Stragi, B. è indagato pure per l’attentato all’amico Costanzo

All’improvviso l’Italia si è destata da un lungo letargo e ha scoperto che Silvio Berlusconi è indagato come ipotetico mandante esterno delle stragi avvenute e tentate nel 1993 e 1994. L’accusa è pluriaggravata dalla finalità di aiutare la mafia e di creare il terrore, peraltro in concorso con boss di prima grandezza già condannati, come Totò Riina e Leoluca Bagarella. Si tratta di accuse da far tremare i polsi e la presunzione di non colpevolezza deve essere rafforzata in questo caso.

La notizia, a dire il vero, era nota dal 31 ottobre del 2017 quando uscì su la Repubblica, senza le carte però. Anche noi in questi due anni abbiamo dedicato decine di articoli e una serie di documentari all’inchiesta che vede indagati Berlusconi e Marcello Dell’Utri per le stragi del 1993. L’indagine, già aperta e chiusa in passato, è stata riaperta nella seconda metà del 2017 sulla base delle intercettazioni video-audio realizzate nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia.

Il boss Giuseppe Graviano (secondo l’interpretazione dei magistrati palermitani del processo Trattativa) in cella nel 2016-2017, sostanzialmente diceva al suo compagno di detenzione che “Berlusca” gli aveva chiesto una cortesia nel 1992 e che però si era dimenticato degli ex amici, una volta eletto. E Graviano, che sta in cella dal gennaio 1994 all’isolamento, lo considerava un traditore e intendeva inviargli un messaggio, tramite un intermediario non identificato, fuori dal carcere per mettergli pressione.

Dopo la trasmissione da Palermo a Firenze di quelle trascrizioni delle parole di Graviano, il procuratore aggiunto Luca Turco e il Procuratore Giuseppe Creazzo hanno iscritto Silvio Berlusconi. Ora si scopre che sono ben 23 i capi di accusa. Il fascicolo è il numero 13.041 del 2017. La Dia in questi due anni ha fatto molti accertamenti. A breve Turco e Creazzo dovranno presentare o un’ulteriore richiesta di proroga ovvero una nuova richiesta di archiviazione come in passato è stato fatto altre due volte. In sostanza che Berlusconi sia accusato di essere parte del piano stragista della mafia nel periodo 1993-94 è noto. Ora che le carte con il timbro della Procura di Firenze sono state depositate però tutti i media non hanno potuto ignorare la notizia.

Anche perché le accuse sulla tabella di due pagine intestata “Indagato Silvio Berlusconi” fanno impressione: l’ex premier è indagato per l’attentato (realizzato da mafiosi già condannati) contro i suoi collaboratori Maurizio Costanzo e Maria De Filippi il 14 maggio 1993 e addirittura per l’attentato fallito dell’aprile 1994 contro un ex boss pentito, Totuccio Contorno.

L’elenco dei reati è stato depositato al processo di secondo grado per la Trattativa Stato-mafia. L’avvocato di Dell’Utri voleva ascoltare Berlusconi come testimone puro, per fargli dire che la minaccia della mafia nel 1994 non gli era mai stata trasmessa da Dell’Utri. Le stragi, nell’ipotesi dell’accusa di Palermo, sono il presupposto della minaccia a corpo dello Stato per la quale Marcello Dell’Utri è stato condannato nel processo sulla Trattativa a 12 anni. Quindi Berlusconi potrebbe chiedere di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nella prossima udienza, il 3 ottobre, nel contraddittorio delle parti si capirà in quale veste vada sentito. La moglie di Marcello Dell’Utri, Miranda Ratti, ha visto nella manovra dei legali dell’ex premier una sorta di defezione ed è molto adirata con l’ex capo del marito.

La difesa di Dell’Utri cercherà di sostenere che i reati non sono connessi ma è impresa ardua. “A prescindere dalle modalità dell’esame del presidente Berlusconi – spiega l’avvocato Francesco Centonze – confidiamo di dimostrare l’innocenza di Dell’Utri sulla base di altri elementi inconfutabili”. A leggere l’elenco dei reati si resta impressionati. A Berlusconi sono contestati 26 reati per sei episodi.

Il primo è l’attentato in via Fauro a Roma nella sera del 14 maggio 1993 quando una Fiat Uno riempita di tritolo, t4 e pentrite, salta in aria poco dopo il passaggio dell’auto che portava a casa Maurizio Costanzo e Maria De Filippi.

L’ipotesi di un ruolo di Berlusconi è sempre stata respinta da Costanzo. Nel 2009 a Fabrizio d’Esposito che lo intervistò per Il Riformista (“Il mandante? Non fu il Cav.”, 27 novembre 2009) disse: “Non ci credo”.

