Tumori da lavoro, numeri da aggredire

Pochi conoscono i dati reali sulle cosiddette “morti bianche”: causate da infortuni sul lavoro, ma anche da malattie occupazionali e, tra queste, i tumori (circa il 60%). Pochi sanno che, a fronte di circa 700 morti per infortuni sul lavoro (al netto delle morti in itinere), si stimano probabilmente per difetto circa 7 mila morti per tumori occupazionali all’anno. Quando si parla di tumori, ciascuno ha a portata di mano una serie di gesti “scaccia sfortuna”. L’epidemiologia però ci fa sapere che abbiamo una possibilità su tre di ammalarci di tumore e, frequentemente, di morirne.

Un altro fatto di cui essere consapevoli è la differenza tra infortunio e malattia professionale. L’infortunio è un fatto violento, immediato. Provoca uno (o più) cadaveri immediatamente visibili. Un tumore occupazionale mortale provoca anch’esso un cadavere. Ma è il risultato di esposizioni a cancerogeni che risale, mediamente, a 30-40 anni prima della diagnosi. Usando una metafora, la diagnosi di tumore occupazionale è la luce di una stella: la vediamo oggi, ma la sua origine risale a molti anni prima. Oggi facciamo diagnosi di tumori causati da esposizioni a cancerogeni occupazionali verificatesi negli anni 70 e 80 del secolo scorso. Per un infortunio l’indagine penale risponde a una esigenza di giustizia, indennizzo e risarcimento della vittima. Serve a chiarire responsabilità ed eventuali violazioni delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Per un tumore occupazionale l’indagine penale deve rispondere alle stesse esigenze, ma è molto più difficoltosa perché spesso l’esposizione a cancerogeni occupazionali è spalmata su più aziende (ma la responsabilità resta individuale) e risulta impossibile da ricostruire (spesso le aziende non esistono più). Quando si parla di esposizioni a cancerogeni occupazionali il pensiero corre all’amianto: anche i non addetti “al lavoro” sanno che l’amianto è cancerogeno per la pleura e il polmone (ma non solo). Invece molti non sanno che la Iarc (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) di Lione, organo tecnico dell’Oms (Organizzazione Mondiale per la Salute) ha individuato altri 120 agenti certamente cancerogeni (classe 1) e 82 probabilmente cancerogeni (classe 2A) per l’uomo, molti dei quali presenti in ambienti di lavoro. Dall’aprile 2019 è in vigore una nuova legge che istituisce la “rete dei registri tumori nazionale” che ha tra i suoi obiettivi quello di “valutare l’incidenza dei fattori di carattere professionale sulla diffusione delle patologie oncologiche”. Perché il caso dei tumori occupazionali è “strano”? Perché solo meno del 20% viene individuato. Siamo di fronte a una clamorosa sottonotifica. Dinanzi al cadavere di un morto sul lavoro lo Stato si comporta in modi differenti a seconda che la causa sia un infortunio (causa violenta, immediata, individuabile) o una malattia tumorale occupazionale (causa remota nel tempo e di complessa analisi). Il risultato di un infortunio mortale è evidente e non c’è bisogno di cercarlo. Il risultato di un tumore occupazionale mortale è lo stesso, ma il “nesso di causa” è molto meno immediato, salvo che le cause non vengano cercate attivamente da medici del lavoro esperti. Pertanto non esiste tanto un tumore occupazionale, quanto un malato di tumore occupazionale. Un tumore è un tumore: la differenza la fa la risposta alla domanda “Che lavoro ha fatto?”.

