Contro i cambi di casacca, basta un “recall”

La senatrice Silvia Vono, eletta nei 5 Stelle, ma passata a Italia Viva, e i 40 parlamentari Pd che, dopo essere approdati a Roma grazie ai voti degli elettori dem, hanno lasciato il partito per fondarne un altro, devono ringraziare il cielo di essere nati in Italia. Sì, perché se avessero fatto politica in California, nel Wisconsin o negli altri 18 Stati Usa che prevedono l’istituto del recall, i nostri allegri cambia-casacca ci avrebbero pensato non una, ma cento volte, prima di sfidare la volontà dei loro elettori. Ma non perché, come vorrebbe Luigi Di Maio, in quegli Stati sia in vigore il vincolo di mandato. A spingerli a una riflessione maggiore, più rispettosa del pensiero di chi aveva creduto in loro, sarebbe stato un rischio, o per meglio dire, una possibilità. Quella che le rispettive leggi costituzionali statali danno agli elettori di raccogliere firme per votare la revoca dagli incarichi. Nel Wisconsin la consultazione popolare può essere richiesta da un numero pari al 25 per cento dei voti espressi nell’ultima tornata elettorale per la carica di cui si vuole discutere la prosecuzione. Se entro dieci giorni dal deposito della petizione l’eletto non si dimette riparte la competizione tra diversi candidati. La soglia di firme alta e una norma che permette la raccolta solo dopo un anno di mandato, evita che il recall possa essere usato troppo facilmente da avversari politici interessati solo a rendere più difficile il lavoro di chi sta nelle istituzioni.

L’effettivo utilizzo del recall è insomma raro. Ma la sola esistenza di un istituto del genere (presente anche in Svizzera, in Lettonia, in parte dell’Argentina e in Colombia) ha degli importanti effetti. L’eletto sa di doversi comportare bene. Se la fa troppo grossa o le sue scelte suscitano disapprovazione, rischia. Ma se non si riescono a raccogliere le firme, o se dopo il voto scatta la riconferma, l’esisto del fallito recall basta per far capire che ai cittadini non importa granché della questione. Così nel 2012 nel Wisconsin gli elettori hanno confermato in carica con il 53 per cento dei voti il governatore repubblicano, Scott Walker, che un anno prima aveva approvato delle norme per ridurre il potere dei sindacati nel pubblico impiego e per imporre ai dipendenti dello Stato di spendere di più per le assicurazioni previdenziali e sanitarie. Nel 2003, invece, la California scelse grazie al recall come proprio governatore Arnold Schwarzenegger al posto dell’ormai impopolare democratico Gray Davis. Ecco allora perché, secondo noi, invece che pensare all’abolizione del vincolo di mandato (cosa che a questa rubrica non piace per nulla), la strada da seguire è quella di dar voce ai cittadini. In nome – attenzione – non della democrazia diretta, ma di quella rappresentativa. Perché nessuna persona onesta può sostenere che un Parlamento in cui, nella passata legislatura, 208 deputati e 140 senatori hanno cambiato gruppo (spesso più volte), sia rispettoso del mandato popolare. Ieri, del resto, anche il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, ha fatto sapere di aver ben presente il problema. “Siamo anche noi contro il trasformismo”, ha detto Delrio, “ma lo si combatte con altri strumenti, non introducendo il vincolo di mandato, che altera la nostra Costituzione”. Bene, visto che nei prossimi mesi la Costituzione dovrà essere comunque cambiata alla luce dell’imminente taglio dei parlamentari, c’è l’occasione per introdurre la possibilità di revoca. Una legge che non cambia lo spirito della Carta, ma che invece lo preserva da chi coi suoi comportamenti continua a infangarlo.

Per battere Salvini mutate l’agenda

Quando in una comunità, con la complicità del sistema mediatico, si diffondono la paura e l’insicurezza è inutile pensare che parlino i fatti, come i centinaia di morti in mare o le donne e i bambini in condizioni estreme. Non sempre i fatti parlano da soli, letti come sono secondo codici non sempre coerenti con la verità degli eventi. E in un contesto come quello attuale le letture aberranti sono frequenti: succede allora che la capitana Carola che salva i naufraghi, che è un fatto, viene visto come l’azione, forse anche un po’ arrogante, di una giovane tedesca di buona famiglia che invece di portare i migranti nel suo Paese li mette a carico del nostro.

Dico questo perché solo così si possono spiegare i risultati scioccanti di un sondaggio Demos di qualche settimana fa che mi pare nessuno ha avuto il coraggio di commentare a fondo. Dati che dicono che tra gli elettori 5stelle alla domanda ‘stai con Carola o con Salvini?’ solo un quarto risponde di stare con la Capitana (gli altri o non si schierano o, la maggior parte, stanno con Salvini), mentre tra quelli del Pd non solo un 10% si schiera con Salvini, ma ce n’è un 60 che non si schiera né con l’uno e né con l’altra. Il che significa che solo una minoranza degli elettori Pd e 5stelle sono dalla parte di Carola, mentre la stragrande maggioranza o sta con il Capitone o non prende posizione.

