“Non c’è mai pace per le vittime di Franco”

“Da una parte c’è l’ovvia soddisfazione di vedere che si è posto fine alla sepoltura di un assassino quale fu Francisco Franco in un monumento dello Stato, costruito dai prigionieri repubblicani; dall’altra, però, c’è l’astio per l’errore commesso dal presidente Pedro Sánchez nell’annunciare un anno fa che l’esumazione sarebbe avvenuta nel giro di poche settimane. Invece, abbiamo dovuto assistere a diatribe burocratiche e ai piagnistei dei familiari del dittatore. Gente che non hai mai lavorato in vita sua e che continua a vivere di ciò che il vecchio ha rubato agli spagnoli”.

Così Juan José Millás, scrittore ed editorialista dalla penna pungente, spiega il sentimento contraddittorio che suscita in lui e nei suoi connazionali la decisione del Tribunale Supremo – dopo una lunga disputa giudiziaria – di esumare il cadavere del caudillo dal monumento della Valle de los Caidos di Madrid e seppellirlo nel cimitero de El Pardo, negandogli la cattedrale dell’Almudena.

Millás non critica solo quest’ultimo episodio, ma parte dalla Transizione (il periodo seguito alla morte del dittatore che portò alla democrazia). “Fu lo stesso re (ora emerito, ndr) Juan Carlos a ordinare che Franco fosse sepolto lì, cosa che non si dice – ricorda lo scrittore – la Transizione è avvenuta con i franchisti che puntavano una pistola alle tempie dei democratici e ha lasciato molte questioni gravi irrisolte: come permettere che il re concedesse alla vedova di Franco il titolo di duchessa, o che i familiari continuassero a possedere, ad esempio, le sculture della Cattedrale di Santiago. Ora stiamo pagando il conto di ciò che è avvenuto molto tempo fa”. Anche per questo i familiari delle vittime della dittatura sono insorti: “Hanno ragione, ci sono ancora corpi accatastati in fosse comuni, persone che non sanno dove fu sepolto il nonno; sembra di assistere a una di quelle scene in cui le mani dei cadaveri escono dalla terra. I morti della Guerra civile stanno facendo proprio questo, per rivendicare che ancora non giacciono in pace, mentre il cadavere scomodo di un fantasma putrefatto si aggira per la Spagna”.

Per questo chi accusa Sanchez di volersi “rifare” sui “nemici”, per Millás non merita neanche risposta: “I fascisti di Vox portano avanti questa teoria. La legge della Memoria Storica (voluta dal premier Zapatero nel 2007) che vorrebbero abolita, ha lo scopo di dare giustizia alle vittime del franchismo con una giusta sepoltura. Mi sembra la base della giustizia, niente di eroico”, spiega Millás. “Chi si oppone è un fascista, come il giudice che tira in ballo la mancanza del permesso dei lavori per disseppellire Franco, o parte della Chiesa che è proprietaria della Basilica della Valle”. Sul tempismo elettorale della decisione del Supremo, Millás non ha dubbi: “Non credo che favorirà Sánchez alle elezioni del 10 novembre, sarebbe stato così se lo avesse spostato come promesso in poche settimane, così è sembrato una annuncio di propaganda”. A ogni modo, perché il monumento possa assumere un nuovo significato, secondo Millás, “ci vorrà davvero molto tempo”.

“Sui 43 rapiti ci sono 11 filoni d’inchiesta ancora inesplorati”

“Lo Stato ha fatto sparire i nostri figli e lo Stato ci deve dare una risposta”. A dirlo sono i genitori dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa, scomparsi cinque anni fa. Le famiglie oggi terranno un corteo in Città del Messico.

La ricostruzione ufficiale è questa: nei pressi di Iguala, i giovani sono stati sequestrati, mentre viaggiavano in autobus, da agenti della polizia municipale e dall’organizzazione criminale Guerreros Unidos, che poi avrebbe bruciato i loro cadaveri nella discarica della città di Cocula. Per alcune fonti, una versione dei fatti costruita a suon di torture: secondo un gruppo internazionale di esperti indipendenti (Giei), almeno 56 detenuti sarebbero stati costretti a confermare questa ricostruzione; proprio a causa delle irregolarità durante gli interrogatori, 24 agenti e un leader di Guerreros Unidos sono usciti dal carcere a inizio settembre. “La ricostruzione della Procura è piena di irregolarità, contraddizioni e gravi omissioni”, ha scritto il Giei. Gli esperti indipendenti hanno mostrato che è scientificamente impossibile che ci sia stato un rogo di quelle dimensioni nella discarica di Cocula, e affermato che la Polizia Federale e l’esercito si trovavano sul luogo dell’attacco, anche se questa presenza poi non era annotata nei fascicoli della Procura. Alcuni cellulari dei giovani scomparsi sarebbero poi apparsi nelle mani di funzionari pubblici.

Vidulfo Rosales, del Centro di Diritti Umani Tlachinollan, è l’avvocato che rappresenta le famiglie dei giovani scomparsi e fa parte della Commissione per la Verità.

Quali nuovi elementi sta indagando la Commissione?

Finora le autorità hanno preso in considerazione solo l’ipotesi della discarica di Cocula, ignorando gli altri filoni d’inchiesta malgrado fossero più plausibili. La Commissione per la Verità è in possesso di nuovi indizi secondo i quali i ragazzi non sarebbero stati portati a Cocula, ma in un’altra zona dello Stato di Guerrero; li stiamo cercando a Mezcala, Carrizalillo e Huitzuco.

Collaborate con la Procura Speciale per il caso Ayotzinapa?

La Commissione per la Verità sta lavorando efficacemente, ma non ha facoltà di svolgere un’inchiesta penale. Per questo è necessaria l’azione della Procura, che finora è stata molto lenta. È necessario esplorare gli 11 filoni di inchiesta che gli esperti indipendenti del Giei hanno consigliato di prendere in considerazione.

Quali sono questi filoni? Esiste un’ipotesi sul movente dell’attacco?