Poi c’è la strage di via dei Georgofili a Firenze nella notte tra il 27 e il 28 maggio 1993 quando il Fiat Fiorino imbottito di esplosivo fece crollare la Torre dei Pulci, alle spalle degli Uffizi, causando la morte dell’intera famiglia Nencioni, comprese le figlie Nadia di 9 anni e Caterina, 50 giorni, e lo studente Dario Capolicchio. Appena due mesi dopo, il 27 luglio 1993, ci furono gli attentati simultanei a Roma ai danni delle basiliche di San Giorgio al Velabro (vicino alla Bocca della Verità) e di San Giovanni. A Milano, quasi contemporaneamente, quella notte saltava in aria un’automobile imbottita di esplosivo davanti al Padiglione di Arte Contemporanea in via Palestro. Morivano quattro vigili del fuoco e un marocchino che si trovava lì per caso. Dopo questa ultima strage, ci sono stati altri due attentati falliti, entrambi contestati ora anche a Berlusconi.

Il 23 gennaio 1994 un’autobomba imbottita di esplosivo doveva far saltare in aria durante la partita Roma-Udinese, un centinaio di carabinieri che facevano il servizio d’ordine. Fortunatamente il telecomando non funzionò.

L’ultimo attentato è quello fallito contro Totuccio Contorno. Il collaboratore di giustizia fu individuato a Formello vicino a Roma nonostante fosse inserito nel programma di protezione. Il pentito catanese Francesco Squillace ha dichiarato recentemente al processo Trattativa: “I Graviano dissero a mio padre che fu Dell’Utri, attraverso i servizi segreti deviati, a fargli sapere dove si trovava”. Un’accusa de relato tutta da riscontrare, come le parole di Graviano, come quelle di altri pentiti.

“Assolto”, la fake news dilagata sui media

Alle 7.53 si accende la prima agenzia. Un flash: “P4, assolto in appello l’ex deputato Pdl Alfonso Papa”. Il secondo flash tre minuti dopo. “P4, Papa assolto da tutti i reati dopo 10 anni”. Seguono in rapida successione altri tre flash coi primi virgolettati di Papa: “Finisce calvario che non auguro a nessuno, in Italia gestione tribale sistema mediatico giudiziario, paradosso, mi hanno arrestato colleghi deputati, mi hanno assolto giudici”. Il primo lancio che spiega qualche dettaglio in più appare alle 8.37. Ricopia un comunicato diffuso da una collaboratrice dell’ex magistrato di Napoli che, in neretto, sottolinea che “la Corte d’appello di Napoli ha assolto Papa da tutti i reati”. E dove la parola “prescrizione” non compare.

Poco importa: con una scelta scientifica dei tempi e modi della diffusione della notizia, formalmente corretta – la sentenza era della sera prima, in orario di smobilitazione del sistema mediatico, e la prescrizione è giuridicamente un’assoluzione – ma sostanzialmente incompleta e fuorviante, è stata imbandita con cura la tavola del pranzo della disinformazione. Sulla quale si nutriranno per ore i principali media e siti di news.

I lanci in questione sono tutti dell’AdnKronos. Forse non è un caso. È l’agenzia diretta da Gianmarco Chiocci e presieduta dall’ex generale della Finanza Michele Adinolfi. Chiocci la guida dopo aver diretto Il Tempo, di cui Bisignani era collaboratore. Ed è sempre stato un cronista piuttosto severo verso i pm come Woodcock che hanno condotto inchieste come la P4 che sono arrivate in alto ed hanno terremotato la politica. Su Woodcock, poi, Adinolfi ha un capitolo aperto. L’ex generale nel 2017 ha firmato un esposto contro di lui al Csm, protestando per essere stato indagato e intercettato per mesi dai carabinieri del Noe di Sergio De Caprio sulla base di uno scambio di persona che, secondo le ricostruzioni de Il Tempo diretto all’epoca di Chiocci “appariva evidente sin da subito”. Alcune di quelle intercettazioni, tra le quali una con Matteo Renzi che gli anticipava l’intenzione di guidare il governo al posto di Enrico Letta, furono depositate per sbaglio da un altro pm al Riesame di alcuni arresti sulla metanizzazione Cpl e poi pubblicate nel luglio 2015 sul Fatto Quotidiano. Anni in cui, per Adinolfi, pareva imminente la nomina a comandante generale della Finanza. Che non arrivò più.

La fake news della “assoluzione” di Papa ha retto per ore sull’agenda mediatica. Non è stata schiodata nemmeno da una smentita della presidenza della Corte d’appello di Napoli, con una nota che precisava due cose importanti: la prescrizione, e la presenza dell’imputato al momento della lettura della sentenza. Papa è un ex pm e quindi conosce benissimo la differenza tra una assoluzione nel merito e una “intervenuta prescrizione”.

Si guarda bene dal ricordarla nei monologhi sull’Adn. Nei quali si dichiara una vittima della malagiustizia. “Ho perso una famiglia, un lavoro… La riflessione è che si arriva ad accertare i fatti dopo 10 anni, si passa per realtà come la custodia cautelare in carcere che probabilmente a volte, forse, sono abusate…”. E lamenta “un rapporto sempre più malato tra la politica e la magistratura”. All’Ansa, presa alla sprovvista in un momento in cui non erano in possesso del dispositivo, Papa aggiunge: “Ritengo questa sentenza una vittoria della giustizia, il mio arresto fu autorizzato per far cadere il governo”. Anche Bisignani ha sentito il dovere di intervenire: “Dunque, la P4 non è mai esistita… Patteggiai solo per gravi motivi familiari…”. E ricorda la mamma che non c’è più: “Ebbe una perquisizione corporale a 90 anni, cercavano floppy disk”. A Papa pochi attestati di solidarietà, seconde file di FI come Biancofiore: “Chi risarcirà lui e Bisignani da tanto dolore?”. Noi ci chiediamo: chi risarcirà le vittime di un reato prescritto?

