Astrologia tra ragione e sentimento (e arte)

In principio era l’astrologia, e da lì nacque la Modernità. Ci voleva la riflessione di un acuto critico come Aby Warburg per ridare dignità culturale e statuto teoretico agli oroscopi, sottraendoli alla ciarlataneria e ricacciandoli alla casa madre: la matematica poiché l’astrologia non è altro che un “erroneo sillogismo”.

In Astrologica, una corposa antologia appena licenziata da Einaudi, sono raccolti saggi e appunti – anche inediti – scritti tra il 1908 e il 1929, anno della morte dello storico dell’arte, nato nel 1866, “amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima fiorentino”, nonché celebre teorico delle Pathosformeln, “le energie affettive e modelli trasformati culturalmente”, traduce il curatore Maurizio Ghelardi. Uomo e pensatore tutto d’un pezzo, Warburg era un convinto fan dell’unicità del sapere, per cui le immagini sono un archivio storico della “psicologia dell’espressione umana”, mentre “nel clima dominante – o troppo materialistico o troppo mistico – la nostra giovane disciplina si preclude ogni visione complessiva storico-universale”.

Proprio l’astrologia è il punto di incontro e sutura tra l’antico e il moderno, ma soprattutto – banalizzando – tra ragione e sentimento, “matematica e idolatria”, scienza e religione, razionalità e istinto selvaggio, speculazione e pensiero magico, teoria e paura, apollineo e dionisiaco. Insomma, l’Umano, e tutto intero. Contenuto e metodo vanno di pari passo: da un lato, l’oggetto di studio è “il processo psichico unitario all’interno di un’oscillazione costante tra due poli: dalla pratica cultuale alla contemplazione matematica e viceversa”; dall’altro, la storia delle immagini non può che essere storia della cultura tout court.

“Con il Rinascimento riemerge il mondo antico degli dèi che, con il suo pathos olimpico, riesce a scacciare il realismo primitivo dell’epoca precedente”, il Medioevo. Il sogno è “tornare ad Atene, epurandola da Alessandria”, ovvero dall’ellenismo, per ritrovare la perduta unità tra cosmo e caos: è l’età di Keplero, astronomo e astrologo, di Ficino, medico e mago, di Bruno, filosofo e stregone; un’età in cui le corti sono il set per dipingere e strologare, lo spirito del tempo è rappresentato da artisti come Botticelli e Raffaello e l’Italia è incubatrice della gloriosa stagione in cui “i dèmoni astrali sono esteticamente idealizzati”.

Iconografia, religione, mito, antropologia: zigzagando di qua e di là, l’Astrologica tiene insieme i Tarocchi del Mantegna e gli affreschi del Cossa a Ferrara, il passato nordico (gli almanacchi e calendari planetari tedeschi) e le influenze orientali (lo zodiaco di Babilonia, gli astrologi di Baghdad e il manuale magico arabo Picatrix), le rappresentazioni di Venere e Saturno, le incisioni di Dürer e la “fatwa” di Lutero. Warburg si identifica in “Faustus, lo scienziato moderno che oscilla tra la pratica magica e la matematica cosmologica”, ma l’equilibrio non è facile, tanto che lui stesso ne pagò le conseguenze: strattonato tra ragione e sentimento, il professore soffrì per tutta la vita di psicosi, pensiero magico, rituali ossessivi, “eccitazione psicomotoria” e deliri. Proprio lui che anelava all’unità esplose in tante piccole schegge di schizofrenia.

 

“Fleabag”, un sacco di pulci nelle mani di un’unica donna: Phoebe Waller-Bridge

Ma come, non hai visto Fleabag? Gli Emmy Awards rappresentano un momento di autoesame collettivo in cui ognuno di noi realizza quali serie si è perso per strada negli ultimi 12 mesi (a guardarle tutte, del resto, non ci riesce proprio nessuno). In cima alla lista, insieme a Barry che in Italia è passata davvero sottotraccia, quest’anno c’è Fleabag, che si è portata a casa due delle statuette più importanti: miglior commedia e miglior attrice protagonista in una commedia. Il segreto del successo di questa serie britannica del 2016, già due stagioni alle spalle, non è nemmeno più un segreto e si può riassumere in tre parole: Phoebe Waller-Bridge. Raramente è possibile identificare una serie tv con una persona sola ma in questo caso sì, perché Waller-Bridge l’ha ideata, l’ha scritta e si è presa il ruolo della protagonista. Fleabag (letteralmente “sacco di pulci”) è una trentenne londinese che si arrabatta gestendo una caffetteria che ha due clienti al giorno, di cui una è lei. Ha perso la madre, ha un padre anaffettivo, una sorella perfettina e una matrigna odiosa (Olivia Colman, la prossima regina Elisabetta in The Crown, come al solito bravissima). Fleabag è tutto e il contrario di tutto: elegante e sciatta, timida e perversa, depressa ed eccitata, sostanzialmente incasinata. Ma soprattutto è vera fino al midollo. Memorabili le scene in cui si masturba guardando Barack Obama in tv e si chiede se si possa guardare i porno ed essere nello stesso tempo una femminista convinta (se lo sono chiesto anche i giornali inglesi).