Un membro di Guerreros Unidos ha dichiarato in un tribunale americano che la sua organizzazione utilizzava autobus per trasportare droga da Iguala, la città in cui sono stati attaccati gli studenti, a Chicago e Atlanta. Un’ipotesi da analizzare è che alcuni autobus su cui gli studenti viaggiavano potessero essere, a loro insaputa, carichi di eroina e che Guerreros Unidos e la forza pubblica li abbiano attaccati per recuperare la droga.

Quel giorno c’era anche l’esercito?

Sappiamo che quella notte, soldati del 27º Battaglione di fanteria di Iguala erano presenti. La Commissione della Verità ha chiesto all’esercito di spiegare quale era la ragione della loro presenza e se ha una relazione di qualche tipo con il gruppo criminale Guerreros Unidos. Per ora non ha dato risposta.

Le famiglie delle vittime hanno fiducia nel governo di López Obrador?

L’attuale governo ha mostrato una volontà politica che in quello precedente era assente. Ma non direi che i genitori dei ragazzi scomparsi si fidino del governo. Sarà un rapporto che dovrà costruirsi col tempo, basandosi sui risultati delle indagini.

La Corte boccia BoJo. Il Parlamento riapre, ma Boris non si dimette

Quando ieri mattina Lady Brenda Hale, baronessa di Richmond, unica donna e presidente del collegio giudicante, ha letto il testo della storica sentenza con cui gli undici giudici della Corte Suprema, all’unanimità, hanno definito illegale la sospensione di cinque settimane imposta da Boris Johnson al Parlamento, i presenti sono rimasti senza fiato. Perché è una sentenza durissima nei toni e nella sostanza, e l’esito peggiore possibile per il primo ministro.

“La sospensione è illegale, nulla e priva di effetto – ha chiarito Hale – la decisione di suggerire alla Regina di sospendere il Parlamento è illegale perché, senza ragionevoli giustificazioni, ha avuto l’effetto di frustrare e ostacolare la capacità del Parlamento di portare avanti le proprie funzioni. I suoi effetti sulla nostra democrazia sono stati estremi”.

Di questa giornata restano, fra le altre, le immagini di due giganti: la ferma autorevolezza con cui Hale ha ribadito il primato del Parlamento sull’esecutivo che è al cuore della democrazia britannica, e la felicità dell’altra protagonista di questa vicenda, Gina Miller, imprenditrice, attivista anti Brexit, che per due volte ha trascinato il governo in un tribunale e per due volte ne ha fermato le derive autoritarie, prima nel 2017, quando ha ottenuto che l’accordo sulla Brexit siglato da Theresa May venisse messo ai voti in Parlamento, e poi facendo ricorso per prima contro la sospensione imposta da Johnson (subito seguita dal vittorioso ricorso scozzese).

La campionessa della democrazia britannica è una donna nata in Guyana da genitori di origine indiana, che per la sua battaglia ha pagato e paga tuttora un prezzo personale e vive da anni sotto protezione. Scacco matto a Boris Johnson, l’uomo che voleva farsi re, e invece da quando è primo ministro e ha scelto la strategia dello scontro con il parlamento ha perso tutto quello che poteva perdere.

Lo speaker della Camera John Bercow si è mosso immediatamente: malgrado questi siano i giorni dei congressi di partito, Westminster riaprirà oggi alle 11:30. Urgenza non solo simbolica: fa pensare che i parlamentari si muoveranno rapidamente per prendere il controllo legislativo sulla Brexit o addirittura forzare un voto di fiducia. Già ieri le opposizioni chiedevano le dimissioni del pm: prima Jeremy Corbyn, che dalla platea del congresso laburista in corso a Brighton lo ha accusato di “disprezzo della democrazia e abuso di potere”; poi i Lib-Dem, gli indipendentisti scozzesi, Dominic Grieve, ex avvocato dello stato, ora figura autorevole nel gruppo dei 21 conservatori ribelli purgati da Johnson per aver votato contro il ‘no deal’. Lunedì da New York, dove partecipava alla assemblea generale delle Nazioni Unite, Johnson aveva dichiarato di non aver intenzione di dimettersi in nessun caso. Ma la sua posizione ora appare insostenibile, tanto che per essere in aula oggi ha anticipato il rientro a Londra. Ieri, prima di chiudersi in un silenzio stampa visto come una fuga, ha rilasciato alla Bbc una intervista per niente conciliante. “Rispetteremo la sentenza, ma sono in totale disaccordo. Non ci distoglierà dalla nostra determinazione a portare avanti la volontà del popolo di uscire dalla Ue il 31 ottobre. Non c’è dubbio che tanta gente voglia frustrare la Brexit”.

Lontano dai microfoni, ieri sera una fonte di Downing Street ha dichiarato sempre alla Bbc: “Pensiamo che la Corte Suprema abbia fatto un grosso errore nell’estendere la propria competenza a questioni politiche”. Non è una dichiarazione ufficiale ma sembra annunciare una reazione aggressiva e l’intenzione di politicizzare l’operato dei giudici. È possibile che, malgrado questa sentenza, Johnson non rinunci alla sua strategia muscolare di imporre la sua volontà ai parlamentari o di richiedere, come ha annunciato ieri, una nuova sospensione per inaugurare con il discorso della Regina una nuova stagione legislativa? Il rischio è che incorra nell’accusa di oltraggio alla Corte Suprema e precipiti il paese nel caos costituzionale.

E poi c’è una questione di una gravità senza precedenti: sull’accusa che il governo abbia deliberatamente fuorviato la Regina i giudici non si sono espressi esplicitamente, scrivendo di non sapere con certezza cosa sia stato detto alla monarca nei colloqui a Balmoral. Ma di certo questa sentenza segna un momento di altissimo imbarazzo, una rottura del rapporto di fiducia fra pm e monarchia, che fra le altre ricadute potrebbe avere un impatto negativo sulla base monarchica degli elettori conservatori, se si finirà a elezioni anticipate. Al Brexit day mancano 36 giorni.

