Come ampiamente atteso, Kristalina Georgieva è stata scelta come nuovo direttore generale del Fondo monetario internazionale al posto di Christine Lagarde, destinata a prendere le redini della Banca centrale europea nel post Mario Draghi. Il nuovo ceo della Banca mondiale – unica candidata, che inizierà il suo mandato di 5 anni il 1° ottobre – è il primo direttore che viene da un’economia emergente da quando è stato creato il Fmi nel 1944. Poco nota al grande pubblico ma ben conosciuta fra gli addetti ai lavori, Georgieva (66 anni) è passata dalla Banca mondiale e dai vertici della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, e in precedenza dalla Commissione europea di José Manuel Barroso. Specializzata in Economia politica e Sociologia, ha insegnato in molte università del mondo, tra cui Yale, Harvard e la London School of Economics. Navigata, dunque, con un background economico (a differenza della Lagarde), Georgieva ha commentato: “Sono onorata. È una grande responsabilità essere alla guida del Fmi in un momento in cui la crescita economica globale continua a deludere, le tensioni commerciali persistono e il debito è a livelli storicamente alti”.
Bce, Fabio Panetta è l’unico candidato per entrare nel board
È ufficiale la designazione di Fabio Panetta per il posto che in dicembre si libererà nel direttivo della Banca centrale europea. Il governo Conte 2 l’ha formalizzata in una lettera e ha confermato l’orientamento del precedente esecutivo. Dentro una Bce divisa al suo interno, si ritroverà di fronte il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che inaspettatamente sfidò in pubblico durante una sua visita a Roma nell’aprile 2016. Sarà un difensore del sistema creditizio italiano, critico sulla normativa europea per affrontare le crisi bancarie di cui pure fu uno dei negoziatori nel 2013. Sessant’anni da poco compiuti, da maggio direttore generale della Banca d’Italia, Panetta si trasferirà a Francoforte in dicembre, dopo la scadenza del mandato del francese Benoît Coeuré. Ma dentro il vertice della Bce è già di casa, perché dal 2004 aveva cominciato ad assistere in consiglio l’allora governatore italiano Antonio Fazio, per poi essere confermato nell’incarico da Mario Draghi. Ignazio Visco (di cui è fedelissimo) lo promosse poi suo supplente. È stato assunto in Bankitalia nel 1985, dopo studi alla Luiss, London School of Economics e London Business School.
Lo sconticino sul deficit non basta: la caccia alle coperture fa slittare il Def fino a lunedì
Il Consiglio dei ministri era previsto per oggi. Ma la quadra ancora non si è trovata e allora la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef), che fa da cornice alla prossima manovra di Bilancio, è slittata a lunedì. Il nodo riguarda le risorse che il governo sta disperatamente cercando dalle misure di contrasto alla lotta all’evasione, che dovranno essere corpose visto che il deficit pubblico salirà ben poco, intorno al 2,2-2,3% del Pil.
È l’effetto di un paradosso. A differenza dei “barbari” gialloverdi, il governo giallorosa può contare su un atteggiamento, per così dire, più benevolo da parte di Bruxelles. Il neo ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri è uomo ben voluto nel potere europeo, conosce i suoi riti e i suoi spietati rapporti di forza. Proprio per questo, però, la linea di confronto non si scosterà molto da quella tenuta dal predecessore Giovanni Tria con l’avallo del premier Conte: con Bruxelles non si andrà allo scontro. Insomma lo sconto sulla correzione da fare è garantito, ma sarà limitato. Il governo tratta con Bruxelles, a quanto filtra, per portare il disavanzo nel 2020 al 2,2-2,3% del Pil. Per cifrare l’effettivo spazio fiscale bisognerà vedere quanto chiuderà quest’anno. Le previsioni delle scorse settimane, grazie alla manovra correttiva varata a giugno, indicavano un deficit/Pil all’1,6% (rispetto al 2,1 previsto ad aprile), ma la crescita praticamente ferma potrebbe far salire il rapporto. A conti fatti, il governo può contare su un aumento del deficit tra i 6 e i 10 miliardi. Utili a disinnescare (rinviandoli) solo parte degli aumenti automatici dell’Iva, che nel 2020 valgono 23 miliardi. La manovra, quindi, parte da almeno 15 miliardi (se si aggiungono anche le spese indifferibili come le missioni all’estero), e senza considerare il programma dei giallorosa.
