“Sabato Salvini porta gente. Dateci il 20% degli incassi”

La flat tax c’è già, in un lembo di Padania. La Lega di Matteo Salvini l’ha chiesta ai ristoratori e ai commercianti di Viadana, paesone sul Po in provincia di Mantova, a un passo da Brescello, il borgo di don Camillo e Peppone: il partito chiede il versamento del 20 per cento degli incassi che saranno realizzati sabato e domenica prossima, quando piazza Manzoni e tutto il centro saranno occupati dalla festa provinciale della Lega. Momento clou: il comizio di Salvini, alle 20.30 del 28 settembre, quando scoppierà la febbre del sabato sera.

Bar, ristoranti, trattorie, gastronomie del centro storico di Viadana hanno ricevuto nei giorni scorsi la richiesta di un “contributo in percentuale” sugli incassi dei due giorni della festa. La Lega aveva tentato di gestire in proprio la ristorazione, provando a organizzare stand e cucine mobili come quelle delle salsicce alla griglia ai bei tempi delle feste dell’Unità. Poi si era fermata, forse temendo di non riuscire a soddisfare il grande popolo leghista atteso nei due giorni e soprattutto il sabato sera. Ecco allora la proposta di coinvolgere i negozianti del luogo. Uscite dai vostri locali, venite a occupare gli spazi della festa all’aperto, nel centro del paese, allestite tavoli e banchetti, servite gnocco fritto e cotechino, riso con la salamella e guancialino, innaffiatelo con qualche bicchiere di buon rosso. Ma non dimenticate che i clienti ve li portiamo noi, dunque è gradito il “contributo in percentuale”. Queste le richieste della segreteria provinciale della Lega, il partito che amministra il paese in alleanza con una lista civica locale. Le richieste sono arrivate fino dentro il municipio, scatenando l’ira delle opposizioni.

Il Movimento 5 Stelle ha stilato un comunicato in cui esprime “perplessità sulle modalità di gestione della ristorazione durante la manifestazione. Può essere corretto coinvolgere i commercianti locali, ma ci sembra quanto mai discutibile la richiesta del partito di una percentuale sugli incassi”. Oltretutto, fa osservare il M5S, tranne la tassa sull’occupazione di suolo pubblico pagata dalla Lega, tutte le spese sono a carico dei ristoratori, che per svolgere attività all’esterno dei loro esercizi commerciali devono chiedere la “Scia”, la segnalazione certificata di inizio attività per manifestazioni temporanee, e pagare Comune e Asl.

Anche il Pd è insorto: “Ero presente anch’io”, ha dichiarato il consigliere dem Nicola Federici, “quando nella conferenza dei capigruppo in Comune è saltato fuori il discorso sulla percentuale da corrispondere al partito al termine della festa”. Conferma il civico Dario Anzola: “L’ho sentito pure io con le mie orecchie. E non avevo mai sentito una cosa del genere”. I leghisti spiegano che non c’è niente di strano: “Non è una imposizione, ma la richiesta di un contributo volontario”, ha dichiarato Romano Bellini, sindaco vicario. “Non chiediamo una percentuale fissa, ma una donazione al partito sarà ben accetta”.

Le polemiche crescono però anche dentro la Lega. Animate da Gianni Fava, leghista della prima ora, membro della segreteria nazionale del partito, ma oppositore interno di Salvini, a cui si è contrapposto presentandosi come candidato alternativo alla guida del partito: “È un giorno triste”, ha scritto sulla sua pagina Facebook. “Una cosa del genere non sarebbe mai successa in condizioni normali alla Lega Nord, nella quale ho militato per quasi 30 anni. Lo strampalato tentativo poi di dare spiegazioni (di fatto confermando la notizia) è quanto di più goffo mi sia capitato di leggere in questi mesi. Sia chiaro, ho la certezza della totale estraneità di Matteo Salvini. Purtroppo lui continua a pagare lo scotto di una classe dirigente assolutamente inadeguata. Che tutto ciò potesse avvenire nella città in cui vivo non era francamente prevedibile. E serve solo ad aumentare il mio stato di disagio. Sono certo prima o poi questo incubo finirà. Ma ammetto che questa traversata nel deserto sta diventando molto lunga”.

Dieci anni in libertà

Lunedì abbiamo festeggiato i nostri primi dieci anni in edicola: qui pubblichiamo altre lettere di auguri inviateci in questi giorni dai nostri lettori. Grazie a tutti per l’affetto, la passione e il sostegno. Continuate a scriverci e a leggerci numerosi.

 

Bravi, ma fate attenzione all’Europa dei banchieri

Desidero aggiungere i miei complimenti e auguri numerosi in questi giorni in cui Il Fatto Quotidiano celebra con successo il suo decennale anche con l’aumento di 20 centesimi che sulle tasche di un pensionato come me hanno il loro peso (i conti si fanno a fine anno)… comunque ben venga ormai ho messo da tempo Tg, tv e radio, giornali, tutti VELINE di una unica informazione “manipolata” oscenamente dai “padroni del vapore” e il Fatto rimane unica fonte (al momento) degna di credibilità, dovuta anche alla presenza di “due anime” diverse al suo interno capaci di riflettere aspetti diversi di uno stesso evento evitando la “via unica” dei velinari e delle loro menzogne preconfezionate “ad usum delphini”.

