“Forti perplessità – dichiara Mariarita Signorini, presidente nazionale dell’associazione Italia Nostra – sulla legittimità del Memorandum d’Intesa per lo scambio di opere d’arte tra Roma e Parigi, perché include anche il contestatissimo prestito dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci”. L’associazione chiede di sapere quali siano le motivazioni tecnico-scientifiche e oggettive che hanno portato alla modifica del provvedimento, e si richiama al Codice dei beni culturali. Ai sensi dell’art. 66, comma 2, del Codice, non possono infatti uscire dal territorio della Repubblica “i beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. E l’Uomo Vitruviano appartiene al fondo principale delle Gallerie dell’Accademia. Inoltre, sempre in base all’art. 66, non possono uscire dall’Italia “i beni suscettibili di subire danni nel trasporto o nella permanenza in condizioni ambientali sfavorevoli”. Ecco perché Italia Nostra si riserva la possibilità di muovere eventuali ricorsi al Tar.
L’omaggio per il nuovo patto: l’Uomo Vitruviano al Louvre
Dopo i due colpi al territorio e al paesaggio (il nuovo impulso all’aeroporto di Firenze e la sostanziale apertura alla permanenza delle Grandi Navi in Laguna), ecco la prima stoccata al patrimonio culturale del Dario Franceschini tornato in sella: l’Uomo Vitruviano di Leonardo andrà in Francia. Intorno allo spostamento del delicatissimo foglio leonardiano la battaglia divampava da tempo. Era stato lo stesso Franceschini, nella sua prima vita al Collegio Romano, a iniziare le trattative con il Louvre: un complicato scambio di opere, legato al doppio cinquecentenario leonardesco e raffaellesco, e guidato dalle ragioni della diplomazia e della politica, non certo da quelle della conoscenza o della tutela delle opere d’arte. Una volta tanto, però, c’era stato un Bartleby capace di dire “preferirei di no”: era stata Paola Marini – l’allora direttrice delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, che possiede l’opera – ad argomentare intorno all’impossibilità di far viaggiare e di esporre per mesi un pezzo di carta così delicato. Immolarlo alle ragioni della politica avrebbe comunque avuto un costo pesante: il disegno avrebbe poi dovuto rimanere al buio, non visto da nessuno, per cinque anni. Quanto ai tanti pericoli possibili – il cui rischio non si può mai ridurre a zero –, per la direttrice, per i restauratori del museo e per il consiglio scientifico, essi erano così gravi da indurre al diniego.
Spazzato via il Franceschini primo con il voto del 4 marzo 2018, le ragioni della politica internazionale avevano trovato un sensibilissimo orecchio in Giovanni Panebianco, segretario generale nominato dal ministro Alberto Bonisoli. Panebianco si era nominato direttore ad interim dell’Accademia e aveva deciso (non si sa in forza di quale competenza scientifica) che il prestito andasse riconsiderato. Investito del problema, l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze aveva da una parte ridimensionato le preoccupazioni della Marini, ma dall’altra aveva prescritto un riposo post-mostra di ben dieci anni.
Su questa base, il nuovo direttore dell’Accademia, Giulio Manieri Elia, ha istruito positivamente la pratica che martedì Franceschini ha formalmente chiuso, firmando a Parigi un protocollo sugli scambi di opere dei due giganti rinascimentali.
Ma la partita non finisce qua, perché la sezione veneziana di Italia Nostra guidata da Lidia Fersuoch, minaccia un ricorso al Tar, anche col conforto di un’altra storica direttrice dell’Accademia, Giovanna Nepi Scirè, fermamente contraria al prestito. L’argomento è di peso: l’articolo 66 del Codice dei Beni Culturali, il quale stabilisce che: “Non possono comunque uscire [dal territorio della Repubblica]: a) i beni suscettibili di subire danni nel trasporto o nella permanenza in condizioni ambientali sfavorevoli; b) i beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. E, non c’è dubbio, che il celeberrimo foglio veneziano ricada in entrambe le categorie.