A bilancio ci sono almeno 4-5 miliardi per varare il taglio del cuneo fiscale promesso da Pd e M5S. Mancano quindi almeno 20 miliardi e dispari. È per questo che fino all’ultimo il governo ha provato a ottenere di poter portare il deficit 2020 al 2,5%. Finora l’unica certezza è che Bruxelles non chiederà correzioni sostanziali del disavanzo strutturale (quello al netto del ciclo economico e delle misure una tantum) anche perché la crescita prevista per il 2020 si fermerà intorno allo 0,5%. Per questo nel governo è partita la caccia disperata a trovare risorse per coprire le misure promesse. Assai poco arriverà dal taglio agli sconti fiscali e ai sussidi dannosi per l’ambiente. Il grosso del capitolo riguarderà, come ogni anno, la “lotta all’evasione fiscale”, da cui il governo punta a ricavare “svariati miliardi”. Allo studio ci sono misure per incentivare l’uso dei pagamenti elettronici, l’estensione della fattura e dello scontrino elettronico, oltre a qualche forma di detrazione delle spese per chi usa la carta (con sconti per gli esercenti che si dotano del Pos). Misure che da sole non bastano, per questo si studiano provvedimenti dal forte impatto di cui al momento si studiano le simulazioni. Ieri, a Palazzo Chigi, Conte ha riunito i ministri economici per trovare la quadra, che al momento non c’è: è arrivata solo la smentita all’ipotesi di aumenti selettivi dell’Iva. Per i giallorosa partire con una manovra di piccolo cabotaggio sarebbe un suicidio politico.
“Mai più torture in Libia: i centri saranno dell’Onu”
Dice che lo hanno chiamato di notte, mentre lui era alla cena informale del G7: “Non è un documento contro di te, abbiamo firmato perché una discussione non si nega a nessuno…”. A dormire sereno, però, Luigi Di Maio non c’è andato. Perché mentre lui è a New York per l’Assemblea generale dell’Onu, a Roma stanno alzando la testa. E i malumori che covano fin da prima che nascesse il nuovo governo, l’altroieri sono finiti nero su bianco, con sotto la firma di 70 senatori Cinque Stelle che chiedono di cambiare il regolamento del gruppo a Palazzo Madama e di rimettere in discussione lo statuto del Movimento. E al di là delle telefonate di chi si è “dissociato” – lui cita Gianluca Ferrara e Susy Matrisciano – il ministro degli Esteri sa benissimo che nel mirino c’è il suo ruolo di capo politico.
Per questo non ne fa una questione di rancori di chi è rimasto fuori dalla lista di ministri e sottosegretari: “Il Conte 2 è nato perché io ero capo politico. E alcuni di loro non erano d’accordo con me nemmeno prima che nascesse il governo. Io posso ammettere che quando ero vicepremier, ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro avessi una quantità di imprevisti notevoli che potevano incidere sul mio lavoro per il Movimento, ma ora lo schema dei capi delegazione funziona, ci consente di far parlare le due forze politiche nel governo. E avere un ministero di peso politico come la Farnesina fa la differenza, sia nello scenario italiano che estero”.
Non concede un millimetro agli avversari interni. Anzi, alza il tiro con chi lo accusa di mancanza di democrazia, di cambiare le regole in corsa, come è successo con le Regionali in Umbria, dove il riferimento alle alleanze solo con le “liste civiche” è sparito con un colpo di penna. “Esiste un garante che vigila su qualsiasi scelta che possa essere azzardata: io, sull’Umbria, prima di decidere ho informato Beppe Grillo, Davide Casaleggio e i volti storici del Movimento. E sia chiaro: l’accordo con il Pd è un caso straordinario, non c’è nessun automatismo per le altre regioni”.
Di Maio promette che la famosa riorganizzazione, di cui si parla da mesi, arriverà (“dovevo farla entro settembre, ho avuto altro da fare…”) e sceglie la linea Di Battista per commentare il pericolo Renzi: “Mi meraviglio di chi si meraviglia: pensavate rimanesse a fare il senatore semplice?”. Ma che l’alleanza giallorosa si fondi sulla “lealtà”, dice, lo dimostra il fatto che il 7 ottobre arriverà in aula il taglio dei parlamentari, “alla faccia di Salvini”, come avevano concordato Pd e Cinque Stelle.