Numeri che illuminano sul senso comune che ha spinto nei sondaggi Salvini, proprio nei giorni della crisi migratoria, ai massimi storici nonostante gli errori politici, il caso Siri, i comportamenti intimidatori e le non poche ombre morali. Occorre allora fare una considerazione. Per giocarsi fino in fondo la sfida del consenso occorre impegnare terreni altri di scontro politico, diversi e lontani da quelli securitari. Cambiare spartito (non partito). Se la sinistra e il M5S ora alleati continueranno a farsi dettare l’agenda dal capo della Lega la sconfitta è certa. Migranti e sicurezza non possono restare perennemente al centro del dibattito. In questo senso, purtroppo, sono politicamente inutili, o controproducenti, tutti quei nobili gesti che in passato alcuni dirigenti della sinistra hanno messo in atto sul tema immigrazione, e lo erano perché pur altamente ispirati non facevano che mettere di più a fuoco nei media le questioni care alla propaganda salviniana. Per sgonfiare i consensi alla Lega occorre prima di tutto uscire dal frame di paure quotidiano che il suo leader perversamente alimenta, ribaltando magari il tavolo del confronto. Come insegnava Lakoff è profondamente errato assecondare il frame narrativo dell’avversario: bisogna imporre un’altra “cornice” o almeno provarci. Rispondere colpo su colpo sui migranti non basta se non si muta l’agenda. Che fare allora?

Quella delle fabbriche che chiudono, che delocalizzano, che licenziano, ad esempio, è una questione che tocca migliaia e migliaia di famiglie, milioni di persone; sanità, mezzogiorno, evasione fiscale sono temi altrettanto caldi e sentiti. Occorre, se si vuole vincere, da un lato sminare la questione migranti e dall’altro sovrapporvi altro con una iniziativa persistente che sposti l’asse della discussione pubblica. Non mancano al Pd ma soprattutto ai Cinquestelle le risorse comunicative e social per fare di ogni maledetto giorno un giorno utile a rappresentare nell’arena mediatica il tema del lavoro che non c’è o del sud che muore o della sanità che arretra. Per vincere la guerra della comunicazione, oggi così essenziale in politica, la provocazione (“Provocare per vincere”, scriveva Eco su MicroMega nel lontano 2003) è un’arma irrinunciabile. Provocare, ripetere, ribaltare il tavolo, mutare scenario: è evidente che la sinistra e i suoi alleati avranno qualche chance di risalire nei consensi e riprendersi il paese solo se sapranno sostituire il frame che incornicia il dibattito odierno con uno proprio, evitando di subire, o involontariamente assecondare, quello degli avversari.

San Francesco era meglio di Greta

Solo in un’epoca ipocrita, superficiale, ipnotizzata dai media, attenta al clamore e ignara della sostanza, si poteva creare un fenomeno come quello di Greta Thunberg diventata nel giro di un solo anno una superstar, invitata all’Onu e corteggiata dai grandi della Terra e anche da importanti e globalizzanti imprese del mondo. Il problema non è Greta i cui obiettivi sono sacrosanti anche se incompleti (salvare la Terra e gli uomini che la abitano dall’inquinamento).

Il fatto è che Greta e le anime belle che la seguono, credo in buona fede (le grandi imprese sono invece in totale malafede perché sanno benissimo che dal vibrante discorso della ragazza non sortirà nulla) sembrano non rendersi conto che per salvarci non solo ecologicamente, ma per salvare, cosa ancora più importante, la qualità della nostra vita, bisognerebbe sradicare completamente l’attuale modello di sviluppo. Bisognerebbe cioè, come sostengono alcune correnti di pensiero americane, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, “ritornare in maniera graduale, limitata e ragionata, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per il recupero della terra e il ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”. Bisognerebbe tornare a una vita più povera e più semplice. San Francesco che coniuga insieme il rispetto della natura (cioè della terra, dell’aria, dell’acqua, del vento e di tutti i fenomeni che l’accompagnano) con la povertà aveva capito tutto. Il fraticello di Assisi che non a caso era figlio di un mercante capì per primo, con cinque secoli di anticipo, che l’ascesa di quella classe sociale, fino ad allora disprezzata da quasi tutte le culture del mondo, ci avrebbe portato alla situazione in cui ci troviamo oggi. Il problema dell’inquinamento è addirittura di secondo grado, perché l’uomo è un animale molto adattabile, superato in questo solo dal topo. In primo piano c’è la nostra vita che la Rivoluzione industriale, col trionfo progressivo della Scienza tecnologicamente applicata e dell’Economia, ha reso complessa, faticosa e in definitiva disumana. Insomma bisogna tornare a essere più semplici e ragionevolmente più poveri (un accenno a questa consapevolezza nel discorso di Greta Thunberg c’è quando si scaglia contro il mito della crescita infinita). Se Greta e coloro che la seguono sono disposti a fare nella loro vita molti passi all’indietro noi siamo con loro. Sono la produzione e il consumo che vanno radicalmente ridimensionati. Altrimenti tutto si ridurrà alle truffe della green economy e della bio, che non solo sono pannicelli caldi di fronte all’enormità del problema, ma si risolveranno in un ulteriore rilancio dell’attuale modello di sviluppo e per questo sono viste con favore dalla grande imprenditoria internazionale. In quanto ai 500 scienziati che hanno inviato una lettera all’Onu vantando la loro competenza contro l’incompetenza di Greta e dei suoi è un modo di sgravare la propria coscienza sporca perché è proprio l’idolatria della scienza, non messa in discussione da nessuno, mi pare nemmeno da Greta, che ci ha portato al modello disumano in cui oggi viviamo.