Conclusioni: 7-8 mila morti all’anno per tumore occupazionale sono un grave problema di salute per gli italiani. Individuarne le cause è fondamentale per la prevenzione: per evitare, cioè, future esposizioni rischiose e cancerogene in ambiente di lavoro. Ma c’è anche un enorme problema di giustizia per le vittime di questa strage silenziosa: lavoratori e lavoratrici che si ammalano e muoiono per pregresse esposizioni cancerogene sul lavoro. Problema per il neonato governo: far funzionare i servizi territoriali e ospedalieri (cronicamente sotto organico) che si occupano di salute in ambiente di lavoro; armonizzare la normativa (i professionisti che si occupano della questione non devono avere conflitti d’interessi e, pertanto, devono potersi interessare solo della questione); obbligare l’Inail, nell’esercitare la sua funzione di assicurazione sociale, a non avere utili di esercizio (che, oggi, si aggirano sui 2 miliardi di euro all’anno e sarebbero, pertanto, la Mecca di una assicurazione privata); garantire l’applicazione del sacrosanto principio giuridico “in dubio, pro misero”, favorendo la spesa di quelle risorse per indennizzare i malati (e i morti, nel caso dei tumori) per causa di lavoro. Uno stimolo dunque per un premier che – meritoriamente, a mio avviso – si è definito “avvocato del popolo” e un impegno che non aggiunga la beffa al danno per centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che, nei prossimi anni, si ammaleranno e, spesso, moriranno per un tumore da lavoro. Lavoro che era, è e rimane il concetto costituzionale su cui si fonda la nostra Repubblica.

*Medico del lavoro, Torino

Mail box

 

Migranti: Salvini mirava alla tv, gli accordi Ue lo dimostrano

Salvini sbraita e gli fanno eco i giornali vicini a lui: “Gli accordi fatti dai giallorossi sui migranti sono una fregatura. Riguardano gli arrivi con le navi Ong, che sbarcano solo il 10% del totale degli arrivi. Il 90% entra con barchini autonomi. Li avevo fermati, da ora in poi sarà un’invasione”. Ma con lui ministro dell’Interno le navi Ong costituivano sempre il 10% dei migranti e lui aveva fermato solo quelle. O meglio ci aveva provato, visto che, dopo un estenuante braccio di ferro, finivano per sbarcare lo stesso da noi. Tutto senza una ridistribuzione concordata a livello europeo come con i recenti accordi. Gli sbarchi con i barchini, quindi il 90% del totale, lui non li aveva fermati (sono poco televisivi?). Quindi mente spudoratamente.

Francesco Degni

 

L’ecologia non è un optional, perché intanto la Terra muore

Bene ha fatto il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres a convocare il primo vertice mondiale sui cambiamenti climatici a New York. Le ultime notizie fornite dall’Onu sono, ahimé, poco rassicuranti: gli ultimi quattro anni sono stati i più caldi di sempre. Altri segnali preoccupanti sono l’innalzamento dei livelli del mare, lo stato delle barriere coralline, i rischi per la sicurezza alimentare e, in generale, per lo stato di salute delle persone a causa dell’inquinamento. Intanto, leggo con profonda delusione quello che è emerso da questo summit: nessuno dei principali emettitori si è impegnato a fare di più per limitare l’introduzione di inquinanti in atmosfera.

Franco Petraglia

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito a quanto riportato nell’articolo “L’autunno in aula di Renzi sr., Lotti, Descalzi e gli altri”, teniamo a precisare che il 25 settembre non si terrà alcuna udienza “contro” l’Ad di Eni, ma un’udienza di audizione di testi indicati dalla difesa di Eni S.p.A., che rientra in un processo tenuto fortunatamente in un Tribunale che deve ancora stabilire se sia stato o meno compiuto un reato ed eventualmente da parte di chi (vi sono diversi imputati), ipotesi rispetto alla quale Eni ribadisce la propria totale estraneità e quella del suo management. Dal processo e dalle testimonianze finora apportate, peraltro, stanno emergendo a nostro avviso importanti elementi che vanno decisamente in questa direzione. Ci dispiace constatare come, per l’ennesima volta, il Fatto Quotidiano utilizzi nei propri articoli una tecnica e un linguaggio volti ad associare direttamente, non capiamo in base a quali elementi o interessi, il vertice di Eni a ipotesi di reato che in alcun modo sono stati accertati da alcun Tribunale: ciò che si spiega soltanto nell’ambito della propria “campagna” di chiaro stampo diffamatorio ai danni di Eni e del suo attuale vertice che il Vostro giornale persegue.