Nonostante le sue perplessità – anche ieri ha ribadito il suo “scetticismo” iniziale sull’accordo con Zingaretti – qui a New York si è messo a lavorare insieme a Federica Mogherini, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Insieme, alla cena con i Grandi di martedì, ha discusso alcuni obiettivi in vista della conferenza sulla Libia che si terrà il mese prossimo a Berlino, tra cui quello di allargare la partecipazione a paesi come l’Algeria e la Tunisia, “che per noi sono strategici perché sono confinanti ma non hanno interessi diretti in Libia”.
La questione libica è la prima emergenza per il neo ministro degli Esteri, anche per gli ovvi riflessi sul tema dell’immigrazione. Ieri mattina Di Maio ha incontrato Filippo Grandi, l’Alto commissario Onu per i rifugiati. L’obiettivo comune è quello di aumentare il ruolo dell’agenzia delle Nazioni Unite in Libia: da semplice osservatore, Unhcr, dovrebbe diventare il referente della Guardia costiera libica dopo i soccorsi. In pratica, nelle intenzioni di Di Maio, dopo il salvataggio nelle acque Sar libiche, i migranti non dovrebbero più essere portati nei centri di detenzione, ma in campi di accoglienza gestiti dall’Onu stessa. Un progetto a cui dovrebbe collaborare anche l’Oim – Di Maio ne ha parlato due giorni fa con il direttore generale Antonio Vitorino – per quel che riguarda la parte dei rimpatri volontari assistiti.
Non nasconde, Di Maio che bisognerà affrontare una serie di “resistenze” e di “interessi confliggenti”, ma le “interlocuzioni” avviate con Serraj lo fanno “ben sperare”. Aggiunge anche che l’Italia dovrà fare “investimenti importanti” nella cooperazione allo Sviluppo, ma confida che il progetto – da impostare – possa essere condiviso in una prossima missione congiunta in Libia. I rapporti con i francesi, che insieme all’Italia sono i principali attori della gestione della crisi libica, sono “migliorati”. E Di Maio si accontenta per ora anche del fatto che gli Stati Uniti stiano in silenzio.
Il suo rapporto con gli americani – anche alla luce degli accordi commerciali con la Cina sottoscritti durante il primo governo Conte – è all’insegna della “lealtà”. Da ministro degli Esteri ha portato a New York la partita del 5G – “coi cinesi non ne ho mai parlato in vita mia, così come di Huawei” – e il decreto appena approvato sul perimetro di sicurezza cibernetica nazionale. Una risposta alle “preoccupazioni dei nostri alleati” a cui Di Maio promette di “sostituire tutte quelle infrastrutture tecnologiche” che gli americani considerano a rischio incursioni.
Carcere agli evasori, i dubbi del Pd (e i paletti di Renzi)
La lotta all’evasione fiscale e “il carcere per i grandi evasori” è nel programma del governo giallorosa. Ma capire come si fa, cosa significa e fino a che punto si arriva, è tutt’altra questione. Soprattutto quando nella maggioranza c’è un nuovo gruppo (Italia Viva), che fa capo a chi diverse forme di evasione le aveva depenalizzata nel 2015, ovvero Matteo Renzi. Giuseppe Conte da New York ha lanciato un novello “patto con gli italiani”, con l’obiettivo di recuperare il “massimo dall’evasione fiscale per ridurre le tasse”. Si pensa a diversi meccanismi di incentivazione della moneta elettronica, degli scontrini, dei pagamenti digitali. E poi, c’è il carcere per i grandi evasori. Ora, fu proprio il governo Renzi ad aumentare le soglie per i reati di infedele e omessa dichiarazione da 50mila a 150mila euro e per l’omesso versamento Iva da 50mila a 250mila. I Cinque Stelle avevano provato a intervenire su queste misure con un emendamento al disegno di legge Anticorruzione a novembre 2018. L’idea era quella di ridurre le soglie minime di imposta che passano rispettivamente da 150mila a 100 mila per le prime e da 250mila ai 200 mila per la seconda fattispecie. Anche le pene detentive previste passano da un minimo di uno e un massimo di 3 anni di reclusione a 2 e 5 anni. Per omessa dichiarazione, la pena prevista era dai 2 ai 6 anni. Ora, l’idea è quella di riproporre le stesse misure nel decreto fiscale collegato alla manovra.