Tutte, o quasi, le cose di cui si sta anfanando in questi giorni io, senza la pretesa di essere un “illuminato” come Francesco (lui, frate, crede in Dio, io no) le avevo scritte 35 anni fa ne La Ragione aveva Torto?, dove per Ragione va intesa quella illuminista diventata il solo Dio unanimemente riconosciuto, insieme al Dio Quattrino suo stretto congiunto. Ne La Ragione facevo piazza pulita di tutti i luoghi comuni che hanno portato i vincitori illuministi a definire “bui” i secoli del Medioevo europeo, mentre i secoli veramente bui, secondo il mio modo di vedere, sono quelli che abbiamo vissuto a partire dalla Rivoluzione industriale e che ancora stiamo vivendo in forme sempre più oppressive.

Comunque non ci sarà lotta che potrà abbattere il mostruoso apparato che abbiamo costruito e in cui ci siamo infognati. Crollerà da solo sotto il suo stesso peso. Ma ai giovani, e non solo a loro, e in questo Greta torna ad avere una ragione piena, bisogna lasciare almeno la speranza: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà come diceva Antonio Gramsci.

Mail box

 

Stop alle liti temerarie, la stampa deve restare libera

Ogni giorno ha la sua pena: è di ieri la notizia che Renzi (ma prima di lui anche molti altri) avrebbe dato mandato ai suoi legali di querelare questo giornale. Certo non è una novità che molti politici cerchino di condizionare o intimorire la libera stampa (e solo quella), che cerca di fare onestamente il suo lavoro. Occorre perciò che la legge contro le liti temerarie acceleri il suo iter parlamentare (dove immagino troverà ostacoli dai soliti noti) per impedire l’uso di querele per scopi diversi dalla tutela della propria onorabilità, ovvero condizionare la libera opinione di un giornalista. Basterebbe adottare il sistema americano e probabilmente perderemmo le tracce di molti politici che fanno i bulli, contando sul fatto che non pagheranno dazio per le loro spesso ingiustificate e pretestuose accuse.

Leonardo Gentile

 

La sbornia di potere di Renzi continua con un nuovo partito

Renzus Interruptus. Analizziamo: da quanto tempo Renzi è entrato in politica? È stato presidente della Provincia, 2004-2009; sindaco di Firenze, 2009-2014; presidente del Consiglio, 2014-2017; segretario del Pd, 2017-2018; senatore, marzo 2018-agosto 2019. Giunto a non essere più capo di niente, se non dei “suoi” in Senato, è partita la crisi d’astinenza dal potere, condita da profumatamente retribuite conferenze in giro per il mondo e da documentari di divulgazione scientifica su Firenze e la sua storia (altrettanto abbondantemente corrisposte). Fino a che, fra un popcorn e l’altro, sfocia nella scissione dal Pd. E via… Di nuovo a capo del partito Italia Viva, stavolta.

Francesco Ferdico

 

Italia Viva, soprattutto in tv: chi non muore si rivede!

Si stanno facendo una serie di elucubrazioni sul motivo della nascita del partito di Renzi, Italia Viva. Perché una volta per tutte non si dice che è stato costituito solo per:

1) Poter prendere una serie di sovvenzioni; 2) Riapparire in Tv.

Infatti da più giorni i politici legati a Italia Viva, che erano scomparsi dai teleschermi, sono magicamente ricomparsi. Adesso su La7 è ospite d’onore Matteo Renzi, personaggio che fino a pochi mesi fa sembrava sparito dalle reti televisive. Attendo dunque il ritorno di Maria Elena Boschi dal Trentino Alto Adige (dove è stata eletta sebbene non c’entrasse nulla).

