Umbria: fronda 5S anti-Pd. In lista il vice della Marini

Per capire il clima che si respira nel M5S umbro basta sentire la deputata di Perugia, Tiziana Ciprini: “Per digerire i candidati del Pd ci vorrà il Maalox”. Un’uscita del tutto normale, se non fosse che dopo la formazione del governo Conte II, adesso Pd e M5S sono alleati anche in Umbria e corrono insieme in vista delle prossime Regionali del 27 ottobre. L’accordo ormai è stato raggiunto sul nome dell’imprenditore di Norcia Vincenzo Bianconi, la macchina della formazione delle liste è stata messa in moto, ma i mal di pancia nel M5S restano. E del Maalox consigliato da Beppe Grillo dopo le Europee del 2014, i 5 Stelle umbri ne dovranno ingerire molto. Raggiunto l’accordo sul nome di Bianconi, le chat di iscritti e dirigenti sono diventate roventi. I messaggi più ricorrenti: “Così prendiamo lo zero virgola” o “lasciamo praterie alla Lega che vincerà” racconta un dirigente umbro che quelle conversazioni le ha lette.

Poi c’è stata la riunione di lunedì sera che doveva avere solo uno scopo organizzativo, ma si è trasformata subito nello sfogatoio di molti iscritti ed eletti che hanno espresso tutta la loro contrarietà all’accordo con il Pd sul nome di Bianconi. Oltre a Ciprini, il volto più noto dei mal di pancia interni è la consigliera regionale uscente Maria Grazia Carbonari, la più votata (308 preferenze) alle Regionarie del M5S che con le sue lettere anonime ha fatto partire l’inchiesta della Procura di Perugia che ha travolto la giunta Marini. “Sono sempre stata contraria all’accordo con il Pd – dice Carbonari al Fatto – per anni abbiamo fatto opposizione a quel sistema di potere al confine con la legalità e adesso che siamo riusciti a farlo cadere, ci siamo alleati con loro. Per questo molti nostri elettori sono passati al centrodestra e altri si asterranno”. Poi Carbonari, considerata vicina ad Alessandro Di Battista, mette subito dei paletti al candidato governatore Bianconi (“deve cambiare approccio rispetto al passato e rispettare il programma elettorale”) ma soprattutto minaccia quella che chiama “un’opposizione interna” alla maggioranza: “Stare all’opposizione è facile – conclude Carbonari – basta votare sempre contro. Se si sta al governo invece ci si prende una responsabilità grossa di fronte agli elettori e non possiamo permettere di lasciare tutto in mano alla giunta senza controllarla, perché a quel punto, se non dovessero cambiare le cose, saremmo corresponsabili del sistema”.

Cosa vuol dire, concretamente? “Davanti agli atti di giunta non farò la marionetta votando sempre sì con una semplice alzata di mano: appoggeremo la giunta, ma sui provvedimenti valuteremo caso per caso. La mia è un’apertura di credito con occhio vigile, un atteggiamento dubitativo”. Nonostante questo, alla riunione di ieri a cui hanno partecipato anche Walter Verini per il Pd e lo stesso Bianconi, Carbonari ha rilevato un atteggiamento “positivo” sui temi da parte di dem e del candidato governatore. Il clima di tensione nel M5S lo conferma anche il fedelissimo di Luigi Di Maio in Umbria, Filippo Gallinella: “La strada è molto in salita e la situazione politica è cambiata in troppo poco tempo per farla digerire ai nostri – spiega – però, nonostante le divisioni interne, non ci separeremo mai”.

La contrarietà di molti 5 Stelle viene motivata anche con i candidati del Pd nella lista presentata ieri, in cui sono stati confermati quattro uscenti seppur non coinvolti dagli scandali: c’è l’ex vicepresidente della giunta Pd, Fabio Paparelli, l’ex presidente e vicepresidente del consiglio regionale (che votò per il ritiro delle dimissioni di Marini), Donatella Porzi e Marco Guasticchi, e l’ex segretario Pd Giacomo Leonelli. “Nessuno di loro ha mai ricevuto nemmeno un avviso di garanzia – dice il commissario dem Walter Verini – sono persone conosciute e senza ombre”.

