazionale. Ma di chi parla? Secondo L’Espresso avrebbe avuto contatti con il dirigente Eni Claudio Granata, estraneo all’inchiesta. È lui l’uomo al quale si è rivolto l’ex ministro? Oppure c’è un livello superiore?

Sono domande che per ora restano senza risposte: il verbale infatti è stato secretato e solo quando verrà depositato si saprà cosa Lotti ha riferito ai magistrati.

Intanto, ieri, dopo le anticipazioni del settimanale, dallo staff dell’ex ministro è stata diramata una nota: “Sono stato sentito dai magistrati come persona informata sui fatti. Al di là del fatto che quell’interrogatorio è stato sottoposto a segreto istruttorio, leggo alcune anticipazioni giornalistiche che, per quanto reso pubblico finora, non corrispondono alla verità”. Secondo l’ex ministro, dunque, “è falso che io abbia confermato l’esistenza di un complotto contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo e non corrisponde al vero che io abbia chiesto all’Eni documenti riservati”. Poi annuncia querele: “Al di là del pieno rispetto del diritto di cronaca, ho dato mandato ai miei legali affinché vengano chiariti i dettagli di questa ennesima fuga di notizie e perché dopo la pubblicazione di notizie false, venga tutela la mia reputazione”. Il deposito del verbale chiarirà la vicenda.

Attentati e P4: silenzi e bufale un tanto al chilo

Per trovare ieri sui giornalila notizia di Silvio Berlusconi indagato a Firenze per mafia e per l’attentato del 1993 a Maurizio Costanzo bisognava munirsi di una buona lente d’ingrandimento e di santa pazienza. Peraltro entrambe inutili con in mano il Corriere della Sera: zero righe zero.

Più fortunati con La Stampa: trafiletto di 600 battute a pagina 7, valorizzato da una foto di B. e Costanzo risalente agli anni 90. Il Giornale, che è pur sempre una protesi di famiglia, la seminasconde in un boxino in basso pagina 9 con l’occhiello “Teorema paradossale”. Fa eccezione Libero, che coi toni sobri che lo contraddistinguono fa un richiamo in prima pagina dal titolo “Silvio accusato pure di spararsi in casa”. Da lì parte l’articolessa di Renato Farina straripata fino a occupare l’intera pagina 9 tra grovigli di allegorie denigratorie: l’ipotesi dell’accusa è “un verme sputato dalla pancia della poderosa macchina della giustizia”, l’ex agente Betulla si chiede “come sia possibile che una simile monnezza sia viva e vegeta nel ventre della Repubblica” e attribuisce sarcasticamente al direttore del Fatto, Marco Travaglio, attraverso le parole della sua intervista tv a Daniele Luttazzi nel 2001, la spiegazione dell’ipotetico movente di B. per uccidere Costanzo: era “ferocemente contrario” alla trasformazione della Fininvest in Forza Italia. “E per questo Silvio ha chiesto alla mafia di ammazzarlo? Fantastico”. La Verità invece la liquida in una fotonotizia a pagina 19 sotto al titolo “Cav indagato per l’attentato a Costanzo? La notizia è panna montata”.

Singolarissima la scelta di Repubblica, che confina la vicenda a pagina 58, la penultima, e la offre ai lettori col titolo “Gli anni della tv che preoccupava la mafia” nella rubrica Onda su Onda di Stefano Balassone. Rubrica di solito dedicata alle recensioni di Netflix o alle interviste di Barbara D’Urso ai guru delle fake news. Come se il racconto delle indagini su B .fosse già fiction.

A proposito di fake news: quella dell’assoluzione dell’ex deputato Pdl Alfonso Papa, il frontman della P4 salvato dalla prescrizione, è riuscita a resistere persino alle smentite della Corte d’Appello di Napoli. Non ovunque, per carità: il Corriere della Sera ha confinato la sentenza su Papa in fondo a pagina 23, e il Mattino in un centropagina a 11, ma con il pregio di ricostruzioni corrette sulla reale natura del proscioglimento.

Invece il Giornale, tra le balle di Papa e il dispositivo di una sentenza, non ha avuto dubbi. E ha dato credito alle balle: “La P4 era una grande bufala, dopo 9 anni assolto Papa”, titolone e articolone a pagina 9. Libero è andato oltre, ha volato altissimo: ha pubblicato una lettera di Luigi Bisignani, che patteggiò una pena di 19 mesi, sotto al titolo “La loggia P4 non esisteva, imputati tutti assolti”. Un ossimoro: titolare tutti assolti con le parole del condannato.