Nino Apolloni

 

La lotta vera all’evasione fiscale passa da confische ed espropri

Penso tutto il bene possibile del premier Conte, però credo che si sia lasciato prendere dall’enfasi nelle promesse sulla lotta all’evasione fiscale con la previsione del carcere intimidatorio. Una previsione che in altre epoche non si è rivelata un deterrente, e ha generato poche condanne. Per recuperare il gettito si è previsto un condono fiscale, che è l’antitesi della lotta alla evasione. Se si vuole fare sul serio un piano anti-evasione da affiancare al Def, si rafforzino con il reclutamento i procuratori fiscali, sia quelli preposti al controllo sul campo di imprese e contribuenti, affiancandoli alla Guardia di Finanza, sia quelli che devono stilare gli accertamenti tributari (in calo pauroso secondo le statistiche). E, invece della previsione del carcere per gli evasori, perché non prevedere il rimborso del maltolto allo Stato, pena la confisca e/o l’espropriazione dei beni sino alla compensazione dell’importo dell’evasione medesima?

Luigi Ferlazzo Natoli

 

La prassi dello “spoils system” pregiudica la crescita locale

Sono di sinistra e non sono certo un elettore del sindaco FI di Pescara, Carlo Masci. Tuttavia ritengo che non debba essere rimproverato pregiudizialmente del fatto di aver lasciato al loro posto i dirigenti della precedente giunta. Il più delle volte i politici sono accusati di applicare un odioso spoils system (la prassi per la quale i dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il mutare del governo). Spesso si sacrificano, infatti, le capacità maturate sul campo. Diverso è il discorso relativo ai faraonici incrementi elargiti ai dirigenti regionali accordati dal governatore abruzzese Marco Marsilio…

Giuliano Mascitelli

 

Gli insulti degli imbecilli “social” come prevedeva Eco

Greta Thunberg è una ragazzina intelligente e determinata, che i media hanno elevato a eroina della lotta ai cambiamenti climatici. Non dice nulla di nuovo che già i potenti della Terra non sappiano, ma è un bene che faccia sentire la sua voce. Di sicuro dà più visibilità mediatica ai problemi seri che abbiamo di fronte, rendendo il messaggio globale. Solo per questo meriterebbe la nostra gratitudine.

Eppure (Umberto Eco docet) gli imbecilli che sparavano idiozie dopo un bicchiere di vino e venivano subito messi a tacere, ora approfittano di una platea più ampia di un bar per cianciare di argomenti che non conoscono, o che vanno oltre la loro capacità di discernere. Sui social è un florilegio di ghigni, insulti e battute surreali, come fosse una gara di rutti, anche verso Greta.

La questione che mette in pericolo l’umanità intera, il riscaldamento globale, con gli sconvolgimenti climatici e gli incubi che popoleranno la vita degli uomini nei prossimi decenni, sembra invece non appassionarli affatto.

Mario Frattarelli

Il nuovo stadio serve alla comunità o il calcio è solo il paravento di dubbi affari?

Premetto che vivo a Bologna e non conosco così bene Milano, ma vorrei sottoporvi una riflessione sul nuovo stadio di Milan e Inter. L’ad rossonero, Paolo Scaroni, ha affermato che il nuovo impianto, per il quartiere di San Siro, sarà l’occasione di trasformarsi da “non luogo a parte viva della città”. Non dovrebbero essere la cultura e i luoghi di aggregazione sociale a determinare il riscatto di un quartiere? Questa operazione invece mi sembra un regalo ai costruttori più che ai cittadini.

Fabio Ruzziconi

 

Ero rimasto a San Siro come alla “Scala del calcio”. Il punto geografico dove la migliore espressione dello sport nazionale, interpretato per anni da Inter e Milan, si rappresentava nel teatro di maggior prestigio, solenne e celebrato. Poi d’un tratto una dichiarazione dell’amministratore delegato del Milan: “San Siro non va più bene. Punto”. Quel punto, sillabato come una sentenza inappellabile, come fosse frutto di una lunga e drammatica discussione collettiva, mi ha sorpreso assai. Perché lo stadio San Siro, intitolato poi al grande Meazza, dev’essere demolito? E con questa fretta? È una necessità o una scelta? È la fine obbligata oppure una morte prematura? Lo si fa per il bene del calcio? Ma davvero? Si realizzano gli stessi metri cubi di cemento o si moltiplica il volume e il calcio, come sempre, è il destinatario ultimo dell’intervento o l’intermezzo che serve, la grande tenda dietro alla quale un mondo intero si muove, avanza, fa affari e conquista potere? E San Siro, quanto è costato? E quanti sono stati gli interventi di restauro? E altri cento milioni di euro serviranno, si dice, solo per buttare giù tutto quel ben di Dio. Sarebbe giusto che se non gli amministratori di Inter e Milan, che sono società private, quelli del comune di Milano spiegassero e coinvolgessero nella scelta la comunità? Non solo il tifo organizzato. San Siro è un bene pubblico. Il calcio è bene pubblico. Milano è di tutti. Il sindaco Sala solo in un momento ha espresso alcune perplessità sulla giustezza, sulla inderogabilità della scelta. Poi il silenzio. Roma ha mostrato recentemente come lo stadio non fosse l’unica necessità alla base dell’investimento e come il cemento fosse il destino naturale di tutta l’operazione. Non è peccato fare impresa, anzi dobbiamo essere grati a chi investe. È peccato mortale però trasformare la realtà, assoggettarla, manipolando l’opinione pubblica, a urgenze che altrimenti non esisterebbero, tacendo propositi dichiaratamente inconfessabili. Solo Milano, per adesso, è rimasta muta. Guarda e passa.