Da Parigi Franceschini ha replicato che “il prestito dell’Uomo Vitruviano ha seguito tutte le procedure e tutte le autorizzazioni previste dalla legge italiana”. Ebbene, posso pubblicamente dire che questo non è vero: il Comitato tecnico scientifico per le Belle Arti del Mibact, competente per i pareri sui prestiti di particolare peso (e presieduto da chi scrive), non è mai stato investito della questione.
Naturalmente, non sono in grado di divinare cosa avrebbe detto il Comitato (né questa sarebbe la sede per farlo): il mio voto, in ogni caso, sarebbe stato negativo. La ragione è molto semplice: le questioni tecnico-scientifiche devono essere decise in sedi tecnico-scientifiche, non in sedi politiche. Quando un direttore di museo, confortato dai suoi laboratori e dal suo consiglio scientifico, dice di no, la politica non può e non deve forzare la mano con pressioni indebite, cercando altre sedi decisionali e agendo dietro le quinte. Conte aveva promesso il disegno a Macron in persona, e oggi il Ministro della cultura francese definisce questa decisione di Franceschini un “simbolo dell’amicizia franco-italiana”.
Questa invadenza irrefrenabile del potere della politica è uno degli elementi più detestabili della corruzione del sistema italiano. E d’altra parte la Costituzione della Repubblica, col suo articolo 9, aveva creduto di mettere per sempre fine all’epoca in cui le opere d’arte erano pedine nelle mani della politica e della diplomazia: perché ora la loro funzione sarebbe creare cultura attraverso la ricerca.
Carlo Azeglio Ciampi aveva voluto che quel misuratissimo corpo umano stesse sulla moneta italiana da un euro, per simboleggiare la necessità che fosse la persona umana a dare la misura all’economia, e non viceversa. Oggi, al contrario, l’Uomo Vitruviano di Leonardo si trova a misurare il piccolo cabotaggio di una leadership europea, prepotente e ignorante, che gioca a carte con le figurine.
“Vale, voglio farla finita” E poi scrissi quella email…
“Non credi che non ci sia più niente da fare?”, mi aveva domandato Fabiano dal letto della sua stanza milanese, un giorno, mentre lo sistemavo per uscire. Eravamo rientrati da poco, il viaggio di ritorno dall’India lo avevamo fatto soli, senza Jack, ma eravamo stati bravi ed ero riuscita a riportarmelo a casa. Io avevo già pensato che, forse, probabilmente, avevamo esaurito le chance. Che, forse, probabilmente, non ci sarebbe più stato niente da fare, ma mi ero sempre ben guardata dal condividere con lui questo mio pensiero tanto realistico quanto doloroso. […] Non gli andava più nemmeno di fare quella fisioterapia che, premiandone gli sforzi, lo aveva aiutato a combattere i dolori del suo corpo immobile.
“Non credi non ci sia più niente da fare?” Era la prima volta che me lo diceva così, a bruciapelo. I dolori fisici, senza più il beneficio della fisioterapia, erano molto aumentati e Fabiano chiedeva di essere sedato continuamente, mentre anche la voglia di uscire era svanita, vista la fatica che lo divorava ogni volta che decidevamo di fare qualcosa: la qualità della sua vita e quindi i suoi pensieri erano compromessi. […] Fabiano aveva cominciato ad arrendersi e io con lui. Soffiava la primavera del 2016. “Non credo ci sia più niente da fare. Sai cosa voglio per me. Me lo hai promesso”. “Hai sempre la possibilità di dire basta, sappilo”, gli avevo risposto. Glielo avevo sempre assicurato che avrei rispettato la sua volontà: per me era un modo di restituirgli un po’ di quella dignità che il suo corpo impazzito gli toglieva ogni santo giorno rendendolo dipendente dai farmaci e dagli altri, straziato dai dolori, inchiodato dentro a un letto.
“Vale basta, la voglio far finita: cerca informazioni su dove posso avere l’eutanasia in Europa. Lo sappiamo entrambi che non c’è più niente da fare”. “Sì, forse sì”, gli ho risposto, infine, convinta di quel che mi stava dicendo: “Sappi che io sono comunque vicino a te”.