Tutto liscio? Insomma. “Il governo Renzi aveva depenalizzato l’evasione perché c’era in maggioranza Alfano. Molti di noi non erano d’accordo”, dice il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio. E chiarisce: “La lotta all’evasione è nel programma di governo”. Per essere precisi, al punto 16 del suddetto programma si legge: “Nel perseguimento della legalità è necessario potenziare la lotta alle organizzazioni mafiose e all’evasione fiscale, anche prevedendo l’inasprimento delle pene, incluse quelle detentive, per i grandi evasori”.
Il Pd però è prudente. Mentre per quello che riguarda gli incentivi all’uso della moneta elettronica sono tutti d’accordo, sul carcere agli evasori ai vertici del Nazareno non si sbilanciano. “Ci vuole una lotta a tutto campo all’evasione fiscale per ridurre la pressione fiscale sui lavoratori”, dice il vicesegretario Andrea Orlando a Porta a Porta. Sulle manette, in Transatlantico, si era limitato a dire: “Vedremo come saranno le misure e poi valuteremo”. Gli altri, per lo più, non si espongono. La linea è aspettare prima di vedere come sarà effettivamente scritto il provvedimento. E poi arrivare a una mediazione.
Al ministero dell’Economia la questione incentivi all’uso della moneta elettronica è allo studio. La lotta all’evasione sarà un capitolo consistente della manovra. Ma la parte punitiva è vista come secondaria, anche rispetto agli input ricevuti da Palazzo Chigi. Intanto, riflette il capogruppo Pd in Commissione Giustizia, Alfredo Bazoli (nato come renziano, oggi saldamente nella corrente Lotti-Guerini): “Tra le cose sostenute da Renzi nel 2012 c’era l’incentivo all’uso delle carte elettroniche. Faccio un esempio: in Corea del Sud si sono inventati la lotteria sugli scontrini”. E sul carcere? “Alzare le pene non serve a evitare l’evasione”. È provocatorio: “Se alzare le pene è un modo per dissuadere dal compiere reati, allora facciamo l’ergastolo per tutto”. La discussione è aperta. Nelle prossime settimane entrerà nel vivo.
Chi potrebbe mettere qualche paletto in più è Italia Viva. Luigi Marattin, ex consigliere economico di Renzi, oggi vicecapogruppo alla Camera (ma a tempo, proprio perché si defilerà per seguire la manovra e poi tutti i provvedimenti economici) spiega: “Tutti noi desideriamo vedere puniti coloro che evadono. Ma il motivo per cui nella scorsa legislatura depenalizzammo alcune cose è che il modo migliore per far restituire il maltolto alla collettività è aumentare le sanzioni amministrative (il governo Renzi le raddoppiò), cosicché lo Stato possa rientrare più velocemente del debito sottratto. Non sempre questo obiettivo si raggiunge iniziando un procedimento penale che – in caso positivo – vede l’evasione restituire le risorse alla collettività dopo molti anni”. E chiude il ragionamento: “A volte la cosa più giusta ed efficace non è quella più demagogica”.
Insomma, alzare le pene è giusto o no? “Nella misura in cui questo significa far recuperare in fretta i soldi rubati allo Stato. Perché se invece significa un processo penale di 10 anni e non recuperare nulla, preferisco di no”.
Cervelli di ritorno
Era un po’ di tempo che stavamo in pensiero: non avevamo più notizie di Marianna Madia. Ci mancava il suo sguardo penetrante da paracarro di periferia, il suo calore umano da termosifone spento, il suo irrefrenabile dinamismo intellettuale da lampione fulminato. Ci aspettavamo di trovarla nel toto-ministri, niente: c’era persino Guerini, ma lei no. L’abbiamo cercata nella lista dei sottosegretari, nisba: c’era financo la Ascani, ma lei no. Temevamo che l’Anonima Sequestri Sovranista stesse facendo sparire le migliori menti del pensiero dem (si son perse le tracce pure di Orfini). Avevamo iniziato a chiamare questure, procure e pronto soccorso, casomai qualcuno ne avesse denunciato la scomparsa o l’avesse ritrovata in stato confusionale notando qualche differenza dallo standard abituale. Poi, finalmente, La Stampa ci ha dato sue notizie. Marianna gode ottima salute. Ed è la solita fucina di idee: “L’ostacolo a qualunque prospettiva di collaborazione a Roma col M5S è la Raggi”, che deve dimettersi ipso facto con due anni d’anticipo. Perché “governa da tre anni e mezzo”. Infatti dovrebbe governare un altro anno e mezzo. E con qualche chance di successo, visto che il governo sta per assegnare alla Capitale poteri e fondi speciali e le gare bandite nei primi tre anni per strade, buche, decoro, trasporti e rifiuti stanno dando i primi frutti. Ma la Madia, non avendo mai preso un vito in vita sua, detesta i sindaci di Roma eletti dal popolo almeno quanto il Pd, che cacciò Marino dopo un anno e mezzo e ora ci riprova con la Raggi. Che – assicura la Marianna – “ha fallito”. E di fiaschi lei se ne intende, dacché la Consulta rase al suolo la sua riformicchia della PA.