Ho, nel mio piccolo, convinto una ventina di amici a informarsi con il Fatto e si trovano bene, anche se (piccola critica) l’aumento delle pagine e degli articoli ritengo cominci un po’ ad appesantire la essenziale struttura iniziale in ciò rispecchiando un po’ l’andazzo di tutti i quotidiani. (…)

Il Fatto lo vorrei un po’ meno disponibile per questa Europa di banchieri di cui il Parlamento italiano rischia di diventare una protesi esecutiva. (…)

Maurizio Dickmann

 

Un biglietto d’auguri poco tecnologico

Cari amici del Fatto, mi chiamo Monica, ho 51 anni e vi leggo tutti i giorni! Come vedete non sono affatto tecnologica e ho scelto di mandarvi questo biglietto per farvi gli auguri di buon compleanno! Dieci anni insieme a voi sono volati! Continuate così perché siete fantastici!!!

Monica G. e famiglia

 

Vi ho “imposto” anche al bar

Sono un imprenditore nel settore dell’Architettura del paesaggio con una azienda presente sul mercato dal 1966. Ogni giorno mi ritrovo in prima linea con mio padre, il fondatore, 78 anni, mia sorella e, ultimo arrivato, mio figlio. Una classica azienda familiare italiana, e di questo siamo molto fieri. Seguo il giornale con attenzione ogni mattina e lo ritengo unico caposaldo di giornalismo di qualità in Italia.

Avendo a disposizione alla lettura almeno altri tre quotidiani, fra i maggiori, mi sono convinto che Il Fatto rappresenti un baluardo verso la dilagante moda di raccontare (o meno) fatti in base a mere questioni di opportunità, e mi riferisco nello specifico ai “giornaloni”. Questo è così vero che ho gentilmente ma fermamente suggerito al bar centralissimo della mia città di dotarsi de Il Fatto Quotidiano da offrire alla lettura degli avventori, insieme a tutte le altre testate, durante la colazione o la pausa caffè. Un modo alternativo, non allineato di vedere le cose.

Andrea Pellegrini

 

Sfido a trovare un fan come me

Vi sfido a trovare un altro ragazzo che vi segue sin dal primo giorno (all’epoca avevo 16 anni) e che ha tra i poster appesi in camera quelli delle prime due feste del Fatto Quotidiano in Versilia!

Tanti auguri,

Andrea Angelini

 

Ringrazio mio figlio e il suo abbonamento

Sono abbonata al Fatto da anni, non ricordo quanti. Ho 73 anni, sono casalinga e tutte le mattine mi reco in edicola a ritirare il vostro (il mio) giornale e non mi occorre leggerne altri. L’abbonamento è stato un regalo del mio figliolo, consulente informatico, che vive a Barcellona e vi legge online. Ragazzi, che dirvi, siete magnifici, stupendi, mi fate compagnia, perché vivo da sola, ormai i figli sono grandi e ognuno ha la sua vita.

Devo confessare, ho un debole per il grandissimo Marco Travaglio, gli voglio bene come se ne vuole a un figlio e lo difendo a spada tratta quando qualcuno dice di lui cose spiacevoli, è tutta invidia! Lunga vita al Fatto Quotidiano e ancora tanti auguri per i vostri dieci anni.

Marisa Cardone

 

Una colazione sempre con voi

Ogni mattina, presenti fin dall’alba… Auguri!

Christian Iannizzotto

 

Nel treno “urlo” sempre “datemi il Fatto!”

Non potete capire con quale soddisfazione in treno, quando passano con il carrello dei giornali e sistematicamente alla mia richiesta rispondono “no spiacente, abbiamo tanti altri giornali ma non il Fatto, rispondo a voce alta “se non avete il Fatto non voglio nessun altro giornale!”.

In realtà sono una vostra abbonata da anni, ma mi diverte troppo vedere i compagni di viaggio che si stupiscono della mia esclamazione decisa e libera. Auguri immensi!

Stefania

 

Sempre insieme per la Costituzione

Rappresento l’associazione di Prato “Uniti per la Costituzione”. Vi leggo dal primo giorno e spesso i vostri articoli e i temi da Voi trattati sono oggetto di un fecondo dibattito tra noi. Auguri e continuate a difendere i valori della Costituzione.

Avv. Michele Giacco

 

Da 10 anni con voi (nel 2009 ne avevo 15)

Dieci anni di vita non sono pochi e – giustamente – vanno festeggiati. A tal proposito, ci tenevo a condividere con voi il mio personale ricordo. Infatti, i vostri dieci anni di vita corrispondono anche a dieci anni della mia vita, accompagnata quest’ultima dalla vostra costante e continua presenza. Ricordo con piacere e affetto l’attesa dell’uscita della prima copia, avevo 15 anni e stavo iniziando il Liceo Classico. Venni a conoscenza della nascita del Fatto (se non sbaglio) grazie ai “Passaparola” di Marco Travaglio che seguivo voracemente su YouTube. Sin da subito fui entusiasta dell’idea di un nuovo giornale e così corsi a prenotare la prima uscita dal mio edicolante di fiducia che poi, per i seguenti cinque anni di scuola, mi continuò a conservare ogni giorno una copia che passavo a prendere con mio padre prima di correre in classe. Proprio da quel 23 settembre, come la foto allegata dimostra, la prima copia del Fatto è appesa in camera mia. Ingiallita, ormai un po’ sgualcita e in equilibrio precario, ma sempre lì.