Neanche la Cina ci salva: Wanbao annuncia tagli della produzione

A partire da oggi c’è un solo mese di tempo per salvare la Wanbao di Belluno. Se la proprietà, che fa riferimento direttamente al governo della Cina, non avrà trovato una soluzione alla crisi entro il 24 ottobre, per 280 operai si apriranno le porte della disoccupazione e si perderà una fabbrica che per oltre mezzo secolo ha contribuito allo sviluppo della provincia veneta.

Ancora guai, insomma, per le produzioni nel settore degli elettrodomestici: il sito bellunese, infatti, è l’unico in Italia a costruire motori per i frigoriferi, ma da tempo è in grandi difficoltà e la società poche settimane fa ha fatto capire di volerci dare un taglio. Ieri sindacati e azienda si sono incontrati al ministero dello Sviluppo economico. Anche se, come è facilmente intuibile, la questione sta interessando anche la diplomazia. Saranno settimane di trattative delicate, con i rappresentanti dei lavoratori poco ottimisti sugli esiti. La situazione parte molto complicata: lo stabilimento è nato nel 1968 con il gruppo Zanussi-Electrolux e allora impiegava 1.900 persone. Successivamente è stato per anni in mano alla Acc Compressor, società finita in amministrazione controllata nel 2013. È in quel momento che sono intervenuti i cinesi: sembrava potesse essere l’inizio della rinascita, ma le cose sono andate diversamente. Nel 2014 la Wanbao ha acquisito la struttura e i suoi dipendenti, poi nel 2016 ha stretto un accordo con il ministero per il piano industriale. Fondamentale doveva essere il lancio di nuovi prodotti, cosa che però non è accaduta. “Negli ultimi cinque anni – spiega Stefano Bona della Fiom Cgil – hanno perso tra i 10 e i 12 milioni all’anno”. A risentirne sono stati i posti di lavoro, passati da 438 agli attuali 280. Solo un anno fa l’ultimo taglio di personale: 90 licenziati e altri 40 che hanno accettato le dimissioni con un incentivo economico. Anche questa dolorosa manovra era stata presentata come un sacrificio necessario per mantenere in vita la fabbrica. Il 4 settembre, invece, l’amministratore delegato del gruppo ha incontrato i rappresentanti sindacali per comunicare una nuova riduzione dei volumi.

“Ci hanno detto che non investiranno più un centesimo per rilanciare la fabbrica – ricorda Bona – questo è evidentemente un preludio alla chiusura, anche se non ne hanno ancora parlato esplicitamente”. L’incontro di ieri è stato aperto dalla relazione dei vertici della Wanbao che hanno confermato quanto critiche siano le condizioni. Si temeva già il peggio, poi hanno accolto l’invito del governo a cercare un’alternativa al disimpegno. Per questo si sono presi un altro mese per provare l’ultimo tentativo.

Il liberismo commerciale è un problema per l’Italia

Nei cambiamenti politici di questi giorni si parla poco di un grande contrasto tra 5Selle e Pd su un tema fondamentale: il commercio estero. Con un valore dell’export di 463 miliardi di euro di prodotti e 100 di servizi pesa un terzo della nostra economia ed è l’unica componente del Pil che negli anni ha avuto andamento positivo, consentendo di galleggiare sullo zero.

Il contrasto si può sintetizzare così: da un lato, il Pd, che sostiene una visione del commercio liberista, secondo cui ogni trattato di libero scambio fa bene all’Italia, un approccio completamente allineato al modus operandi della Commissione europea, che ha come obbiettivo la firma del numero più elevato di accordi commerciali. Dall’altro, la posizione del M5S: meno ideologica, più analitica e tendente a un protezionismo moderato; posizione finora allineata a quella della Lega, che mi aveva permesso di promuovere, in accordo con il ministro Di Maio, la Task force sui Trattati di libero Scambio.

Nessun ritorno all’autarchia, ovviamente, ma neppure un azzeramento incondizionato di dazi e quote. Il Pd crede che il liberismo commerciale porti benefici all’economia italiana tout court, mentre dazi applicati in modo selettivo e per un certo periodo possono essere la scelta migliore, sempre in base a criteri scientifici. Finora l’unità di visione nella politica commerciale gialloverde ha evitato, ad esempio, che la votazione sul Ceta (Ue-Canada) approdasse in Parlamento e credo che i 5Stelle la pensino ancora così, mentre il neo ministro Bellanova ha espresso il suo favore al trattato senza riscontro numerico. Molte altre sono le divergenze: il governo gialloverde ha votato contro o espresso dissenso al trattato Eu-Vietnam, al Mercosur, e spinto affinché il settore agricolo uscisse dalle trattative con gli Usa. Il Pd ha avuto posizioni opposte. Chi ha ragione?

La teoria del commercio classica, di Ricardo, a cui si rifanno i neoliberisti ci dice che quando due Paesi commerciano entrambi ne beneficiano: ciascuno si potrà specializzare in ciò che riesce a produrre più efficientemente, abbandonando i prodotti che il partner fa meglio e lasciando ai flussi commerciali la funzione di riequilibrio. È stato anche l’abbassamento delle barriere al commercio, prima con il Gatt, poi con il Wto, uno dei fattori di crescita dagli anni 80 in poi, quando il commercio valeva solo il 15% del Pil mondiale (oggi è il 25%). L’Italia aveva un rapporto export/Pil del 20%, ora è un terzo. Il caso Cina è eclatante. Dall’ingresso nel Wto nel 2001, il suo export è cresciuto da 270 a 2.700 miliardi di dollari. Per i globalisti, lo sviluppo del commercio ha contribuito a ridurre la povertà, specie in Asia, con 800 milioni di poveri in meno nella sola Cina. Perché allora avere una visione diversa? La risposta è nei dettagli analitici.