Per quanto questo mi ferisse, la mia presenza non era più sufficiente a dargli una ragione valida per vivere ogni giorno prostrato dai dolori e dai cateteri e umiliato dalle pappette con le quali ormai da troppo tempo si nutriva, e da quegli occhi stronzi, divenuti inutili. “Hai sempre pensato che i tuoi occhi bastassero anche per me, ma non è così. Per questo devi aiutarmi a trovare le informazioni che ti ho chiesto”. “Va bene”. Dopo averne discusso a lungo, eravamo tristemente d’accordo. Abbiamo pianto insieme, lo abbiamo fatto tante volte. Finché lui ha iniziato a redarguirmi: “Basta piangere adesso”, mi diceva. E allora dovevo smettere e provare a trattenere le lacrime che continuavano a scorrermi dentro, insieme al sangue, nelle vene. “Se devi venire qui a piangere, non venire più”. Me lo diceva serio e io mi dannavo: “Com’è possibile?”, mi domandavo. “Com’è possibile che sia così egoista, che non pensi anche a me?” Non capivo perché fosse diventato tanto cattivo. L’ho afferrato più tardi: mi stava solo chiedendo aiuto. E da quando l’ho compreso ho smesso di piangere con lui. […]
Quando ho cominciato a raccogliere informazioni su come e dove fosse possibile l’eutanasia in Europa, era per me un mondo del tutto misterioso, al quale mi affacciavo con spaesamento, travolta dalle leggi, dalle burocrazie e dalle regole che cambiano di posto in posto. La prima idea era stata l’Olanda, dove abitava dj Robin, amico di Goa al quale eravamo entrambi molto legati che aveva iniziato Fabiano alla vita notturna di lì e alle serate. Ma l’Olanda consente la procedura solo ai suoi cittadini, ragione per la quale era stata subito scartata. Andando avanti con le mie ricerche, mi ero resa conto che l’unico posto al mondo nel quale sarebbe stato possibile fare ciò che Fabo chiedeva, cioè togliersi la vita nel modo più indolore, veloce e dignitoso possibile, era la vicina Svizzera. […] Finché un giorno mi sono decisa e ho chiamato un’associazione. “Buongiorno, chiamo perché vorrei avere informazioni sulla procedura da seguire per ottenere l’eutanasia in Svizzera. È per mio marito”. Avevo deciso che avrei millantato di essere la moglie per evitare qualsiasi tipo di ostacolo, almeno iniziale. In realtà, prima di partire per Bombay, Fabiano mi aveva chiesto di sposarlo. Non gli ho mai detto no, la cosa è sempre rimasta sospesa, anche se nella mia testa era come se lo avessimo fatto e fossimo marito e moglie. Solo, ho voluto preservare la mia vita, non volevo ritrovarmi vedova a 38 anni, mi spaventava l’idea che poi, una volta perso Fabiano, avrei dovuto dire “mio marito è morto”. […] “Si iscriva alla nostra associazione e poi ci risentiamo”, mi aveva risposto una voce fredda dall’altra parte del telefono, come avessi chiamato in posta oppure in banca, senza fornirmi non dico conforto umano, ma nessuna ulteriore informazione rispetto a quanto avevo trovato da sola vagando per la rete. […]
Senza darmi per vinta, ho proseguito con le mie ricerche e ho provato con l’Associazione Luca Coscioni. Dopo svariati tentativi, sono riuscita a mettermi in contatto con la loro sede di Roma: “Va bene, guardi: possiamo lasciarle la mail di Marco Cappato. Può rivolgersi direttamente a lui per spiegare la situazione, le lascio l’indirizzo al quale scrivere: emme punto cappato…”. […]
Ho aspettato qualche giorno, mentre le richieste di Fabiano si facevano sempre più insistenti, quindi mi sono decisa.
Data: 31 maggio 2016 11:38
Oggetto:
A: m.cappato@………
Buongiorno, sono la fidanzata di un ragazzo di 38 anni rimasto cieco e tetraplegico due anni fa a causa di un incidente. Ha chiesto a me e sua madre (unica parte della sua famiglia) di occuparci di tutto ciò che riguarda il suicidio assistito. Io ho già preso dei contatti ma vorrei avere la possibilità di esporle alcune domande per serenità di Fabiano (il mio ragazzo appunto) e di sua madre. Potremmo sentirci telefonicamente? Noi siamo di Milano. Grazie per l’attenzione.