Antonello Caporale

Maserati, il buco nero intorno all’elettrico

L’annuncio sarà pure storico, la Maserati sarà elettrica, ma non è certo una novità. A inizio anno il rallentamento delle vendite dell’ammiraglia sportiva di lusso di Fca aveva preoccupato non poco il Gruppo. Una crollo proseguito nei primi sei mesi di quest’anno con le vendite scese del 33% e i ricavi del 62%. Al punto che si era pensato di correre ai ripari promuovendo un vero e proprio cambio di strategia.

Detto fatto. Il rilancio del Tridente da oltre 1,6 miliardi – che fa parte dei 5 miliardi complessivi investiti in Italia nei prossimi anni, secondo il primo piano industriale dell’era post Marchionne – fa parte di un’operazione che comprende una nuova gamma di modelli, in gran parte ibridi ed elettrici che Fca metterà in produzione negli stabilimenti di Modena, Cassino, Grugliasco e Mirafiori. I nuovi modelli saranno sviluppati, ingegnerizzati e prodotti al 100% in Italia e adotteranno sistemi a propulsione elettrica ibridi e a batteria e avranno come traguardo anche il livello di guida autonoma. Già nel 2020 Maserati avvierà il programma di elettrificazione, mentre la Ghibli, prodotta a Torino, sarà la prima vettura elettrica ibrida del marchio. Poi nel 2021 arriverà il nuova suv, la Levantina, costruito a Cassino. Del resto, da mesi Fca è alla ricerca di una soluzione per cercare di abbassare le emissioni di CO2 in vista dei limiti stringenti fissati dall’Ue per il prossimo decennio. E, dopo la vendita della Magneti Marelli per 5,8 miliardi (era una ramo di produzione industriale strategico sul fronte delle batterie), la prima azione intrapresa da Fca è stata un accordo da 1,8 miliardi con la Tesla di Elon Musk. Ma stabilimenti vanno comunque a rilento.

Al di là dei proclami, la situazione commerciale del colosso italo-americano non brilla, tanto da mettere in apprensione la Fiom Cgil, mentre si dicono soddisfatti Fim Cisl e Uilm. “Il piano di lancio di nuovi modelli non garantisce l’occupazione degli stabilimenti interessati, visto l’aumento dell’incidenza della cassa integrazione negli ultimi mesi. È impossibile affermare che sono risolti i problemi per i lavoratori”, spiegano Francesca Re David, segretaria generale Fiom Cgil e Michele De Palma, responsabile automotive. Tanto che a Grugliasco su 1.605 operai, 871 sono coinvolti dalla cassa integrazione; a Pomigliano su 4.500 ne sono 2.300 e a Melfi su 7.205 arrivano a 3.458.

Reddito, a vuoto le prime chiamate “Diserta fino al 40%”

La cifra è elevata e, se si dovesse confermare nei prossimi mesi, sarebbe un bel problema. Stando a una prima ricognizione effettuata da poche Regioni, il 40% dei beneficiari del reddito di cittadinanza convocati dai centri per l’impiego non si è presentato all’appuntamento. A differenza di come si potrebbe pensare, però, non tratterebbe di una diserzione di massa volontaria; a giustificare quella percentuale, significativa ma ancora molto grezza, sembrerebbero essere stati i tanti problemi di comunicazione con gli utenti. Almeno stando alle prime impressioni che vengono dalle Regioni. E a risentirne è il tasso di risposta ben al di sotto delle attese.