Ora, per dire, vuole “contribuire a ridare dignità alla capitale” (come se la capitale non avesse già abbastanza guai di suo). E ha le idee piuttosto chiare: tipo “riaprire un dibattito pubblico con tanti pezzi della società”. M’hai detto un prospero. Già che c’è, contribuisce anche alla legge di Bilancio: “si deve discutere in Europa per ottenere le risorse che servono”, casomai Conte e Gualtieri non ci avessero pensato. E pure alla legge elettorale: “Spero in una netta presa di posizione del Pd per il maggioritario”. È quel che dice anche Salvini. La scissione di Renzi non le è piaciuta, la qual cosa lo getterà nel più cupo sconforto. Ma “nelle correnti del Pd fatico a capire i posizionamenti ideali”. E parla per esperienza, avendole girate tutte: è stata napolitaniana (nel senso di Giulio), veltroniana, lettiana (nel senso di Enrico), dalemiana, bersaniana, renziana, gentiloniana, zingarettiana. Ma non ha mai capito i posizionamenti ideali. Mi sa che è colpa della Raggi.
Luciano Salce, l’arte votata all’intelligenza
La verità del reale è lo spettacolo. E un motto di spirito è già un elegante tratteggio della vita. L’intelligenza reclama il pudore e sul palcoscenico – lo schizzo asimmetrico della mascella di Luciano Salce – svela il più autobiografico romanzo d’Italia al compimento della modernità: quello della sua specialissima commedia attraverso cui il pubblico di ieri e di oggi incontra se stesso e trova un canone d’inarrivabile ironia. E autoironia. La mostra che si apre oggi a Roma (fino al 6 ottobre, a Palazzo Firenze) – Luciano Salce, l’ironia è una cosa seria – a trent’anni è, innanzitutto, il racconto di un’esistenza artistica votata all’intelligenza. Attore, autore e regista, Salce – che è anche conduttore radiofonico – attraversa il Novecento per tramite di teatro, della rivista, del varietà e del grande cinema. Beniamino dei telespettatori Rai, Salce – indimenticati sono Studio Uno e Ieri, oggi e domani – si misura con la televisione quando i venerandi somari della cultura alta consideravano lo strumento catodico inadeguato all’arte per farne un agone di impeccabile stile.
Partecipe di una magnifica stagione dello spettacolo italiano, forte di una personalità irriducibile alle obbedienze, Salce porta in dote la singolarità tutta anarchica di un non allineato capace di curiosità intellettuali pericolose assai in quel tempo di musoni marxisti. Porta in scena Jean Anouilh, che è praticamente un reietto rispetto all’obbligo conformista, a costo di trasferirsi in Brasile – chiamato da un altro grande della scena, Adolfo Celi – pur di sperimentare la satira nelle sue estreme conseguenze: tanto quelle di contenuto che di espressione. Maestro della commedia, Salce – che è fondamentalmente un uomo cui piace divertire e divertirsi – disegna l’identità degli italiani in un percorso artistico che trova il culmine in film quali Il Federale (1961) La Voglia matta (1962) (affidati a un sempre superbo Ugo Tognazzi) fino alla prosecuzione del Medico della Mutua di Luigi Zampa, ovvero Il prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue. C’è, in questa pellicola, il personaggio interpretato da Alberto Sordi su cui Salce impone la sua potente impronta teatrale. Vero e proprio Demiurgo, Salce adopera tutte le sfumature dell’arte e questa mostra – a cura di Emanuele Salce e Andrea Pergolari – è anche una raffinata ricognizione nei luoghi della creatività: dal Centro Sperimentale di Cinematografia a Raiteche, dall’Istituto Luce alla mirabile Silvio D’Amico, ovvero l’Accademia di Arte Drammatica, blasone di una forgia di eccellenze. Sono alcune tra le istituzioni che hanno dato il patrocinio. E c’è anche – nello svolgersi dei pannelli, nella raccolta della documentazione e nel rappresentarsi delle icone della mostra – una vera e propria mappa mentale che va a coincidere con la plastica presenza di Cinecittà, di via Asiago – la sede di RadioRai – e degli innumerevoli camerini dove Salce sa ancora divertirsi, divertendosi con la materia socratica per eccellenza, l’Ironia simula nella dissimulazione la decostruzione del reale. Ed è, la sua ironia, lo sguardo scomposto sulle vicende del mondo. Non è un caso che questa magnifica mostra trovi dimora a Palazzo Firenze, presso la sede della Società Dante Alighieri, in occasione della XIX edizione della Settimana della lingua italiana nel mondo: l’Italiano sul palcoscenico. Questo è Salce. E l’ironia, infatti, è la smorfia levatrice: maschera con metà faccia nera di notte, l’altra metà bianca di farina. Ed è – per dirla con Luciano Salce – cosa assai seria.