Valeria
Dopo qualche ora, mentre cercavo di placare l’irrequietezza di Fabiano che insisteva per avere dettagli sempre più concreti, è arrivata la telefonata che aspettavo. […] “Possiamo darci del tu, Valeria?”
“Certamente”.
“Guarda, l’Associazione non si occupa della burocrazia, diciamo. Una volta che vi sarete messi in contatto con la clinica Dignitas, saranno loro a valutare il caso di Fabiano: noi interveniamo solo qualora arrivi…”
“Il semaforo verde”.
Sapevo già tutto, mi ero documentata, ma non ero pronta per la trafila lunghissima che avremmo dovuto seguire prima di ottenere la luce verde di quel semaforo. […] Sapevo benissimo che avrebbero potuto accusarmi di estremo egoismo, ma in quel periodo di mesi strazianti per me è stato esattamente l’opposto: io mi sono messa da parte per liberare lui. Se Fabiano avesse voluto vivere così, io me lo sarei tenuto. Ma non voleva e lo sottolineava con una ferocia crescente, ogni volta che abbiamo provato a persuaderlo o a rallentare quella corsa terribile verso la morte indotta, diventata l’unica cosa che desiderava.
Csm, entro fine anno saranno sostituiti i dimissionari
Falciato dalle dimissioni di cinque componenti per lo scandalo delle nomine, emerso dalle intercettazioni dell’inchiesta di Perugia per corruzione sul pm romano Luca Palamara, il Csm tornerà alla sua composizione piena alla fine dell’anno. Il 6 e 7 ottobre si terranno le elezioni suppletive per sostituire due dei dimessi che erano stati eletti nel collegio destinato ai pm. E a distanza di due mesi, l’8 e il 9 dicembre prossimi, i magistrati torneranno alle urne per eleggere un nuovo consigliere togato della quota giudici. Il voto di dicembre è stato indetto oggi dal capo dello Stato Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente. E servirà a sostituire l’ultimo dei consiglieri che ha lasciato Palazzo dei marescialli, Paolo Criscuoli, di Magistratura Indipendente e che ora tornerà a fare il giudice a Palermo, come ha deliberato il plenum. Così a dicembre il Csm tornerà al completo, anche perché intanto sarà stato nominato anche il nuovo Pg della Cassazione, componente di diritto del Consiglio superiore della magistratura, in sostituzione di Riccardo Fuzio, che ha anticipato il pensionamento dopo essere stato indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto d’ufficio.
La pm Siciliano: “Sono molto contenta indicazioni chiare”
“Sono molto contenta da una parte perché il tema che abbiamo presentato è stato accolto, ritenendo che ci fosse un grosso problema di costituzionalità, dall’altra parte c’è un po’ di dispiacere che il Parlamento non abbia trovato il tempo o la volontà di affrontare un tema per il quale la sede naturale, giusta e auspicata è quella parlamentare”. Così il procuratore aggiunto di Milano Tiziana Siciliano commenta la decisione della Corte Costituzionale sul caso Dj Fabo. La Corte “ha dato delle indicazioni che sono chiare, precise e che condivido appieno non fosse altro che perché le ho sollevate. Ha ancorato la legge 219 che dà indicazioni sui soggetti capaci per quanto riguarda le disposizioni sulle terapie e sulla propria volontà a proseguirle, ma ci vuole un passo ulteriore che, secondo, me è indispensabile e quindi noi ci aspettiamo che questo passo venga fatto”, spiega il magistrato che ha rappresentato la pubblica accusa nel processo milanese. “È un tema serio che poteva essere affrontato in tempi ragionevoli dal Parlamento. La sede naturale per un tema di tale delicatezza è quella. Si tratta di una grande valutazione su tanti aspetti come il senso della vita, la dignità dell’esistenza e l’autodeterminazione”.
Vescovi e medici: “Obiezione di coscienza”. Si allarga il fronte della reazione cattolica
Iniziano i medici: “Quello che chiediamo ora al legislatore è che chi dovesse essere chiamato ad avviare formalmente la procedura del suicidio assistito, essendone responsabile, sia un pubblico ufficiale e non un medico”, dichiara il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli. Spiega: “Ci sarà una forte resistenza da parte del mondo medico”. E non è un mistero, già nei giorni scorsi l’associazione dei medici cattolici italiani (Amci) aveva reso noto che qualora il Parlamento “legiferasse a favore del suicidio medicalmente assistito” ci sarebbero “almeno 4 mila medici cattolici pronti a fare obiezione di coscienza”.