P4, prescritto Alfonso Papa Processo durato “solo” 8 anni

L’ex parlamentare Pdl ed ex magistrato Alfonso Papa è stato prosciolto per prescrizione da alcune delle accuse relative alla “Loggia P4”, la presunta centrale dei dossier ricattatori, per le quali era stato condannato in primo grado a 4 anni e sei mesi. La sentenza è arrivata due anni e nove mesi dopo quella del Tribunale di Napoli ed è stata emessa mercoledì sera dalla seconda sezione penale della Corte d’appello. La notizia è stata resa nota ieri mattina con un comunicato dell’ufficio stampa di Papa che non faceva cenno alla prescrizione, ma proclamava “l’assoluzione da tutti i reati”. Il dispositivo, firmato dal presidente Vincenzo Alabiso, però dice altro.

Dichiara il “non doversi procedere” per i tre capi di imputazione per i quali l’ex deputato era stato condannato, “perché sono estinti per intervenuta prescrizione”. E rigetta i ricorsi della Procura di Napoli che invece chiedeva la condanna per altre ipotesi di reato dalle quali Papa, difeso dagli avvocati Carlo Di Casola e Giuseppe D’Alise, era stato assolto con formula piena.

In sostanza, è arrivata una conferma della pronuncia del Tribunale. Solo che nel frattempo è maturata la prescrizione. Che se fosse in vigore la riforma Bonafede – lo sarà dal 1º gennaio 2020 per i reati a partire da questa data – non sarebbe scattata: prevede infatti lo stop alla prescrizione con la sentenza di primo grado.

Tra 90 giorni potremo leggere le motivazioni di una sentenza che non cancella, anzi ribadisce, la gravità dell’impianto accusatorio messo in piedi dai pm Henry John Woodcock e Francesco Curcio e portato in aula dal pm Celestina Carrano, ma alza le mani di fronte all’incedere del tempo di un processo lungo, lunghissimo. Forse troppo. Papa fu arrestato nel luglio 2011 e il suo processo iniziò subito, nell’ottobre successivo. Cinque anni per un verdetto. Altri tre per l’Appello. Tempi standard a Napoli per i reati dei colletti bianchi con imputati a piede libero.

E dire che fu una vicenda che fece storia. Dopo decenni di impunità secondo il principio del cane che non morde cane, il 20 luglio 2011 la Camera dei deputati diede il via libera all’incarcerazione di uno di loro. Papa era inseguito da accuse di rivelazione del segreto d’ufficio, concussione e favoreggiamento (poi evolute in altre ipotesi con le indagini e il dibattimento), ed era coinvolto, e fu arrestato, anche il faccendiere Luigi Bisignani, che ne uscì patteggiando 19 mesi. Papa invece si fece 101 giorni di galera e 56 di domiciliari. La sua carriera ne fu distrutta. Berlusconi non lo ricandidò. Il Csm lo spogliò della toga.

Secondo le ricostruzioni dei pm, l’ex deputato pdl avrebbe promesso ad alcuni imprenditori che, grazie ai suoi rapporti con settori della Gdf e della magistratura, avrebbe fornito alle “vittime” informazioni riservate su indagini in corso, garantendo talvolta anche il suo interessamento per il buon esito delle vicende processuali, in cambio di denaro, soggiorni, oggetti di valore. Gli imprenditori hanno riferito che lo stesso Papa li contattava per informarli che erano nel mirino della giustizia. Il Tribunale lo aveva condannato per due episodi di corruzione per induzione e uno di istigazione alla corruzione: i primi due nei confronti degli imprenditori Alfonso Gallo e Marcello Fasolino – che si sono costituiti parte civile – e l’ultimo nei confronti dell’ex responsabile relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni. Ora con la prescrizione le parti civili dovranno, se ne avranno la forza, rivendicare le loro ragioni in altre sedi.

Il Pap’occhio

Mentre Facebook chiude pagine satiriche e letterarie perché gli algoritmi non capiscono le battute e tantomeno l’arte, e i giornaloni continuano a prendersela con le fake news dei social perché rivogliono l’esclusiva sulle bugie, un fatto di cronaca rimette le cose a posto. L’ex pm ed ex deputato forzista Alfonso Papa, condannato in primo grado a 4 anni e mezzo di galera in un filone dello scandalo P4, se la cava per prescrizione in appello. Ma l’AdnKronos, che vanta come presidente l’ex generale Michele Adinolfi (a suo tempo intercettato, indagato e poi archiviato nell’inchiesta P4), “informa” che è stato “assolto da tutti i reati”. E raccoglie le lacrime e la gioia dell’imputato perché è stata “accertata la verità” dopo i “lunghissimi anni” di persecuzione in cui “ho perso una famiglia e un lavoro”. Povera stella. Tutti i siti, trattandosi di un’agenzia di stampa, se la bevono e rilanciano. “Papa assolto”, dunque il suo arresto era “illegale”. Ergo il pm Woodcock che l’aveva indagato è un puzzone. E ora “chi risarcirà” il povero martire? La Corte (come già quella di Palermo sulla balla “Andreotti assolto”) invita i somari a leggersi il dispositivo, che non è di assoluzione, ma di “non doversi procedere per intervenuta prescrizione” degli stessi “reati per cui l’imputato era stato condannato in primo grado”.