I trapper come Telemaco: uniti nell’assenza del padre
Sarebbe in errore chi reputasse L’età della tigre di Ivan Carozzi, fresco di stampa per Il Saggiatore, un volume sulla musica trap e sulla fenomenologia di Sfera Ebbasta. Intendiamoci: è anche questo. Vale la pena leggerlo perché il vero campo di indagine è – prima ancora che una tendenza musicale – l’adolescenza. Non come categoria astratta ma, azzardiamo, come evento contemporaneo che si dipana sotto i nostri occhi. Nessuna sociologia spicciola. L’autore non ha tesi da dimostrare e si muove tra i giovanissimi come quei giornalisti embedded che seguono i militari nelle loro missioni. Li osserva, li segue, li interpella ma la sua anagrafe resta un inciampo insormontabile. “Perché lei è un adulto” è la frase con la quale a Carozzi è interdetto l’ingresso a un concerto di Sade Baby, perché è un bufu (termine entrato nella Treccani il cui significato si può collocare nello spazio semantico tra “ridicolo” e “stronzo”). Non può sostituirsi al teenager che ascolta rapito un verso come “La mia ragazza segue la moda, io seguo i soldi e la droga” (Dark Polo Gang in Diego Armando Maradona). Al massimo può intuire il mistero della fascinazione, coglierne i sentimenti primitivi che la innescano ma non assorbirla perché gli è preclusa la possibilità di identificazione. L’adolescenza, sembra suggerire Carozzi, è tanto intensa e totalizzante nel suo divenire quanto inafferrabile una volta varcata la soglia della maturità. “Nel 2050, chi ha oggi sedici o diciassette anni sarà soffocato dal rimpianto, incapace di riavere indietro ciò che è stato”.
Le hit della trap – improntate all’edonismo sfrenato e alla fusione creativa di italiano colto, gergo, slang, citazioni, onomatopee – irrompono come folgori nelle menti dei ragazzi fino a colonizzare il loro immaginario. Che cosa c’è di diverso dal maledettismo del rock, alibi di tutte le trasgressioni più estreme del secondo Novecento? Forse poco o nulla. Il discrimine è sempre la pubertà puntata come un’arma contro il resto del mondo. Ecco perché Carozzi vola alto e lascia la polarizzazione al commercio mediatico. Nessuna condanna morale o estetica sulla trap e nessuna morfina assolutoria per apparire un adulto al passo coi tempi. Questo non significa che Carozzi resti a bordo campo. Tutt’altro. È sempre sulla scena, in un corpo a corpo perenne con Sfera Ebbasta e altri protagonisti dello showbiz. C’è la sua vita di precario in mezzo, con tutto il suo carico di affanni economici e di aspirazioni frustrate. L’esatto contraltare della mistica del successo incarnata da Gionata Boschetti, classe 1992, in arte Sfera Ebbasta. Per paradosso le biografie dell’autore e del rapper si sovrappongono nell’intermezzo della loro personale ricerca di un posto nel mondo. Carozzi si fa strada nel mondo dei giornali e della televisione prigioniero di un anonimato sottopagato. Boschetti si tira fuori dallo spaccio nel parchetto di periferia e da una cronica mancanza di soldi diventando una star. L’epica del self made man è centrale nella mitografia trap. Il punto è essere riusciti a tirarsi “fuori dalla merda” con le proprie mani, da soli. Ecco allora che il feticismo della merce, ovverosia l’ossessione delle griffe esibite (come in American Psycho di Bret Easton Ellis) assume valore di riscatto sociale.