La prima stagione è l’adattamento di un testo teatrale ma il vero miracolo è la seconda, in cui Waller-Bridge ha dimostrato di poter mantenere l’asticella altissima all’infinito accostando scene esilaranti e momenti sinceramente tragici. E invece una terza stagione probabilmente non ci sarà, almeno non subito, perché Phoebe, che ha scritto anche la prima stagione di Killing Eve, è richiestissima e impegnatissima (è fra gli sceneggiatori del prossimo 007). Post scriptum: se volete recuperare Fleabag, la trovate su Amazon Prime Video.

 

“Orestes in Mosul” è fuori luogo

Diffidare degli artisti che citano i filosofi – Hegel, poi – nelle note di regia: vale anche per il molto incensato Milo Rau, regista e autore svizzero, classe 1977, nonché fresco direttore di NTGent in Belgio.

Ospite della 34esima edizione di Romaeuropa festival (in corso fino al 24 novembre) e di prossimo ritorno all’Argentina di Roma – il 10 ottobre – con La rivolta della dignità. Resurrezione. Assemblea Politica, Rau ha presentato la sua personalissima riscrittura dell’Orestea di Eschilo: Orestes in Mosul, una tragedia nell’Iraq post Isis, girata (sì, c’è anche cinema, o qualcosa che gli somiglia, trasposto in video sul palco) nella piazza centrale della città, teatro degli orrori jihadisti, e nella caserma dei combattenti Peshmerga in Kurdistan.

Il testo – firmato dallo stesso regista e dall’ensemble internazionale (i bravi Duraid Abbas Ghaieb, Susana AbdulMajid, Elsie de Brauw, Risto Kübar, Johan Leysen, Bert Luppes, Marijke Pinoy) – gioca con lo spazio-tempo, per cui le scene in video e in palco, recitate e altrettanto filmate, si sovrappongono e duplicano, stravolgendo l’idea stessa di “diretta”. Questa è la mossa più interessante dello spettacolo, viceversa assai fragile nel contenuto. Tutto si tiene, ma con la colla: Agamennone diventa un inviato di guerra (boh); Mosul è identificata con Troia (ma non era Micene il set della tragedia?); le effusioni tra Oreste e Pilade sono più che insistite, giusto per ricordare a ogni bacio quanto sia scandalosa l’omosessualità dalle parti di Iraq e dintorni; l’ultima cena tra Agamennone, Cassandra, Clitennestra ed Egisto sembra la parodia di una sitcom familiare; dal cappello spunta pure il mito di Giona, ché un po’ di Bibbia non guasta mai; il processo a Oreste si trasforma in quello ai soldati dell’Isis (vanno perdonati o uccisi?), in un capolavoro di insensatezza e furbizia rare; non disonestà, ma proprio truffa intellettuale. Orestes in Mosul è davvero fuori luogo.

Esteticamente Rau è figlio del tempo: televisivo, in un pastiche – invero molto elegante e preciso – di teatro epico e fotoromanzi, soap e tribune politiche, doc e reality show, inchieste giornalistiche e Chi l’ha visto, con tanto di testimonianza telefonica di una schiava di Isis, ora vedova e reietta in un campo profughi chissà dove. Intanto, sulle note di Mad world, scorre il sangue di sgozzamenti ed esecuzioni, donne strangolate e uomini pugnalati… Si vede tutto, proprio tutto quello che la tragedia si ostina da sempre a non farci vedere: la morte, non più ricacciata dietro le quinte ma esibita quasi a porno-manifesto.

Lo spettacolo è riuscito solo nella sua raffinata architettura: frutto di un ricco budget, speso davvero bene. Oltre che bello, è un lavoro funzionale a lavarsi le coscienze: un’operazione lib-lab per spiriti progressisti che lascia a loro (a Mosul) la guerra e a noi (a Roma) l’arte di ricamarci sopra.

 

Orestes in Mosul, in tour europeo fino al 26 gennaio 2010 (a Bruxelles, Zurigo, Lione, Madrid, Amburgo…)

 

Yesterday. Nessuno sa più chi furono mai questi Beatles

“Chiedilo a una ragazza di 15 anni di età, tu chiedi chi erano i Beatles e lei ti risponderà…”. Cosa avrebbe pensato Lucio Dalla del nuovo film di Danny Boyle? Forse si sarebbe emozionato, o indignato, o semplicemente si sarebbe detto “in fondo noi c’eravamo arrivati prima”. Già, perché su “chi erano mai questi Beatles” ruota suo malgrado Yesterday, commedia surreal-romantica che fa del rimosso accidentale il peccato originale delle distrazioni contemporanee. Se nessuno si ricorda più dei Fab Four, delle loro canzoni immortali vere “opere d’arte”, com’è possibile immaginare l’odierna cultura pop senza quello ieri?

La cartina di tornasole si chiama Jack Malick (il bravo Himesh Patel, ma nessuna parentela con Dev Patel anch’egli esordiente per Boyle..), giovane cantautore amatoriale anglo-paki dal provincialissimo Suffolk, “prescelto” dal caso quale unico testimonial vivente dell’esistenza dei quattro da Liverpool. Quasi come un veggente della vergine Maria, pare essere la sola persona al mondo (a prova di Google…) a ricordarsi di loro, ferocemente cancellati dalla memoria collettiva. Cosa fare di questo patrimonio misteriosamente ereditato è materia della sua coscienza, più o meno pura: d’altra parte gli basta accennare i primi accordi di Yesterday alla chitarra per vedere i suoi amici andare in estasi. Quando poi arriva l’assist di una vera star come Ed Sheeran (che si re-interpreta) che di fronte a tanto “talento assoluto” si sente “come Salieri davanti a Mozart”, il gioco è fatto.

