Sono circa le 11 quando Anouar entra nella stanza allestita per le interviste nella base delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) di Rmelan, nel nord della Siria. Capelli e barba tagliati di fresco, camicia bianca e un grande sorriso tranquillo che svela l’incisivo mancante. Di lui non sappiamo niente. Prima di incontrarlo, le Sdf non ci hanno voluto fornire alcun dato: “Sono ancora oggetto di indagini, non possiamo rivelarvi niente”. Né che ruolo avesse nello Stato Islamico, né in che circostanze sia stato catturato. Il primo a darci informazioni è lui stesso, a intervista iniziata: “Mi chiamo Anwar, ho 35 anni e vengo da Bruxelles”.
È un belga nato da genitori marocchini e la sua aria apparentemente rassegnata, quasi annoiata, viene catturata solo da un’informazione che arriva dal mondo esterno alla prigione dove vive da marzo, quando è stato rinchiuso durante la battaglia di Baghuz: il Barcellona, la sua squadra del cuore, la sera prima ha perso 2 a 0 contro il Granada. “Qui non abbiamo la tv, quindi non posso seguirlo”.
Per tutta la durata dell’intervista mantiene toni pacati, con pochissimi tentennamenti e un atteggiamento quasi naïf: “Sono andato in Siria dal Belgio nel settembre 2014 perché ero curioso di vedere come si viveva nel Califfato, uno Stato solo per veri musulmani. Quando sono arrivato, però, ho capito che le cose erano diverse da come Daesh (usa volutamente il termine dispregiativo con cui viene chiamato Isis, ndr) le raccontava, non eravamo liberi”.
Poco dopo, nel suo racconto, il sogno di un Califfato per veri musulmani si infrange: “Non ho mai combattuto, non ho mai impugnato un’arma, ma mi sono accorto che non potevo esprimere la mia opinione, che se lo avessi fatto sarei stato in pericolo. Ho provato a fuggire, ma avrei messo a rischio la mia vita, quella di mia moglie e dei miei figli”.
Quando alla fine dell’ora d’intervista lo convinciamo a fornirci la sua identità, scopriamo che il suo racconto è tutta una grande menzogna. Il suo nome è Anwar Abdel Rahman Haddouchi, conosciuto negli ambienti jihadisti come Abu Suleiman al-Belgiki, il “Boia di Raqqa”, sospettato di aver decapitato almeno cento persone.
Haddouchi, anche se a noi non lo racconta, si è trasferito a Birmingham nel 2009 con la moglie, Julie Maes, che lo ha seguito anche in Siria con due figli. Durante la sua permanenza in città, ha per anni percepito soldi dallo Stato. E ha continuato a ricevere bonifici anche dopo la sua partenza per il Califfato: 10.000 sterline (circa 11.000 euro) con le quali avrebbe finanziato la sua permanenza e, probabilmente, il gruppo di Abu Bakr al-Baghdadi. Secondo quanto rilevato dal ministero delle Finanze belga, dal suo conto sono partite circa 3.000 sterline in favore di Mohamed Abrini, amico d’infanzia dei fratelli Abdeslam protagonisti degli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015 e identificato come “l’uomo col cappello”: è lui a essere stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto di Zaventem prima dell’attentato del 22 marzo 2016 al terminal dello scalo bruxellese. I soldi di Haddouchi – sospettano le autorità belghe – potrebbero essere serviti a finanziare gli attacchi di Isis in Europa.
Haddouchi è in carcere da marzo e non sa che, a fine agosto, queste informazioni sono state diffuse. La sua strategia è quindi quella di negare qualsiasi responsabilità: “Quando mi sono reso conto dove ero arrivato – sostiene – è iniziato il mio bad dream, il mio brutto sogno. Ho vissuto grazie ai soldi che mi facevo inviare dal mio Paese e grazie allo stipendio che mi dava Daesh, visto che nei primi sei mesi lavoravo in un ufficio che registrava le persone che andavano e venivano dalla Turchia, a Tell Abyad”.
Non è possibile verificare, al momento, se questa versione sia veritiera. Di sicuro, Haddouchi si contraddice riguardo alla sua permanenza a Raqqa, la capitale del Califfato, perché è lì, con le esecuzioni pubbliche, che si è costruito la sua fama: “Non sono mai stato là – ci dice inizialmente – dopo Tell Abyad sono stato spostato a Jarablus e poi, alla fine, sono finito a Baghuz”. Ma poco dopo si smentisce quando dice di aver visto un solo uomo ucciso dall’Isis nei cinque anni in cui ha vissuto nel Califfato: “Credo fosse un poliziotto, a Raqqa”.