Dieci anni sono passati, per voi e per me, che ormai ne ho 25 e ho anche finito l’università. In tutti questi anni vi ho letto, crescendo con voi, con le vostre battaglie e i vostri appelli. Passando dalla copia cartacea agli abbonamenti mensili versione “studente” fino a (finalmente!) l’abbonamento annuale di quest’anno, ho cercato di non perdere mai un vostro numero. Tutto ciò non perché io condivida sempre ciò che scrivete (piacere al lettore non deve peraltro essere l’obiettivo di un giornale), ma piuttosto perché, in tutti questi anni, avete sempre dimostrato di rimanere controcorrente, fedeli ai vostri princìpi e ai valori della Costituzione, “la via maestra”.

Ora, non posso garantire che tra altri dieci anni il mio primo Fatto sarà ancora appeso in camera. Tuttavia, sono sicuro che io continuerò a leggervi, possibilmente al mattino e con un cappuccino.

P.C. Mingozzi

 

Anche a Pisciotta (Sa) abbiamo lottato con voi

Nel Cilento, a Pisciotta, il Fatto Quotidiano a supporto delle campagne di sensibilizzazione sulla difesa dell’ambiente e della verità: per l’intero mese di marzo 2018, sono state diffuse copie omaggio de il Fatto Quotidiano nei bar del paese, a cura di “Osservatorio Pisciotta”. Viva la stampa libera!

Luigi Gatto

 

Sono un “compagno” (e apprezzo Scanzi)

Sono un compagno del Pd, vi leggo sin dal primo numero e siete sempre un’ottima compagnia. Mi è da subito piaciuto il vostro stile anticonformista e il vostro non guardare in faccia a nessuno, in particolare apprezzo molto gli articoli di Andrea Scanzi, e il direttor Marco Travaglio.

Vanes Dall’Olio

Ghiacciai in bilico: tre sono sul massiccio del Monte Bianco

L’elicottero. Franco Perlotto non ha altro mezzo per raggiungere il suo rifugio, il Boccalatte, chiuso dall’inizio di settembre. Dalla Val Ferret (Courmayeur) fa quasi paura guardarlo: se ne sta sospeso sulla roccia delle Grandes Jorasses, le vette settentrionali del massiccio del Bianco. A sinistra incombe il ghiacciaio Planpincieux, 250mila metri cubi di ghiaccio appesi al nulla. A destra c’è il seracco Whymper, altri 170mila metri cubi che dovrebbero cadere entro ottobre (come nel 1993 e nel 1998). Il Boccalatte sta in mezzo, sicuro, ma raggiungibile solo con l’elicottero.

Ma sono addirittura tre i ghiacciai a rischio crollo sul massiccio del Bianco. Come racconta Daniele Cat Berro della Società Meteorologica Italiana: “Sul versante francese c’è il Taconnaz che con i frequenti crolli innesca valanghe di neve in inverno. Per questo il Taconnaz è monitorato dal Laboratorio di glaciologia di Grenoble”.

I crolli dei ghiacciai purtroppo sono parte della storia della montagna più alta delle Alpi: “Ce lo ricordiamo tutti quello che accadde sulla Brenva (sempre nelle Grandes Jorasses)”, racconta Marco Tamponi, guida di Courmayeur, “Nel gennaio 1997 il ghiacciaio crollò provocando una valanga di neve e sassi che arrivò fino alla pista del rientro”. Due sciatori morirono, decine i feriti.

Stavolta non ci sono pericoli. Planpincieux e Whymper incombono su una zona senza case. E la situazione è sotto controllo: “Mercoledì sul Planpincieux ci sono stati crolli per 2.600 metri cubi. Il fronte è avanzato di altri trenta centimetri”, racconta Simone Gottardelli, glaciologo della fondazione Montagna Sicura. Ieri è stato montato un radar di ultima generazione: “Rileva movimenti fino a mezzo millimetro anche di notte e con il maltempo. Può compiere analisi ogni quarantacinque secondi”, racconta l’ingegnere Davide Leva.

Ma sono diversi i ghiacciai alpini che minacciano di collassare, soprattutto per colpa del caldo che ancora ieri sul Bianco ha portato lo zero termico a 3.600 metri (ciò significa che l’acqua non gela mai e rende tutto instabile): “Sulla parete Nord del Monviso c’è il Coolidge che il 6 luglio 1989 crollò scaricando a terra 250mila metri cubi di ghiaccio”, racconta ancora Cat Berro, “Ma oggi un collasso di queste dimensioni è praticamente irripetibile perché il ghiacciaio si è assottigliato”.