Il libero commercio porta benefici se i fattori produttivi, per esempio la forza lavoro, possono trasferirsi da un settore all’altro, e da una geografia all’altra, cioè se c’è piena mobilità degli individui. Se l’Italia accetta di importare quote di riso dal Vietnam in cambio di più esportazioni di macchinari agricoli, il risicoltore medio di Vercelli dovrà trasferirsi in fabbrica. Ammesso che ci riesca, bisogna stimare quanto tempo occorre, perché nell’interim sarà disoccupato. I tempi di risposta del sistema vanno calcolati, non lasciati a proclami ideologici. La teoria del commercio è molto simile alla teoria della selezione naturale di Darwin, dove la qualità media della specie migliora con la scomparsa degli individui deboli. Riportando il paragone all’economia, la media, cioè il Pil, di un paese aumenta, ma all’interno ci sono perdenti travolti dalla globalizzazione. Ho parlato del riso del Vietnam non solo perché il governo gialloverde ha detto no all’accordo, ma perché c’è il precedente della Cambogia alla quale Bruxelles aveva concesso di esportare in Europa quote illimitate di riso a dazi zero. Risultato: ne abbiamo importato 400mila tonnellate, il 20% della produzione europea, causando danni permanenti ai produttori europei i quali, indovinate un po’, sono concentrati in Italia, che produce la metà di tutto il riso Ue e questo ha portato alla perdita del 10% delle terre coltivate a riso.

Una seconda considerazione va fatta sulla struttura del nostro sistema industriale composto da Pmi, poco flessibili e più soggette a essere parte degli sconfitti dal liberismo darwiniano. In altri Paesi europei c’è più flessibilità e reagiscono meglio. Un doppio problema: non solo l’Italia non è pronta a fronteggiare il liberismo, ma le politiche commerciali Ue possono peggiorare lo scenario. Nessuno a Bruxelles si è strappato i capelli per il riso cambogiano e solo dopo 3 anni sono scattati i dazi. Troppo poco, troppo tardi. I sostenitori del liberismo ricordano che un Paese esportatore come l’Italia soffrirebbe i dazi. Anche qua, fatti: gli Stati Uniti hanno i dazi più bassi (1/%-2%), l’Ue intermedi, (3%-5%) e la Cina i più elevati (8%-9%). Eppure la Cina ha il surplus commerciale più elevato, l’Europa quasi alla pari e gli Usa deficit continuo. Certo ci sono altri motivi, ma l’equazione “dazi-selettivi = meno export” è da dimostrare. Anzi, in presenza di dazi, la maggiore qualità dei nostri prodotti domina le barriere tariffarie dandoci un vantaggio relativo.

In conclusione, l’export è fondamentale e va promosso, ma le politiche commerciali vanno gestite senza ideologie. Trovare il giusto mix è cosa complessa perché le analisi di modelli ad equilibrio globale non sono semplici. Il rischio è che possa prendere piede la visione neoliberista, senza far bene le analisi, un danno per la nostra economia, anche per l’affermarsi della New Trade Theory (“chi ha scala maggiore vince”), di Paul Krugman con cui ho avuto l’onore di condividere l’essere stati allievi del rimpianto Rudy Dornbusch al Mit di Boston. Ho già visto da anni lo tsunami dall’Asia dirigersi verso l’Europa. Fermiamoci a riflettere finché si può.

Come il capitalismo truccato sta uccidendo la democrazia

“Anche se le singole aziende che rappresentiamo perseguono scopi aziendali privati, collettivamente noi condividiamo tutti un impegno fondamentale nei confronti di chiunque sia interessato dalle nostre attività”. Con questa frase, l’associazione americana Business Roundtable, che riunisce i capi di 181 tra le più grandi aziende del mondo, ha sancito l’abbandono del tradizionale principio per cui “le aziende esistono essenzialmente per fare gli interessi dei loro azionisti”, e solo i loro. È stato senza dubbio un evento. Ma qual è, e quale dovrebbe essere, la sua esatta portata?

Per rispondere è necessario partire dalla constatazione che finora qualcosa è andato storto. Nel corso degli ultimi 40 anni, soprattutto negli Usa, ha preso il sopravvento una sorta di trinità diabolica composta da rallentamento della produttività, inasprimento delle disuguaglianze ed esplosione di enormi choc finanziari. Come hanno osservato Jason Furman dell’Università di Harvard e Peter Orszag di Lazard Frères in un articolo dell’anno scorso: “Dal 1948 al 1973, il reddito mediano reale delle famiglie negli Stati Uniti è aumentato del 3% all’anno. A questo ritmo (…) la probabilità che un figlio avesse un reddito superiore a quello dei suoi genitori era del 96%. Dal 1973 in poi il reddito della famiglia mediana è cresciuto invece solo dello 0,4% all’anno (…), con la conseguenza che il 28% dei figli oggi ha un reddito inferiore a quello dei genitori”.

 

La produttività al palo
Come mai l’economia non produce? La responsabilità è in gran parte dovuta all’espansione del capitalismo di rendita, che accumula e non investe. “Rendita” significa in questo caso un livello di benefici che eccede di gran lunga la soglia necessaria a indurre l’offerta di beni, servizi, terreni o manodopera nella società. Così il “capitalismo della rendita” descrive un’economia in cui il potere politico e di mercato permette a un numero ristretto di individui e grandi aziende di estrarre una grande quantità di profitti da tutti gli altri. Da solo, tuttavia, questo fenomeno non basta a spiegare i risultati deludenti degli ultimi anni.

Come sostiene Robert Gordon, professore di Scienze sociali alla Northwestern University, nella seconda metà del XX secolo si è verificato anche un rallentamento del tasso di innovazione. La tecnologia, inoltre, ha creato una maggiore dipendenza delle economie dai laureati aumentando i loro salari relativi, fenomeno che spiega in parte la crescita delle disuguaglianze. Ma la quota di ricchezza detenuta dall’1% dei redditi più alti è passata dall’11% del 1980 al 20% nel 2014, e questo non si può spiegare soltanto con il mutamento tecnologico.