Chissà cosa ne avrebbe arguito Pasolini, anche in considerazione del fatto che i trapper sono tutti di origine proletaria, figli delle borgate dormitorio di Milano, Roma, Napoli. E dato comune altrettanto impressionante: tutti cresciuti dalla madre, simbolo vicario dell’unico welfare possibile, in assenza del padre e dello Stato. Al di là di testi prevedibili e intercambiabili che mimano una retorica effimera di soldi, stupefacenti, marche di moda, cilindrate di lusso, non siamo forse in presenza del complesso di Telemaco (il figlio di Ulisse)? Sarà forse questo il suono muto che scorre nelle note trap? Il tramonto del padre (tradizione) è la causa rimossa di questa poetica elevata al capitalismo? Vale la pena confidare in Telemaco: qualcosa torna sempre dal mare.
“Lisbeth è troppo buona per morire”
E anche questa Trilogia è finita. Punto. In meno di lustro, David Lagercrantz ha integrato (o completato) la leggendaria serie larssoniana di Millennium, fenomeno da cento milioni di copie vendute nel mondo. Svedese come Stieg buonanima, lo scrittore sarà in Italia all’inizio di ottobre per presentare La ragazza che doveva morire, sesto volume delle peripezie di Lisbeth Salander e Mikael Blomkvist, tutte pubblicate dalla Marsilio. Lagercrantz sarà il primo ottobre a Brescia, il 2 al Zacapa Noir Festival di Milano, il 3 a Bassano del Grappa.
Proseguire la Trilogia di Larsson era una scommessa proibitiva. Sollevato, soddisfatto o già prova un po’ di nostalgia per Lisbeth e Mikael?
Sono felice in effetti di essere sopravvissuto. È stata un’esperienza elettrizzante della mia vita, ma adesso per me è importante passare oltre e individuare nuove sfide. Ho finito con loro.
Il suo ultimo e terzo capitolo affronta uno dei problemi della democrazia di oggi: quello delle fake news. Nell’intreccio tra thriller e spy story la fabbrica delle fake news è nella Russia di Putin. È la nuova frontiera della guerra fredda?
Sì, credo che viviamo una nuova Guerra Fredda, un cyber-conflitto e una guerra di informazione, e sappiamo bene come la Russia ma anche la Cina, aggiungo, siano molto aggressive nel diffondere false notizie con l’obiettivo di radicalizzare le persone e attaccare la democrazia liberale.
Larsson finiva la Trilogia con una clamorosa resa dei conti tra Lisbeth e il suo tragico passato, in cui era centrale la figura del padre Zalachenko, crudele russo mafioso passato ai Servizi svedesi. Lei invece, nella sua Trilogia, ha sviscerato la figura della sorella cattiva di Lisbeth, Kira alias Camilla, bellissima a differenza di Lisbeth. Lei ha unito Bellezza e Male.
In un certo senso sì e ho anche cercato di spiegare perché sia cattiva in questo terzo libro. Ho voluto mostrare come entrambe siano le vittime dei traumi familiari.
Nella Ragazza che doveva morire lei comincia con la morte di un clochard, in realtà un eroico sherpa del Nepal. Di qui un intrigo che coinvolge un ministro svedese e la mafia russa: qual è stato lo spunto per il suo racconto di una scalata finita male sull’Everest, le cui conseguenze si manifestano anni dopo?
È stato il mio primo libro su un avventuriero svedese che scala il monte Everest senza ossigeno – oltrepassando i cadaveri delle vittime della catastrofe nella settimana che precede il 1996 – ad avermi ispirato. Moltissime cose di quella storia sono rimaste dentro di me. Ho sempre sognato di poterle utilizzare nella mia scrittura di fiction. Quando ho riflettuto su come un uomo senzatetto possa avere relazioni con qualcuno del governo svedese, mi ha fulminato l’idea che potesse essere giunto il momento in cui avrei finalmente potuto usare quelle cose.
Parliamo di Mikael: lei rende alla perfezione il legame di dipendenza del giornalista da Lisbeth, un legame indefinito e forte. È mai stato tentato di farli innamorare una volta per tutte?
Forse in alcune occasioni, ma penso che avrebbe distrutto la dinamica tra i due personaggi. Non si dovrebbe mai veramente intendere cosa siano l’uno per l’altra: amici, amanti o semplicemente due sconosciuti che finiscono per connettersi a causa della loro storia drammatica.