Un altro sorvegliato speciale è l’Eiger, la vertiginosa piramide di roccia scura dell’Oberland svizzero. Quella resa famosa anche dal film Assassinio sull’Eiger con Clint Eastwood. Ma Cat Berro spiega: “Il Politecnico di Zurigo lo monitora costantemente per il rischio di crolli che potrebbero coinvolgere le piste sciistiche e il trenino della Jungfrau. Così come è sotto osservazione il ghiacciaio Allalin (Svizzera): il 30 agosto 1965 la serraccata frontale crollò investendo il cantiere della diga di Mattmark. Morirono 88 persone (56 italiani)”. Il killer dei ghiacciai è il Nevado Huascaran (Perù). Il suo nome è passato alla storia per le catastrofiche valanghe di ghiaccio: nel 1962 provocarono 4mila morti. Nel 1970 il distacco causato da un terremoto uccise 15mila persone.

Vero, la tecnologia aiuta a individuare i possibili crolli, ma il caldo ha aumentato esponenzialmente i rischi.

Sindacati, studenti e presidi. Lo sciopero è al completo

Oggi è il culmine della Climate Action Week: dopo una settimana di iniziative e manifestazioni, in Italia come nel resto del mondo si scende in piazza per il terzo sciopero globale del clima, dopo quelli del 15 marzo e del 24 maggio. Sono previsti cortei in mattinata, dalle 10 alle 13, nel centro delle città, da Milano in largo Cairoli a Bologna in piazza San Francesco, Torino in piazza Statuto a Firenze in piazza Santa Maria Novella. E poi a Napoli in piazza Garibaldi e a Palermo in piazza Verdi. E ancora Verona, Novara, Piacenza, Pisa, Caserta, Lecce, Cosenza, Catania e molte altre città.

La sensazione degli organizzatori è che questo sarà il più partecipato. “Ne parlano tutti” spiega Vincenzo Mautone di Friday for future Napoli.Ci saranno gli studenti che appoggiano il movimento Fridays for future, ci saranno politici e associazioni, e chi più e chi meno repentinamente abbia deciso di votarsi alla causa ambientale trascinato anche dalla risonanza mediatica che ha avuto la 16enne Greta Thunberg nell’ultimo anno (attesa a Montreal). Aderiscono anche i sindacati. “La giustizia climatica è una sfida interessante che va affrontata tenendo assieme i temi ambientali e quelli del lavoro, senza alcuna contrapposizione” ha scritto ieri la Cgil nazionale in una nota annunciando che sarà “al fianco dei giovani, degli studenti e dei lavoratori perché questa importante battaglia potremo vincerla solo se la combattiamo uniti”. Parallelamente sono state indette centinaia di “Assemblee per il futuro” nei luoghi di lavoro come quelle organizzate alla Ferrero di Potenza, alla Electrolux di Pordenone, alla Michelin di Cuneo, agli stabilimenti umbri della Colacem, alla Lidl di Pisa e all’Ikea di Torino. Davanti ai cancelli della Fca di Melfi e Pomigliano d’Arco è invece previsto il volantinaggio. Lo sciopero è stato annunciato anche dalla Flc.

Le richieste del movimento a livello nazionale sono quelle di sempre: abolizione dei sussidi alle fonti fossili, dichiarazione di emergenza climatica da parte del governo e degli enti locali (ieri l’ha dichiarata il Comune di Roma), decarbonizzazione dell’economia, giustizia climatica per i popoli più esposti. Poi, ogni comitato locale porterà le proprie battaglie: a Milano si chiederà al Comune di ridurre il consumo del suolo, a Napoli ci sarà un focus su rifiuti e roghi, a Roma si parlerà di trasporto pubblico e piste ciclabili.

E mentre escono i primi rumors sulla possibilità che in manovra sia inserita una tassa sulla plastica, il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha annunciato che il governo presenterà il suo decreto ambiente il 3 ottobre. “Perché – ha spiegato Costa – se c’è un’emergenza climatica, c’è anche un’emergenza legislativa”. E di emergenza parlano anche le circolari diffuse in queste ore dai presidi delle scuole che appoggiano la proposta del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti di ritenere giustificata (e non valida nel conteggio finale) l’assenza degli alunni per la partecipazione allo sciopero.

Le scuole crollano, ma i soldi restano fermi

Ad agitare il fronte della scuola non c’è solo il drammatico dato sui crolli degli istituti – uno ogni tre giorni; 70 tra settembre 2018 e luglio 2019 (l’ultimo c’è stato ieri alla De Amicis nel Bergamasco) – ma soprattutto i soldi. L’istruzione è una priorità per tutti i governi, ma incrociando i dati del ministero dell’Istruzione e quelli del “Rapporto sulla sicurezza” presentato ieri da Cittadinanzattiva è evidente che l’edilizia scolastica resti un’emergenza.

“Proseguiremo il lavoro di mappatura degli edifici”, ha detto il neo ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti intervenendo alla presentazione del rapporto, dove ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 67 milioni di euro per la messa in sicurezza di 129 scuole e la creazione dell’ennesima “task force per accompagnare gli enti locali nella spesa dei fondi assegnati”. Dovrà ridurre i tempi burocratici che in parte sono alla base del grave ritardo nell’utilizzo dei fondi per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, il 42% dei quali è stato costruito prima del 1975. Troppo complicato chiederli, troppo complicato usarli a causa delle procedure amministrative.