Poi arriva anche la Cei. Parla di “sconcerto”, “preoccupazione” e presa di “distanza”. Chiarisce: “Si può e si deve respingere – scrive la presidenza Cei facendo proprie le parole del Papa – la tentazione, indotta anche da mutamenti legislativi, di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”. Pensano che il mutato stato delle cose possa accrescere il numero dei malati che chiedano il suicidio assistito. Per questo i vescovi “si attendono che il passaggio parlamentare riconosca nel massimo grado possibile tali valori, anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta”.
Papa Francesco aveva del resto raccomandato ai medici di “respingere la tentazione, indotta anche da mutamenti legislativi, di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”. La Cei la cita. E Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale rilancia: “La volontà di togliersi la vita, anche se attraversata dalla sofferenza e dalla malattia, rivela una mentalità diffusa che porta a percepire chi soffre come un peso… L’approvazione del suicidio assistito nel nostro Paese aprirebbe un’autentica voragine legislativa, in contrasto con la Costituzione italiana, perché ‘la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo’, il primo dei quali è quello alla vita”. Un punto di vista condiviso dalle schiere politiche di destra. “Sono e rimango contrario al suicidio di Stato imposto per legge – commenta il segretario della Lega Matteo Salvini – Parliamo con i medici, parliamo con le famiglie, però la vita è sacra e da questo principio non tornerò mai indietro”.
Decisamente contraria anche la senatrice dell’Udc Paola Binetti: “La Costituzione non parla di diritto di autodeterminazione e, pertanto, secondo il nostro punto di vista, non può esistere un diritto al suicidio per mano dello Stato. Il suicidio assistito non può ricadere sui medici, dunque, e sul Servizio sanitario nazionale”. Le fa eco Massimo Gandolfini, leader del Family Day: “Faremo ogni contrasto possibile e immaginabile, a livello di partiti, di parlamento e società civile, affinché non si componga una legge. Faremo tutto il possibile perché non si arrivi a una legge che consenta l’eutanasia attiva”. Propone dunque un coordinamento generale “fra tutte le associazioni cattoliche che si sono ritrovate l’11 settembre con la Cei, per studiare la strategia migliore dal punto di vista politico, legislativo ma anche culturale”.
Si preannuncia dunque una dura lotta in Parlamento per la definizione di termini e limiti di una procedura così delicata e controversa. Anna Maria Bernini, presidente dei senatori Fi, rinnova l’invito a discuterne in tempi brevi: “Sui temi del fine vita, si tratti di suicidio assistito o di eutanasia, spetta al Parlamento trovare una soluzione equilibrata, ed è dovere preciso delle forze politiche, anche alla luce della pronuncia di stasera, considerare la questione come assolutamente prioritaria”.
“Decisione equilibrata Ora subito una legge”
L’anno di tempo concesso dalla Corte costituzionale al Parlamento per intervenire sul fine vita è scaduto inutilmente. Anche se ieri, mentre la Corte era riunita in vista della decisione giunta in serata, in Senato è stato presentato un disegno di legge firmato da parlamentari delle forze di governo. La Consulta intanto però ha deciso, ritenendo non punibile, a determinate condizioni, “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio”. Abbiamo chiesto un parere su questa controversa decisione a Giovanni Maria Flick, Guardasigilli del governo Prodi e presidente emerito della Consulta, che nei mesi scorsi è stato ascoltato in Parlamento proprio su questo tema.
Professore, che pensa di questa apertura della Corte costituzionale all’aiuto al suicidio?
Bisogna ovviamente attendere la motivazione per capirne i profili tecnici e il significato, oltre il messaggio, peraltro chiaro, del comunicato. Al di là di quei profili, mi sembra una decisione ragionevolmente equilibrata. Precisiamo: non si tratta di una liberalizzazione del suicidio mediante aiuto del terzo, ma di un caso eccezionale.