Sceneggiato da Richard Curtis, il “poet laureate” del British Reinassance formato commedia romantica anni 90 – per intenderci da Quattro matrimoni e un funerale alla saga di Bridget Jones – Yesterday traduce in leggerezza le fiabe dark che affollano la filmografia del compatriota regista premio Oscar, accostandosi proprio a quel The Millionaire, che ben otto statuette si è guadagnato dieci anni fa. Al centro, infatti, è il percorso dall’anonimato alla notorietà planetaria con tutte le perversioni di marketing del caso; ma se per quel piccolo indiano bastavano la buona fede e il coraggio, in questo caso a giocarsela è una scelta di coscienza, nella consapevolezza che tutto sommato non si nuoce a nessuno, anzi. Va da sé che il film, inconfondibile prodotto medio di genere Brit-comedy fra sentimenti, nostalgia (parecchia) e una sostanziosa spruzzata di humour, ambisca a specchiare i nostri tempi, così fast & furious da farci dimenticare i sogni migliori, tanto fragili eppure unici come quello in cui un certo Paul “vide apparire le note” di un capolavoro che si chiamava Yesterday. E il miracolo è sotto gli occhi di tutti: quelle canzoni funzionano oggi come allora, sintomo della capacità dell’arte di sconfinare lo spazio e il tempo, creando comunità che superano conflitti, culture, e generazioni. D’altra parte è così che quei quattro ragazzi da Liverpool, cambiando per sempre la storia della musica pop, hanno cambiato la nostra vita.

Il cabaret fa ridere? Ma non scherziamo…

Basta una piccola pedana, a volte nemmeno un microfono perché si parla a platee minuscole, intime. Poi serve saper mettere insieme le parole, spesso i gesti, a volte suoni e musica, ed ecco il cabaret. Facile a dirsi, e invece no, tutt’altro. Perché la storia è lunga e complessa, piena di curve e di svolte, e per raccontarla (ma vorrei dire: per spiegarla e ripulirla da quiproquò e luoghi comuni) serve uno che al cabaret ha dedicato vita e carriera: militante, praticante e infine storico, Flavio Oreglio, che firma questo piccolo tomo prezioso, L’arte ribelle. Storia del cabaret da Parigi a Milano (Sagoma editore).

Già dalle quattro piccole prefazioni (Enrico Intra, Roberto Carusi, Tinin Mantegazza, Roberto Brivio) si capisce che fa sul serio, che il saggio storico si mischia al pamphlet critico. E Oreglio parte davvero in quarta, gli preme mettere i puntini sulle i, come lo storico che delimita il suo ambito di ricerca ma anche come l’appassionato che freme davanti alle ingiustizie, alle ricostruzioni affrettate, agli errori. Il primo, clamoroso: far coincidere il cabaret con la comicità e con la risata, cosa sbagliatissima, perché le forme di spettacolo che “fanno ridere” (o vorrebbero) sono molte e lui, invece, è alla ricerca dei caratteri specifici di un’arte che fa storia a sé, e lo fa nel modo più intenso: mischiando e contaminando molte arti.

Pensate a Gaber, ci dice Oreglio: era forse soltanto risata? E – aggiungo io – pensate all’intrinseca tristezza facciale di Felice Andreasi, alle malinconie stralunate di Enzo Jannacci, e vedrete che l’equazione cabaret-uguale-si-ride diventa piccola piccola, riduttiva. Con tutto che (e diciamolo!) si ride anche.

Dunque Oreglio rivendica, con il giusto orgoglio, la specificità di un genere, e questa sua dichiarazione di poetica, annunciata come un manifesto programmatico, viene confermata riga dopo riga, nella strabiliante evoluzione della storia.

All’inizio fu il Café chantant, la Parigi della Belle Epoque, il Secondo Impero, un posto dove sedevano più o meno comodi i grandi narratori dell’epoca da Hugo a Zola. Le Chat noir, il locale ai piedi di Montmartre da cui, per convenzione, partì tutto, era un ritrovo di poeti e scapestrati, intellettuali e assenzio. Davvero un peccato non aver assistito (e per forza, era quasi tre secoli fa!) alle stralunate recite degli Hydropathes (più o meno: quelli a cui fa male bere acqua), o ascoltare la chanson canaille di Aristide Bruant, o immergersi in quell’esplosione di circoli, riviste, tumulti artistici e affabulazioni che mischiavano nonsense e cronache politiche, satira e goliardia.