Dal 2013 i governi Letta, Renzi e Gentiloni hanno stanziato 10,16 miliardi di euro, ma buona parte di questi – nonostante i proclami elettorali (“Visiterò ogni mercoledì mattina una scuola. Avremo solo scuole belle e sicure”, promise Renzi) – sono rimasti al palo. In base ai dati pubblicati sul sito della presidenza del Consiglio nella sezione dedicata a “Italia Sicura”, la struttura di missione istituita nel 2014 per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio scolastico che il governo gialloverde ha chiuso lo scorso anno, risulta che i miliardi spesi siano stati 5,5. E, in attesa che il Ministero fornisca i dati aggiornati, è Cittadinanzattiva a spiegare che dei 4,5 miliardi al momento ancora disponibili, lo scorso anno soltanto 1,6 miliardi sono stati effettivamente utilizzati o sono in fase avanzata di utilizzo. A cui, solo nel corso dell’ultimo anno vanno aggiunti, tra gli altri, lo stanziamento di 1,7 miliardi tramite il ricorso ai mutui con la banca europea degli investimenti (Bei) e la Cassa depositi e prestiti (Cdp); 1,275 miliardi per gli interventi antisismici nel triennio 2018/2020; 247 milioni per l’antincendio e 50 milioni per le palestre. Fondi i cui stati di attuazione sono, però, tutti in fase di avvio o ancora da assegnare. “Per eseguire gli interventi di adeguamento sismico e messa in sicurezza sono state adottate procedure lunghe e farraginose”, aveva dichiarato l’ex ministro dell’Istruzione Bussetti negli scorsi mesi.

Difficoltà che ammette anche Fioramonti, secondo cui la maggior parte di questi fondi sono ancora oggi fermi in attesa del completamento dei diversi passaggi amministrativi e burocratici per i quali spesso occorrono mesi e in alcuni casi anni, prima che si concludano e arrivino agli enti locali. Cittadinanzattiva ha contato 15 passaggi da seguire affinché i soldi dal Miur finiscano agli enti locali che non sono in grado di capire a che punto si trovi la pratica.

Guardando al futuro la situazione è tutt’altro che rosea, almeno sul fronte delle risorse: in attesa della nuova legge di Bilancio, quella vigente per la programmazione degli interventi di edilizia scolastica e per la sicurezza ha stanziato 741 milioni per l’anno in corso, che scendono a 495,5 nel 2020 per crollare a 298,4 nel 2021. Intanto quello dei crolli resta il dato peggiore di sempre. Secondo Cittadinanzattiva solo un quarto delle scuole ha il certificato di agibilità/abitabilità con il Sud che si ferma al 15%, mentre il certificato di prevenzione incendi ce l’ha solo il 17%. Solo il 15% possiede l’agibilità igienico sanitaria.

La lunga notte dei ricercatori. Ancora precari dopo 15 anni

Quella di stasera sarà la quindicesima notte europea dei ricercatori, con iniziative in oltre cento città italiane. Tra gli studiosi che parteciperanno, qualcuno vivrà la manifestazione per la quindicesima volta da precario: lo era nel 2005, quando l’evento ha fatto il suo esordio, e lo è ancora oggi. Negli enti pubblici di ricerca operano ancora più di mille precari storici, persone con un’anzianità tale da poter reclamare un posto fisso che però ancora aspettano.

In testa alla lista degli enti di ricerca, c’è il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), il più grande del nostro Paese. In 857 sono rimasti fuori dalle stabilizzazioni, come riporta la UilRua. A maggio 2017 è stata approvata la legge Madia, voluta dall’ex ministra della Funzione pubblica: doveva avviare le assunzioni a tempo indeterminato per quelli con almeno tre anni di servizio, ma gli ingressi sono avvenuti a singhiozzo. L’anno scorso hanno firmato i primi 1.200, quelli con un rapporto da dipendente a tempo determinato e trasformati automaticamente in contratti permanenti. Più complesso è stato il cammino per gli assegnisti di ricerca, ricordano i “Precari uniti Cnr”. Per loro la norma imponeva un concorso riservato. Dopo le prove, l’ente ha iniziato a scorrere la graduatoria a gruppi di 104 ricercatori alla volta: la prima tranche a dicembre 2018, poi una a luglio e una in questi giorni. Ne restano fuori in 458, anche se il ministro Lorenzo Fioramonti vuole sbloccare un altro contingente, sempre da 104, entro dicembre. Resterebbero fuori altri 354, da sommare ai 187 esclusi dalle selezioni, 41 tecnici in attesa del concorso e 170 ricercatori rimasti a secco per cavilli legati alle norme.

Fioramonti ha messo il superamento del precariato nella ricerca tra gli obiettivi, ma dovrà vincere la difficile partita delle risorse. Anche il Crea, centro di ricerca agricola, ha bisogno di fondi. Prima della legge Madia i corridoi dell’istituto erano popolati da 600 precari. Poi sono stati stabilizzati in 407 “tempi determinati”. In 22 tra i loro colleghi sono stati esclusi, mentre un centinaio di assegnisti hanno partecipato al concorso a giugno, ma non ancora non sanno se l’hanno passato. Da marzo, dopo l’arresto dei vertici, l’ente è commissariato e questo ha complicato le cose. Oggi il Coordinamento precari Crea consegnerà dei semi alla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, per chiedere di piantare alberi non solo per gli iscritti a Italia viva, il neo partito renziano, ma anche per ogni ricercatore stabilizzato.