L’Avvocatura dello Stato aveva chiesto che la Corte dichiarasse l’inammissibilità perché serve “una disciplina generale della materia”. D’accordo?
Pienamente. Anche perché questa è stata, fino a poco tempo fa, la prassi consolidata della Corte: non sostituirsi al legislatore ma chiederne l’intervento, come nel caso del sovraffollamento delle carceri, quando la Corte aveva lanciato un monito al legislatore che entro certi limiti le ha dato retta. In altri casi il monito è stato ignorato. Capisco tuttavia che in una situazione drammatica la Consulta non abbia voluto che operasse la proibizione legislativa generica.
Però è toccato di nuovo alla Corte supplire al compito che dovrebbe spettare al legislatore. Il disegno di legge presentato al Senato è fuori tempo massimo?
Non c’è un tempo massimo o minimo. Molti, tra cui il sottoscritto, erano rimasti perplessi di fronte a una manifestazione di leale collaborazione da parte della Corte (l’anno “concesso” al Parlamento per provvedere) che poteva, anche vista la brevità del tempo a disposizione, sembrare una “pressione”.
I medici, in particolare quelli cattolici, sono sul piede di guerra e sostengono che l’aiuto al suicidio sia contrario al loro codice deontologico: il giuramento d’Ippocrate è più forte della legge?
Non mi pare proprio. Tra la prescrizione deontologica e la legge non può che prevalere la legge. Semmai si tratta di verificare la possibilità di un ricorso alla Consulta stessa perché valuti se non si comprime in modo eccessivo l’autonomia professionale dei medici, riconosciuta dalla Costituzione.
Sarà sempre possibile l’obiezione di coscienza, che di fatto rende inapplicabile in molte regioni la normativa sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Se, come sembra, la decisione della Corte richiede la presenza del sanitario, la previsione dell’obiezione di coscienza mi sembra inevitabile. Si tratta in fondo di una situazione simile a quella dell’aborto terapeutico per il quale l’articolo 546 del codice penale è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venire interrotta quando la prosecuzione della gestazione comporti un danno o un pericolo grave e altrimenti non evitabile, per la salute della madre.
Nella sua audizione alla Camera lei ha detto: “Indubbiamente la differenza fra chi può e chi invece non può darsi la morte da solo e difficile da accettare”. Cosa significa?
Una scelta di questo tipo comporta molti interrogativi: in primo luogo la necessità per la Corte di “creare” un sistema ragionevolmente complicato e comunque sempre modellato su una specifica situazione concreta. In secondo luogo il riferimento, implicito, all’autodeterminazione, che può finire per svalutare il principio di solidarietà. Accompagnare una persona alla morte deve avvenire in un contesto in cui è fondamentale la solidarietà; l’enfasi eccessiva dell’autodeterminazione – a parte il carattere elitario di questo concetto – può far dimenticare l’esigenza di solidarietà (…“In fondo lo ha chiesto lui”…). La Corte non ha risposto al quesito, che le è stato sotto posto (il rapporto tra il bene vita e l’autodeterminazione) ma a un altro quesito: l’alternativa tra chi può darsi la morte da solo e chi no, la distinzione tra la situazione di Piergiorgio Welby e quella di Dj Fabo.
“L’aiuto al suicidio non è reato se sceglie il malato terminale”
La Consulta ha stabilito l’incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale nella parte in cui prevede il divieto assoluto dell’aiuto al suicidio oggi punito in qualsiasi caso con una pena fino a 12 anni. Per la Corte costituzionale l’attuale previsione normativa lascia privo di tutela il malato che senza l’assistenza di terzi è nella materiale impossibilità di autodeterminarsi nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze come consentito dalla legge del 2017 sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Questo nei casi in cui sia affetto da una “patologia irreversibile fonte di sofferenze intollerabili, tenuto in vita artificialmente ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Proprio come Fabiano Antoniani (Dj Fabo) che aveva chiesto a Marco Cappato di accompagnarlo in Svizzera presso la sede clinica Dignitas di Pfaffikon, dove il suicidio si è verificato il 27 febbraio 2017. Il leader radicale che si era autodenunciato è sotto processo davanti alla Corte di assise di Milano che ha rimesso il caso alla Consulta e che ora dovrebbe mandarlo assolto. “Da oggi siamo tutti più liberi – ha commentato Cappato –. Ora vedremo cosa accadrà per quanto riguarda i miei processi. La sentenza della Consulta comunque non chiude la questione politica anche se ora i parlamentari sono più liberi anche rispetto ai capi dei loro partiti. Che inviteremo tutti al congresso della associazione Luca Coscioni che si terrà a Bari dal 3 ottobre per rilanciare la sfida per una legge che consenta di vivere liberi fino alla fine”.