L’ex premier annuncia l’ennesima querela al Fatto Quotidiano

Matteo Renzi è tornato ad annunciare querele nei confronti del Fatto Quotidiano. La storia delle cause intentate dall’ex premier nei confronti di questo giornale è talmente lunga che non basterebbero tutte e 24 le pagine di questa edizione. Ma il senatore toscano, che ha la querela facile, è tornato a far lavorare i suoi avvocati. Nel mirino ci sono due articoli sul Fatto di ieri firmati da Carlo Tecce (sullo stato delle finanze della sua nuova avventura politica) e Tomaso Montanari (un commento sulle strategie del Partito democratico dopo la scissione). Così, ancora una volta, l’ufficio stampa dell’ex premier ha fatto sapere che “Matteo Renzi ha incaricato i propri legali di procedere con un’azione civile contro Il Fatto Quotidiano”. Per Renzi è una vera passione. L’aveva annunciato in tv da Fabio Fazio, all’indomani delle primarie del Pd che avevano inaugurato la segreteria Zingaretti: “Ora querelo tutti quelli che mi hanno insultato”. E aveva stilato una lista di proscrizione ancora parziale: “Piero Pelù, Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, Costanza Miriano, Gianfranco Vissani, Alda D’Eusanio, Elisabetta Trenta, Giulia Lupo, Il Corriere di Caserta, Panorama”. Noi evidentemente siamo i suoi preferiti.

Il M5S perde pezzi in Parlamento: la senatrice Vono se ne va con Renzi

La fronda in Senato è più o meno rientrata. Ma il malumore invade le chat, trabocca dagli incontri tra eletti. Anche se adesso il primo guaio per Luigi Di Maio sono quei Cinque Stelle pronti a traslocare in altri gruppi. E si parte da un’esule certa, la senatrice calabrese Gelsomina Vono, che ieri sera ha aderito a Italia Viva, la creatura di Matteo Renzi. “Una decisione difficile e sofferta che però mi dà finalmente la possibilità di ragionare in termini democratici” giura Vono, già data in orbita Lega mesi fa. Ma ora ha occhi solo per Renzi, “che ha dato prova di coraggio e determinazione”.

Buon per l’ex premier, in pressing su almeno un altro paio di grillini. Ma c’è tramestio anche alla Camera, con 8-10 del M5S i tentati dal passare alla Lega, “e lo vogliono fare solo per soldi” già accusa una fonte di peso. E infatti Matteo Salvini provoca: “Il disagio dentro i 5Stelle per l’alleanza con il Pd sarà palesato con alcune sorprese, ossia con passaggi verso la Lega”. E da New York Di Maio risponde subito: “Nel Carroccio si sono ridotti come un Berlusconi qualsiasi che cercava di comprare i vari De Gregorio”. Perché fiuta l’assedio, il capo. E d’altronde gli scricchiolii interni sono benzina per i corteggiatori leghisti e renziani. Anche perché non può bastare la toppa messa ieri sul blog delle Stelle: “Il gruppo del Senato smentisce le ricostruzioni fantasiose della stampa in merito ai 70 firmatari del documento che, in linea con le regole del nostro gruppo, è funzionale alla richiesta di convocazione di assemblea”. Traduzione, i 70 della rovente riunione di martedì non vogliono la testa del capo. Ed è vero, il documento proposto serve per convocare l’assemblea dove chiedere una modifica del regolamento. “Ma quel testo è un segnale che Di Maio deve cogliere” dicono da Palazzo Madama. Ossia deve varare al più presto “un organo collegiale” ed essere meno autocrate. Nell’attesa l’ideatore del testo Emanuele Dessì e Paola Taverna si sono spesi per abbassare la temperatura.

