Un pelo di talpa

Ora che le madamine sono un po’ in disuso e anche gli scemi (ma non i giornalisti) hanno capito che il Tav è un treno, dunque è maschile, bisognava inventarsi un nuovo simbolo femminile per ingentilire i malaffari del Partito degli Affari. E oplà, ecco a voi “la talpa Federica”, che, con grave sprezzo del pericolo, ha finito “i primi 9 km”, dunque “il 18%” del “Tav Torino-Lione”. A cantarne le gesta, arrapati come non mai, sono accorsi al cantiere francese i migliori trombettieri della Banda del Buco, gli stessi che poi sbavano dietro a Greta e all’ambientalismo. Le loro cronache sono umide di polluzioni adolescenziali per quella gran gnocca di Federica, “una fresa lunga 135 metri, pesante 2.400 tonnellate” (Corriere), “una fabbrica ambulante spinta da 8 motori da Formula Uno” (Sole 24 Ore), che “sbriciola la montagna” (Messaggero) e “avanza in direzione Italia alla velocità di 15.20 metri al giorno, con punte di 28, estraendo 1,3 milioni di metri cubi di roccia” (Corriere), nientepopodimenoché “uno scavo lungo come il tunnel del Gran Sasso” (Repubblica), ma che dico: “uno degli scavi più complicati al mondo” (Mario Virano, ad di Telt, incredulo per l’impresa mai vista di bucare una montagna), “i primi 9 km che fanno la Storia” (il Giornale). E non è ancora niente: “Fra tre anni, nel 2023 (cioè fra quattro, ndr), sette talpe come quella attaccheranno contemporaneamente la montagna”: roba da orgasmo multiplo. Già che ci sono, i bucaioli di Repubblica e Corriere raccontano che la sexytalpa “svela la nudità del re”, cioè sbugiarda i putribondi ambientalisti No Tav e 5Stelle che “negano la realtà dei fatti con dati falsi spacciati per verità assolute senza alcun contraddittorio” (Rai, Mediaset, La7 e i giornaloni sono tutti house organ dei black bloc valsusini): tipo che “non esistono lavori già avanzati” e

“non c’è nessun cantiere oltre confine”, mentre “i primi 9 km del tunnel di base” sono lì bell’e pronti. L’eccitazione, si sa, gioca brutti scherzi: questi fresconi scambiano quei 9 km di “galleria geognostica” (così la definisce l’Ue che l’ha finanziata) per il “tunnel di base”, che deve ancora iniziare (usando, certo, anche gli scavi esplorativi nella stessa direzione) così come i bandi di gara. Spacciano quei 9 km per il 18% dell’opera definitiva, che prevede una galleria a due canne di 57,5 km ciascuna (totale: 115 km, di cui 9 sono il 7,8%). Tacciono che la Francia non ha stanziato un euro e che l’eventuale Tav non collegherebbe Torino a Lione, ma Bussoleno a St. Jean de Maurienne, perché la Francia ha rinviato al 2038 l’eventuale ferrovia tra il buco e il suo capoluogo. Ma vanno capiti. Al cuore non si comanda. Tira più un pelo di talpa che due pariglie di buoi.

Liam Gallagher, buona la seconda

Esattamente dieci anni fa, dopo tanti successi e scazzottate, i fratelli Gallagher misero la parola fine al progetto che li rese celebri, gli Oasis. Da quel giorno ognuno è andato per la sua strada, seguendo la propria indole: Noel ha intrapreso una direzione più sperimentale con gli High Flying Birds; Liam, invece, tra un progetto con altre formazioni e uno da solista, s’è aggrappato al sound della band che una volta lo ha reso così popolare, insistendo nel battere sempre sullo stesso chiodo. Sembrava fosse impantanato nelle sabbie mobili, Liam, ma le cose pare ora stanno cambiando. Dopo la buona prova con As you were del 2017, da pochi giorni ha pubblicato il suo secondo album da solista intitolato Why me? Why not. Le influenze di band come Who o Kinks si sentono, eccome, ma l’album è solido e i brani eccellenti (spiccano Halo, la lennoniana Once e One of us), anche se a volte sembra tutto prevedibile: del resto, l’originalità, per i Gallagher, non è mai stata un problema. Neanche ai tempi d’oro degli Oasis.