 

Lo spauracchio stranieri
A sentire i dibattiti politici in corso in molti Paesi, specie negli Usa e nel Regno Unito, si potrebbe concludere che la performance deludente dell’economia sia dovuta alle importazioni dalla Cina o agli immigrati a basso salario, o a entrambe le cose. Gli stranieri sono i capri espiatori ideali, ma l’idea che l’aumento delle disuguaglianze e il rallentamento dell’incremento della produttività siano dovuti agli stranieri è falsa. Qualunque Paese occidentale ad alto reddito oggi intrattiene più scambi commerciali con i Paesi emergenti di quanto non facesse quarant’anni fa. Tuttavia, l’aumento delle disuguaglianze è variato in modo sostanziale da Paese a Paese, e questo è dipeso dal diverso comportamento delle singole istituzioni dell’economia di mercato e dalle scelte di politica interna. Nella sua panoramica dell’ampia letteratura accademica sul tema, l’economista di Harvard, Elhanan Helpman, giunge alla conclusione che “la globalizzazione basata su commercio estero e delocalizzazione non è stata un grande fattore di aumento delle disuguaglianze. Lo confermano numerosi studi su vari eventi in tutto il mondo”. Lo spostamento di molte attività produttive all’estero, principalmente in Cina, potrebbe aver parzialmente ridotto gli investimenti nelle economie ad alto reddito, ma questo effetto non può essere stato abbastanza forte da ridurre in modo significativo l’incremento della produttività. (…)

Il presidente Trump, invece, ragiona da mercantilista ingenuo e sostiene che la causa della perdita di posti di lavoro stia negli squilibri commerciali bilaterali, risultato di cattivi accordi commerciali. È vero che la bilancia commerciale degli Stati Uniti è in disavanzo, mentre quella dell’Unione europea è in surplus, ma le politiche commerciali delle due aree sono abbastanza simili. Queste non spiegano gli equilibri bilaterali, e gli equilibri bilaterali non spiegano gli equilibri globali. (…) Le ricerche mostrano che l’effetto dell’immigrazione sul reddito reale della popolazione nativa e sulla posizione fiscale dei Paesi di accoglienza, è stato molto limitato e spesso positivo. Piuttosto che concentrarsi sui danni causati dal commercio e dalla migrazione, idea politicamente remunerativa ma sbagliata, è molto più produttivo prendere in esame il capitalismo della rendita contemporaneo.

 

Il dogma della rendita
La finanza gioca qui un ruolo chiave, a vari livelli. Quando viene liberalizzata tende alla metastasi, perché comincia a finanziare redditi, profitti (spesso illusori) e le sue stesse attività con la sua capacità di creare credito e denaro. Uno studio del 2015 di Stephen Cecchetti ed Enisse Kharroubi per la Banca dei Regolamenti Internazionali afferma che “lo sviluppo finanziario è positivo solo fino a un certo livello, oltre il quale diventa un freno alla crescita. E un settore finanziario in rapida crescita è dannoso per la crescita della produttività aggregata”. Quando il settore finanziario cresce rapidamente, dicono gli autori, fa sì che vengano assunte persone di talento, che poi finiscono a fare mutui immobiliari, perché offrono più garanzie, distogliendo così risorse umane di talento per impiegarle in settori improduttivi e inutili. Anche in questo caso la crescita eccessiva del credito porta quasi sempre a crisi, come hanno dimostrato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff nel libro Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria (Il saggiatore, 2010). Questo è il motivo per cui nessun governo si sognerebbe mai di lasciare che il settore finanziario (ipoteticamente “orientato dal mercato”) operi da solo e senza guida. Ma ciò crea a sua volta per la finanza enormi opportunità di guadagnare nella totale irresponsabilità: una sorta di gioco del lancio della moneta in cui se esce testa vincono loro e se esce croce perdiamo tutti. La crisi è garantita. La finanza scava poi disuguaglianze sempre più grandi. Thomas Philippon della Stern School of Business, e Ariell Reshef della Paris School of Economics hanno dimostrato che i guadagni relativi dei professionisti della finanza sono esplosi negli anni 80, dopo la deregolamentazione della finanza. Hanno anche stimato che gli “utili” rappresentavano tra il 30 e il 50% del divario retributivo con il resto del settore privato.

Questa esplosione dell’attività finanziaria a partire dagli anni 80 non ha aumentato la crescita della produttività. Semmai l’ha abbassata, soprattutto dopo la crisi. Vale lo stesso per l’esplosione delle retribuzioni dei manager, che non è altro, di fatto, che un’altra forma di estrazione di rendita. Come osserva Deborah Hargreaves, fondatrice dell’High Pay Centre, nel Regno Unito il rapporto tra la retribuzione media di un amministratore delegato e il salario medio di un lavoratore è passato da 48 a 1 nel 1998 a 129 a 1 nel 2016. Negli Usa lo stesso rapporto è passato da 42 a 1 nel 1980 a 347 a 1 nel 2017. (…) Il fatto di essere pagati in proporzione al prezzo delle azioni della propria azienda ha dato ai manager un incentivo enorme a far sì che quel prezzo si alzasse sempre di più, a costo di manipolare i guadagni o contrarre prestiti per acquistare azioni. Senza aggiungere nessun valore alle aziende, ma producendo solo una grande quantità di ricchezza per gli stessi manager. Un problema correlato è rappresentato poi dai conflitti di interessi, in particolare per l’indipendenza dei revisori dei conti.

In sintesi, le decisioni delle aziende sono prese sulla base di considerazioni finanziarie personali dei loro manager. E, come ricorda l’economista indipendente Andrew Smithers nel suo libro Productivity and the bonus culture, tutto ciò avviene a spese degli investimenti aziendali e quindi della crescita della produttività.

 

Nessuna concorrenza
Una questione forse ancora più fondamentale è il declino della concorrenza. A proposito degli Stati Uniti, Jason Furman e Peter Orszag affermano che esistono le prove di un aumento del tasso di concentrazione del mercato, di una diminuzione del tasso di ingresso di nuove imprese e, infine, di una riduzione della quota di ricchezza detenuta da imprese giovani rispetto a 30 o 40 anni fa.