Poi, la diaspora. Dalla Francia al resto d’Europa, e qui si rischia davvero il salto sulla sedia, perché il cabaret ha sfiorato, attraversato e fiancheggiato i più vividi movimenti culturali di ogni epoca. Dalla Parigi mitica della Belle Epoque alle più disparate avanguardie europee. Ha giocato con i fermenti della Berlino degli anni Venti e Trenta (avete presente un certo Bertolt Brecht?), dove Karl Valentin entusiasmava con i suoi monologhi (apparentemente) insensati; oppure il futurismo, in Italia, quando l’immenso Petrolini poteva permettersi lo sberleffo al regime (“Bravo! Grazie!”, meraviglia vera), o ancora la Russia, la Svizzera, la Polonia, e il cabaret diventava patrimonio d’Europa.

Ma dunque, almeno per l’Italia, le connessioni sono nobili e note già dall’inizio del secolo: dal Caffè Concerto al Tabarin, dal Varietà all’avanspettacolo, con le diramazioni che Oreglio mette in ordine: la rivista, il salone Margherita, l’Ambra Jovinelli, insomma, la storia nostra. E poi (viene il bello), la capacità di abbeverarsi a un movimento (e di crearlo) fatto di giornali satirici, fogli irriverenti, sfide al pensare solito e comune. Fino (viene il bellissimo) all’esplosione del dopoguerra, che si chiamava Derby, a Milano (ma non solo), e qui va ringraziato Oreglio per la capacità di non cadere nella semplice mitologia ormai stucchevole, ma di sezionarla, spiegarla, analizzarla.

Lasciamo perdere l’indice dei nomi: tutti i più grandi hanno portato il loro mattoncino (Franco Parenti, Dario Fo, può bastare?, ma sono centinaia) alla costruzione di un’arte quasi underground e però popolare. Cavalcata entusiasmante che qui (mi scuso) si riesce solamente ad abbozzare. Peccato: la storia si ferma a metà degli anni Ottanta, quando il Grande Errore si impose e prosperò, e quando il cabaret (o meglio, la sua percezione) si ridusse a risata, battutismo, tormentone. Che ingiustizia, venire da così lontano e andare così vicino (traduco: in tivù), ma mai disperare: il gatto ha sette vite, e il cabaret anche di più. Cioè, speriamo.

Addio a Jacques Chirac, “bulldozer” dell’Eliseo

L’ex presidente francese Jacques Chirac si è spento ieri mattina nella sua abitazione di Parigi, dove viveva con la moglie Bernadette Chodron de Courcel. Aveva 86 anni e da tempo era malato. Nel 2005 era stato colpito da un ictus (era ancora all’Eliseo) e fu costretto a parecchi ricoveri in ospedale. Negli ultimi tempi aveva diradato gli impegni pubblici, e non si occupava, se non marginalmente, della politica. Nel 2011 è condannato per gli impieghi fittizi nel suo partito, l’Rfr neogollista, scandalo scoppiato quando era sindaco di Parigi, di cui fu primo cittadino per 18 anni.

Ora che Chirac è scomparso, tutti (o quasi) sembrano far gara a tesserne gli elogi, persino Putin (“uomo di Stato saggio e visionario”) e gli avversari più feroci come Marine Le Pen che gli ha reso un epitaffio assai generoso: “Ha dimostrato un grande amore nei confronti dei territori d’Oltremare ed è stato il presidente capace di opporsi alla follia della guerra in Iraq, ripristinando la tradizionale posizione di equilibrio e di diplomazia della Francia”. Per Angela Merkel, i tedeschi hanno perso “un grande partner e un amico”.

Quanto a Berlusconi, che ebbe con lui parecchie controversie e brusche discussioni, tira acqua al suo mulino, sottolinea che era un liberale, un moderato di centrodestra, “ben lontano dal modello lepenista che anzi sconfisse clamorosamente, e rigorosamente alternativo alla sinistra”. Peccato che le cose non siano andate proprio così. Quando Chirac vinse, al terzo tentativo, le elezioni presidenziali del 1995, dovette ricorrere al fondamentale aiuto dei socialisti per battere Jean-Marie Le Pen. E due anni dopo, costoro chiesero il conto, approfittando di una crisi di governo. Chirac dovette nominare premier Lionel Jospin, il leader socialista, per governare la Francia. La difficile e complicata coabitazione durò sino al 2002. In verità, Berlusconi ha sempre invidiato il carisma e la popolarità di Chirac al quale l’univa solo la formidabile ossessione del potere. “Sono l’ultimo dei grandi presidenti”, confidò una volta Chirac a François Mitterrand. Georges Pompidou, il suo mentore, diceva che era un giovane lupo pronto a sbranare gli avversari. Aveva dalla sua l’imponenza fisica, studi ad Harvard, il tirocinio all’Ena, la scuola esclusiva che forgiava e continua a forgiare la classe dirigente francese. Si era distinto nella guerra d’Algeria, e aveva iniziato a far politica come consigliere municipale di Sainte-Féréole (nel Corrèze), baluardo familiare del ramo materno.

Pompidou intuì le potenzialità di Chirac e lo candidò alle legislative del 1967. A Parigi. Un seggio difficile, feudo della sinistra. Chirac batté strade, piazze, mercati, bistrot. Vinse. Fu l’inizio di un’insaziabile conquista. Un “bulldozer”: che dopo i nemici spianò i rivali “interni”. Chaban-Delmas, Valery Giscard d’Estaing, Edouard Balladur, Charles Pasqua, tanto per ricordare i più noti. Ma fu capace anche di gesti coraggiosi. Il primo discorso da presidente lo fece al famigerato Vel d’Hiv dove erano stati rinchiusi gli ebrei per essere deportati nei lager nazisti: riconobbe la responsabilità della Francia.