Erika Mandraffino, Senior Vice President, Eni spa

Nel processo Eni Nigeria, che si svolge davanti ai giudici del Tribunale di Milano, l’amministratore delegato Claudio Descalzi è imputato con l’accusa di corruzione internazionale in relazione a una presunta tangente da 1,1 miliardi per lo sfruttamento del giacimento petrolifero offshore Opl 245.

fq

 

In merito all’articolo su Trenìt ecco la posizione Trenitalia. Capitolo puntualità: Trenitalia fornisce costanti informazioni ai viaggiatori sia sulle offerte sia su eventuali ritardi attraverso sito web, app, mail e sms. Ogni passeggero è messo in condizione di controllare e/o di essere avvisato se il suo treno è in orario grazie a un sistema certificato che ne rileva in tempo reale la posizione. Capitolo trasparenza. Trenitalia è pienamente disponibile alla condivisione delle informazioni, e lo sta già facendo con altre piattaforme, a patto che ciò avvenga rispettando regole definite e a tutela del viaggiatore.

Invece Trenìt non permette un confronto equilibrato e trasparente. Condizione fondamentale per garantire ad ogni viaggiatore la possibilità di scegliere, con consapevolezza, fra tutte le opzioni disponibili. Abbiamo evidenziato casi in cui Trenìt fornisce informazioni errate sul best price rispetto a quello presente sui sistemi Trenitalia. In altri casi vengono proposte offerte che risultano non acquistabili in base all’età dei passeggeri.

Non bastasse, molte informazioni non sono aggiornate, come ad esempio le modalità di acquisto di alcuni posti a sedere o le condizioni commerciali delle offerte. Trenitalia, convinta della propria correttezza, ha preso atto della decisione cautelare del Tribunale di Roma e sta valutando le iniziative più opportune da intraprendere a tutela dei clienti.

Ufficio stampa Trenitalia

 

Ringraziamo Trenitalia per la precisazione che non smentisce nulla di quanto riportato nell’articolo. Posizioni che non sono mai state mosse da parte di Trenitalia in sede di contenzioso, ma soltanto a mezzo stampa. Restiamo in attesa di seguire l’evoluzione sul fronte giudiziario con le iniziative più opportune che l’azienda intraprenderà a tutela dei clienti.

Patrizia De Rubertis

 

I NOSTRI ERRORI

Nel mio pezzo di ieri sugli scettici blu appare a un certo punto la misteriosa (e inesistente) parola “canepino”, invece di calepino inteso come taccuino per gli appunti. Chiedo scusa.

Antonio Padellaro

Le bambole “inclusive” da comporre: siamo sicuri che serva questo?

Gentile redazione, ho letto che la Mattel ha realizzato delle nuove Barbie “senza genere”: si tratta di bambole che hanno corpi neutri e che i bambini potranno comporre con parrucche e abiti maschili o femminili a loro piacimento. Mi sembra che, finalmente, anche il mercato dei giocattoli stereotipati stia andando verso l’inclusione! Non appena arriveranno in Italia, le regalerò a mia figlia.

Anna Falsaperla

Cara Anna, come lei correttamente riporta, le bambole Mattel della collezione “Creatable World” saranno “libere da ogni etichetta”, come ha spiegato Kim Culmone, senior vicepresident di Mattel Fashion Doll Design. Ogni bambino troverà una scatola contenente una parrucca, sei capi di abbigliamento diversi (gonne, pantaloni, giacche), tre paia di scarpe (con tacchi e senza), un cappello e un paio di occhiali da sole. Tutto il kit per realizzare una creazione che assomigli, in tutto e per tutto, ai propri gusti e – forse – ai propri orientamenti sessuali. Bene, benissimo. Tutto ciò che può contribuire all’“inclusione” è naturalmente “welcome!”, come annuncia l’azienda stessa. Lungi da me, dunque, criticare una simile iniziativa. Però pongo a lei e ai nostri lettori una domanda. Anzi, più d’una. La prima parte dalla sua stessa considerazione, “lo regalo a mia figlia”. E se sua figlia fosse stato un maschio, gliel’avrebbe regalato lo stesso? Probabilmente sì, risponderà lei. Ma quanti, al suo posto, farebbero altrettanto? Ce li vede i genitori italiani, che già prima della nascita distinguono tra rosa e azzurro, superare così agevolmente il genere sessuale di una bambola? Io purtroppo no. E poi, è sicura che un bambino – penso a mio figlio di sei anni – voglia ricevere un oggetto non identificato che però ha la sembianze di una bambola? Io purtroppo no. E ancora: non crede che i bambini vadano lasciati liberi di scegliere con cosa giocare, evitando di indirizzarli e creare loro solo confusione? La cultura dell’inclusione è una cosa seria e richiede iniziative ad ampio respiro soprattutto da parte delle istituzioni. Il rispetto del genere, e dell’assenza di genere, dovrebbe partire dalle scuole, dove invece siamo ancora fermi alla “mamma che stira”. Quindi, piuttosto che auspicare l’arrivo di un giocattolo, chiediamo al governo di mettere in campo azioni concrete. E poi, mi lasci fare una battuta: noi siamo cresciute con le Barbie tettone a cui, per protesta, tagliavamo i capelli con il rasoio. E siamo cresciute bene.