“Battiato scherza sempre: a Sanremo mi ha fatto tremare”

Luglio 1969. Un dodicenne catanese in vacanza a Londra con mamma e fratello. “Ero un fan assoluto dei Beatles. Già quattro anni prima avevo telefonato in diretta ad Arbore e Boncompagni, la frenesia radiofonica di Bandiera Gialla: ‘Abbiamo in linea un bambino siciliano…’”, ricorda con immutato entusiasmo Luca Madonia.

E che successe nella Capitale britannica?

Alloggiavamo in un alberghetto di un quartiere periferico. Ci dissero dove potevamo intercettare i Fab Four. Saltammo sul bus a due piani, scendemmo ad Abbey Road.

Proprio mentre loro stavano ultimando le registrazioni di quel capolavoro.

A pochi metri dagli studi vidi avanzare John Lennon, con al fianco Yoko Ono. Presi una macchinetta fotografica usa e getta, e scattai. Lui era vestito di bianco.

Com’era il tempo quel giorno?

Pioveva. Perché?.

Peccato. L’8 luglio, nel mattino in cui fecero avanti e indietro sulle strisce per la copertina di “Abbey Road”, c’era il sole.

Forse John vestiva sempre allo stesso modo, ahahah… Quella foto la conservo come un santino. È leggermente mossa, ma non me ne separo mai.

Le ha portato fortuna. A novembre uscirà “La piramide”, il suo nuovo album: maturo, versatile e ricco di ispirazione pop, ma alla vecchia maniera. Pensato come una serie di duetti illustri: da Battiato a Mario Venuti, da Carmen Consoli a Morgan. E Mauro Ermanno Giovanardi, Patrizia Laquidara, Giada Colagrande, suo figlio Brando. Infine Enrico Ruggeri, che raddoppia l’ospitata in due brani. Il primo singolo, con lui, “Allora fallo”, esce fra tre giorni.

Citando Ringo, questo disco è stato realizzato… with a little help from my friends. Tutti mi hanno detto subito di sì, la cosa mi ha lusingato. Con Enrico c’è anche una sintonia astrologica: è nato un giorno dopo di me. Nel giro di basso di Allora fallo io ci ritrovo ancora i Beatles di Taxman, Ruggeri ci sente i Talking Heads. Non male, direi.

Parliamo di Battiato? Siete amici di vecchia data. Franco produsse anche l’ultimo album dei suoi Denovo. E lei, recentemente, ha pubblicato una foto con il Maestro. Siete a pranzo insieme. Con discrezione e pudore, sembrava proteggerlo in questo periodo in cui si susseguono voci sulla salute e sulla questione della casa di Milo.

Franco è in una fase di riposo. Nel disco ripropongo, in una nuova veste, Quello che non so di te, un duetto con lui uscito qualche anno fa. Avevo conservato la sua traccia vocale, qui gli ho dato ancora più luce, con grande affetto.

Nel 2011 Battiato le fece da direttore d’orchestra a Sanremo, quando lei cantò “L’alieno”.

Mi disse: “Tu annuncia ai giornalisti che ti darò una mano come corista”. Scherzava sempre. Ma quando toccava a me tremavo, perché Franco aveva preso una stanza a Bordighera e si presentava all’Ariston due minuti prima, con la cuffia già indosso. Era lui il vero alieno. Lo è ancora.

Qualcosa vi lega a un’altra ospite de “La piramide”, l’attrice, regista e cantante Giada Colagrande.

Giada, che ha una voce dalle mille sfumature, aveva diretto il film Padre, cui parteciparono Marina Abramovic e Franco, oltre a suo marito Willem Defoe. Quando scendono in Sicilia, i Defoe sono spesso con noi. D’estate Battiato è solito affittare case a Scicli o Marina di Ragusa: lì soggiornano Giada e Willem.

Gli altri. Morgan?

Uno dei contributi più recenti, registrato una ventina di giorni fa. Sabato 28 lui suonerà a Bronte, magari ci inventeremo qualcosa.

Carmen Consoli?

Una sorella. Mi ha detto: “Vuoi che io metta una voce nel disco? E io ci metto un vocione!”. Ora sta collaborando con mio figlio Brando, che fa il musicista. L’altro, Mattia, scrive.

Brando canta con lei in un brano suggestivo incentrato sui rapporti generazionali.

Un dialogo tra padre e figlio. Del resto, tutto l’album è un concept sulla consapevolezza della vita e sul tempo che non puoi trattenere.