Si inimicò l’elettorato clericale con la legge sull’aborto. Ridusse il mandato presidenziale da 7 a 5 anni, e pose fine alla leva obbligatoria. Ma non alla grandeur francese: annunciò la ripresa dei test atomici a Mururoa e fu sommerso dalle proteste di tutto il mondo.

“La Casa Bianca voleva blindare la trascrizione”

Altro che l’audizione scipita sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller, a fine luglio. Con le sue dichiarazioni, la talpa del Kievgate – un agente della Cia in servizio alla Casa Bianca – che resta anonima e vive ora sotto protezione, mette in difficoltà Donald Trump e ne aggrava la posizione, al via dell’istruttoria per l’impeachment decisa dai democratici alla Camera. “Ho avuto informazioni da funzionari del governo che il presidente sta usando il suo potere per sollecitare interferenze di un Paese straniero nelle elezioni del 2020”.

Lo si legge nella denuncia presentata dalla talpa, uno 007, il 12 agosto. Il documento faceva scattare l’allarme sulla telefonata del 25 luglio tra il magnate e il presidente ucraino Volodymyr Zelinsky. Trump chiese, in particolare, al leader ucraino di “indagare uno dei suoi maggiori rivali politici”, Joe Biden, ex vice di Barack Obama e battistrada per la nomination democratica a Usa 2020.Il presidente Usa snobba le dichiarazioni della talpa e la deposizione al Congresso del suo capo, Joseph Maguire, che risponde alle domande delle Commissioni Intelligence. Mentre Maguire depone, Trump partecipa a una raccolta di fondi a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: punta a raccogliere tre milioni di dollari per la sua campagna, riunendo sostenitori e finanziatori da Cipriani. La Casa Bianca cerca di smontare l’impatto della talpa: ”Informazioni di terza mano”. E il presidente equipara la talpe a delle spie: “Andrebbero punite”. Lo 007 ammette di non essere testimone diretto. In nove pagine, indirizzate ai presidenti delle Commissioni Intelligence di Camera e Senato, cioè Adam Schiff e Richard Burr, la talpa scrive, fra l’altro: “Nei giorni successivi” alla telefonata del 25 luglio “funzionari della Casa Bianca intervennero” per bloccare e mettere in sicurezza “le informazioni sulla chiamata, soprattutto la trascrizione parola per parola. Azioni che a mio avviso evidenziano che avevano capito la gravità di quanto emerso nella conversazione”. La talpa, che ha una decina di fonti, prosegue: “Ho ritenuto i racconti dei miei colleghi credibili perché, in diversi casi, altri responsabili hanno riportato ricostruzioni in linea con le loro”. Così, “funzionari della Casa Bianca mi hanno detto di aver ricevuto dai legali di Washington istruzioni di rimuovere la trascrizione elettronica dal sistema computerizzato in cui trascrizioni simili sono solitamente conservate. La trascrizione è stata quindi caricata su un sistema elettronico separato usato per la raccolta di informazioni riservate di natura particolarmente sensibile”. Un funzionario ha descritto questa azione “come un abuso del sistema elettronico in quanto la telefonata non conteneva nulla di sensibile dal punto di vista della sicurezza nazionale”.

La testimonianza di Maguire, che deve pure giustificare perché il rapporto della talpa non abbia tempestivamente ricevuto l’attenzione che meritava, costituisce di fatto il calcio d’avvio per l’impeachment. “Nessuno può essere al di sopra della legge”, dice Maguire al Congresso, echeggiando, si ignora se volontariamente, le parole della leader dei dem alla Camera Nancy Pelosi. Per Maguire, la denuncia è “unica e senza precedenti”. “La talpa ha agito in buona fede, senza alcuna motivazione politica, ha fatto la cosa giusta”: era seriamente preoccupato per “gli abusi di potere” di Trump, il cui avvocato Rudolph Giuliani incontrò a Madrid un emissario di Zelensky. Pelosi dice: “I fatti mostrano” che il presidente ha “tradito” il Paese, “ignorato e violato” la Costituzione, messo a rischio sicurezza nazionale e integrità delle elezioni. La Russia, la Cina, l’Ue s’astengono dai commenti: è affare interno, dicono all’unisono, mentre Zelensky si chiama fuori: non conosce i dettagli dell’indagine su Biden jr.

Anwar Haddouchi. Il “boia di Raqqa” come le SS: “Mai ucciso, stavo in ufficio”

Sono circa le 11 quando Anouar entra nella stanza allestita per le interviste nella base delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) di Rmelan, nel nord della Siria. Capelli e barba tagliati di fresco, camicia bianca e un grande sorriso tranquillo che svela l’incisivo mancante. Di lui non sappiamo niente. Prima di incontrarlo, le Sdf non ci hanno voluto fornire alcun dato: “Sono ancora oggetto di indagini, non possiamo rivelarvi niente”. Né che ruolo avesse nello Stato Islamico, né in che circostanze sia stato catturato. Il primo a darci informazioni è lui stesso, a intervista iniziata: “Mi chiamo Anwar, ho 35 anni e vengo da Bruxelles”.