Quindi Papa non è un innocente perseguitato, ma l’ennesimo colpevole che l’ha fatta franca. Grazie agli avvocati e al tribunale che sono riusciti a far durare 6 anni il processo a un solo imputato. Roba da ispezione ministeriale. Anche perché gli altri tre processi di primo grado a carico del noto galantuomo durano da 7 anni. Un legislatore degno di questo nome avrebbe bloccato la prescrizione vent’anni fa, quando falcidiava i processi di Tangentopoli. Invece B. (per i noti motivi) e il centrosinistra (per i noti motivi) allungarono i processi e dimezzarono la prescrizione. Dovettero arrivare i 5Stelle, noti incompetenti, per bloccarla dopo la sentenza di primo grado: se l’avessero fatto gli altri, il processo Papa non si sarebbe prescritto. Nessun avvocato o giudice avrebbe perso tempo e il processo sarebbe durato pochi mesi. E, se anche fosse durato 6 anni, la prescrizione non avrebbe ripreso a correre in appello. Ora Salvini e B. sperano di neutralizzare la legge Bonafede prima che entri in vigore il 1° gennaio. E pare che parte dei renziani e del Pd, la stessa che tentenna sulle manette agli evasori, dia loro manforte. Se così fosse, il Conte 2 nato per combattere Salvini&B. coi fatti non avrebbe più senso e il M5S dovrebbe aprire subito la crisi. La paura di Salvini&B. non può giustificare un governo che fa le stesse porcate di Salvini&B.

Il declino del 78enne Domingo: il Met lo lascia a casa per molestie

Da un lato c’è una notizia: Placido Domingo rinuncia a esibirsi al Metropolitan Opera di New York dove era molto atteso per una nuova produzione del Macbeth di Giuseppe Verdi, con questo elegante biglietto di commiato, soltanto all’apparenza anodino: “Sono felice che, all’età di 78 anni, sono stato in grado di cantare il meraviglioso ruolo del protagonista nella prova generale di Macbeth, che considero la mia ultima esibizione sul palco del Met”. Dall’altro, invece, vi sono i retroscena. Già da mesi, per via delle accuse di molestie sessuali che a cascata si stanno riversando sul cantante spagnolo – rivelate dal sito Associated Press, che ha anche raccolto alcune testimonianze tra cui, in ordine di pura diacronia, spicca quella del soprano Angela Turner Wilson alla quale nel 1999, durante il Cid di Jules Massenet alla Washington Opera, Domingo avrebbe afferrato il seno facendo scivolare la mano sotto i vestiti –, il teatro newyorkese era sottoposto a pressioni interne (ovvero gli artisti) ed esterne (ovvero politiche) in merito al caso. Pressioni che il direttore Peter Gelb dapprima aveva cercato di attutire con attitudine garantista, ma a cui alla fine si è dovuto piegare.

La nota ufficiale e consensuale rilasciata da Domingo, mentre respinge con forza le accuse mossegli contro dichiarando “consensuali” tutti i rapporti avuti con colleghe e artiste, è la seguente: “Credo che la mia apparizione in questa produzione di Macbeth possa distrarre dal duro lavoro i miei colleghi sul palco e dietro le quinte. Di conseguenza ho chiesto di ritirarmi e ringrazio la direzione del Met per aver accolto la mia richiesta.” Per un’ironia della sorte del tutto casuale, il celebre cantante, non recitando il personaggio del dramma verdiano (generale dell’esercito del Re Duncano) non canterà la commovente aria finale Pietà, rispetto, amore.

Che la linea del Met, che largamente ha sostenuto il movimento del metoo, sia irreprensibile lo testimonia anche la sospensione di Vittorio Grigolo, attuata – con un tempismo che se non ha del farsesco, sembra almeno sfiorare il parossismo – proprio nello stesso giorno in cui Placido Domingo si chiude la porta alle spalle.

Noto al grande pubblico italiano soprattutto per aver preso parte all’ultima edizione del talent show Amici di Maria De Filippi, il quarantenne tenore italiano è acclamato all’estero quale una vera e propria star e tale è ritenuto anche tra le fila degli artisti e ai piani alti del Metropolitan Opera. Il provvedimento nei suoi riguardi giunge in seguito a un’indagine della Royal Opera House: la scorsa settimana, durante una tournée in Giappone, Grigolo avrebbe palpato sul palco al momento degli inchini di saluto una corista di fronte al pubblico e ai colleghi artisti. La direzione dell’istituzione londinese lo ha temporaneamente ma immantinente allontanato, tanto che il suo posto all’ultima recita di Yokohama sarà preso dal collega russo Georgy Vasiliev.