(…). Tutto ciò è indice di un indebolimento della concorrenza e di un aumento delle rendite monopolistiche. Inoltre, gran parte dell’aumento delle disuguaglianze deriva dall’esistenza di enormi divari salariali per i lavoratori con competenze simili che lavorano in imprese diverse: un’altra forma di estrazione di rendita. Una parte della spiegazione è data dall’avvento di sempre più mercati dove “chi vince prende (quasi) tutto”: le superstar del mercato e le loro aziende acquisiscono rendite monopolistiche che è difficile scalfire (…). Gli esempi lampanti sono le esternalità di rete, ovvero i vantaggi derivanti dall’utilizzo di una rete usata anche dai concorrenti, e i costi marginali nulli di piattaforme monopolistiche come Facebook, Google, Amazon, Alibaba e Tencent.

Un’altra forza naturale di questo tipo è rappresentata dalle esternalità di rete degli agglomerati, come ha segnalato Paul Collier nel suo The Future of Capitalism. Le aree metropolitane di successo come Londra, New York, la Bay Area in California, generano potenti meccanismi di feedback attirando e premiando persone di talento. Ciò va a svantaggio delle imprese e delle persone che restano nelle città che restano indietro. (…) Tuttavia, la rendita monopolistica non è solo il prodotto di queste tendenze economiche, naturali seppur preoccupanti. È anche il risultato della politica. Negli anni 70, negli Usa, il giurista Robert Bork sosteneva che il “benessere dei consumatori” dovrebbe essere l’unico obiettivo delle politiche antitrust. (…) L’effetto è stato una certa condiscendenza nei confronti del potere monopolistico, purché mantenesse i prezzi bassi. Ma gli alberi ad alto fusto privano gli alberelli della luce di cui hanno bisogno per crescere, e lo stesso vale per le aziende giganti. (…)

 

L’evasione fiscale
Un aspetto veramente disdicevole del principio della continua ricerca di accrescere le rendite è l’altissima evasione fiscale. Le grandi imprese (e quindi anche i loro azionisti) traggono beneficio dai beni pubblici (sicurezza, sistemi legali, infrastrutture, forza lavoro istruita e stabilità sociopolitica) forniti dalle più potenti democrazie liberali del mondo, ma sono anche nella posizione perfetta per sfruttare le scappatoie fiscali, specialmente quelle aziende in cui è difficile determinare l’esatta localizzazione della produzione o dell’innovazione. Le maggiori sfide della tassazione per le grandi aziende sono rappresentate dalla concorrenza fiscale, l’erosione della base imponibile e il trasferimento degli utili. La prima è visibile nel calo delle aliquote fiscali, le ultime nel trasferimento della proprietà intellettuale nei paradisi fiscali, nella crescita di debiti deducibili dalle imposte sugli utili maturati nelle giurisdizioni a tassazione più elevata e, infine, nella manipolazione dei prezzi di trasferimento tra un’impresa e l’altra.

Uno studio del Fmi del 2015 ha calcolato che l’erosione della base imponibile e il trasferimento degli utili hanno ridotto le entrate annuali a lungo termine nei Paesi Ocse di circa 450 miliardi di dollari (ossia l’1% del Pil) e nei Paesi non Ocse di poco più di 200 miliardi di dollari (l’1,3% del Pil). Si tratta di cifre significative nel contesto di una tassazione che nel 2016, nei Paesi Ocse, è cresciuta in media soltanto del 2,9% del Pil, e solo del 2% negli Usa.

Brad Setser del Council on Foreign Relations mostra che le società statunitensi registrano profitti 7 volte superiori nei piccoli paradisi fiscali (Bermuda, Indie occidentali britanniche, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Singapore e Svizzera) rispetto a quelli ottenuti in 6 grandi economie (Cina, Francia, Germania, India, Italia e Giappone). Questo è ridicolo. (…)

In tutti questi casi, le rendite non vengono semplicemente sfruttate. Vengono create attraverso pressioni per creare scappatoie fiscali distorsive sleali e dirette contro le basilari normative che regolano fusioni, pratiche anti-concorrenziali, comportamenti finanziari scorretti e che tutelano l’ambiente e il mercato del lavoro. Le lobby delle grandi aziende sopraffanno gli interessi dei comuni cittadini. (…) Non da ultimo, poiché alcune economie occidentali sono diventate più latinoamericane nella distribuzione dei redditi, anche la loro politica è diventata più latinoamericana. Alcuni dei nuovi populisti occidentali riflettono su cambiamenti radicali, ma necessari, nelle politiche di concorrenza, leggi e fiscalità. Ma altri si affidano alle sirene xenofobe e continuano a promuovere un capitalismo truccato per favorire una piccola élite. Tutte queste attività potrebbero anche finire, intendiamoci, e sarebbe la morte stessa della democrazia liberale.

I membri della Business Roundtable e i loro pari hanno questioni importanti da porsi. (…) Dovranno chiedersi come questa constatazione andrà a influire nel modo in cui sono abituati a fissare le loro retribuzioni e ad avvalersi (anzi, a creare attivamente) delle scappatoie fiscali e normative. Dovranno, non da ultimo, riconsiderare le loro attività nell’arena pubblica. Cosa stanno facendo per garantire, per esempio, migliori leggi per il governo delle grandi imprese, un sistema fiscale equo ed efficace, una rete di sicurezza per chi viene colpito da forze economiche che trascendono il suo controllo, un ambiente locale e globale più sano e una democrazia capace di rispondere ai desideri dell’ampia maggioranza?

Abbiamo bisogno di un’economia capitalistica dinamica, che dia a tutti la legittima convinzione di poter partecipare ai benefici. Quello che invece sembriamo avere di fronte adesso è sempre più spesso un capitalismo della rendita instabile, dove la concorrenza è indebolita e la crescita della produttività langue, la disuguaglianza è elevata. Il tutto, non a caso, in un contesto democratico sempre più degradato. (…) I nostri sistemi economici e politici devono cambiare il loro modo di funzionare, altrimenti soccomberanno.

In equilibrio sopra la follia del capitale

Nel capitalismo “qualcosa è andato storto”. L’apparente ingenua affermazione di Martin Wolf, editorialista di punta del Financial Times che, con l’articolo che riproduciamo in queste pagine ha aperto una discussione di risonanza internazionale, va colta in tutta la sua concretezza.