Per la Corte costituzionale la norma del codice è incostituzionale perché non prevede quali siano i limiti di punibilità dell’aiuto al suicidio che resta reato. In attesa di un intervento del legislatore, la Corte ha fissato alcuni paletti: la non punibilità è subordinata al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (previsti dalla legge sulle Dat) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.
Ora però il Parlamento dovrà fare la sua parte recependo queste indicazioni: ieri al Senato è stato depositato un nuovo disegno di legge sottoscritto da esponenti dei partiti che sostengono la maggioranza (Cirinnà, Cerno De Petris, Mantero, Nencini, Nugnes e Rampi) che prevede la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio attraverso la somministrazione di farmaci idonei a provocare rapidamente e senza dolore la morte di malati che lo richiedano e che si trovino proprio nelle condizioni stabilite dalla Consulta. Il testo prevede che la procedura possa avvenire anche presso il domicilio del paziente ma sempre nell’ambito del servizio sanitario nazionale da parte di personale medico che non abbia invocato l’obiezione di coscienza.
Ma la Federazione nazionale dei medici (Fnomceo) è sul piede di guerra e ha chiesto che la responsabilità connessa alla decisione della Corte costituzionale non ricada sul personale sanitario. “Chiediamo che sia un rappresentante dello Stato a procurare al paziente il farmaco che dovrà assumere: non chiedeteci di abiurare ai principi millenari del nostro Codice e del nostro giuramento”. Ma non tutti i medici la pensano allo stesso modo: centinaia di medici cattolici sarebbero pronti all’obiezione di coscienza, mentre in 237 hanno già firmato l’appello in favore della possibilità di scelta del suicidio assistito. Insomma il tema resta delicatissimo. Proprio per questo finora ogni tentativo di metterci le mani da un punto di vista normativo è fallito.
Lo scorso anno la Consulta aveva deciso di rinviare la sentenza arrivata ieri nella speranza che il Parlamento si incaricasse di una riforma delle norme non compatibili con la Costituzione. Tuttavia alla Camera, dove era stato incardinato il dibattito, ci si era dovuti arrendere: il 1° agosto si era preso atto dell’impossibilità di arrivare a un testo base tra i 5 disegni di legge depositati su cui dal 27 febbraio al 25 giugno erano state svolte 44 audizioni informali tra giuristi, bioeticisti e medici oltre che associazioni mobilitate a favore o contro l’eutanasia e il suicidio assistito. Ora bisognerà ritentare ripartendo da Montecitorio o provando a farlo a Palazzo Madama: i magistrati come quelli della Corte di Assise di Milano, da ieri, con la sentenza della Consulta, hanno una stella polare.
Per la prima volta il “Capitano” torna sotto al 30 per cento
Frenata nei consensi per la Lega: i numeri dei sondaggi cominciano a misurare la perdita di appeal di Salvini agli occhi degli italiani dopo la destituzione del governo Conte. Secondo la rilevazione dell’istituto Ixè per Cartabianca, il Carroccio scivola sotto il 30%. pur restando il primo partito. Non era mai sceso così in basso dalle elezioni politiche del 2018. I consensi di Pd e M5S restano quasi invariati e procedono paralleli: 21,8% per i democratici, 21,5% per i Cinque Stelle. Aumenta invece il distacco fra Fratelli d’Italia (8,6%) e Forza Italia (6,5%). Il neonato partito di centro, Italia Viva, fondato da Renzi una settimana fa, racimola appena il 2,9%. Sempre alta invece la fiducia nel premier Conte, con quasi il 50% degli intervistati dalla sua parte. Gli italiani sarebbero però poco inclini a credere nel nuovo esecutivo, soprattutto dopo la scissione del Pd: solo il 18% pensa che durerà fino all’elezione del prossimo presidente della Repubblica nel 2022. Il 30% ritiene che si tornerà al voto alla fine dell’anno prossimo, mentre il 25% pensa perfino che il governo farà fatica ad arrivare a Natale.