Silvia D’Onghia

Donald come Salvini, autodistruzione show innescata dal potere che lo ha inebriato

Donald Trump sta vivendo il suo momento Salvini: una spettacolare autodistruzione innescata da un desiderio di potere che gli ha fatto perdere il senso del limite. La vicenda al centro della richiesta dei Democratici di avviare l’impeachment si riassume così: il 24 luglio il procuratore speciale Robert Mueller testimonia davanti al Congresso sul Russiagate. La sua inchiesta ha provato il lavoro sporco dei russi per favorire Trump nelle elezioni 2016 e i ripetuti contatti tra gli uomini del Cremlino e quelli del futuro presidente, ma non ha dimostrato l’indimostrabile, cioè che fosse una cospirazione organizzata fin dall’inizio e non una fruttuosa coincidenza di interessi.

Trump capisce di aver vinto la partita, la sua aggressiva comunicazione ha convinto gli americani e il mondo che il Russiagate fosse una bolla di sapone (falso). E quindi il giorno dopo chiama il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, per chiedergli di fornire elementi contro Joe Biden, il Democratico in testa ai sondaggi per le primarie. Se coopera, Trump sbloccherà aiuti da 391 milioni all’Ucraina che tiene congelati per avere una leva negoziale. Quando poi un agente segreto decide di usare la legge sui whistlblower, che protegge chi denuncia nefandezze commesse dai suoi capi, la Casa Bianca vieta al Congresso di aver accesso alla testimonianza: può farlo, ma equivale a pretendere che il presidente degli Stati Uniti sia al di sopra della legge.

Come Matteo Salvini, Trump ha deciso di poter controllare tutto: da alcuni mesi si è scelto l’avversario, l’ex vice di Barack Obama, Joe Biden, anche se nei sondaggi lui è in calo e avanza Elizabeth Warren; ha deciso di abusare della carica che ricopre per combattere una legittima battaglia politica; ha dato per scontata una supremazia del potere esecutivo sul legislativo e si è scontrato con i pesi e contrappesi della democrazia americana. Ha spinto i Democratici a fare l’unica cosa che non volevano: avviare l’impeachment che lascia a gran parte dell’elettorato l’impressione che nessuno dei candidati si sentisse sicuro di poter battere Trump alle urne, nel 2020.

Il suicidio di Trump è tanto più spettacolare perché nel merito ha ragione. Nel 2014, mentre il padre è vicepresidente, Hunter Biden entra nel cda della più grande compagnia di gas ucraina, la Burishima Holdings. Siamo nel pieno della crisi della Crimea, non è una cosa da poco per una società ucraina arruolare il figlio del vicepresidente Usa mentre sale la tensione con la Russia di Vladimir Putin. Hunter Biden non ha alcuna particolare esperienza professionale che giustifichi la nomina e i 50.000 euro al mese di stipendio. Già in quel momento la Burishima e il suo azionista di controllo, Mykola Zlochevsky, sono sotto indagine da parte del procuratore nazionale anticorruzione, Viktor Shokin. Gli Stati Uniti iniziano a fare pressioni sul governo ucraino perché intervenga su Shokin: la motivazione ufficiale è che non coopera con le autorità inglesi per un’inchiesta proprio su Zlochevsky e non si impegna abbastanza contro la corruzione. In un dibattito del 2016 (i video sono online), Joe Biden rivendica di aver minacciato il governo ucraino: niente aiuti se non licenziava subito Shokin: “Fra sei ore me ne vado, se non avete licenziato il procuratore non avrete i soldi. Oh, figlio di puttana, l’hanno cacciato, e hanno messo qualcuno più integro”. Quindi Biden aveva già confessato di aver agito in pieno conflitto di interessi e di aver fatto pressioni su un governo straniero per neutralizzare un procuratore anticorruzione che stava investigando l’azienda in cui lavorava il giovane Biden. Trump avrebbe potuto costruire una tempesta di tweet su questo, ma ha voluto strafare. E così ora è lui a rischiare la carriera politica per aver fatto, più o meno, quello che aveva fatto Biden nel 2016.