Continuano gli intoppi alla fase due della misura contro la povertà voluta dal Movimento Cinque Stelle. Mercoledì pomeriggio si sono riuniti a Roma quasi tutti i venti assessori regionali al Lavoro, coordinati da Cristina Grieco, titolare della delega in Toscana. Prima il tavolo tecnico, poi il confronto politico. Durante la discussione è venuto fuori che, là dove sono riusciti a fare i calcoli, due percettori su cinque hanno disertato. Il campione è ancora ridotto, ma il dato non può essere trascurato. “Non so quanto qsia testato – spiega Grieco al Fatto – è emerso dall’incontro dei tecnici e non da un monitoraggio ufficiale. Comunque, a prescindere dal numero preciso, c’è una quota importante di persone che non ha risposto alla convocazione e stiamo cercando un rimedio”. Insomma, per quanto si tratti di una statistica da prendere con le pinze, e soprattutto da non strumentalizzare, gli assessori vogliono vederci chiaro e parlarne con la neo ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Sembra infatti che a influire sia stata una serie di difetti organizzativi che ora bisogna risolvere, anche applicando dei correttivi. Secondo la legge che ha istituito il reddito di cittadinanza – va ricordato – tutti i beneficiari attivabili devono firmare il patto per il lavoro entro un mese dal ricevimento della carta acquisti. Il crono-programma effettivo, in realtà, è stato molto più lento. Per il contingente ammesso prima del 31 luglio, tra i quali sono 700 mila quelli da avviare al lavoro, gli sms (o le mail) sono stati inviati soltanto a partire dal 2 settembre. È passato un bel po’ di tempo, quindi, e in questo lasso ci sono anche persone che – per esempio – hanno cambiato residenza. C’è pure un altro fattore che ha causato blocchi: molte domande di reddito di cittadinanza riportano soltanto il numero di telefono del “capo-famiglia”, cioè di chi ha materialmente firmato i moduli. La norma, però, impone la ricerca attiva di un impiego anche per tutti gli altri componenti del nucleo con i requisiti. Ecco perché in molti casi le convocazioni sono arrivate materialmente a una sola persona, anche se il sistema ritiene di averla inviata pure agli altri famigliari. Questo cortocircuito ha ingrassato il gruppo dei “disertori” in buona fede. E tra i tecnici che seguono il dossier, c’è anche chi sostiene che gli sms non siano scritti in modo particolarmente chiaro, quindi si prestino a facili equivoci.

L’obiettivo ora è far partire una grande campagna di informazione a livello nazionale, per far tornare alta l’attenzione sui doveri ai quali sono chiamati i poveri raggiunti dal sostegno economico.

Mentre la Toscana e l’Emilia Romagna sembrano abbastanza in linea con il dato del 40%, la Sicilia, il Lazio e il Veneto fanno sapere di non poterlo confermare né smentire, perché è ancora troppo presto e non hanno svolto rilevazioni nemmeno informali. In Lombardia, invece, la percentuale risulta essere più bassa. In Campania, territorio con il più alto numero di persone da avviare al lavoro, i centri per l’impiego sono addirittura ancora impegnati a stipulare le firme sui patti del Reddito di inclusione, la misura approvata a inizio 2018 dal governo Gentiloni e prossima ad andare a esaurimento. In ogni caso, le Regioni non vogliono adottare la linea dura; prima vogliono che parta l’assegno di ricollocazione, cioè il bonus formazione che i percettori della card “di cittadinanza” dovranno spendere per la ricerca intensiva di un posto di lavoro. Una volta messa a regime questa politica attiva, allora si potrà applicare la cosiddetta condizionalità, ovvero le sanzioni per quelli che non dovessero partecipare alle iniziative di orientamento organizzate dai centri per l’impiego. Se anche dopo tutte queste misure, l’alta percentuale di disertori dovesse essere confermata allora

“Roma va rispettata dal governo. E col Pd serviva un contratto”

Il 5Stelle dalle mille incarnazioni si è spostato solo di palazzo, ma il trasloco di pochi metri vale come un cambio di prospettiva e chissà se di vita. Max Bugani, già vice-capo segreteria di Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, diventa capo staff della sindaca di Roma, Virginia Raggi. E il socio dell’associazione Rousseau, quella di Davide Casaleggio, il salto lo spiega così: “Potevo accettare incarichi in alcuni ministeri, economicamente più vantaggiosi, ma penso di poter essere più utile in Campidoglio”.

Perché a Roma, un Comune e una città con mille problemi?

Tutti noi del Movimento dobbiamo qualcosa a Virginia e alla sua squadra. Lei è la sindaca che si è opposta ai Casamonica, agli Spada e a CasaPound. Merita tutto l’aiuto possibile.

I rapporti tra il M5S nazionale e il Campidoglio sono stati spesso molto complicati. Lei vuole fare da mediatore?

Spesso da certi media è stato dato un racconto di Roma lontano dalla realtà, e ciò ha generato distorsioni e momenti di tensione. Il fatto che uno con una lunga militanza come la mia abbia scelto di lavorare in Comune mostra come il rapporto con il M5S non si sia affatto logorato.

Raggi è anche la sindaca dei continui cambi in giunta e dell’emergenza rifiuti. E i racconti c’entrano poco.