B. fa la giravolta e aiuta Salvini sui referendum
Il centrodestra si ricompatta per così dire sul referendum pro-maggioritario, ma le tensioni tra i ritrovati alleati restano alle stelle. Anche a causa del mancato vertice previsto in settimana che doveva mettere un punto sulle candidature alle Regionali: vertice saltato, anzi nemmeno mai convocato, secondo Matteo Salvini. Mentre secondo forzisti e meloniani, è stato il leader leghista a farlo saltare.
In ogni caso, ieri, i consigli regionali di Sardegna, Veneto, Lombardia e Friuli hanno votato a favore del referendum leghista per abolire la quota proporzionale del Rosatellum (l’attuale legge elettorale). Per avviare la pratica ne servirà un altro e oggi si vota in Liguria e Piemonte. Se passerà il sì, lunedì 30 settembre i quesiti saranno presentati da Roberto Calderoli in Cassazione, appena in tempo per andare al voto in primavera. “Mentre il governo vuole ripristinare il proporzionale, noi lavoriamo a una legge chiara e trasparente che consentirà ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti e di sapere subito da chi saranno governati”, ha detto Salvini. Peccato che questa accelerazione abbia rischiato di far naufragare subito i rapporti difficilmente ricuciti con gli alleati.
Berlusconi, infatti, che si era espresso per il proporzionale, due giorni fa aveva dato indicazione per l’astensione. Senza i voti forzisti, però, i referendum leghisti sarebbero abortiti. Così è andato in scena un pressing notevole da Via Bellerio su Forza Italia. E ieri il voltafaccia: FI ha concesso ai suoi consiglieri libertà di coscienza, facendo vincere il sì. Al contempo, però, i berluscones hanno chiesto agli alleati di votare un ordine del giorno che chiede il mantenimento di una quota proporzionale, perché “bipolarismo non significa bipartitismo”, e l’impegno “a presentare una legge per l’elezione diretta del capo dello Stato”.
Se oggi otterrà il voto di un’altra Regione, la Lega incasserà la sua vittoria su una battaglia che però a molti pare fuori sincro. Anche perché tutti sanno che la legge proporzionale sarà l’ultimo atto di questo governo, che ora ha tutto l’interesse a tenersi il Rosatellum in modo da togliere a Matteo Renzi qualsiasi velleità di staccare la spina. “La Lega ha conservato il brutto vizio di partire con iniziative politiche senza consultare gli alleati”, fanno notare da FdI. Tanto che Berlusconi è stato costretto a un doppio salto mortale per arrivare a un compromesso. “La legge elettorale non è una priorità degli italiani”, ribadiva pure ieri Anna Maria Bernini. Peraltro sono in molti a sostenere che poi i quesiti saranno giudicati incostituzionali dalla Consulta, perché il Rosatellum senza la quota proporzionale sarebbe inapplicabile dato che occorre ridisegnare tutti i collegi.
Infine, si litiga pure sulle Regionali. Mentre sembra chiusa la questione umbra, dove il candidato del centrodestra sarà la leghista Donatella Tesei, sul resto è tutto per aria. Fi e Fdi, infatti, hanno fatto recapitare a Salvini il seguente messaggio: se ti prendi l’Umbria, non puoi avere anche l’Emilia. Così è sempre più in bilico la candidatura di Lucia Borgonzoni, con FdI che continua a spingere per Galeazzo Bignami. Mentre in Calabria i berluscones, soprattutto Jole Santelli, puntano ancora sull’ex sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, che però Salvini ha bocciato anche per via dell’inchiesta sulle presunte irregolarità nella gestione degli appalti pubblici in cui è coinvolto insieme al governatore uscente Mario Oliverio (Pd). Poi si voterà anche in Toscana, Puglia e Campania. Qui, secondo le voci, potrebbe correre Mara Carfagna. L’ex Cav, dicono, ne sarebbe felice. Anche perché si toglierebbe un bel problema nel partito a Roma.