Il titolo, “La piramide”, è già una dichiarazione d’intenti.

Sì, è la piramide di Abraham Maslow, lo psicologo che a metà degli anni Cinquanta teorizzò in quel disegno geometrico i bisogni dell’esistenza, da quelli primari alla base, fino a quelli immateriali in cima.

Come ha giudicato le sue nuove cose Mario Venuti, l’ex compagno di band nei Denovo?

Non poteva non esserci, è parte del mio mondo come io sono del suo. Nei Denovo avevamo questa amicizia-rivalità un po’ alla Lennon-McCartney, fatte le dovute proporzioni. Ci siamo chiusi una sera e abbiamo ascoltato i provini del disco, e Mario ha detto: “È il migliore che tu abbia mai fatto”. Gli ho risposto: “Sai che sono passati 37 anni da quel Festival Rock Italiano a Bologna dove ci classificammo secondi dopo i Litfiba? E siamo ancora qui, a fare canzoni. Tanti altri sono spariti”. Dev’essere John che ci protegge da lassù. Fino alla nostra senilità.

Ne rimarrà uno solo

Gli Emmy che t’aspetti: sì, ma per quanto ancora? La settantunesima edizione del principale premio televisivo al mondo ha distinto i valori più acclarati, meglio, più acclamati della serialità, a partire dal Trono di Spade. Forte dell’exploit di trentadue nomination, poteva non centrare il riconoscimento quale miglior serie drammatica? Certo che no, e il poker raggiunto lo appaia a Mad Men, West Wing, L.A. Law e Hill Street Blues tra i primatisti di categoria: nonostante un finale di stagione poco esaltante, Game of Thrones si congeda dunque a testa alta.

Sul versante comedy, a spuntarla è Fleabag: trionfatrice assoluta, l’inglese Phoebe Waller-Bridge vince sia quale attrice che sceneggiatrice, bissando il record di Tina Fey (30 Rock, 2008). Allori anche per Chernobyl, miglior miniserie, sul versante societario HBO batte Netflix per trentadue a ventisette Emmy, con Amazon ferma a diciotto. Ma a tener banco sono due vittorie tra gli attori. L’afroamericano Billy Porter diventa il primo uomo dichiaratamente gay a eccellere quale attore protagonista nella categoria Drama. Sul palco del Microsoft Theater di Los Angeles, la star di Pose (FX) cita il seminale James Baldwin: “Ci sono voluti molti anni perché riuscissi a vomitare tutta la sporcizia che mi era stata inculcata sul mio conto, prima che potessi camminare su questa terra come uno che ne abbia il diritto”, aggiungendo: “Io ne ho il diritto, voi ne avete diritto, tutti ne abbiamo diritto”.

Non da meno l’acceptance speech di Michelle Williams, laureata miglior attrice protagonista in una miniserie o film tv per Fosse/Verdon, che ha messo l’accento sulla parità salariale tra uomo e donna: “Grazie a FX e Fox 21 per avermi pagato in modo equo, hanno compreso che dando valore a una persona le concedi di entrare in contatto col proprio valore intrinseco. E in che cosa riverserà quel valore? Nel proprio lavoro”. Sulla scia del movimento #NotWorthLess, con sceneggiatrici, produttrici e maestranze che da qualche tempo condividono su Twitter episodi di diseguaglianza salariale, la Williams ha esteso la questione della pay equality oltre i confini del mondo dello spettacolo: “La prossima volta che una donna – e in particolare una donna di colore, perché guadagna 52 centesimi rispetto al dollaro della sua controparte maschile bianca – ti dice di cosa ha bisogno per fare il suo lavoro, ascoltala, dalle retta, perché un giorno potrebbe esserti riconoscente per averle permesso il successo grazie al suo ambiente di lavoro, e non nonostante”.