“Dopo la bomba in via Fauro B. mi telefonò: ‘Stai attento’…”

Maurizio Costanzo non crede a una qualsiasi relazione tra Silvio Berlusconi e l’attentato che lo coinvolse nel 1993. Ogni volta che riemerge dal passato (negli anniversari o per uno scatto delle indagini) l’autobomba del 14 maggio 1993 in via Fauro, il conduttore è chiamato a dire la sua sul tema.

Lo abbiamo contattato dopo l’uscita giovedì delle carte della Procura di Firenze su Berlusconi indagato per le stragi e gli attentati del 1993. Comprensibilmente ha declinato l’invito. Però nel maggio 2018 lo avevamo già intervistato sul punto. Non c’erano le carte sulle iscrizioni di Berlusconi ma nell’ottobre 2017 la notizia (senza dettagli) dell’iscrizione per gli attentati del 1993 era già uscita.

E allora ci sembra interessante riportare oggi il testo di quell’intervista video che entrerà in un documentario della trasmissione Sekret sulla piattaforma pay tv del Fatto, Loft, e che è finora inedita.

La Fiat Uno imbottita di tritolo esplose in via Fauro a Roma alle 21 e 45 pochi secondi dopo il passaggio dell’auto che portava a casa il conduttore e Maria De Filippi. Fu la prima bomba della stagione delle stragi del 1993. Stragi di mafia, per le quali sono stati già condannati L’ipotesi, tutta da riscontrare, della Procura di Firenze è che dietro via Fauro e gli altri attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano, potrebbe esserci anche Silvio Berlusconi, l’amico ed editore del Maurizio Costanzo show. “Ma io non ci ho mai creduto”, sospira Costanzo.

Lei sa che Graviano in carcere nel 2017 (secondo l’interpretazione dei pm e giudici di primo grado di Palermo) parla anche di Berlusconi, e fa capire d’aver avuto contatti. Ha mai pensato che abbiano colpito lei per lanciare un messaggio a Mediaset?

No, non mi monto la testa, non l’ho mai pensato. Ho sempre creduto di aver dato fastidio con le mie trasmissioni di inizio anni 90 con Michele Santoro sulla mafia. Sono stato l’unico e mi dissero che Totò Riina un giorno disse: ‘Questo Costanzo mi ha rotto i c…’. Mai pensato che c’entrasse Berlusconi, anche se ne ho lette tante non lo credo. Lui quella sera mi telefonò a casa e mi disse: ‘Stai attento’. Mi venne naturale rispondergli: ‘Attento a cosa? Ormai è successo…’. Io ho letto tutto quel che è uscito, ma no, non ci credo.

Lei ha vissuto la discesa in campo di B. dall’interno, come andò?

Lui ci chiamò tutti ad Arcore, Ferrara, Mentana, io… e ci disse che scendeva in campo. Io gli dissi a tu per tu che lo preferivo editore a politico: non ne avrei parlato male, ma non lo avrei mai votato.

Che rapporto aveva con chi invece la discesa in campo la voleva?

Io non ero ben visto per questo. E sotterraneamente non so chi qualche piccola angheria me l’ha fatta.

Se dovessi pensare…

Non penso niente.

Che rapporto aveva con Marcello Dell’Utri?

Normale. Era il capo di Publitalia. Lo vedevo alle riunioni.

Parlaste della discesa in campo?

No, con lui no. Mi ricordo Mentana, Gianni Letta, Confalonieri, Ferrara a quella riunione. E Fede, forse.

I contrari tu e Mentana?

Io gliel’ho detto in faccia e se lo ricorda ancora. L’ho intervistato 6 mesi fa (nel novembre 2017, ndr) per Canale 5 e gli ho detto che ho mantenuto la promessa: ‘Non ti ho votato e non ti voterò, ma non ti ho mai attaccato’. Gliel’ho ridetto.

Tu, vittima della mafia, hai avuto in azienda Dell’Utri che è stato condannato per mafia. Oggi credi alla storia della trattativa Stato-mafia?

Non lo so. Mi sono posto spesso a questa domanda. Non riesco a crederci molto. Non so rispondere anche perché non ho gli strumenti. Avendo avuto un attentato non sono andato a guardare troppo… insomma ho già dato.

È giusto che i pm continuino il lavoro su quella stagione?

È lodevole. Se ci sono ancora tracce da seguire, le seguano.