Però ieri Mario Giarrusso, infuriato per non essere stato nominato sottosegretario, si è astenuto in commissione sul provvedimento anti-riciclaggio. “C’è un grave problema nel merito” si è giustificato. Ma rimane a rischio uscita. Mentre Gianluigi Paragone torna a smentire: “Non ho alcuna intenzione di lasciare il Movimento”. Però dopo l’addio della Vono ora si teme per un altro senatore, “inquieto”. E poi ci sono quelle voci da Montecitorio, su un gruppo di peones pronti ad andare con Salvini. “Sarebbe un’idiozia” infierisce un big della Camera. Ma i contatti ci sono.

E allora la palla torna al capo, a Di Maio. Pronto a calare “i 12 facilitatori” per quella che sarà una sorta di segreteria nazionale. La prima risposta dal leader che martedì, dicono, si era agitato molto appena appreso dell’assemblea in Senato. E non a torto, a occhio.

 

“Così non si può andare avanti Ora contrappesi per Di Maio”

Quei 14 mesi di governo ora le sembrano stati più lunghi. “Governare assieme alla Lega è stato un incubo, vogliono favorire solo il Nord-Est”, scandisce Giulia Grillo, ormai ex ministro della Salute. Dentro un locale a due passi dalla Camera, la deputata del M5S parla a tono basso ma le sillabe sono dritte, senza metafore: “Da una parte mi sento liberata ma sono anche arrabbiata, stavo lavorando bene e sarà un vero peccato non raccogliere i frutti di tutto quel lavoro”.

Ha sentito il suo successore Roberto Speranza?

Sì, mi sembra una persona ragionevole e che ha a cuore la sanità. Magari non so quanta consapevolezza abbia di certi processi, perché si tratta di un mondo molto complesso.

Che priorità dovrebbe darsi il nuovo ministro?

Innanzitutto completare alcune riforme che abbiamo avviato, come quella della formazione post-laurea dei medici, in modo che non ci sia carenza di specialisti. Poi è fondamentale dare incentivi a medici e infermieri che lavorano nelle aree di emergenza o disagiate.

Lei una volta ha detto che il ministro della Salute è quasi superfluo, perché tanto decide tutto il ministero dell’Economia, visto che gestisce i fondi per la Sanità.

È un problema di priorità politiche: io in 14 mesi non ho trovato l’appoggio che mi aspettavo sulla sanità da parte del mio capo politico. Avevo chiesto di abolire il superticket, magari gradualmente, e di aumentare il fondo per la sanità: ma i soldi non sono stati trovati. A parte Beppe Grillo, non ho ricevuto sostegno. E il decreto Calabria (quello con cui è stato commissariata la sanità regionale, ndr) sono riuscito a farlo solo grazie all’appoggio del presidente del Consiglio Conte.

Anche lei avrà sbagliato qualcosa. Dal M5S in diversi le rimproverano di essersi isolata, di aver rifiutato incontri e suggerimenti.

Smentisco totalmente. Sono uno dei ministri che hanno fatto più incontri con parlamentari, aziende e parti sociali. Ho favorito un accordo tra Regioni e case farmaceutiche con cui si è risolto un contenzioso (payback, ndr) che ha fatto recuperare agli enti locali 2 miliardi e mezzo. Certo, sono stata dura con i lobbisti, e forse questa mia durezza è uno dei motivi per i quali non sono più ministro.

Quando ha saputo che non sarebbe rimasta ministro?

Cinque minuti prima che venisse diffusa la lista dei ministri. Mi ha avvertito il capo politico Luigi Di Maio, con uno stitico messaggio su WhatsApp: cinque o sei parole. Poi mi ha chiesto un incontro tramite la segreteria, ma ho declinato.

Anche Danilo Toninelli non è più ministro. Vede analogie con il suo caso?