La sua Trilogia ha un bilancio certamente più che positivo: qual è stata la difficoltà maggiore nel conciliare la fedeltà ai personaggi di Larsson con lo stile di Lagercrantz?
Questa è stata in effetti la parte più complicata. Sapevo di dover essere fedele al suo universo, ma allo stesso tempo che dovevo metterci del mio. Ho dovuto mettere insieme il mio mondo e quello di Stieg Larsson.
Ha mai pensato di non continuare, dopo il primo o il secondo volume?
No, ho avuto i miei momenti di panico quando pensavo che non sarei stato capace di scrivere abbastanza bene dei libri. Ho avvertito il senso della catastrofe, ma sin dall’inizio sapevo che avrei scritto tre libri, non uno di più, e poi sarei passato a cose nuove.
Senza svelare altro, Lisbeth persegue la vendetta come in una tragedia greca dapprima contro il padre (Larsson) poi contro la sorella (Lagercrantz). Eppure stavolta sembra cedere alle ragioni del sangue e tentenna per due volte a causa di antichi sensi di colpa. Il perdono sarebbe stato meglio della vendetta?
Sì, forse. E penso che sia proprio quello che la affligge. Per la prima volta questa ragazza così forte mostra una leggera debolezza, o per lo meno un’esitazione. È davvero in grado di uccidere la sua stessa carne e il suo stesso sangue? Portare questa eroina a vacillare è stato uno dei miei obiettivi.
Per tornare alle fake news. Lei scrive: “L’odio è un affare redditizio”. In America Trump; in Gran Bretagna Johnson; in Italia Salvini; in Francia la Le Pen; in Ungheria Orbán. Oggi l’odio è una caratteristica del populismo di destra.
L’odio è una profonda forza umana e dimora in tutti noi, ma ultimamente è stata utilizzata dagli estremisti: religiosi, di destra ma anche di sinistra. Ciò nonostante, l’odio è una forza pericolosa. Demonizzare e detestare le persone è l’inizio di qualcosa di ben peggiore.
Secondo lei ci sarà una terza Trilogia a opera di un altro scrittore oppure questa è la parola fine?
Onestamente non lo so. Quello di cui sono certo è che Lisbeth Salander è troppo buona per morire. È uno dei personaggi più iconici del nostro tempo e tornerà. In un modo o nell’altro.
Speriamo. Le auguro buona fortuna.
Guantanamo: ai contribuenti Usa è costato 6 miliardi di $
Gary Brown oggi è un colonnello in pensione. È stato un consulente legale dei vertici delle “military commissions”, i tribunali militari) di Guantanamo. Brown è diventato il whistleblower del centro di detenzione di massima sicurezza situato nella nota base navale americana dell’isola di Cuba e voluto da George W. Bush nel 2002. In un servizio della National Public Radio (Npr), rilanciato ieri dall’associazione Nessuno tocchi Caino, Brown attacca chi ha gestito i tribunali militari e la struttura di detenzione. Parla di “ingenti sprechi finanziari” e “pessima gestione”. Un conto che per i cittadini statunitensi assomma a oggi alla cifra di 6 miliardi di dollari.
Morris Davis, procuratore capo di Guantanamo dal 2005 al 2007, ha dichiarato sempre a Npr: “A Guantanamo sono stati spesi miliardi di dollari che erano totalmente inutili”, e ha criticato i tribunali militari come “un fallimento travolgente”.
Un’inchiesta del New York Times del 16 settembre scorso ha rivelato che la prigione e i tribunali militari della baia di Guantanamo costano ai contribuenti “circa 13 milioni per ciascuno dei 40 prigionieri detenuti” o un totale di 540 milioni nel solo 2018. Sebbene non abbia offerto alcuna soluzione al problema, il presidente Donald Trump ha dichiarato il 18 settembre che il costo annuale di 13 milioni di dollari per detenuto era “folle”. Nel servizio del Nyt Morris Davis ricordava di essersi dimesso nel 2007 per le troppe pressioni da parte dei suoi superiori perché utilizzasse le prove che erano state ottenute dalla Cia interrogando gli imputati con metodi di tortura. Dopo le sue dimissioni, un giudice militare stabilì che in effetti le prove estorte con la tortura non potevano essere utilizzate nei processi, nemmeno nei processi “speciali” di Guantanamo.