Renzi fa il Caimano e “assolve” l’ex Cav. sulle stragi di mafia

La linea di Italia Viva sulla giustizia arriva con un post su Facebook a metà mattinata: “Vedere che qualche magistrato della Procura della mia città da anni indaghi sull’ipotesi che Berlusconi sia responsabile persino delle stragi mafiose o dell’attentato a Maurizio Costanzo mi lascia attonito (…) Berlusconi va criticato e contrastato sul piano della politica. Ma sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell’attentato mafioso contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle Istituzioni italiane. Di tutte le Istituzioni”. Firmato: non Maurizio Gasparri o Daniela Santanché ma Matteo Renzi, già premier e segretario del Pd, ora grande elettore del governo giallo-rosso.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni, risvegliati dalla tromba renziana, si ricordano di essere stati fedeli alleati del Cavaliere ai tempi d’oro. Per Salvini è ora di dire: “Basta a giudici che usano risorse pubbliche per indagini senza logica. Siamo seri: indaghiamo su stupratori, ‘ndranghetisti e camorristi”, possibilmente escludendo i condannati per mafia come Dell’Utri che sono stati nostri alleati, si potrebbe aggiungere. Ma il leader della Lega tralascia. Giorgia Meloni invece rispolvera il grande classico: “Accanimento giudiziario”.

In serata a Zapping Renzi rilancia mettendo sotto la sua ala anche l’ex deputato Pdl Alfonso Papa: “È possibile – si è chiesto l’ex premier – che ci siano imputati che restano per 16 anni imputati e poi vengono assolti? Faccio un nome: Angelucci. O Alfonso Papa con i titoloni sulla P4 e poi è stato assolto”. Peccato che per alcuni reati Papa sia stato assolto grazie alla prescrizione.

La manovra di Renzi è chiara. Lo sgonfiamento di Forza Italia ha lasciato orfani i fan del mantra delle toghe politicizzate. Lo “sdoganamento” sul fronte antimafia di Berlusconi (solo indagato) e anche di dell’Utri (indagato per strage nella stessa inchiesta a Firenze ma già condannato per mafia) è utile anche per convincere i transfughi berlusconiani a salire sulla scialuppa di Italia Viva rendendo meno imbarazzante l’imbarcata.

La mossa però non ha solo una spiegazione politica. Renzi parla ‘pro domo sua’.

I magistrati contro i quali ha scatenato un attacco in stile Sgarbi, si chiamano Giuseppe Creazzo e Luca Turco, quelli che hanno osato chiedere e ottenere gli arresti domiciliari per i genitori di Renzi con l’accusa di bancarotta. Non bastasse, Turco, insieme a Christine von Borries, ha portato a processo babbo e mamma Renzi anche per la storia delle fatture per operazioni inesistenti. Il 7 ottobre chiederanno la condanna e magari Matteo sarà convinto della loro innocenza e certo dell’assoluzione. Però i maliziosi notano che ha spostato alla Cassazione il suo giudizio, come a dire che la condanna in primo grado lo lascia indifferente, soprattutto con quei magistrati. “Non è la prima inchiesta che viene dal procuratore Luca Turco e dal suo capo Creazzo: sono certo che non sarà l’ultima. Che lavorino tranquilli sui numerosi dossier che hanno aperto: noi rispettiamo i magistrati e aspettiamo le sentenze della Cassazione, come prevede la Costituzione. Tutto il resto è polemica sterile”, ha detto Renzi al Messaggero dopo la notizia delle indagini fiorentine dei soliti Turco e Creazzo sull’avvocato Alberto Bianchi, già presidente della Fondazione renziana Open, e sull’amico nonché organizzatore della Leopolda: Patrizio Donnini.

Non bastasse Luca Turco è l’aggiunto che ha seguito in prima persona anche l’inchiesta sul fratello del cognato di Renzi, Alessandro Conticini, per la distrazione dei fondi Unicef verso attività private, che marginalmente coinvolge anche il cognato di Renzi, Andrea Conticini.