Solo il tempo saprà pronunciarsi sull’esito di questi fatti che fanno male non solo alla lirica, questo è certo e lo si può dire sin d’ora, come certo è quanto Lady Macbeth – riannodandoci a Verdi – canta nell’aria Una macchia è qui tutt’ora: “Sfar non puoi la cosa fatta…”

“Il traditore” è un buon film, ma il gioco di potere era altro

Ho conosciuto e frequentato per quasi 15 anni Tommaso Buscetta e la sua famiglia. Ho pubblicato nel 1994 il racconto in prima persona della sua vita, e ho visto il film che Marco Bellocchio gli ha dedicato con un titolo un po’ curioso, Il traditore (ora candidato per l’Italia a entrare nella nomination degli Oscar): titolo che rimane al di sotto sia del personaggio che della storia raccontata. Tommaso Buscetta non è stato un semplice traditore, né un collaboratore di giustizia singolare perché non pentito. Ed è riduttivo presentarlo come un capomafia che si vendica della sua sconfitta facendo colpire dallo Stato i nemici che non può più raggiungere da solo. Buscetta è l’uomo d’onore che ha consentito a Giovanni Falcone e alla giustizia italiana di compiere un’impresa di portata epocale: la distruzione di Cosa Nostra.

La pellicola si concentra sui drammi personali di un personaggio shakespeariano, con la pelle e l’anima bruciate dallo sterminio di figli, fratelli, cognati, nipoti e amici, e dalla degenerazione di un mondo in cui aveva creduto con tutte le sue forze. Un universo di valori e norme – quello di Cosa Nostra – che viene stravolto dai mafiosi corleonesi, i veri “traditori” posseduti dall’auri sacra fames, dal denaro cioè dalla droga e dalla corruzione politica. Va dato merito a Pierfrancesco Favino di avere dato vita a un personaggio indimenticabile, che ricalca in modo sbalorditivo, commovente, il Buscetta che ho conosciuto: un uomo affascinante, a più strati, coerente e contraddittorio, violento e tenero, innamorato della vita e votato alla tragedia, sua personale e, purtroppo, di chiunque gli sia stato vicino. Favino è riuscito a cogliere e rappresentare la dimensione più profonda di Buscetta: il suo essere nello stesso tempo un perfetto mafioso e un uomo che cerca di fuggire dalla mafia, perché la trascende, avendone intuito tutta la sventurata meschinità: “Quanto ero stato sciocco e presuntuoso nel voler fuggire dalla Sicilia e dalla setta fosca che mi aveva imprigionato! Il mafioso è un pesce di scoglio, piccolo, meschino, pratico, che ha bisogno di una tana e di tanti anfratti. Io pretendevo di fare il pesce di acqua blu, che si muove negli oceani e parla con le stelle!” (Addio Cosa Nostra, Chiarelettere).

In questo senso Buscetta ha rappresentato un caso unico, perché la sostanza umana che compone la mafia è davvero misera. Tutti i mafiosi che ho incontrato mi hanno colpito per la loro mediocrità. Mi sono perciò chiesto come fosse stato possibile che un soggetto così squallido come quello che avevo di fronte fosse stato capace di gesta malefiche tanto celebrate. E la migliore definizione che mi riesce di trovare dei mafiosi è: piccoli uomini dentro grandi storie. Ed è proprio la grande storia dentro cui si è svolta l’umana avventura di Buscetta che costituisce la parte più debole della fatica di Bellocchio. Che è comunque un filmone, lontano anni luce dalle Piovre, ma tutta la seconda parte, dall’incontro di Buscetta con Falcone in poi, non è all’altezza dell’estremo gioco di potere, di inganno e di morte dentro il quale i destini di tre uomini si sono irrimediabilmente avvinghiati nell’Italia della fine del secolo passato. Mi riferisco alla coppia Falcone/Buscetta da un lato e a Giulio Andreotti dall’altro. Il finale di partita inizia, evvero, nel 1984 con la decisione di Buscetta di collaborare, e con la svolta di Falcone che rompe il tabù quasi centenario di dar credito a un mafioso che parla con le autorità. E da qui nasce la maggiore opera di Giovanni Falcone: il maxi-processo del 1986-87, cioè il colpo di maglio che ha spezzato la schiena della mafia siciliana. Ma c’è stato di più. Già nel 1985 Buscetta rivela a Falcone il segreto dei segreti: l’identità del massimo protettore e capo di Cosa Nostra, che non era altro che il premier in carica. Rivelazione fatale, messa per iscritto solo dopo Capaci a causa della sua dirompenza, ma traccia fondamentale per Falcone/Borsellino.