Nessuna sorpresa, in realtà. Sul gender pay gap, la Williams si era già espressa negli stessi termini, dopo essere finita, se non alla gogna, sotto la lente d’ingrandimento pubblica per aver accettato briciole, a fronte del milione e mezzo di dollari del co-protagonista Mark Wahlberg, per i giorni di riprese extra di Tutti i soldi del mondo, resisi necessari con la sostituzione dell’ostracizzato Kevin Spacey da parte di Christopher Plummer. Insomma, un Emmy val bene una causa, se non una resipiscenza, ma le cose potrebbero presto cambiare, postulando una parità a valle (premi) anziché a monte (cachet). Nell’attesa di ridurre il gender pay gap, si son detti a Hollywood e dintorni, perché non eliminare il gender divide dai riconoscimenti per gli interpreti? Sulla scorta di quanto fatto dalla Television Critics Association (TCA), che non discrimina più tra attori e attrici ma solo tra drama e comedy, e ancor prima, 2017, dagli Mtv Movie & Tv Awards, perché anche gli Emmy non dovrebbero accantonare il discrimine tra uomo e donna? Del resto, altri rinomati premi, Pulitzer e Nobel su tutti, lo fanno senza che alcuno abbia a lamentarsi. Detto che sul gender pay gap si deve guardare al salario minimo, perché i grandi nomi sovente già sconfessano le differenze: Reese Witherspoon e Jennifer Aniston vengono accreditate di un milione e centomila dollari a episodio per la serie Apple The Morning Show, Javier Bardem un milione e due a episodio per la miniserie Amazon- Amblin su Hernán Cortés, sull’abolizione degli steccati uomo/donna in sede di premi non ci sono obiezioni di sorta, se non spettacolari – riduzione dei pretendenti.

Anzi, ce n’è un’altra, meno confessabile: e se si cadesse dalla padella alla brace, facendo del genere una discriminazione, nascosta, nella categoria unica? Se due indizi – ai TCA nominato un solo uomo (Billy Porter) contro cinque donne per Drama, idem (Bill Hader) per Comedy – fanno una prova, be’, stiamo freschi.

 

Gli arabi divisi anche dentro la Knesset

Trent’anni dopo, l’ultima volta era accaduto nel 1992 con Yitzhak Rabin, un partito arabo ha deciso di sostenere in Israele la premiership di un leader ebreo. Il sostegno della Joint Arab List alla candidatura di Benny Gantz a primo ministro era attesa ma non scontata. Infatti l’ala sinistra della United Arab List – rappresentata dal partito Balad – ha ritirato il suo sostegno. Di fatto 10 su 13 deputati arabi sostengono l’ex generale.

Il sostegno a Gantz è comunque un segnale importate per l’elettorato arabo – che stavolta ha votato in massa – sempre diviso fra boicottaggio e astensione elettorale. L’ago della bilancia resta il nazionalista Avigdor Lieberman che con i suoi 8 seggi è decisivo per lo schieramento di centrosinistra di Gantz come per quello di destra del premier uscente Benjamin Netanyahu, dal quale sembra ormai dividerlo un astio profondo. Il capo di Yisrael Beitenu ha per ora evitato di schierarsi. Ecco perché con una mossa a sorpresa il presidente Reuven Rivlin ha convocato il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader di Kahol Lavan Benny Gantz per un incontro a tre ieri sera, per spingerli a formare un governo di unità nazionale che appare l’unica soluzione possibile dopo il voto. I tempi stringono, il presidente deve dare l’incarico di governo entro domani. Rivlin ha preso la sua decisione dopo aver concluso ieri mattina i colloqui con i partiti più piccoli eletti nel voto della scorsa settimana. Il blocco di destra di Netanyahu con 55 seggi è leggermente in vantaggio sul blocco di centrosinistra di Gantz sceso a 54 seggi della Knesset dopo la decisione dei 3 deputati della United Arab List. Netanyahu in una conferenza stampa ha teso subito la mano. “Siamo sinceri, volevamo formare un governo di destra, ma sfortunatamente non è stato possibile”, ha detto Bibi che appare stanco e privo di quell’aura da vincitore che lo ha finora contraddistinto, “l’unica via è il governo di unità, senza boicottaggi e squalifiche”. Ma Gantz ha promesso in campagna elettorale che non avrebbe partecipato a un governo con Netanyahu che dovrà affrontare una probabile incriminazione per una serie di scandali sulla corruzione.

L’ex generale dovrebbe rimangiarsi la parola data, il maggior smacco per un militare. Gantz ha anche chiesto un’amministrazione “liberale”, abbreviazione politica che esclude i partner ultra-ortodossi di Netanyahu. Appena dopo le elezioni del 17 settembre, Netanyahu ha rapidamente firmato una nuova alleanza con loro. E poi ancora, chi sederebbe sulla poltrona di premier: Netanyahu o Gantz? Oppure entrambi a rotazione?