“Re Bibi” è vivo ma il governo nasce già morto

Il Re non è morto e riceve l’incarico di formare il governo. A testimoniare che Benjamin Netanyahu non è fuori dai giochi è arrivata ieri la decisione del presidente Rivlin: il partito Blu e Bianco e il suo leader Benny Gantz in qualche modo restano al palo, il Likud festeggia. Rivlin ha detto di aver affidato l’incarico a Netanyahu dopo la conclusione delle consultazioni con i partiti: Bibi ha ottenuto il sostegno di 55 deputati mentre il l’ex generale Gantz ne ha avuti 54: “Dieci di questi – ha detto il presidente – sono deputati arabi che comunque non entrerebbero in un suo governo”. Ora scatta il conto alla rovescia, Netanyahu ha 28 giorni di tempo per imbastire il governo, se non basteranno avrà una riserva di altre due settimane. Per giocare a carte scoperte Bibi annuncia: “Se non dovessi riuscire restituirò il mandato al presidente” anche prima dello scadere del tempo che gli è concesso.

La parola d’ordine è “governo di unità nazionale”, un esecutivo in cui Likud e Blu e Bianco abbiano lo stesso peso. Rivlin è stato chiaro su un punto: bisogna evitare che Israele sia costretto ad andare a una terza tornata di elezioni, dopo le prime svoltesi in aprile, e quelle del 17 settembre. E ha avvisato i due leader che se non troveranno una soluzione, si appellerà ai 120 deputati della Knesset perché siano loro a esprimere una terza figura capace di formare un governo. Re Bibi accoglie l’invito e chiede a Gantz di entrare nel governo di unità, ma il clima dentro Blu e Bianco fino a poche ore prima era questo; Yair Lapid – il numero 2 di Kahol Lavan (Blu e Bianco ) – aveva rilasciato un’intervista ai giornali israeliani in cui ribadiva: “Con tutti, ma mai con Netanyahu”. L’opposizione al Likud, dalla maggiore forza di centro alla sinistra, dai nazionalisti di Israel Beitenu ai partiti arabi, avevano un sogno: non vedere più la faccia di Netanyahu dentro la Knesset: saranno ora disposti a riaverlo come premier?

Oggi sarà una giornata di tensioni e strepiti dentro i vari schieramenti politici: accettare il governo di unità nazionale con Bibi non era nei programmi. Che carte restano all’opposizione? Gantz afferma che è aperto ai colloqui ma pone una condizione: che Netanyahu parli per il Likud e non faccia entrare nei negoziati i partiti di destra e religiosi: “Blu e Bianco appoggia l’idea del governo di unità, ma dal nostro punto di vista l’ordine appropriato vedrebbe negoziati tra i due maggiori partiti – e solo loro – al fine di raggiungere accordi sulle questioni sostanziali e sul carattere del prossimo governo”. Ma aggiunge anche: “Non siamo disposti ad alleanze con chi rischia di essere incriminato”. C’è infatti in sospeso questione giudiziaria che è una spada di Damocle su Re Bibi. Mercoledì prossimo ci sarà l’udienza preliminare sulle accuse penali mosse al premier, e la possibilità è che sia rinviato a giudizio. Si tratta dei tre casi: Caso 1000, Caso 2000 e Caso 4000. Secondo il procuratore generale, Avichai Mendelblit, Netanyahu deve essere accusato di frode e violazione della fiducia nei casi 1000 e 2000, di corruzione e violazione della fiducia nel caso 4000. Mendelblit prima di arrivare alle sue conclusioni ha consultato più di 20 alti funzionari che hanno esaminato le prove raccolte nei vari dossier. Secondo la legge israeliana, Netanyahu ha il diritto a un’audizione in cui può difendere il suo caso prima che sia presa una decisione definitiva.