Il dibattito sulla crisi del capitalismo dovrebbe essere preso un po’ più sul serio dagli stessi capitalisti perché di fronte a crisi virulente molti di loro sono destinati a sparire sotto i colpi della “distruzione creatrice” di cui parlava Joseph Schumpeter.

I guasti sono disseminati nell’articolo di Wolf e alcuni, come il dislivello spaventoso tra i redditi dell’1% più ricco e quelli del restante 99%, sono noti.

Ma l’immagine che rende meglio l’attuale crisi, anche di legittimità, è quella descritta dalle aspettative del futuro: “Dal 1948 al 1973 – scrive Wolf – la probabilità che un figlio avesse un reddito superiore a quello dei suoi genitori era del 96%. Dal 1973 in poi il reddito della famiglia mediana è cresciuto solo dello 0,4% all’anno […], con la conseguenza che il 28% dei figli oggi ha un reddito inferiore a quello dei loro genitori”. Questa realtà apre una voragine sociale e democratica sotto le società occidentali. Gran parte della spinta populista viene da lì.

Eppure le soluzioni tardano ad arrivare. La crisi del 2007-2008 è stata affrontata con gli stessi ingredienti che l’avevano provocata, la finanza creativa che sempre più si dà una vita propria quanto “fittizia” come descrisse il fenomeno 150 anni fa quel pensatore inaggirabile che è Karl Marx.

Il capitalismo ha dimostrato più volte di saper sopravvivere alle proprie crisi e forse lo farà ancora. La crisi ambientale dice che potrebbe farlo a scapito del pianeta. In ogni caso, attorno al testo di Wolf vogliamo aprire un ampio dibattito che, come tradizione del Fatto, permetterà l’espressione delle posizioni più ampie e diverse. Ci interessa innanzitutto capire, nonostante la forte sensazione di danzare sopra l’abisso.

L’inverno è in arrivo: tutti gli indizi dagli Usa sulla nuova recessione

Sta arrivando una terribile recessione globale innescata dagli Stati Uniti? Interrogarsi sulla questione è pericoloso. Il premio Nobel per l’Economia Robert Shiller ha scritto un apposito libro, Narrative Economics (Princeton University Press), per metterci in guardia: a forza di parlare di recessione, prima gli investitori e poi i consumatori adeguano i propri comportamenti all’eventualità che la catastrofe arrivi. Gli investimenti vengono rinviati, le assunzioni sospese, i costumi rimandati a quando le nubi si saranno diradate. “La probabilità che una recessione arrivi e la sua intensità dipendono in parte da come si evolve la narrazione collettiva sull’economia”, ha scritto Shiller sul New York Times.

Senza spargere panico, basta mettere in fila alcuni indizi comprensibili anche al pubblico che non legge i libri di Shiller per accorgersi che qualcosa non va. Ci sono tuoni che presto potrebbero diventare tempesta, resta da vedere di che intensità.

Primo indizio: sull’autostrada che collega la periferia Sud di Chicago ai parchi naturali dell’Indiana ci sono caselli ogni dieci minuti di auto, in alcuni si paga inserendo la carta di credito in una macchina, in altri c’è un addetto che si fa consegnare la carta, la passa in un lettore magnetico e la restituisce: sono anche questi i posti di lavoro dietro quel tasso di disoccupazione che negli Stati Uniti è così basso da sembrare innaturale: 3,7, sotto il 4 per cento che gli economisti considerano di “pieno impiego” (c’è sempre qualcuno che è disoccupato tra un lavoro e l’altro). Alla prima frenata dell’economia lavori superflui come lo strisciatore di carte o il pigiatore di bottoni nell’ascensore svaniranno in un attimo. E a pagare saranno le fasce più deboli.

Secondo indizio: WeWork è una società che gestisce uffici in condivisione, spazi di co-working. Sull’onda di quell’entusiasmo che continua a pompare la valutazione di società della sharing economy come Uber, nonostante i miliardi di perdite, doveva quotarsi in Borsa in questi giorni per la valutazione astronomica di 47 miliardi, nonostante finora abbia macinato soltanto perdite (1,2 miliardi nella prima metà del 2019). Nei giorni scorsi WeWork ha dovuto rinviare, forse per sempre, la quotazione per assenza di investitori. La società è valutata ora meno di 15 miliardi e il suo consiglio di amministrazione ha licenziato il presidente e fondatore, Andrew Neumann. Non tutti gli “Unicorni”, cioè le start up valutate oltre il miliardo di dollari, riusciranno ad andare in Borsa e a trasformare quella capitalizzazione teorica in soldi veri. Molte si riveleranno bolle di sapone gonfiate dal denaro a basso costo e dalla difficoltà degli investitori a stabilire quali sono le imprese nascenti con il futuro migliore. Il caso di WeWork segnala che il risveglio sta cominciando.

Terzo indizio: Netflix continua a scendere in Borsa. A giugno ha comunicato che per la prima volta dal 2011 ha perso consumatori nel suo mercato principale, gli Usa: 126.000 in meno in tre mesi. Un’inezia su 151 milioni, ma è la prima crepa. All’improvviso gli investitori si sono accorti che scommettere sul futuro di Netflix è un rischio: certo, ha saputo usare meglio di altri i dati e la profilazione dei clienti, ma ora subirà la concorrenza di Disney, Apple, Amazon Prime Video: tutti quei milioni spesi per produrre contenuti di qualità rischiano di non essere mai ripagati. Se crolla la fiducia nei miracoli futuri promessi dalle società fondate sui dati che da anni bruciano cassa – da Uber ad Amazon – il pilastro del capitalismo americano in versione anni Dieci si sfalda in un attimo.

Quarto indizio: la Federal Reserve ha tagliato il costo del denaro per la seconda volta nel 2019, ora è tra l’1,75 e il 2 per cento. Il genere di misura che dovrebbe allentare le tensioni nel mercato finanziario e stimolare l’economia per rendere la frenata in corso meno dura. E invece da giovedì la Fed sta continuando a iniettare decine di miliardi di dollari ogni giorno nel mercato perché è in corso una crisi di liquidità senza spiegazioni chiare: nel mercato overnight, quello a brevissimo termine tra banche che compensano debiti e crediti dando titoli di Stato in garanzia, ci sono strane impennate dei tassi. Le banche sembrano non fidarsi l’una dell’altra per prestiti di poche ore. Come nei peggiori momenti della crisi di dieci anni fa, ma questa volta non è successo nulla che possa giustificare tanta diffidenza.