È un belga nato da genitori marocchini e la sua aria apparentemente rassegnata, quasi annoiata, viene catturata solo da un’informazione che arriva dal mondo esterno alla prigione dove vive da marzo, quando è stato rinchiuso durante la battaglia di Baghuz: il Barcellona, la sua squadra del cuore, la sera prima ha perso 2 a 0 contro il Granada. “Qui non abbiamo la tv, quindi non posso seguirlo”.

Per tutta la durata dell’intervista mantiene toni pacati, con pochissimi tentennamenti e un atteggiamento quasi naïf: “Sono andato in Siria dal Belgio nel settembre 2014 perché ero curioso di vedere come si viveva nel Califfato, uno Stato solo per veri musulmani. Quando sono arrivato, però, ho capito che le cose erano diverse da come Daesh (usa volutamente il termine dispregiativo con cui viene chiamato Isis, ndr) le raccontava, non eravamo liberi”.

Poco dopo, nel suo racconto, il sogno di un Califfato per veri musulmani si infrange: “Non ho mai combattuto, non ho mai impugnato un’arma, ma mi sono accorto che non potevo esprimere la mia opinione, che se lo avessi fatto sarei stato in pericolo. Ho provato a fuggire, ma avrei messo a rischio la mia vita, quella di mia moglie e dei miei figli”.

Quando alla fine dell’ora d’intervista lo convinciamo a fornirci la sua identità, scopriamo che il suo racconto è tutta una grande menzogna. Il suo nome è Anwar Abdel Rahman Haddouchi, conosciuto negli ambienti jihadisti come Abu Suleiman al-Belgiki, il “Boia di Raqqa”, sospettato di aver decapitato almeno cento persone.

Haddouchi, anche se a noi non lo racconta, si è trasferito a Birmingham nel 2009 con la moglie, Julie Maes, che lo ha seguito anche in Siria con due figli. Durante la sua permanenza in città, ha per anni percepito soldi dallo Stato. E ha continuato a ricevere bonifici anche dopo la sua partenza per il Califfato: 10.000 sterline (circa 11.000 euro) con le quali avrebbe finanziato la sua permanenza e, probabilmente, il gruppo di Abu Bakr al-Baghdadi. Secondo quanto rilevato dal ministero delle Finanze belga, dal suo conto sono partite circa 3.000 sterline in favore di Mohamed Abrini, amico d’infanzia dei fratelli Abdeslam protagonisti degli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015 e identificato come “l’uomo col cappello”: è lui a essere stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto di Zaventem prima dell’attentato del 22 marzo 2016 al terminal dello scalo bruxellese. I soldi di Haddouchi – sospettano le autorità belghe – potrebbero essere serviti a finanziare gli attacchi di Isis in Europa.

Haddouchi è in carcere da marzo e non sa che, a fine agosto, queste informazioni sono state diffuse. La sua strategia è quindi quella di negare qualsiasi responsabilità: “Quando mi sono reso conto dove ero arrivato – sostiene – è iniziato il mio bad dream, il mio brutto sogno. Ho vissuto grazie ai soldi che mi facevo inviare dal mio Paese e grazie allo stipendio che mi dava Daesh, visto che nei primi sei mesi lavoravo in un ufficio che registrava le persone che andavano e venivano dalla Turchia, a Tell Abyad”.

Non è possibile verificare, al momento, se questa versione sia veritiera. Di sicuro, Haddouchi si contraddice riguardo alla sua permanenza a Raqqa, la capitale del Califfato, perché è lì, con le esecuzioni pubbliche, che si è costruito la sua fama: “Non sono mai stato là – ci dice inizialmente – dopo Tell Abyad sono stato spostato a Jarablus e poi, alla fine, sono finito a Baghuz”. Ma poco dopo si smentisce quando dice di aver visto un solo uomo ucciso dall’Isis nei cinque anni in cui ha vissuto nel Califfato: “Credo fosse un poliziotto, a Raqqa”.

Anche nell’ultima enclave jihadista di Deir Ezzor, in una delle battaglie più sanguinose degli ultimi anni, nega di aver preso parte attiva ai combattimenti: “Non l’ho fatto, inutile che insistiate – dice – Se volete ve lo dico, ma non è vero. A Baghuz c’erano ormai pochi combattenti, molti meno rispetto all’inizio, perché ormai era rimasta l’ultima sacca di resistenza, era tutto finito, game over. E poi, anche se avessi voluto, non avrei potuto a causa di un legamento del ginocchio rotto”.

Menzogne, secondo quanto ci dicono più volte i rappresentanti delle Sdf che hanno in custodia oltre 12.000 combattenti: “Fate attenzione ai foreign fighter europei. A sentire loro, nessuno è colpevole. Ma mentono, mentono tutti”.

“Quello che posso dirvi su di me è che non combattevo. Ve lo direi – ribatte Haddouchi – Sono in prigione, perché dovrei mentire?”.