Ancora Gantz: “Blu e Bianco non siederà in un governo il cui leader è sotto accusa. Questo problema, assieme ad altri temi essenziali, è più importante per noi di qualsiasi discussione sulla distribuzione di portafogli ministeriali o una rotazione nel ruolo di premier”.

“Devi indagare Biden”. Il “tradimento” di Trump

“Fammi il favore: indaga su Joe Biden e suo figlio”: lo chiede al presidente ucraino il presidente degli Stati Uniti. La diffusione del testo della telefonata tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump del 25 luglio crea fermenti a Washington, dove l’opposizione democratica ha ormai scelto la via dell’impeachment, perché “nessuno è al di sopra della legge. Il procedimento che può condurre alla rimozione del presidente può però rivelarsi un vicolo cieco per i democratici e un’autostrada verso la rielezione per il magnate. Per questo il partito non è compatto, dietro la mossa della speaker della Camera, la deputata della California, Nancy Pelosi, che ha annunciato la costituzione di commissioni per istruire la procedura.

La diffusione del testo della telefonata incriminata tra Trump e Zelensky allunga qualche ombra sulla Casa Bianca e allarga qualche crepa nel fronte repubblicano: la richiesta di indagare i Biden c’è, anche se non c’è il “do ut des” – che il magnate, in un tweet, confonde con il “qui pro quo” –. Il senatore dello Utah Mitt Romney, uno di quelli che dovrebbe essere giudici del presidente, ritiene la telefonata “molto preoccupante”. Ma Romney guida da sempre l’ala repubblicana anti-Trump e c’è chi lo vede candidato repubblicano alla Casa Bianca, se il presidente finisse fuori gioco.

Quasi scontato, invece, il commento di Adam Schiff, il presidente della commissione intelligence della Camera, una delle sei che devono istruire l’impeachment: per il deputato della California, “assistiamo al tradimento dei principi su cui il presidente ha giurato”. Hillary Clinton è risoluta: “Trump ha tradito, merita l’impeachment”. Di procedura, e di opzioni politiche, la Pelosi ha ieri parlato con i presidenti delle commissioni e, poi, con tutti i deputati democratici. Due fonti dell’Amministrazione hanno indicato al New York Times che il presidente, poco prima della telefonata galeotta, ordinò di sospendere aiuti all’Ucraina per 391 milioni di dollari. Trump, lunedì, aveva smentito di averlo fatto, ma aveva aggiunto che non ci sarebbe stato nulla di male se l’avesse fatto. Nell’America fortemente polarizzata di questa stagione politica, l’impeachment apre un nuovo spartiacque, che può spaccare i due campi, più profondamente quello dem, più marginalmente quello repubblicano. Anche se uno studio afferma che i cittadini americani sono meno divisi delle loro istituzioni, mai così conflittuali dai tempi della Guerra Civile, un secolo e mezzo fa.

L’idea che l’impeachment sia una trappola attraversa più di un analista. E, se non è una trappola, l’iniziativa può rivelarsi un boomerang, anzi un doppio boomerang. È una strada che si può imboccare, ma che non è affatto sinonimo di successo. Per di più, nell’attuale assetto politico degli Stati Uniti, mettere sotto procedura Trump è possibile, intrecciando quanto emerso nel Russiagate e quanto, magari, sta per emergere nel Kievgate, perché la decisione di sottoporre il presidente a impeachment spetta alla Camera, dove i democratici sono maggioranza. Ma il giudizio spetta al Senato, dove i repubblicani sono maggioranza.

Fin qui la trappola. Poi c’è il boomerang. La scelta crea intorno al presidente, che già se n’ammanta, un alone di fumus persecutionis e ne fa una vittima di “politicanti”: non riescono a batterlo con i voti e provano a farlo fuori con i cavilli. La seconda è che la vicenda sembra favorire la nomination di Biden. E, invece, se c’è un candidato che Trump vorrebbe trovarsi di fronte è proprio Sleepy Joe, più vecchio di lui, più establishment di Hillary e lento a cogliere nei dibattiti la battuta (lì dove Donald lo showman è fortissimo).

Riccardo Bossi non paga la cena: “Denunciato” L’ira del “Trota”

“La carta non funziona, vado a prelevare in banca e poi torno e pago il conto”. Peccato che non sia andata così. E Riccardo Bossi – 40 anni e primogenito del Senatùr – è stato denunciato per una cena non pagata da 66 euro in un locale di piazza Beccaria a Firenze. La notizia è riportata da Nazione e Corriere Fiorentino.