Le incertezze sull’esito della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, scatenata da Donald Trump rischiano di essere il grilletto della recessione. A dicembre, a meno di nuove sorprese, i dazi si faranno sentire anche su prodotti di consumo, togliendo potere d’acquisto agli americani. Ma questo ormai è l’ultimo dei problemi: l’indice del Fondo monetario che misura l’incertezza nel commercio mondiale è a livelli mai toccati da quando viene misurato oggi è dieci volte il picco precedente, quando a inizio 2018 è iniziata la battaglia dei dazi tra Usa e Cina. “L’effetto combinato delle tariffe imposte lo scorso anno e di quelle annunciate in maggio tra Usa e Cina riduce il livello del Pil mondiale nel 2020 dello 0,5 per cento”, avvertiva a luglio la capo-economista del Fondo monetario, Gita Gopinath. Da allora le cose sono solo peggiorate. E la recessione sembra dietro l’angolo.

“È un’associazione mafiosa”: tre ergastoli per il clan Spada

Il clan Spada di Ostia è mafioso. La sentenza dei giudici della Corte d’Assise di Roma, dopo dieci ore di camera di consiglio, ha condannato all’ergastolo Carmine Spada, detto Romoletto e considerato il capo dei capi, Roberto Spada, già condannato per la testata a un giornalista Rai, e Ottavio Spada, detto Marco, accusati di associazione a delinquere di stampo mafiosa. Il maxi-processo, celebrato nell’aula bunker di Rebibbia, è stato istruito dai magistrati della Dda Mario Palazzi e Ilaria Calò, dopo l’operazione “Eclissi” del 25 gennaio 2018. Il clan sinti era riuscito a scalzare i boss Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, uccisi nel 2011, imponendo estorsioni e usura con la violenza e l’intimidazione, conquistando il litorale di Ostia. L’accusa aveva chiesto 208 anni di carcere per i 24 imputati.

“Questa sentenza riconosce che sul litorale di Roma c’è la mafia, ma restituisce fiducia ai cittadini onesti, che per troppo tempo hanno avuto paura”, ha commentato la sindaca Virginia Raggi presente alla sentenza.

Vince Google: “Diritto all’oblio solo in Europa”

Google potrà limitarsi a garantire il diritto all’oblio solo in Europa: a stabilirlo è la Corte di giustizia Ue esprimendosi su una controversia con le autorità francesi. Nel 2016 la Commission nationale de l’informatique et des liberté (il garante della privacy francese) aveva sanzionato l’azienda per 100 mila euro per aver rifiutato di rimuovere dalle ricerche su scala globale alcuni contenuti su un utente. Il diritto all’oblio applicato ai motori di ricerca, infatti, consiste nel richiedere che alcuni risultati contenenti dati e informazioni su se stessi, vengano rimossi dalle ricerche quando – seppur veri – dovessero risultare non più rilevanti e potenzialmente dannosi per l’onore o le attività di una persona (ad esempio i precedenti giudiziari).

Accogliendo un ricorso della Spagna, la Corte di giustizia dell’Ue si espresse già nel 2014 e stabilì che i cittadini europei hanno il diritto di richiedere che alcune informazioni siano rimosse se queste sono “non adatte, irrilevanti o non più rilevanti”. E se il motore di ricerca non rispetta la richiesta, il cittadino ha il diritto di presentare ricorso. Questa volta, però, è toccato a Google fare appello e ottenere il parere favorevole: se quindi una informazione potrà essere deindicizzata dai motori di ricerca Ue, in cui vige il regolamento sulla privacy comunitario, quella stessa informazione potrà non essere rimossa dalla lista di risultati delle ricerche che arrivano da fuori Ue, dove vigono altre regole.

Secondo i dati circolati negli ultimi giorni, negli ultimi cinque anni Google ha ricevuto circa 850 mila richieste di deindicizzazione che riguardavano 3,3 milioni di siti. Google decide quali richieste accettare e per gran parte dei rifiuti si ritrova poi in tribunale. I rifiuti ricadono poi spesso anche sui siti che hanno pubblicato la notizia con la richiesta di rimozione degli articoli. E questo fa sì che, di fronte al rischio di spese e scontri legali, siano soprattutto i piccoli siti di notizie a cedere per evitare contenziosi.

Come nel caso del sito di cronaca locale PrimaDaNoi, a Pescara, gestito da Alessandro Biancardi e dalla moglie Alessandra Lotti. Nel 2008 aveva pubblicato un articolo sulla lite tra due fratelli 70nni nel loro ristorante: uno dei due aveva ferito l’altro con un coltello da pesce. La polizia li aveva arrestati assieme ad alcuni altri membri della famiglia. Poi, nel 2010 uno dei due fratelli fece causa a PrimaDaNoi, chiedendo che l’articolo fosse rimosso in base al diritto all’oblio. Biancardi rifiutò, ritenendo di avere riportato la notizia citando i rapporti di polizia. La querelle è proseguita negli anni e nel 2013 il giudice unico del Tribunale di Chieti lo condannò a una multa da 10mila euro nonostante nel 2011 Biancardi avesse comunque provveduto a rimuovere l’articolo dai motori di ricerca.

Dopo la sentenza, l’articolo è stato poi cancellato completamente dal sito (quindi non solo escluso dalle ricerche di Google) e a Blancardi è stato pignorato il motorino perché non aveva i 10mila euro. La Cassazione, poi, nel 2016 ha confermato la sentenza di Chieti e il giornale ha chiuso alla fine del 2018, dopo aver ricevuto oltre 240 richieste legate alla privacy ed essere andato in tribunale per 40 di esse. Ora Biancardi ha presentato ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ma non si sa se il suo caso sarà esaminato dai giudici.