La sua giunta ha ereditato un’amministrazione con i conti in rosso e divorata dalle mafie. In questi anni ha riportato stabilità finanziaria ed etica, ed è incontestabile.

Di Maio come ha preso la sua scelta?

L’ho informato, e anche lui ha riconosciuto che sarei stato utile in Campidoglio.

Per fare cosa?

Farò quello che ho sempre fatto, portare avanti e difendere i principi e le persone del Movimento.

Casaleggio ha piazzato un suo uomo nel cuore del Campidoglio. Difficile negarlo, no?

Sono nel M5S da dieci anni, e una volta vengo dipinto come l’amico di Grillo piuttosto che come il braccio destro di Di Maio o l’uomo di Casaleggio. Io sono legatissimo a Davide e al suo progetto, ma sono pienamente autonomo. E ho scelto da solo di essere qui.

Quali sono le priorità per Roma? Raggi invoca da tempo più risorse e poteri.

Roma è una città-stato, e il governo deve rispettarla.

Bisognerà parlarne a fondo con il Pd, anche se lei era molto scettico sul- l’accordo di governo con i dem…

Era l’unica strada percorribile, perché in agosto Matteo Salvini ha fatto una follia tradendo i 5Stelle e gli italiani. E poi molti parlamentari non avrebbero permesso il ritorno al voto. Detto questo, quello con il Pd rimane un percorso con rischi e insidie in ogni angolo, perciò avevo suggerito di prendere più tempo per redigere un contratto di governo con impegni precisi e vincolanti. La nostra gente ha bisogno di metabolizzare tutto questo.

Deve metabolizzare anche l’accordo in Umbria, fatto con un cambio di regole.

Sono tutte scelte molto complicate, e io come tanti iscritti vivo un momento di grande tormento interiore.

È in ballo anche un‘intesanella sua Emilia Romagna, dove il governatore dem uscente Bonaccini non ha alcuna voglia di farsi da parte.

Come dissi prima dell’accordo di governo, non si possono fare intese solo per paura della Lega e senza un progetto. Non è il momento delle fughe in avanti. Bisogna riflettere, e ammettere gli errori fatti. Dal Pd emiliano mi piacerebbe vedere cambiamenti radicali.

Raggi ha dato segnali di apertura al Pd anche a Roma. Condivide?

In questa fase serve dialogo, con tutti. Non me ne importa nulla delle sigle dei partiti. C’è bisogno di un accordo di civiltà, per fare cose concrete.

Intanto in Parlamento tira aria di fughe dai vostri gruppi. Una senatrice è passata con i renziani, un senatore pare prossimo a trasferirsi nella Lega. E anche alcuni deputati sembrano tentati dal Carroccio.

Questo è un momento molto delicato, a tutti i livelli. Tutti nel Movimento devono mostrare umiltà, impegno e capacità di sofferenza.

Di Maio ha riproposto il vincolo di mandato, e dal Pd hanno risposto con un muro di no.

Il vincolo è sempre stato tra le proposte del M5S. Detto questo, ritengo che sarebbe corretto dimettersi quando si lascia un gruppo parlamentare.

Diversi eletti chiedono a Di Maio più democrazia interna, “una fase costituente”. C’è chi vuole un nuovo capo politico. Lei che ne pensa?

Per qualche mese ho avuto rapporti non facili con lui, tanto che mi sono dimesso dalla sua segreteria. Luigi si era un po’ chiuso, isolato. Ma dopo le mie dimissioni si è riaperto, si è confrontato. Il suo ruolo di capo politico è difficilissimo, e la pressione è enorme. Molti di quelli che lo criticano non prenderebbero mai il suo posto.

Fuga dai 5 Stelle, Di Maio: “Ora vincolo di mandato”

Il malcontento a 5Stelle sale, e certi eletti scendono o vogliono scendere. Nel Senato dove i governi nascono e muoiono, la grillina Silvia Vono si è fatta renziana, mentre ieri un altro senatore, il giurista napoletano Ugo Grassi, ha seminato malumore sulle agenzie e ricordato che “con la Lega ho lavorato benissimo”, anche se per ora pare rientrato.