Certamente. Non si capisce perché 14 mesi fa fossimo degni di piena fiducia, e poi successivamente io e lui siamo stati esclusi da riunioni dove si decideva la linea del governo. Senza una spiegazione.

Pochi giorni fa lei ha condiviso un post di Alessandro Di Battista molto duro nei confronti del Pd. State organizzando una fronda?

Non c’è alcuna fronda e con Alessandro ci siamo sentiti solamente dopo che ho rilanciato il post. L’ho fatto solo perché abbiamo sbagliato a non essere critici con la Lega nel governo precedente, e ora non dobbiamo commettere lo stesso errore con il Pd. I dem hanno valori sicuramente più simili ai nostri, ma in questi anni li hanno spesso traditi.

Condivide l’accordo in Umbria con il Pd?

Io avevo proposto di allearci con le liste civiche già per le Regionali in Sicilia del 2017 e non venni ascoltata. Ora questa intesa mi pare un salto enorme.

Dal Senato chiedono di modificare lo Statuto, e l’idea di fondo è che Di Maio sia un capo con troppo potere. Condivide?

Per me non è in discussione la persona ma il ruolo del capo politico, che è privo di contrappesi. Ci vuole collegialità nelle decisioni. Per essere chiari non voglio mettere Di Battista, che pure ritengo di grande valore, al posto di Di Maio. Ma con questo assetto non possiamo andare avanti. Siamo nati come un Movimento senza un leader.

E Grillo cos’era, cos’è? E Gianroberto Casaleggio?

Beppe era ed è una guida, l’unico ad avere una visione politica della società, la nostra spina dorsale. Invece Casaleggio fissava dei punti ma ci lasciava liberi di autodeterminarci. Dopodiché quando faceva il capo sapeva farlo.

Cosa serve ora?

Dobbiamo aprire una fase costituente e discutere, nelle assemblee. Inutile riunirsi ogni tanto in Parlamento per un paio d’ore a sera tardi. Serve maggiore confronto.

Per fare cosa? Un comitato politico, un direttorio?

Il punto non è questo e comunque io non ho la soluzione in tasca. Ma so che la gente è spaesata e che adesso dobbiamo scegliere se diventare un partito a tutti gli effetti o restare un movimento. A oggi non siamo né carne né pesce. Non sono chiari i processi decisionali e la partecipazione di iscritti ed eletti è solo marginale. E non va bene.

Monsignor Palmieri sulla sentenza. Spada: giornata leggendaria

“Credo che la giornata di ieri (martedì, ndr) sia stata una giornata leggendaria. Da questo punto di vista ha segnato simbolicamente una svolta, perché la cosa bellissima è quello che c’è adesso nelle realtà sequestrate alla mafia degli Spada”. Lo dice mons. Gianpiero Palmieri, vescovo ausiliare di Roma, in una intervista a Radio Vaticana Italia parlando della sentenza di ieri e portando come esempio la palestra di Ostia-Idroscalo sequestrata agli Spada, oggi “palestra della legalità”. Per mons. Palmieri “forse si è ragionato molto su questo fatto, cioè se la mafia c’era, se la mafia non c’era… Ma che la mafia ci sia a Roma è evidente da anni; è la conferma, questa sentenza, di una realtà che i romani già conoscevano direttamente. La Chiesa darà sicuramente il suo contributo, così come l’ha sempre dato, perché ci sia una coscienza civile capace di contrastare i fenomeni mafiosi. Il Vangelo vuole essere questo tipo di fermento: fermento di regno di Dio che è l’opposto di una città dominata dalle organizzazioni criminali, di una coscienza civica addormentata che non è più capace di rispondere e di reagire a queste situazioni”.