A dire il vero un tempo i rapporti di Matteo Renzi con Creazzo e Turco non erano così negativi. Erano gli anni in cui Renzi era premier e Turco e Creazzo archiviavano (senza nemmeno iscrivere un reato o il suo nome sul registro degli indagati) gli esposti che lo mettevano nel mirino. Andò così nell’ottobre 2015 con l’esposto che chiedeva lumi sui contributi pagati da Comune e Provincia di Firenze a Matteo, grazie alla sua assunzioni nell’azienda di famiglia pochi giorni prima della sua investitura formale come candidato del Pds e della Margherita alla presidenza della provincia nel 2003. Il Fatto aveva descritto la vicenda spiegando come Renzi era riuscito ad accumulare un Tfr (poi incassato) e un’invidiabile anzianità pensionistica. Paolo Bocedi, presidente dell’Associazione Sos Italia Libera aveva presentato un esposto, iscritto a modello 45 e quindi archiviato senza nemmeno iscrivere un nome.

Stesso destino, archiviazione senza l’iscrizione di un indagato, aveva avuto sempre nel 2015 l’esposto presentato dal dipendente comunale Alessandro Maiorano, seguito dall’avvocato Carlo Taormina, sull’affitto della casa usata da Matteo e pagata dal suo amico imprenditore Marco Carrai. Allora Turco e Creazzo andavano bene ai renziani.

Poi sono arrivate le indagini su cognati, amici e gli arresti domiciliari dei genitori. Il clima è cambiato.

Dalle intercettazioni sul caso Csm trascritte dalla Guardia di finanza si scopre che l’allora compagno di partito e amico di Renzi, Luca Lotti, parlava con alcuni membri del Csm e con l’ex consigliere e leader della corrente di magistrati Unicost, Luca Palamara, proprio del pm Giuseppe Creazzo, candidato alla Procura di Roma. La strategia enunciata da un consigliere del Csm amico di Palamara, Luigi Spina, era fare in modo che Creazzo lasciasse Firenze senza però ‘promuoverlo’ alla Procura di Roma. “Noi te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile“, diceva Spina a Lotti. “Se lo mandi a Reggio (Calabria, ndr) liberi Firenze”, diceva Palamara. E Lotti concordava: “Se quello di Reggio va a Torino, è evidente che questo posto è libero. E quando lui capisce che non c’è più posto per Roma, fa domanda”. A quel punto il deputato allora del Pd Cosimo Ferri chiede a Palamara: “Ma secondo te poi Creazzo, una volta che perde Roma, ci vuole anda’ a Reggio Calabria o no?”. Palamara risponde: “Gli va messa paura con l’ altra storia, no? Liberi Firenze, no?”.

L’altra storia forse è un esposto presentato da un pm di Firenze, estraneo a queste vicende, contro Creazzo. A distanza di quattro mesi quell’esposto non sembra aver fatto molta strada. Creazzo è ancora in pista per Roma. Bisogna alzare un fuoco di sbarramento con altre munizioni. E l’inchiesta per strage contro dell’Utri e Berlusconi, anche se risale al 2017, può tornare utile.

Italia Morta

Munitevi di un bel sacchetto da vomito e leggete qua: “…Vedere che qualche magistrato della procura della mia città da anni indaghi sull’ipotesi che Berlusconi sia responsabile persino delle stragi mafiose o dell’attentato a Maurizio Costanzo mi lascia attonito… Berlusconi va criticato e contrastato sul piano della politica. Ma sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell’attentato mafioso contro Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità di tutte le Istituzioni”. L’autore di questa prosa ributtante è Matteo Renzi, già sindaco e ora senatore di Firenze, Comune parte civile nei processi per le stragi del 1993-’94, una delle quali sterminò 5 persone fra cui una bimba di 50 giorni proprio a Firenze in via dei Georgofili. Quando mai costui abbia “contrastato Berlusconi sul piano della politica”, non è dato sapere. A meno che l’intrepido “contrasto” non sia consistito nel correre ad Arcore a baciargli la pantofola con tacco e rialzo prima di diventare segretario Pd e, subito dopo, invitarlo al Nazareno per scrivere una legge elettorale incostituzionale (l’Italicum) e una schiforma costituzionale (poi rasa al suolo dagli elettori). Ora, avendo tentato per cinque anni di diventare come B. senza riuscirci, si accontenta di fregargli un paio di deputati e qualche elettore superstite, nella speranza di superare il 3-4% nei sondaggi con Italia Viva (si fa per dire).