Aggiungere la tentazione di alcuni deputati, almeno 4 o 5, di passare con il Carroccio, e allora ecco perché il capo politico Luigi Di Maio da New York giura che, regole alla mano, chiederà “100 mila euro di risarcimento” a chi lascia il Movimento. Norma però inapplicabile, perché nella Costituzione non esiste il vincolo di mandato che i 5Stelle invocano da sempre. E infatti Di Maio riparte da lì: “Parlerò con il Pd, è il momento di introdurre il vincolo di mandato: se passi a un’altra forza politica te ne vai a casa”. Solo che i dem non sono affatto d’accordo. Così il capogruppo in Senato Marcucci è duro: “Mi auguro che Di Maio avesse voglia di scherzare, l’assenza di vincolo è importantissima”. E quello alla Camera Graziano Delrio conferma: “Il trasformismo lo si combatte con altri strumenti, non alterando la Carta”. Ma quelle parole sul vincolo suonano stonate anche a tanti 5Stelle, infuriati pure per il riferimento alla multa. Di Maio lo capisce, tanto che fa monitorare le reazioni sui social. E in serata smussa: “Sul vincolo di mandato esistono tante proposte, discutiamone”. Non è tempo di forzare, per il capo a cui chiedono di cambiare molto e di rimettersi in discussione. E il capo pare pronto a concedere. “Di Maio verrà affiancato da un direttorio di 12 persone di cui 4 sui territori” rilancia la capogruppo in Regione Lazio Roberta Lombardi a Otto e mezzo. Ma chissà se basterà agli scontenti, come l’ex ministra del Sud Barbara Lezzi: “Sono arrabbiata perché non abbiamo più il ministero del Sud? Certo. Il Movimento emargini l’irriconoscenza e la saccenteria”.

Poi c’è un altro senatore, Nicola Morra, che diffonde una sua proposta di riorganizzazione: “Ci servono incubatori di idee, luoghi di incontro interconnessi in Rete, dove grazie alla tecnologia sarà possibile contaminarsi e lavorare in gruppo”. In questo quadro, Di Maio non può permettersi la guerra sul vincolo. Così il ministro dei Rapporti con il Parlamento, il 5Stelle Federico D’Incà, suggerisce: “Contro i cambi di casacca si possono introdurre norme nei regolamenti delle Camere”. Nell’attesa, diversi parlamentari friggono. Grassi, sentito dal Fatto, ridimensiona: “Sulla Lega ho solo detto la verità, il resto sono esagerazioni. Ma dobbiamo finirla di insultare le opposizioni”. Però è inquieto, e come lui molti colleghi. Furibondi anche per le restituzioni alla piattaforma Rousseau, 300 euro al mese contro cui è stata quasi rivolta. Mentre alla Camera 4 o 5 deputati parlano fitto con la Lega. E non solo. “Alcuni 5Stelle sono venuti a chiedere informazioni” sussurra un renziano. Sorridendo.

 

L’assemblea-comizio coi dipendenti pagati

Doveva essere un’assemblea retribuita organizzata dal sindacato Fsi-Usae per risolvere il problema del parcheggio dell’ospedale di Foligno. E invece si è trasformata in un comizio elettorale in vista delle Regionali del 27 ottobre in Umbria.

Già dai partecipanti all’evento qualcosa si era capito, visto che tutti gli esponenti politici invitati erano esponenti della Lega: all’incontro hanno partecipato il sindaco Stefano Zuccarini, i candidati della Lega Valerio Mancini e Riccardo Polli e il segretario nazionale di Fsi, Paride Santi. Il tema viene da lontano, dal 2014, quando il sindacato consegna all’ex sindaco di centrosinistra Nando Mismetti 470 firme in cui si chiede la divisione del parcheggio dell’ospedale tra dipendenti e semplici cittadini e una maggior sicurezza nella zona. Mismetti si impegna, ma poi non fa nulla. Adesso, con le Regionali alle porte, il tema torna di attualità dopo casi di furti e danneggiamenti alle auto dei dipendenti. Ieri il sindaco e i due candidati della Lega si sono impegnati a risolvere il problema, anche perché – dovesse vincere la Lega – tra quattro mesi nominerà il nuovo direttore generale dell’Asl.

All’assemblea hanno partecipato 140 dipendenti su 270: tutti retribuiti, come prevede la legge. Il problema è che più che un’assemblea è sembrata un comizio elettorale: “Non è possibile che in Italia non si possa andare all’ospedale tranquilli” ha detto durante l’incontro Mancini (uno dei candidati leghisti). Il sindaco Zuccarini non era a conoscenza del fatto che i dipendenti dell’Asl avessero comunque diritto alla retribuzione: “Sono stato invitato per realizzare il parcheggio – dice al Fatto – Ma che i dipendenti fossero comunque retribuiti non lo sapevo”. Respingono l’accusa di un’iniziativa politica sia il consigliere regionale Mancini sia il segretario nazionale del sindacato autonomo Santi. Il primo spiega di essere andato a “centinaia di eventi” di questo tipo: “Non intervengo vestito da elfo verde della Lega ma come consigliere regionale – dice – Poi, non è che se uno è candidato si deve congelare in una cella frigorifera”. Anche Santi è d’accordo: “Non è stato un incontro da campagna elettorale, ho invitato il sindaco e i politici per risolvere il problema del parcheggio ai dipendenti. A me interessa solo tutelare i lavoratori e i cittadini”.