La fiction Mediaset allarma gli ex de “L’Ora”

Accade alla vigilia delle celebrazioni di domenica prossima del centenario della nascita di Vittorio Nisticò (1919-2009), leggendario direttore, per oltre vent’anni, del quotidiano di sinistra e antimafia L’Ora di Palermo, chiuso nel 1992. Ad allarmare il Comitato degli gli ex redattori, presieduto da Marcello Sorgi, sono le voci sull’intenzione di Mediaset di realizzare una fiction in dieci puntate, per Canale 5, su alcuni momenti della vita del giornale dalla metà degli anni Cinquanta fino all’attentato da parte dei “picciotti” di Cosa Nostra, nell’ottobre del 1958, alla tipografia del giornale. Si teme una “rilettura superficiale e interessata” della storia del quotidiano e delle figure dello stesso Nisticò e di altri grandi protagonisti di quella stagione, da Mauro De Mauro a Felice Chianti, da Mario Farinella a Salvo Licata.

Sottolinea Sorgi, in una relazione sulla vicenda, che nel canovaccio della Indiana, la casa di produzione milanese della fiction, “i riferimenti storici sono confusi e in qualche caso stravolti. I singoli protagonisti, almeno per chi li ha conosciuti, ridicolizzati e resi paradossali da linguaggio, uso e abuso di alcol e comportamenti che dovrebbero renderli spettacolari”.

Lo scrittore e giornalista Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, e figlio di Giuseppe Fava, il direttore del periodico I Siciliani, assassinato da un killer delle cosche nel 1984 a Catania, è uno degli autori della sceneggiatura del film tv, ora oggetto delle polemiche e di un acceso scambio di email tra gli ex giornalisti de L’Ora. Un nome, una storia, quelli di Fava, che dovrebbero offrire garanzie tanto sulla serietà del lavoro, quanto nei termini di una certificazione autenticamente contro Cosa Nostra.

“Con questa serie tv – spiega il presidente dell’Antimafia siciliana – si vuole dare il senso di quella epica sfida giornalistica e civile che rappresentarono L’Ora e i suoi redattori, a partire dalla direzione di Nisticò, tra il 1954 e il 1958. Fu davvero la testimonianza del primo giornalismo moderno”. Naturalmente, aggiunge, “una fiction deve riuscire a camminare sulle sue gambe, ha delle necessità drammaturgiche. Vuole dire affrontare anche la dimensione privata dei protagonisti. È il lavoro, del resto, che avevo fatto per il film su Peppino Impastato. Lo scopo è di raccontare una grande storia, la storia di un grande giornale, di quei giornalisti, a un pubblico che, oggi, non ne sa niente”.

Eppure i timori per le possibili falsificazioni e i possibili stravolgimenti, tra chi ha lavorato a L’Ora , sono più che nutriti. Marcello Sorgi ha infatti avuto un incontro con il produttore Fabrizio Donvito, il quale gli ha detto “che dovrà obbedire agli irrinunciabili criteri della fiction televisiva: ‘Torbido, passione e tradimento’. Donvito ha detto proprio così”. La risposta di Sorgi è che Donvito “è ovviamente libero di fare le fiction che vuole e come vuole, ma non certo di piegare alle sue esigenze una storia come quella de L’Ora”.

Lady Dell’Utri avverte Silvio: “In gioco la vita di Marcello”

Berlusconi fa sapere ai giudici che non vuole confermare (o smentire) se Marcello Dell’Utri – com’è scritto in una sentenza – veicolò una minaccia mafiosa al suo governo del ’94, e la moglie dell’ex patron di Publitalia, Miranda Ratti, esprime “sorpresa, rabbia, incredulità e una grandissima amarezza: qui c’è la vita di Marcello in gioco’’. Lasciandosi sfuggire soltanto: “È meglio che non parlo, che non dico quello che penso…”.

La decisione dell’ex Cavaliere di tacere in aula apre una frattura tra le famiglie dei due grandi protagonisti degli anni 90 tra politica e imprenditoria, che ora appaiono custodi di reciproci segreti in un contesto che il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, sottolinea così su Twitter: “Lo stragismo torna prepotente a dominare la scena giudiziaria e politica coinvolgendo chi meno t’aspetti’’.