Sono stato amico e collaboratore di entrambi. E ho navigato assieme a loro dentro i gelidi canali dell’impunità mafiosa, seguendo la Stella Polare mostrataci da Buscetta: dalle cosche di Palermo ai cugini Salvo, alla Cassazione, al governo, ai servizi di sicurezza, alle logge massoniche delinquenti. Una missione di giustizia tenace, discreta e dolente, condotta dai due grandi italiani fino all’ultimo. Il film dà conto del maxi-processo e dei processi contro Andreotti degli anni successivi, ma la ricostruzione è un po’ troppo televisiva, scialba e confusa. I personaggi dal lato dello Stato, a cominciare da Falcone, sono rigidi e poco espressivi. Il rapporto di Buscetta con il giudice è stato più intenso e vero di quanto venga rappresentato. Se Bellocchio avesse approfondito meglio, sarebbe emersa una profonda stima reciproca e la sconsolata consapevolezza del viaggio senza ritorno intrapreso in nome della legge e, per Buscetta, al di là della vendetta.

Infine, una delle maggiori carenze de Il traditore è il ruolo di Cristina, l’ultima moglie di Buscetta: donna fuori del comune, che da sola avrebbe meritato un film, e senza la quale la vicenda di Buscetta sarebbe terminata presto, o non sarebbe cominciata.

“Io, Bonco e la finta 500 vinta in radio da Marenco”

“Gianni ha inventato la figura del dj radiofonico, io e lui siamo stati i primi disc jockey della radiofonia: sceglievamo i dischi e indirizzavamo i gusti del pubblico. Poi a Natale facevamo la gara dei panettoni”. La gara dei panettoni? “Le pressioni dei discografici per promuovere i propri artisti si trasformavano in omaggi dolciari. Allora a Natale scattava la telefonata tra di noi per sapere chi ne aveva ricevuti di più. Vinceva sempre lui”. Quando Renzo Arbore parla dell’amico di una vita, Gianni Boncompagni, sembra azzerare la distanza con la morte e con la vita stessa, passata a rivoluzionare la radio e la televisione italiane e a divertire amici e sconosciuti con scherzi da goliardi irriverenti. E così quello di stasera su Rai Due si annuncia un programma all’insegna non della malinconia (“abbiamo vissuto ridendo”), ma dell’allegro ricordo di un amico scomparso due anni e mezzo fa. No, non è la Bbc è stato girato negli storici studi di via Asiago e vedrà le testimonianze – oltre, naturalmente, a quella di Raffaella Carrà – di Ambra Angiolini, Claudia Gerini, Sabrina Impacciatore, Lucia Ocone, Giancarlo Magalli, Fabio Fazio, Piero Chiambretti e Marco Travaglio.

Il mattatore sarà come sempre lei, Arbore.

Saranno tre ore e mezza sorprendenti. Io, la figlia di Gianni – Barbara –, Ugo Porcelli, Giorgio Verdelli e Luca Nannini, che ne è anche il regista, abbiamo condensato la vita di Boncompagni in un programma.

Si partirà dalla radio?

Gianni ha inventato un nuovo modo di fare la radio, prima ancora della tv. Quando ideammo Bandiera gialla, la “scatola” era una cosa per vecchi, destinata a diventare la sorella anziana della tv. Capimmo che bisognava creare un’onda d’urto. Iniziammo a proporre musica per i giovani e Bonco s’inventò il tasto che ci permetteva di entrare a parlare sulla musica. I dischi che trasmettevamo potevano arrivare a vendere un milione di copie. Da lì i panettoni…

Rubaste il “beat” a Lawrence Ferlinghetti?

Ero un appassionato della beat che veniva da San Francisco. Dovendo annunciare il programma sui giornali, pensammo che il rock era morto e il pop in Italia sarebbe stato interpretato solo come “popolare”. Beat invece faceva un po’ Beatles, un po’ il ritmo della batteria, passato negli Usa dal levare al battere. Diventò una moda, che riuscimmo a esportare in Francia.

E vennero gli anni Settanta.

In quel periodo tutta l’Italia bisticciava, portandosi addosso gli strascichi del ’68. Dovevamo restituire l’allegria. Al direttore Rai dicemmo: “Vogliamo fare musica e puttanate”, finimmo con il realizzare Alto Gradimento con Bracardi e Marenco.

E voi non litigavate?

Mai, al massimo avevamo punti di vista diversi. Ma pensavamo a divertirci e a divertire, con la temerarietà di chi non si prende troppo sul serio. All’epoca non esisteva la satira politica, a parte quella garbata di Noschese. Noi iniziammo a nominare i ministri, ci vennero a dire che non si poteva. E Gianni replicò solo: “Si può, si può”.

I vostri famosi scherzi erano anche a spese degli amici?

Una volta ci inventammo un finto programma notturno, “Svegliati e vinci”, con tanto di copione, sigla, metronomo e applausi finti. A presentarlo era Massimo Catalano, sotto falso nome di Russo. Chiamavamo la gente nel pieno della notte, ci cascò persino Mario Marenco: gli facemmo credere di aver vinto una 500. Lo scherzo durò sei mesi, con la complicità del nostro direttore Maurizio Riganti. Marenco andò fino a Napoli per ottenere la copia del suo certificato di laurea da presentare in Rai per ritirare il premio e compilò dei finti moduli per scegliere il colore dell’auto.

E la storia della segretaria degli avvocati?