Anche nell’ultima enclave jihadista di Deir Ezzor, in una delle battaglie più sanguinose degli ultimi anni, nega di aver preso parte attiva ai combattimenti: “Non l’ho fatto, inutile che insistiate – dice – Se volete ve lo dico, ma non è vero. A Baghuz c’erano ormai pochi combattenti, molti meno rispetto all’inizio, perché ormai era rimasta l’ultima sacca di resistenza, era tutto finito, game over. E poi, anche se avessi voluto, non avrei potuto a causa di un legamento del ginocchio rotto”.
Menzogne, secondo quanto ci dicono più volte i rappresentanti delle Sdf che hanno in custodia oltre 12.000 combattenti: “Fate attenzione ai foreign fighter europei. A sentire loro, nessuno è colpevole. Ma mentono, mentono tutti”.
“Quello che posso dirvi su di me è che non combattevo. Ve lo direi – ribatte Haddouchi – Sono in prigione, perché dovrei mentire?”.
Il motivo c’è e il Boia di Raqqa lo conosce: il destino dei foreign fighter europei nelle carceri delle Sdf è ancora incerto. Le milizie a maggioranza curda hanno prima sollevato il problema, preoccupati da una possibile invasione turca che potrebbe provocare la fuga dei prigionieri, poi hanno chiesto l’istituzione di un tribunale internazionale speciale nel Rojava che giudichi i crimini dei combattenti jihadisti. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno invitato i vari Paesi, soprattutto europei, a farsi carico dei combattenti di casa loro. Stati come Tunisia e Marocco stanno riportando indietro i terroristi partiti dalle loro città, mentre la Germania ha iniziato a riprendersi donne e bambini. Gli altri, con Gran Bretagna e Francia in testa, non ne vogliono sapere.
Non vuole essere processato da un tribunale internazionale, ci dice, “voglio essere giudicato nel mio Paese”. Questo perché spera di “ricominciare”, pagare per i crimini di cui si è macchiato e “rifarmi una vita in Belgio, una vita normale: avere un lavoro, prendermi cura della famiglia, mandare i figli a scuola e così via”. Il grande spettro rimane l’Iraq: Baghdad, a giugno, aveva già condannato a morte oltre 3.000 jihadisti. E la prospettiva di un trasferimento nel Paese confinante terrorizza anche il Boia di Raqqa: “Certo che ho paura. È normale, è umano. Non sono venuto qui con l’intenzione di morire per il Califfato, ma di vivere nel Califfato. Se avessi voluto morire, non avrei portato qui la mia famiglia”.
L’ipotesi in cui sperano i jihadisti, sia dentro che fuori dalle carceri curde, è quella di una nuova offensiva militare di Ankara nel nord del Paese, dopo quella di Afrin. L’idea di un’invasione turca strappa un sorriso anche ad Haddouchi: “Tutti vogliono essere liberi, è normale”. Sui sospetti legami tra Stato Islamico e Turchia, il membro delle Bandiere Nere si sbottona di più. La sua responsabilità, come durante tutta l’intervista, viene negata, ma dice di “aver sentito dei racconti” di flussi di persone e prodotti dal Paese della Mezzaluna. “Non ho visto niente, ma so che Daesh comprava un po’ di prodotti da Bashar (al-Assad, ndr), un po’ dalla Turchia e un po’ da altri gruppi presenti nel Paese. Ecco perché i prezzi nel Califfato erano un po’ più alti. Combattenti Isis curati negli ospedali turchi? Ne ho sentito parlare”.
Anouar ostenta sicurezza per tutta l’intervista: sempre sorridente, a tratti scherza sulla sua esperienza e parla della sua scelta come di una stupidaggine, una decisione presa troppo in fretta e dalla quale non poteva più tornare indietro. E perché hai deciso di avere due dei tuoi quattro figli in un luogo in cui non volevi vivere, dove non ti sentivi al sicuro? Ci pensa un po’: “Sai, non puoi chiedere a tua moglie di privarsi della gioia di avere figli. Abbiamo provato a condurre una vita normale”.
Ma il suo sorriso si increspa fino a diventare una smorfia quando gli viene chiesto se fosse in contatto con le cellule terroristiche belghe che hanno sferrato gli attacchi di Parigi e Bruxelles. I suoi occhi si spalancano, rimane muto per qualche secondo, poi risponde semplicemente “no”. Non è più sicuro che la sua identità sia rimasta ben protetta, il dubbio di una condanna pesante, che lo costringa a dimenticarsi della “vita normale” che adesso dice di sperare, si insinua nella sua testa. Non è più sicuro che il mondo non conosca la sua storia all’interno dello Stato Islamico: quella del Boia di Raqqa, finanziatore di attentati in Europa e legato agli uomini che, nel 2015 a Parigi e nel 2016 a Bruxelles, hanno tolto la vita a oltre 120 persone.