All’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) sono stati invece mesi duri. I vertici si sono opposti da subito alle stabilizzazioni automatiche, preferendo assumere solo con concorsi aperti. Poi, su spinta politica, sono arrivati i primi 170 contratti. Per gli assegnisti, una cinquantina, non è stato bandito alcun concorso. Altri 50 “tempi determinati” sono stati esclusi per una lettura restrittiva delle norme. Su questo Fioramonti vuole intervenire con una norma di interpretazione più inclusiva. A giugno è cambiato il presidente dell’ente e il Coordinamento precari Infn spera in una maggiore apertura. Tra l’altro, la commissione Cultura ha fatto sapere che, in mancanza di stabilizzazioni, fermerà i finanziamenti per l’Infn. Le condizioni per sbloccare le assunzioni ora ci sono.

All’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) hanno stabilizzato 116 studiosi ma ora pure qui servono soldi per far entrare gli assegnisti. Sono una quarantina, da una prima ricognizione. L’ente non ha avviato i concorsi perché non sa di quante risorse dispone. Vanno messe le mani nel bilancio pubblico, insomma. Non solo per dare un futuro più sereno a quasi 1100 ricercatori precari “storici”, ma anche per presentarsi davanti ai partner europei con una quota di Pil investita in ricerca e sviluppo un po’ meno misera dell’attuale 1,35%.

“Il medico non può favorire la dolce morte”

“Non c’è nessuna contrarietà nei confronti della Consulta. È l’applicazione della sentenza che contestiamo”. Usa toni molto netti il dottor Filippo Anelli, Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli Odontoiatri, e membro del Comitato nazionale di Bioetica, nel chiarire la sua posizione nei confronti della sentenza della Consulta che riguarda il suicidio assistito. Il dott. Anelli fa riferimento all’articolo 17 del codice di deontologia medica, che recita: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte”. Principio che contrasterebbe con quanto oggi si chiede al Parlamento di legalizzare in tempi brevi. Una sorta di zona grigia, che renderebbe difficile ai professionisti rapportarsi col giuramento di categoria.

Lei si è schierato con gli obiettori di coscienza?

Io ho preso le parti di tutti i medici, nel senso che secondo me i medici non devono prendere parte nel procedimento del suicidio assistito. Ora, il cittadino che è in quelle condizioni può optare per il suicidio assistito e siamo disponibili ad assisterlo fino in fondo, e a mitigare le sue sofferenze, ma ci deve essere qualcun altro che deve avviare il processo.

Quindi una figura istituzionale, non medica? Anche se la Consulta ha specificato che si tratta di una procedura medica da esperire all’interno del Servizio sanitario nazionale?

La Consulta riconosce dei diritti e rimanda al Parlamento la possibilità di legiferare. Questa sentenza interviene sul caso del dott. Cappato. Stabilisce un principio che dovrà essere regolamentato. Noi riconosciamo i principi costituzionali, vogliamo armonizzarci con questi dettami, ma salvaguardando il modo in cui svolgiamo la nostra professione.

Ci sarebbero più obiettori di coscienza che con l’aborto?

La situazione è completamente diversa: mentre l’aborto è un atto medico vero e proprio, invece il suicidio assistito è un atto che compie il cittadino. Noi siamo impegnati in una grande riflessione su questo: esprimiamo oggi dei dubbi che ai professionisti a cui la gente si affida per intervenire sulla sofferenza e sulla malattia, per migliorarne l’esistenza, ci si affidi anche per la morte. Può funzionare? Esiste un modello che possa far valere i diritti del cittadino senza compromettere la qualità dell’assistenza medica?

In caso di legalizzazione al suicidio assistito, quale sarebbe la migliore soluzione?

L’ipotesi è di individuare un funzionario, un pubblico ufficiale, che raccolga una serie di caratteristiche. Ad esempio la Consulta prevede il parere dei Comitati etici, la certificazione del medico sulle condizioni del paziente, e del volere del malato. Potrebbe volerci una figura diversa, un amministrativo preposto a questo tipo di attività, e noi medici saremmo accanto al letto del paziente, non toglieremo l’assistenza, ma senza fare di più.

“Un passo avanti, ma ora ci pensi il Parlamento”

Il dottor Mario Riccio, medico di Piergiorgio Welby e dirigente dell’Associazione Luca Coscioni, considera “un importante segnale d’apertura” la sentenza della Consulta sul suicidio assistito. Tuttavia mostra delle forti perplessità per l’immediato futuro. E si augura “che non ci vogliano altri 11 anni per avere la legge, come quelli intercorsi fra la morte di Welby e la legge sulle Dat, le disposizioni anticipate di trattamento”. La comunità medica è molto divisa; per questo, insieme ad altri 200 professionisti a favore della morte medicalmente assistita, il dott. Riccio ha lanciato un appello contro chi vorrebbe “l’imposizione di coscienza”.

Fra i suoi colleghi c’è chi preferisce ancora non schierarsi. Teme molte obiezioni di coscienza?