Morra si riferisce alla conseguenza mediatica della scelta compiuta dai difensori di Berlusconi, Franco Coppi e Niccolò Ghedini, che nei giorni scorsi hanno depositato ai giudici del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, in corso a Palermo, la conferma che il loro cliente è tuttora indagato a Firenze come mandante delle stragi del ’93. Una mossa finalizzata a evitargli di rispondere alle domande della Corte presieduta da Angelo Pellino che però, di fatto, ha finito per rilanciare la notizia dell’indagine sull’ex premier per le stragi di Roma, Firenze e Milano, pubblicata due anni fa e mai smentita, ma finora solo sussurrata da agenzie e tv.

Dopo aver preso atto del suo legittimo impedimento a presentarsi all’udienza del prossimo 3 ottobre, ora la Corte di Palermo sta valutando la data della nuova convocazione di Berlusconi, che verrà probabilmente ascoltato come teste assistito ai sensi dell’art. 210, comma 6, del codice di procedura penale: in pratica l’uomo di Arcore, non avendo mai reso finora dichiarazioni sul proprio coinvolgimento nella vicenda della trattativa, potrà avvalersi in aula della facoltà di non rispondere; ma se deciderà di parlare, assumerà la veste di testimone a tutti gli effetti e avrà l’obbligo di dire la verità. Il tema della testimonianza di Berlusconi – richiesta dai difensori di Dell’Utri, condannato in primo grado per il dialogo Stato-mafia a 12 anni – è il ricatto mafioso veicolato dall’ex patron di Publitalia nei confronti del primo governo Berlusconi insediato nel 1994. Tema che ieri è stato oggetto di alcune riunioni in Procura generale a Palermo tra il capo dell’ufficio, Roberto Scarpinato, e il pm di udienza, Giuseppe Fici. La conferma che Berlusconi è tuttora indagato per le stragi del ’93, inoltre, potrebbe indurre i pubblici ministeri a chiedere all’ex Cavaliere chiarimenti sulle dichiarazioni rese in carcere dall’ex boss di Brancaccio Giuseppe Graviano nel corso dei colloqui registrati con il compagno di socialità Umberto Adinolfi. “Berlusca – ha detto in carcere il boss – mi ha chiesto questa cortesia, per questo è stata l’urgenza di… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto… ci vorrebbe una bella cosa”. Parole che sembrano alludere proprio al ricatto allo Stato nella stagione delle bombe.

Finanziatore di Cosa Nostra per 18 anni, come ha attestato la sentenza del processo Dell’Utri (condannato a 7 anni per concorso in associazione mafiosa), Berlusconi ha sempre respinto mediaticamente ogni coinvolgimento con Cosa Nostra (“è stato semmai vittima della mafia – hanno scritto ieri i suoi legali – i provvedimenti dei suoi governi illustrano un impegno costante contro il fenomeno mafioso”), ma in sede giudiziaria si è però sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Tranne una volta, nel settembre 2012, quando l’ex procuratore di Palermo Francesco Messineo e l’ex pm Antonio Ingroia con la collega Lia Sava (oggi Pg di Caltanissetta) lo interrogarono sui milioni di euro versati all’amico Marcello alla vigilia della prima sentenza di Cassazione del suo processo per mafia. In quel caso, Berlusconi ammise i prestiti mai restituiti, dicendo che si trattava delle esigenze economiche di un amico con “una moglie spendacciona”. L’ex premier, comunque, negò risolutamente di aver ricevuto richieste che non poteva rifiutare: “Né Dell’Utri – disse – né persone legate a lui hanno mai coartato la mia volontà”. Sui percorsi di quel flusso di denaro, finito con strani giri a Santo Domingo, la Procura di Palermo trasmise poi gli atti dell’inchiesta ai colleghi di Milano.