Eravamo entrambi alle prese con le beghe ereditarie dei nostri padri. In radio raccontavamo i problemi che avevamo, poi Gianni fingeva di essere la segretaria dei nostri veri avvocati e suggeriva ipotesi per sbrigare velocemente le pratiche. Il bello è che i legali ci ascoltavano ed eseguivano.

Qual è stato invece il contributo di “Bonco” alla tv?

Una rivoluzione. Dalle luci ai primi piani alla scelte estetiche. Non è la Rai è stato un applauso alla fanciullezza: facce pulite, piene di candore, divertimento, spensieratezza. Era circondato da ragazzine che lo consideravano uno di loro.

L’ha mai visto arrabbiato?

Una sola volta nervoso: le figlie gli avevano detto che i suoi jeans erano in disuso.

L’ambientalismo, le multinazionali e la lezione di Stefano Ricucci

Ora che si va posando la polvere mediatica attorno alla presenza al vertice sul clima dell’Onu di Greta Thunberg e di altri noti attivisti per l’ambiente tipo Bill Gates (sic), resta una domanda: ma contro chi è questa rivolta ecologista? A chi si rivolge la giovane svedese col suo “Pentiti!” o quando avverte che “il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”. A chi non piace? Mai s’è vista una rivolta contro il sistema accolta dallo stesso sistema che si vorrebbe abbattere con tale gioia: presidenti, cancelliere, burocratjia sovranazionale varia, amministratori delegati, giornalisti ed editori, ex pirati oggi filantropi, tutti applaudono entusiasti. Un solo esempio: a spingere l’alleanza verde a New York c’era pure Søren Skou, che di lavoro fa il capo della Møller-Maersk, conglomerato danese che, tra le altre cose, è il più grande armatore di navi mercantili del mondo, cioè uno dei più grandi inquinatori del mondo (ma non certo il solo presente al Palazzo di Vetro). E quindi – a non voler porre dubbi scientifici sul dogma dell’emergenza e sulle cure proposte – resta la domanda: chi è che rema contro? Chi “osa”? Bastano Trump e Bolsonaro a bloccare il risveglio mondiale della coscienza verde guidato dalle multinazionali, pure quelle del petrolio? Noi abbiamo questa rozza idea che, se tutti applaudono, hai probabilmente detto una cazzata e il sospetto, parafrasando il maestro Stefano Ricucci, che manager e presidenti vogliano fare gli ambientalisti col culo degli altri. Di chi? Mettiamola così: se non sei al tavolo, sei nel menu.

Sala come Greta, ma Milano è “green” solo sui giornali

Il titolo del film potrebbe essere: “La borraccia, il fiume verde e il diluvio di asfalto e cemento”. Un film su Milano. E sulla differenza tra narrazione e realtà. Lo storytelling sull’“unica metropoli europea in Italia” racconta di borracce regalate ai ragazzi delle scuole per ridurre la diffusione di bottigliette di plastica, di 3 milioni di alberi da piantare nei prossimi anni in città, di una “Milano Green Week” (dal 26 al 29 settembre) ricalcata sulle “Fashion Week” e “Design Week”. Il sindaco Giuseppe Sala per queste ottime iniziative è raccontato da giornali e tv come una specie di Greta alla milanese. La realtà ci dice però che Milano ha il record in Italia di consumo di suolo. Nel 2018 ha cementificato 11,5 ettari di terreno: altro che inversione di tendenza e cura del pianeta.

I dati sono quelli, ufficiali, dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale del ministero dell’Ambiente, che ha presentato il suo Rapporto 2019 su “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. L’Onu ha fissato come obiettivo la riduzione del consumo di suolo, ma solo Torino, tra le grandi città italiane, l’ha rispettato, con un saldo di 7 ettari recuperati al verde nel 2018. Milano continua a mangiare territorio e non brilla proprio per virtù ambientali. Perché è vero che Roma la supera in suolo mangiato nell’ultimo anno: ben 75 ettari. Ma la Capitale ha una superficie immensa (129 mila ettari contro i 18 mila di Milano). Se si considerano gli ettari occupati nel 2018 rispetto alla superficie totale della città, Milano è peggio di Roma, con un indice di densità del consumo di suolo di 6,35 metri quadrati per ettaro, contro i 5,8 di Roma. Entrambe ben al di sopra della media nazionale (1,6 metri quadrati per ettaro).

Milano è già “coperta” per il 57,5 per cento della sua superficie totale, mentre Roma lo è per il 23,2 per cento. Questi i dati storici. Se poi misuriamo il suolo cementificato nel 2018 rapportandolo al territorio ancora libero, scopriamo che Milano ha coperto 15 metri quadrati per ettaro, contro i 7,6 di Roma. Roma male, ma Milano peggio.

Eppure la città di Sala-Greta gode di ottima stampa ed è rappresentata come virtuosa, tutta impegnata a promuovere boschi verticali e biblioteche degli alberi e a diffondere borracce sponsorizzate per renderci plastic free. Come sta andando nel 2019? Quanti altri ettari di Milano ci stiamo mangiando? Il futuro promette sfracelli. Il grande affare in corso si chiama Scali Fs: sette aree un tempo occupate dai binari ferroviari (Farini, Romana, Porta Genova, Lambrate, Rogoredo, Greco-Breda, San Cristoforo) che, sommate, fanno 1 milione e 250 mila metri quadrati di superficie. Un territorio immenso che potrebbe far diventare Milano la città più verde d’Europa e che invece sarà il teatro di interventi urbanistici del valore di 2,5 miliardi di euro.