Infatti, appena s’è diffusa la notizia che l’inchiesta di Firenze sui mandanti occulti delle stragi comprende l’attentato a Costanzo, l’impunito ha bruciato sul tempo gli altri leader di centrodestra, da Salvini alla Meloni, nel difendere in simultanea con Sallusti e Farina-Betulla il martire perseguitato dalle toghe fiorentine. Le stesse – ma è solo una coincidenza – che han fatto arrestare il su babbo e la su mamma e indagano sugli strani finanziatori della Leopolda. Renzi non sa nulla dell’inchiesta sulle stragi, e questa non è una colpa: c’è il segreto investigativo. Ma, se invoca a ogni piè sospinto “sentenze” possibilmente “definitive”, dovrebbe sapere qualcosa di quelle che han condannato i boss delle stragi (anche grazie ai pm di Firenze) e soprattutto quella che ha condannato Marcello Dell’Utri a 7 anni per mafia; senza contare quella di I grado sulla Trattativa (altri 12 anni a Dell’Utri). Così eviterebbe di fare lo gnorri sull’indagine riaperta due estati fa (non dalla Procura, ma dal gip) sull’ipotesi che B. e Dell’Utri siano coinvolti nell’ideazione di quelle stragi. O di approfittare dell’ignoranza generale (diffusa a piene mani dall’apposita stampa) per dire scemenze come “senza uno straccio di prova”.

Se l’inchiesta sui mandanti esterni, più volte aperta e archiviata in base a fior di prove ritenute però insufficienti, è ripartita nel 2017 è proprio perché ne sono giunte di nuove: le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano, che pianificò le autobombe da via D’Amelio (19.7.’92) allo stadio Olimpico di Roma (23.1.’94). Raccontando le stragi al compagno di ora d’aria, Graviano parla guardacaso di “Berlusca” che “mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza… Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto: ‘Ci vorrebbe una bella cosa’… Nel ’93 ci sono state altre stragi, ma no che (non) era la mafia, loro dicono che era la mafia”. Una conferma al racconto del killer pentito Gaspare Spatuzza sul “colpetto”, il “colpo di grazia” che Graviano gli commissionò ai primi del ’94 con la strage all’Olimpico per dare l’ultima spinta a B. a entrare in politica. Ma non ce ne fu bisogno: il 26 gennaio B. annunciò la discesa in campo, l’indomani i fratelli Graviano furono arrestati a Milano e la strage, fallita al primo colpo, non fu più ritentata. B. andò al governo, ma – lamenta Graviano – non mantenne tutte le promesse: “Quando lui si è ritrovato un partito così nel ’94 si è ubriacato e ha detto: ‘Non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato’. Pigliò le distanze e ha fatto il traditore… 25 anni mi sono seduto con te, giusto? Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo… Alle buttane glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso perché ho 54 anni, gli anni passano, io sto invecchiando e tu mi stai facendo morire in galera… Al signor crasto (cornuto, ndr) gli faccio fare la mala vecchiaia”.
Eccoli gli “stracci di prova” che han fatto riaprire l’indagine. Se piovessero nel deserto, ci sarebbe da ridere. Ma sono solo l’ultima tessera di un mosaico terrificante che ha portato la Cassazione a condannare Dell’Utri per mafia perché “dal 1974 al ’92” fu il “mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa nostra”: il “patto di protezione” siglato 45 anni fa a Milano fra B., Dell’Utri, i boss Bontate, Teresi, Di Carlo, Cinà e Mangano (che poco dopo si installò per due anni nella villa di Arcore). E poi la Corte d’assise di Palermo a condannare uomini di mafia e di Stato per la Trattativa, scrivendo che B. finanziò Cosa Nostra dal ’74 a fine ’94 (quand’era già premier e Cosa Nostra aveva già sterminato Falcone, Borsellino, le scorte e altri 10 innocenti a Firenze, Milano e Roma); e i boss, tramite Dell’Utri e Mangano, ricattarono il suo primo governo per ottenere leggi pro mafia.
Solo chi, in totale malafede, finge di non conoscere queste sentenze, facilmente reperibili online, può dirsi “attonito” se si ipotizza un ruolo di B. nelle stragi, perpetrate dagli stessi boss amici di Dell’Utri e finanziati da B.. E può accusare magistrati che rischiano la pelle indagando sui mandanti di rendere “un pessimo servizio alla credibilità delle Istituzioni”. Istituzioni che la Procura di Firenze onora cercando la verità e Renzi&C. disonorano tentando di sbianchettarla.