Il motivo c’è e il Boia di Raqqa lo conosce: il destino dei foreign fighter europei nelle carceri delle Sdf è ancora incerto. Le milizie a maggioranza curda hanno prima sollevato il problema, preoccupati da una possibile invasione turca che potrebbe provocare la fuga dei prigionieri, poi hanno chiesto l’istituzione di un tribunale internazionale speciale nel Rojava che giudichi i crimini dei combattenti jihadisti. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno invitato i vari Paesi, soprattutto europei, a farsi carico dei combattenti di casa loro. Stati come Tunisia e Marocco stanno riportando indietro i terroristi partiti dalle loro città, mentre la Germania ha iniziato a riprendersi donne e bambini. Gli altri, con Gran Bretagna e Francia in testa, non ne vogliono sapere.

Non vuole essere processato da un tribunale internazionale, ci dice, “voglio essere giudicato nel mio Paese”. Questo perché spera di “ricominciare”, pagare per i crimini di cui si è macchiato e “rifarmi una vita in Belgio, una vita normale: avere un lavoro, prendermi cura della famiglia, mandare i figli a scuola e così via”. Il grande spettro rimane l’Iraq: Baghdad, a giugno, aveva già condannato a morte oltre 3.000 jihadisti. E la prospettiva di un trasferimento nel Paese confinante terrorizza anche il Boia di Raqqa: “Certo che ho paura. È normale, è umano. Non sono venuto qui con l’intenzione di morire per il Califfato, ma di vivere nel Califfato. Se avessi voluto morire, non avrei portato qui la mia famiglia”.

L’ipotesi in cui sperano i jihadisti, sia dentro che fuori dalle carceri curde, è quella di una nuova offensiva militare di Ankara nel nord del Paese, dopo quella di Afrin. L’idea di un’invasione turca strappa un sorriso anche ad Haddouchi: “Tutti vogliono essere liberi, è normale”. Sui sospetti legami tra Stato Islamico e Turchia, il membro delle Bandiere Nere si sbottona di più. La sua responsabilità, come durante tutta l’intervista, viene negata, ma dice di “aver sentito dei racconti” di flussi di persone e prodotti dal Paese della Mezzaluna. “Non ho visto niente, ma so che Daesh comprava un po’ di prodotti da Bashar (al-Assad, ndr), un po’ dalla Turchia e un po’ da altri gruppi presenti nel Paese. Ecco perché i prezzi nel Califfato erano un po’ più alti. Combattenti Isis curati negli ospedali turchi? Ne ho sentito parlare”.

Anouar ostenta sicurezza per tutta l’intervista: sempre sorridente, a tratti scherza sulla sua esperienza e parla della sua scelta come di una stupidaggine, una decisione presa troppo in fretta e dalla quale non poteva più tornare indietro. E perché hai deciso di avere due dei tuoi quattro figli in un luogo in cui non volevi vivere, dove non ti sentivi al sicuro? Ci pensa un po’: “Sai, non puoi chiedere a tua moglie di privarsi della gioia di avere figli. Abbiamo provato a condurre una vita normale”.

Ma il suo sorriso si increspa fino a diventare una smorfia quando gli viene chiesto se fosse in contatto con le cellule terroristiche belghe che hanno sferrato gli attacchi di Parigi e Bruxelles. I suoi occhi si spalancano, rimane muto per qualche secondo, poi risponde semplicemente “no”. Non è più sicuro che la sua identità sia rimasta ben protetta, il dubbio di una condanna pesante, che lo costringa a dimenticarsi della “vita normale” che adesso dice di sperare, si insinua nella sua testa. Non è più sicuro che il mondo non conosca la sua storia all’interno dello Stato Islamico: quella del Boia di Raqqa, finanziatore di attentati in Europa e legato agli uomini che, nel 2015 a Parigi e nel 2016 a Bruxelles, hanno tolto la vita a oltre 120 persone.

“Il bilancio Ama è ancora fasullo” Roma non firma

“Il bilancio di Ama Spa ancora non va bene e non verrà approvato”. Firmato, il direttore generale del Campidoglio. La guerra sui conti della municipalizzata dei rifiuti di Roma non finisce mai. Dopo gli eventi che nel febbraio scorso hanno portato alle dimissioni dell’assessora Pinuccia Montanari e alla rimozione del cda presieduto da Lorenzo Bagnacani, anche i nuovi vertici scelti dalla sindaca Virginia Raggi non hanno corretto nel progetto di bilancio 2017 i presunti errori segnalati dal Comune – e socio unico – iscrivendo fra i crediti gli ormai famigerati 18,3 milioni di extra-costi sui servizi cimiteriali del periodo 2006-2011. Né più né meno, la stessa linea di Bagnacani, che nel frattempo ha presentato una richiesta risarcimento danni monstre al Campidoglio di 17 milioni.

“Le confermo che allo stato attuale è già emerso un problema assolutamente ostativo alla approvazione del progetto di bilancio nella sua attuale configurazione”, ha scritto il direttore generale capitolino Franco Giampaoletti, il 25 settembre, in una lettera indirizzata al presidente dell’Ama, Luisa Melara. Presa di posizione che, a quanto trapela da fonti vicine a entrambe le parti, rischia di aprire una nuova crisi che potrebbe portare all’ennesimo cambio al vertice della società capitolina.