La maggior parte dei medici non si è ancora fatta un’idea chiara. L’obiezione di coscienza è legittima, ma la situazione che si è creata con gli aborti è paradossale. L’obiettore si rifiuta di operare una procedura medica riconosciuta? Allora si dovrebbe pensare ad un contrappeso, a delle limitazioni anche economiche, altrimenti può diventare una scappatoia per evitare certi lavori.

Quanti saranno gli obiettori nel caso del suicidio assistito? Secondo i medici cattolici, più di 4mila.

Non credo che la quantità degli obiettori possa impattare molto, parliamo di un numero di casi clinici molto ristretto, per fortuna. Quindi l’assistenza sarà garantita.

Quali sono gli scenari che si prospettano per il servizio sanitario nazionale (Ssn)?

Della sentenza della Consulta è positivo il riferimento al fatto che la procedura di suicidio assistito debba svolgersi esclusivamente nel- l’ambito del Ssn. Questo percorso è l’erogazione di una prestazione sanitaria. Il messaggio è: non pensate di arricchirvi, non esisteranno “cliniche dei suicidi”, solo strutture ospedaliere pubbliche. Però la sentenza resta ancora troppo vaga. C’è bisogno della legge.

In particolare, quali sono le sue critiche?

Innanzitutto la descrizione delle condizioni del paziente. Secondo quanto riportato deve essere dipendente da terapie e/o macchinari salvavita (come ad esempio un respiratore). Ma in questo caso basterebbe interrompere i trattamenti per far sopraggiungere la morte, cioè un rifiuto della terapia che il legislatore aveva già previsto con la legge 219/17. Anche il riferimento al “parere del comitato di bioetica territoriale di competenza” non è chiaro. Non tutte le strutture ospedaliere ne sono fornite, ce ne sono di regionali, di provinciali… E poi, chi definisce la composizione dei comitati? Il loro parere sarà vincolante anche in caso non coincida con la volontà del paziente?

Cosa si auspica per il futuro iter legislativo?

La Consulta ha posto delle limitazioni piuttosto restrittive. Spero che, trattandosi di una questione trasversale, i parlamentari ne discutano liberamente, al di là dell’appartenenza partitica.

“Rispettiamo lo Stato, chiediamo obiezione di coscienza per tutti”

Monsignor Stefano Russo, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, la sentenza della Consulta su dj Fabo e il suicidio assistito riporta la Chiesa in politica?

Io non ho intenzione di cercare lo scontro con i partiti o di mettere in discussione la sovranità di un Parlamento o degli organi costituzionali, io cerco dialogo, prudenza, impegno per tutelare la vita, nient’altro, un bene comune che non riguarda soltanto i cattolici.

I giudici citano “determinate condizioni” per annullare la condanna, non depenalizzano il suicidio assistito.

Ecco, c’è un punto di partenza ineludibile per lo Stato, la decisione della Corte costituzionale, e non sto qui a esprimere opinioni su dj Fabo, un caso specifico, di estremo tormento. Io chiedo ai politici, ripeto, credenti e non credenti, di studiare una legge per evitare le derive.

Ha parlato di cultura della morte.

Per i vescovi non esiste dono più prezioso della vita. Noi siamo obbligati a ribadire un concetto semplice: le cure vanno assicurate, sempre, soprattutto ai più bisognosi e disagiati. E il sistema sanitario nazionale ha il dovere di aiutare i malati, di offrire le condizioni migliori, per esempio con la medicina palliativa, di accompagnare chi soffre nell’ultimo tratto di strada. Con questa premessa, i cattolici sono pronti a discutere.

A discutere con lo Stato, intende. Perché la Chiesa teme, mi permetta, di assumere posizioni impopolari che possono acuire la distanza dai cittadini?

Ha toccato un punto delicato per noi. I vescovi, noi pastori, dobbiamo essere vicini alle questioni della gente, senza giudicare e senza imporre. Perciò noi avremo un ruolo nel dibattito sulle leggi del fine vita, avremo un confronto, spero, con il governo di Giuseppe Conte, ma lo faremo attraverso le associazioni dei laici, consultando studiosi, medici, tecnici. Con un unico obiettivo: scongiurare che la morte indotta sia una rapida uscita di emergenza da una vita difficile. A volte ci sono drammatiche situazioni mentali e non fisiche che possono indurre al suicidio e in alcuni paesi è consentito, qui spero non lo sia mai.

Vuol dire riconosce il confine tra accanimento terapeutico e deliberata eutanasia.

Il pensiero dei cristiani non può considerare l’eutanasia, ma deve accogliere l’esistenza di contesti particolari proprio perché i giudici costituzionali hanno stabilito un principio.

Massimo Gandolfini, capo del Family Day, promette di contrastare una legge in Parlamento che porti alla “eutanasia attiva”. Numerosi politici, tra cui Matteo Salvini, dicono di aborrire il suicidio di Stato imposto per la legge. I vertici della Conferenza episcopale, sembra intuire, tentano di scongiurare dissidi interni al clero e tra la Chiesa e lo Stato con l’approvazione di norme “ragionevoli”?