 

L’armatura dei Millennial, così connessi eppure così indifesi

Se mai c’è stata una generazione spensierata, non è certo quella dei millennials. I nati negli anni Novanta si sono trovati in un’Italia che ha tradito le promesse, negando stabilità e redditi. La tecnologia aiuta, ma complica anche tutto. Tullio è uno dei tanti fuoricorso che popolano i quartieri universitari di Roma e certe feste sempre più stanche dove tutti devono fingere di divertirsi fino all’alba. Lui non si diverte, la fidanzata lo ha lasciato per il solito amico che poi tanto amico non era. Con quel misto di affetto e crudeltà molto romano, i suoi amici un po’ vogliono consolarlo, un po’ non resistono a sfotterlo, perché il cornuto fa sempre ridere. Due giovani autori, Francesco Vicentini Orgnani e Fabiana Mascolo raccontano la sua solitudine, la fuga dai messaggi WhatsApp, dalle serate, il terrore di incontrare la ex e di scoprirla felice. Un dramma minore per il resto del mondo, ma che per Tullio è una catastrofe epica: quando lo vediamo dentro un’armatura non è il fumetto che prende una svolta fantasy, ma la brillante trovata dei due autori di spostare il dramma su un piano lirico, cavalleresco, senza scadere nel melenso.

Il disegno è netto, pulito, al servizio della narrazione, con quei colori delicati che ricordano Bastien Vivés, l’equilibrio narrativo regge. In alcuni passaggi il fumetto si riempie di parole non tutte indispensabili, la lezione universitaria su Re Artù rende didascalico il gioco narrativo su cui si regge tutto, ma i due autori si riscattano sempre con qualche buona idea. E piano piano l’armatura di Tullio si copre di “Ruggine”, come da titolo del graphic novel. E poi, come sempre accade, arriva un’altra donna capace di smontarla pezzo a pezzo, ma non prima di aver assediato il castello e superato il ponte levatoio.

 

Un arcipelago di occhi aperti e corpi spaesati

Una donna tiene un gattino per il collo in una morsa serrata: nella sua espressione incurante, quasi assente, l’incarnato diafano e i capelli ondulati in modo irregolare, spiccano prepotenti gli occhi grandi, smarriti, malinconici mentre sembra stia per strozzare il piccolo animale. Si tratta del dipinto Girl with a kitten (1947) del pittore Lucian Freud (1922-2011) esposto all’interno della mostra Bacon, Freud, La Scuola di Londra. Opere della Tate al Chiostro del Bramante a Roma (a cura di Elena Crippa dal 26 settembre al 23 febbraio). Quegli stessi occhi innaturalmente spalancati che rintracciamo anche in Girl with a dog (1950) o nel seducente primissimo piano di Boy smoking (1951) li ritroviamo ora chiusi, inquieti e insieme fiduciosi in altri quadri di Freud, come Girl in a stripped nightshirt (1983-85), in cui una donna (Celia Paul, una delle sue tante amanti) dorme, e Standing by the rags (1988-89), che raffigura un pesante e irregolare corpo femminile lasciatosi cadere nudo su un prato di stracci bianchi. “La mia idea di ritratto scaturisce dall’insoddisfazione per i ritratti che assomigliano alle persone,” motiva il pittore, che non vuole creare “qualcosa che somigli alla persona,” ma vuole “incarnarla”.

Questo straniante arcipelago di occhi e corpi dell’artista tedesco naturalizzato inglese e nipote di Sigmund dialoga per la prima volta in una mostra italiana con lo spaesamento delle figure distorte di un altro pittore trapiantato a Londra, che ha fatto della manipolazione dell’immagine la sua cifra: l’irlandese Francis Bacon. Per “distorcere la cosa ben oltre l’apparenza”, Bacon isola il suo soggetto all’interno di figure geometriche. Così isolata, la figura non deve raccontarsi o rappresentarsi, ma può solo essere, o meglio “sentire”. Magnetica è, per esempio, l’esasperata commessura della bocca in Study for a portrait II (1955) ispirato alla maschera funeraria di William Blake, o il volto scomposto in Portrait of Isabel Rawsthorne (1966). Una destrutturazione del corpo di tipo cubista è il leitmotiv di altri due grandi quadri di Bacon: Reclining woman (1961) e Seated figure (1961).

Nell’esposizione romana, purtroppo illuminata in modo non funzionale, anche gli altri esponenti della Scuola di Londra (così l’artista Ronald Brooks Kitaj definì il gruppo di artisti stranieri giunto in città in cerca di gloria): i disegni a carboncino del russo Leon Kossof, le vedute del tedesco Frank Auerbach, gli scenari urbani del norvegese Micheal Andrews, e quelli onirico-famigliari della portoghese Paula Rego.

 

Bacon, Freud, La Scuola di Londra Chiostro del Bramante, Roma (Fino al 23/02/20)