Caso Whirlpool, sindaco De Magistris incontra Patuanelli

“Al ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ho rappresentato che la situazione drammatica dei lavoratori e delle lavoratrici della Whirlpool di Napoli non è questione che riguarda solo loro e le loro famiglie ma la città intera. Il diritto al lavoro non si può trasformare in ordine pubblico. Ho rappresentato l’esigenza che Whirlpool mantenga gli impegni sottoscritti con il governo circa un anno fa. Ne va dell’autorevolezza dello stesso governo”. Così il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, al termine dell’incontro svoltosi ieri pomeriggio a Roma con il ministro del Mise sul caso del sito industriale di Napoli di cui ancora non è chiaro il futuro occupazionale in seguito alla decisione dei vertici di cedere la fabbrica a una azienda svizzera. “Ho trovato nel ministro una posizione di totale condivisione di quanto espresso: la Whirlpool deve mantenere l’azienda e la produzione a Napoli e per poter ottenere questo risultato l’intero governo è impegnato su questa delicatissima vertenza. Il ministro si è impegnato nelle prossime ore a rappresentare quali saranno gli ulteriori passaggi del governo”, ha aggiunto.

Matteo annuncia trionfale: “I miei parlamentari presto saranno 50”

La campagna acquisti di Matteo Renzi non è ancora finita. Anzi, sul territorio è appena cominciata. Alcuni dirigenti locali (primo tra tutti il segretario della Liguria, Vito Vattuone) non hanno ancora deciso cosa fare. Ma intanto, l’obiettivo immediato è quello di rinforzare le fila dei parlamentari, che ora sono 42: “Presto i miei saranno 50”, ha detto ieri Matteo Renzi davanti alla Stampa estera.

A Palazzo Madama, il pressing su alcuni soprattutto va avanti: nel Pd il sondaggio va avanti, da Caterina Biti a Dario Stefano, passando per Alan Ferrari. Il tentativo è quello di chiudere il reclutamento in tempo per la Leopolda. “Ci sono già 200mila adesione”, si vanta l’ex premier. E i sondaggi rimangono sia all’interno dei Cinque Stelle (una senatrice, Silvia Vono, è passata ieri con i renziani), che di Forza Italia. E ieri Renzi ha ribadito la voglia di puntare all’elettorato berlusconiano: “Che ci sia bisogna di prendere il voto di persone che in passato abbiano votato anche FI mi sembra un dato di fatto. Berlusconi al suo massimo ha preso il 37% o ora i sondaggi lo danno al 7%. Che dunque chi in passato ha votato FI ora potrà votare Pd, M5S… se la domanda è sugli elettori è chiaro che puntiamo a quegli elettori, è fisiologico”. Ancora, sul futuro.

“A ottobre alla Leopolda comincerà il tesseramento, per tutti gli iscritti pianteremo un albero”, dice. E non si fa mancare il siparietto. Un giornalista giapponese traduce Italia viva con “Italia banzai. “Spero sia un suggerimento open source, perché la utilizzeremo in modo simpatico e divertente”. Poi chiude chiuso con una battuta. “Direi di no alla traduzione inglese, Italia Alive che ricorda quel film sui sopravvissuti”. Autoironia che dà il senso della galvanizzazione. Come il tour in tv. Domenica sera è andato da Massimo Giletti. Stamattina sarà all’Aria che tira da Myrta Merlino insieme a Marco Minniti. E poi annuncia la discussione in corso in Europa tra i suoi: “Decideremo la collocazione europea. Non è un mistero che da segretario Pd ho lavorato con il Pse. Non è un mistero la mia amicizia con Emmanuel Macron”.

Il resto è polemica. “Italia viva nasce per cambiare le forme e le liturgie della politica. Il Pd ha dato troppo potere alle correnti, dove l’appartenenza a una cordata con un leader è più importante delle tue idee. Abbiamo cercato di cambiarlo, non ce l’abbiamo fatta”.