La querelle sui servizi cimiteriali è figlia di anni di gestioni allegre dell’azienda. I 18 milioni derivano da presunti extra-costi sul contratto di servizio, per i quali Ama non ha mai presentato fattura a Roma Capitale e perciò non vengono riconosciuti. Dunque, non possono ancora comparire in bilancio, se non in un fondo rischi. Ma c’è di più. Ci sono altri 42 milioni di crediti Ama che il Campidoglio ha chiesto – per ora – di svalutare del 30% e sui quali è in corso un’attenta verifica di congruità supervisionata dalla sindaca Raggi in persona (che ha anche l’interim ai Rifiuti). Quasi 2 mila fatture di lavori eseguiti in somma urgenza – quindi senza appalto – negli 11 cimiteri capitolini dal 2006 al 2014: una per una, i ragionieri ne stanno verificando la “congruità” per capire se sono state gonfiate. E a quanto risulta al Fatto sta uscendo fuori di tutto.

Qualche esempio. A fine 2013 sono stati stanziati 500 mila euro per adeguare gli spogliatoi del civico 80 del cimitero Verano alle norme sulla sicurezza nel lavoro. Poi c’è il ripristino degli impianti di sollevamento montacarichi e monta feretri, sempre al Verano, da oltre 140 mila euro, assegnato a una delle ditte che più di frequente è stata “interpellata”, la stessa che si è occupata della videosorveglianza e di “opere per la viabilità” al Tmb di Rocca Cencia per oltre 360 mila euro.

Altri lavori sospetti riguardano 2 milioni di euro spesi per una chiesa al cimitero Laurentino, e centinaia di interventi straordinari sui loculi, cui non corrispondono dichiarazioni di urgenza. Fino a raggiungere la cifra di 42 milioni, appunto. “Alla conclusione del tavolo tecnico, la relazione verrà inviata in Procura”, assicurano da Palazzo Senatorio.

Ma c’è dell’altro. Secondo quanto risulta al Fatto, in Campidoglio non hanno digerito l’operazione contabile effettuata sul cosiddetto “Centro carni”. In sintesi, nel 2010 la giunta Alemanno conferì nel patrimonio di Ama un terreno in zona Tor Sapienza, valutato 31,5 milioni, su cui insiste il mattatoio romano. L’area è stata poi spostata su un fondo immobiliare, con scadenza 2021, gestito dalla Bnp Paribas, per il valore dell’eventuale “rivalutazione” – edificazione immobiliare – pari a 137 milioni di euro, soldi iscritti in bilancio.

Ma in questi 9 anni nessun progetto è mai arrivato in Campidoglio e, dunque, nessuna variante urbanistica poteva essere approvata. Il 7 agosto scorso, l’attuale cda di Ama ha quindi deciso di svalutare di nuovo il terreno, riportandolo ai 31,5 milioni iniziali e facendo segnare un rosso d’esercizio pari a 105,5 milioni. Un’operazione che indispettisce i vertici capitolini, mancando ancora 2 anni alla scadenza del fondo. In questo modo, fra l’altro, la banca andrebbe a guadagnarci tre volte: dai 3 milioni l’anno di interessi sin qui incassati, dai 31,5 milioni che andrebbe a ottenere trattenendo l’area e dall’eventuale progetto di rivalutazione che potrebbe presentare dal 2021 in poi.

L’ultimo caso, latente, si trova nelle pieghe della relazione della società di revisione Bdo Italia Spa: crediti verso il Comune per ben 107,6 milioni che però risultano già pagate dal Campidoglio. In pratica, per anni, la municipalizzata ha considerato crediti fatture ampiamente saldate, per il 95% riferibili alle compensazioni sulla Tari. Una bomba contabile che rischia di far deflagrare la società.

Ilaria&José: lo Special One e la special gaffeuse

Era dai tempi di Mike Bongiorno che non si vedeva un produttore di gaffe doc quale Ilaria D’Amico. In Mike però spirava il genio della topica, quindi il dubbio amletico (“È o non è voluta?”). In Ilaria, no. Le papere affiorano al suo microfono sorgive, a frotte, e il mondo ha potuto constatarlo quando l’astuta Fifa ha affidato il suo galà alla wonder woman del nostro giornalismo sportivo. Ilaria oltre Chiasso non la conosce nessuno? No problem. In compenso le star del calcio, il solo showbiz davvero globale, non conoscono confini (purtroppo per lei). Siccome le piacciono i bersagli grossi, eccola accogliere sul palco della Scala José Mourinho con uno scoop stellare: “Nel prossimo futuro incontreremo gli alieni e nascerà una Coppa Interplanetaria”. Ciumbia. “Chi mai potrà allenare la Nazionale terrestre?”. Quando Mou capisce di aver capito bene nonostante la domanda e nonostante l’accento (D’Amico deve avere lo stesso professore d’inglese di Matteo Renzi), prova a schermirsi: “Eh, ci vorrà un allenatore che non abbia già un’altra squadra…”. E qui Ilaria mette il turbo. “Ah sì? Suona come una candidatura, visto che lei è disoccupato!”. Fermate le rotative: Mourinho si candida alla Coppa Intergalattica. “Grazie per la sua onestà. Ma dove va, mister?”. Allo Special One non è rimasto che darsela a gambe di fronte alla Special Gaffeuse, però il siparietto ha già iniziato a fare il giro del mondo in Rete.

Siamo alle solite: non ci conosce nessuno, però sappiamo farci riconoscere.