E non sarebbe nemmeno un episodio isolato. Un altro ristoratore – di Fiesole stavolta, 120 euro – racconta che avrebbe replicato il trucchetto anche con lui.

Il fattaccio ha avuto anche una ricaduta familiare. Non ci sta infatti Renzo, il fratello “Trota” più piccolo: “Io sono uno che lavora sodo – ha spiegato all’Adnkronos e vedere sui media titoli generici sul ‘figlio di Bossi denunciato per truffa’ mi fa arrabbiare, non mi sembra corretto e mi crea dei danni, vivendo io uno stile di vita completamente differente da quello di Riccardo. Lui non lo vedo quasi mai, gli ho scritto un messaggio dopo aver ricevuto decine di insulti rivolti a me dopo la pubblicazione di titoli che non specificano il nome”.

Coni, Malagò: simulare è peggio dei buuu. Poi si corregge

“È sbagliato se qualcuno fa buu a un giocatore di colore, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna 3 milioni di euro si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere un calcio di rigore”. Il numero uno del Coni Giovanni Malagò – il giorno dopo le offese a Pjanic a Brescia e nel pieno del ritorno degli insulti razzisti negli stadi alla ripresa del campionato – in una intervista a Radio24 “inciampa” maldestramente con una dichiarazione che scatena immediatamente polemiche. Tanto che subito dopo, a margine di un evento della Federscherma al Foro Italico, è stato costretto alla precisazione: “Non dico che il comportamento di chi simula sia peggiore di chi fa cori razzisti, ma ogni attore protagonista deve fare la sua parte nel modo eticamente migliore”.

E in serata sono arrivate le scuse per aver comunque “richiamato – nella concitazione del momento – una scala di gravità relativamente alla colpevolezza degli attori protagonisti rispetto all’argomento in oggetto”.

Per il metano green dai fondali marini, 800 mila dal Miur

Recuperare metano dai fondali marini e dal permafrost, sostituendolo con anidride carbonica. Il tutto con due obiettivi “green”: aumentare l’acquisizione di gas naturale e diminuire la presenza in atmosfera proprio di anidride carbonica. È l’innovativo progetto su scala nazionale a cui lavoreranno i laboratori di Ingegneria Industriale del polo universitario di Pentima, a Terni, che potranno sfruttare anche due appositi reattori “in grado di replicare le condizioni ambientali necessarie”. Il progetto ha ottenuto il massimo dei voti nella valutazione tecnica (100 su 100) e un finanziamento del Miur di 800mila euro.

A coordinare il programma – coinvolti anche il Politecnico di Torino, l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica, le università di Camerino e Ferrara – è il professor Federico Rossi. “Nei fondali marini oltre i 600 metri di profondità – spiega Rossi – ci sono riserve di metano stimate 4 volte superiori alla quantità che si trova nei giacimenti di terra (per la quale estrazione si produce tanta anidride carbonica quanto metano prelevato)”.

Oceani mai così caldi da 140 anni, il record di agosto 2019

Aumenta senza sosta la temperatura degli oceani: nel periodo giugno-agosto 2019 l’incremento medio della temperatura delle acque è stato di 0,82 gradi sopra la media del Ventesimo secolo, risultando al primo posto tra le estati “roventi” per gli oceani degli ultimi 140 anni, da quando sono cominciate le rilevazioni meteorologiche. È stato così eguagliato il record dell’estate 2016. I dati sono stati forniti dai Centri nazionali per l’informazione ambientale del Noaa, l’Amministrazione nazionale per gli Oceani e l’Atmosfera che hanno sede negli Usa. A livello di singolo mese, agosto è stato pure da primato, in quanto la temperatura degli oceani registrata è stata la più alta sempre degli ultimi 140 anni, con un incremento medio di 0,84 gradi. La temperatura globale dei soli oceani ad agosto scorso ha sorpassato il precedente record dell’agosto 2016 di 0,02 gradi. Lo scorso agosto condivide inoltre con il settembre 2015 il sesto posto tra i mesi con temperature più alte. Il primo in assoluto è il gennaio 2016, davanti a ottobre e novembre 2015.