Fermo, arrugginito e rottamato: la fine dell’Air Force Renzi

Che cosa c’è di più triste di un aereo che non può più volare? Ecco, al pretenzioso Air Force One di Matteo Renzi è toccata questa sorte meschina, condannato a restare a terra in attesa di essere fatto a pezzi come una bestia al macello, “screppato”, come si dice in gergo, oppure rottamato, come avrebbe invece detto lo stesso Renzi.

Nel 2016, quando era ancora al massimo del suo effimero splendore, il politico di Rignano fece i salti mortali per avere quel jet, un Airbus A340-500 matricola 748 con 4 motori Rolls Royce. Anche se poi non riuscì a metterci piede neanche una volta. Prima di tutto perché il suo tragitto di capo del governo finì prima di quel che aveva sperato e poi perché quando si trovava ancora a Palazzo Chigi, Renzi pretese che il jet fosse sottoposto a un lungo restyling che avrebbe dovuto restituirlo in versione Vip, con camere, docce, sala riunioni e una spesa di circa 20 milioni di euro che da sola era quasi tre volte il valore di mercato di un velivolo simile in versione Vip trattato nello stesso periodo sulla piazza di Londra.

Ora l’Air Force renziano giace abbandonato in un angolo dell’aeroporto di Fiumicino, spogliato delle sue scintillanti insegne, qualche volta ricoverato per pietà sotto il tetto di un hangar, ma molto più spesso sbattuto sul prato a prender ruggine, costretto a fare posto agli aerei che volano davvero e in quello stesso hangar vengono ospitati per le consuete manutenzioni. L’Air Force è diventato un aereo di nessuno. Non lo vuole più Etihad, la compagnia dell’Emiro di Abu Dhabi che proprio ai tempi di Renzi fece un paio di giri di valzer a Fiumicino, chiamata in soccorso di Alitalia, salvo poi fuggire a gambe levate.

Fu nell’ambito di quella collaborazione che gli emiratini appiopparono il famoso Airbus a Renzi e allo Stato italiano con un leasing da amatori stabilito in un contratto sottoscritto dal Segretariato generale della Difesa e da Alitalia: 150 milioni di euro circa per usare 8 anni un jet che tutti negli ambienti dei voli consideravano un mezzo bidone e il cui valore di mercato stimato in quel periodo era almeno dieci volte inferiore. Sui contenuti di quel contratto indaga la Guardia di Finanza per conto della Procura della Repubblica di Civitavecchia e indaga pure la Corte dei conti per valutare se ci sono danni per l’Erario e stabilire chi eventualmente dovrà pagare. L’indagine fu innescata da un esposto di Gaetano Intrieri, collaboratore del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli (5Stelle). Subito dopo anche i tre Commissari straordinari di Alitalia voltarono le spalle all’Air Force renziano sciogliendo il contratto stipulato dalla stessa Alitalia con Etihad per cui lo Stato aveva già pagato una cinquantina di milioni di euro. Quest’ultima, ovviamente, non fu contenta, ritiene di essere danneggiata dalla decisione di Alitalia che considera unilaterale e si lamenta per il trattamento pessimo riservato al velivolo. Di conseguenza per quell’aereo c’è anche una causa civile in corso che chissà quanto andrà avanti e nell’attesa renderà difficile stabilire perfino a chi spetta fare a pezzi l’aereo.

Che il destino dell’Airbus di Renzi sia restare a terra è quasi certo. Chi è del mestiere e ha visto di recente da vicino il velivolo riferisce di aver notato che la ruggine sta intaccando l’attaccatura delle ali alla fusoliera al punto che l’aereo ha perso l’equilibrio alare, cioè pende. In quelle condizioni è quasi impossibile possa riprendere il volo se non a patto di interventi che forse finirebbero per costare più dell’aereo stesso. L’aereo di Renzi, inoltre, non può volare anche perché nel frattempo ha perso il titolo che gli consentirebbe di farlo, il continuous airworthiness, cioè i requisiti di aeronavigabilità e il conseguente certificato.