L’Italia mangia suolo a ritmo frenetico: 2 metri quadrati di nuovo cemento ogni secondo. Ogni italiano ha 380 metri quadrati di superfici occupate da cemento, asfalto e altri materiali artificiali. Il consumo di suolo nelle città provoca l’aumento delle temperature: in estate si registrano anche 2 gradi di differenza tra aree urbane e zone rurali. A parole, Sala e i suoi lodano Greta e si dicono impegnati per la salvaguardia del Pianeta. Nei fatti continuano a far costruire e concedono per il futuro indici di cementificazione altissimi: 0,35 in città, addirittura 0,65 allo scalo Farini, la più “pregiata” delle aree Fs. C’è una Greta a Milano?

 

Colf e tate, l’evasione fa male a tutti

La babysitter che prende i bambini a scuola e li tiene fino a sera; la colf per i lavori domestici, quasi sempre indispensabile se entrambi in famiglia lavorano (ma pure come aiuto alle casalinghe); infine, le ripetizioni: dal ragazzino che fatica in matematica al bambino che deve imparare l’inglese. Quello dei servizi alle famiglie è un vero e proprio, sempre più fiorente, mercato nero, che da un lato aiuta milioni di madri e padri ad andare avanti, dall’altro consente a centinaia di migliaia di persone – dallo studente al professore di scuola – di integrare i propri magri redditi.

Un fiume di soldi (quasi un miliardo solo il possibile gettito delle ripetizioni) di cui, appunto, una piccolissima parte arriva allo Stato: basti pensare che, secondo i dati dell’Inps, le colf e badanti dichiarate l’anno scorso sono state circa 850.000. Un numero alto solo in apparenza, visto che le famiglie italiane sono oltre 26 milioni e quasi tutte, specie con figli, si avvalgono di qualche tipo di aiuto. Inoltre, a essere dichiarate sono soprattutto le badanti, perché più sindacalizzate e perché si tratta di un lavoro più simile a un impiego fisso a tempo pieno, mentre al contrario, babysitter e colf, ma anche coloro che danno ripetizioni, sono per lo più intermittenti. Figure che, come sanno bene le famiglie, vanno e vengono continuamente. Che questa percentuale di ore lavorate, però, non venga di fatto dichiarata è una perdita enorme sia, evidentemente, per lo Stato, sia per i lavoratori: che, pur essendo spesso i primi a non volere i contributi, dimenticano che oggi, con l’austero regime contributivo, ogni euro guadagnato dovrebbe andare a formare la pensione (anche perché, diciamolo, il lavoro stabile non arriva mai). La strada per recuperare questi soldi persi esiste ma non passa, almeno non solo, da un inasprimento delle sanzioni e dei controlli, ma soprattutto dal rendere vantaggioso per le famiglie dichiarare le ore lavorate da queste figure di aiuto, aumentando – in attesa di un welfare per chi ha figli degno di questo nome – le deduzioni, oggi previste per un massimo di 1.549,36 euro l’anno totali, solo di contributi e per l’insieme delle figure di aiuto. D’altronde, l’assunzione di persone, anche part time, per le famiglie quasi sempre è impossibile, visti i costi, così come è difficile, a volte, persino utilizzare il voucher a 10 euro l’ora. A volte l’ostacolo è anche psicologico, visto che spesso quello che si sta pagando è un servizio nel quale lo Stato è carente: come scuole aperte fino alle 18 o classi con più ore di didattica, specie per le lingue, in modo da non rendere necessarie le ripetizioni. La strada dunque è solo una: la flat tax del 15% sui redditi dei professori, che agisce solo sul versante di chi dà lavoro e la possibilità per le famiglie di avere indietro una parte dei costi. Questo, ovviamente, non basta: serve facilitare al massimo le pratiche burocratiche, spesso ostili, serve un regime pensionistico dove i lavoratori possano facilmente ricongiungere i contributi di diverse gestioni.

Serve, infine, diffondere informazioni sia alle famiglie che ai lavoratori, specie studenti e donne, perché esigano ciò che spetta loro. Paradossalmente, lo Stato potrebbe persino, inizialmente, non guadagnare nulla da questa emersione. Ma alla lunga, una cultura della trasparenza dei servizi alle famiglie darebbe sicuramente enormi frutti. Il governo attuale può piacere o no ma di sicuro, e finalmente, ha la sensibilità giusta per trattare il tema, ignorato dai governi precedenti. Il problema, però, non sono solo i grandi evasori, che pure meritano il carcere (esattamente come accade in tutti gli altri Paesi), ma anche questa secondaria, e tuttavia grandissima, evasione che è giunto il momento di far emergere. Senza vessare ulteriormente le famiglie, piuttosto aiutandole. Anche a capire che, alla fine, a guadagnarci sono davvero tutti.