Il principio di realtà ci dice che la Consulta ha fissato una base da cui sviluppare una legge, ne siamo consapevoli, pur con le critiche che abbiamo rinvolto sin da subito. Io confido che la legge, perché una legge è necessaria, individui delle limitazioni per due cose su tutte. Primo: la vita è sacra e lo Stato la difende, nessuno autorizza la facile ricerca della morte. Due: obiezione di coscienza per chiunque, non riservata ai cattolici. Ascolti, la Chiesa dovrà farsi sentire con garbo.

Monsignor Russo, la Chiesa riesce a farsi sentire? Non dai politici, ma dalla gente?

Io lo spero. Questa sarà una prova.

Fico “spinge” per una legge, Di Maio e Renzi dicono sì

Per dire quanto complessi siano i nodi ancora da sciogliere, nonostante la sentenza della Consulta sull’aiuto al suicidio, è sufficiente pensare al processo contro Marco Cappato. Ora la Corte di Assise di Milano dovrà decidere cosa fare di lui, imputato per il caso di Dj Fabo. Così come dovranno fare i giudici di Massa Carrara dove il leader radicale è alla sbarra per lo stesso reato, (insieme alla moglie di Piergiorgio Welby, Mina) per aver accompagnato a morire Davide Trentini. Entrambi suicidi (o morti volontarie), avvenuti in Svizzera al di fuori delle modalità indicate dalla Corte costituzionale che escluderebbero la punibilità del reato previsto dall’articolo 580 del codice penale. Insomma l’esito giudiziario di questi e altri casi analoghi che si dovessero presentare in futuro, rimane incerto. Come c’è pure incertezza sulla capacità del Parlamento di arrivare a una legge condivisa che faccia chiarezza togliendo dall’imbarazzo i magistrati.

Ma si tratta di un percorso a ostacoli. Al netto delle sollecitazioni di Roberto Fico che spinge perché venga portato a compimento al più presto un intervento normativo, alla Camera si attenderà la pubblicazione della sentenza integrale della Consulta prima di riprendere il dibattito sul fine vita che ad agosto si era concluso con un nulla di fatto. E al Senato? Il presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati ha aperto alla richiesta di accelerazione formulata dal capogruppo del Pd, Andrea Marcucci che le ha scritto perchè si proceda subito a esaminare i testi già presentati.

A partire dal suo che prevede una riformulazione dell’articolo del codice penale differenziando le pene per il reato di istigazione al suicidio e di aiuto al suicidio, oggi punite entrambi da 5 a 12 anni. Ma sulla necessità di depenalizzare il reato di aiuto al suicidio alle condizioni indicate dalla Consulta ossia in presenza di malati affetti da patologie irreversibili che chiedano di porre fine a sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, le distanze restano siderali. Anche all’interno dello stesso Pd dove il fronte cattolico è molto rappresentato e non fa fatica a riconoscersi nelle parole di Rosy Bindi che chiede che il Parlamento non spalanchi le porte all’eutanasia di Stato.

Per questo appare impervia la strada della proposta di legge appena presentata a Palazzo Madama che propone di dare sostanza alle indicazioni della Consulta. E questo nonostante il fatto che a firmarla siano alcuni esponenti dei partiti di maggioranza (Cirinnà, Cerno, De Petris, Mantero, Nencini, Nugnes e Rampi) e che prevede la possibilità di somministrare in strutture pubbliche il cosiddetto “farmaco letale” modificando la legge del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Che però riuscì ad essere approvata, nonostante le migliaia di emendamenti presentati, proprio perché si fermò sulla soglia dell’eutanasia: consentendo l’accompagnamento del paziente libero di rifiutare il trattamento terapeutico, senza spingersi oltre.

Ogni successivo tentativo compiuto dopo che l’anno scorso la Consulta ha chiesto al Parlamento di intervenire anche per assicurare tutela ai pazienti impossibilitati ad autodeterminarsi nelle terapie finalizzate a liberarli dalle sofferenze, come nel caso di Dj Fabo, si è impantanato. Dopo uno scontro che ha riproposto la contrapposizione tra i sostenitori della libertà di morire e del dovere di vivere.

Un fronte nell’uno e nell’altro caso trasversale ai partiti che ora dovranno rimettersi alla prova. “Una legge va fatta, ma serve un modo intelligente per arrivarci” prova a dire Matteo Renzi di sicura fede cattolica, come Luigi Di Maio che chiede che si dialoghi in Parlamento “per vedere se c’è la possibilità di trovare un accordo su un testo”. Ma bisognerà fare i conti con le singole coscienze e le sensibilità dei singoli eletti, che siedano in maggioranza o meno. “Mai approverò il suicidio di Stato” dice Matteo Salvini pronto alle barricate con i suoi che parlano di un rischio “far west” (Alessandro Pagano) e puntano il dito contro la Consulta (Simone Pillon). Ma anche Giorgia Meloni promette battaglia contro qualunque deriva eutanasica. In Forza Italia, dove sul tema esistono differenti sensibilità, intanto si fanno sentire i cattolici: per Lucio Malan “nascerà il mestiere di far morire la gente, pagato dal contribuente”, mentre Paola Binetti non si dà pace: “Il servizio sanitario nazionale deve curare i malati non farli morire a comando”.