La Sinistra di Shimon Peres e la Destra di Yitzhak Shamir hanno dato l’esempio storico quando si sono alternati come premier in un governo di unità dal 1984 al 1988. Se mai dovesse essere raggiunto un accordo di rotazione, potrebbe essere indispensabile per Netanyahu essere il primo. Il 2 ottobre il Procuratore generale israeliano terrà l’udienza preliminare del processo in cui l’ex premier è accusato di frode e corruzione in tre diversi casi. Come primo ministro, Bibi che nega qualsiasi illecito, non avrebbe teoricamente l’obbligo legale di dimettersi fino a sentenza ma qualsiasi altro incarico da ministro posto di non gli offrirebbe quella protezione.

I sostenitori di Netanyahu si sono anche impegnati a chiedere per lui l’immunità contro l’accusa. Davvero troppo, se l’ex generale accetta, sarà come una resa al nemico. Ecco perché si riaffaccia lo spettro di un terzo voto, a breve.

Kievgate, per i dem vale l’impeachment a Trump

Sembrava uno di quegli inciampi da cui Donald Trump sa riprendersi alla grande: una piroetta, magari negando la realtà, è tutto torna a posto. Invece, la ferita ucraina si sta infettando e può diventare una piaga, nonostante un consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky s’assuma parte della responsabilità, attribuendosi l’iniziativa di un incontro – poi mai avvenuto – con Rudolph Giuliani, l’avvocato del presidente statunitense.

Voleva spiegargli – dice – la riforma del sistema giudiziario ucraino, non parlargli dell’eventualità di un’inchiesta che coinvolga il figlio dell’ex vice-presidente democratico Joe Biden, attuale battistrada nella corsa alla nomination 2020. In questo contesto, la prospettiva di un incontro a New York tra Trump e Zelensky, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, getta olio sul fuoco delle polemiche. Trump, ovviamente, tiene il punto e non ammette la minima sbavatura nella sua condotta: dice che la sua conversazione con il leader ucraino il 25 luglio scorso fu “perfetta”. Le minacce d’impeachment dei democratici sono “una caccia alle streghe” e non vanno prese sul serio. Forse è vero che quanto si sa finora è poco per costruirci su una procedura di destituzione del presidente, così come la non condanna sul Russiagate, che non è un’assoluzione, è un terreno scivoloso: roba che Trump puoi anche riuscire a metterlo sotto inchiesta alla Camera, dove i dem sono maggioranza, ma te lo ritrovi poi assolto al Senato, dove i repubblicani sono maggioranza. Ma, a criticare il presidente per avere cercato d’indurre l’Ucraina a istruire un’inchiesta sul figlio di Biden, non sono solo i democratici. Anche due candidati repubblicani alle nomination 2020, rivali di Trump alle primarie, gli danno contro. Bill Weld lo di “tradimento”: la telefonata del 25 luglio “è l’ultima prova in ordine di tempo che il magnate non dovrebbe essere alla Casa Bianca”. Joe Walsh pensa che dovrebbe partire l’impeachment contro Trump. Peccato, per i democratici, che Weld e Walsh rappresentino se stessi e poco altro. Domenica, Trump ha ammesso di avere accusato Biden di corruzione nella telefonata con Zelensky, ma ha negato di volerne ostacolare la campagna. Un comportamento che Biden stesso giudica “ripugnante”. Nancy Pelosi, speaker della Camera, afferma che l’Amministrazione Trump “compierebbe una nuova grave violazione della legge” se non inviasse al Congresso la denuncia d’un agente della Cia presente al colloquio e che ne fece rapporto. Il presidente cercò di indurre Zelensky a parlare con Giuliani e mescolò politica estera e compagna elettorale, in modo piuttosto incomprensibile – è opinione diffusa negli Stati Uniti che il magnate debba augurarsi un avversario come Biden, che rappresenta l’establishment –. Si tratta di accertare se Trump abbia fatto pressione sul neo-presidente ucraino, prima di darsi davvero alla politica, perché danneggiasse la candidatura di Biden, forse azionando la leva dell’aiuto militare statunitense alla ex Repubblica sovietica, tuttora impegnata all’Est a combattere i separatisti russi. In estate, Washington aveva temporaneamente bloccato aiuti a Kiev per 250 milioni di dollari. Per Trump, Biden, quand’era vice di Obama, avrebbe speso la sua influenza per aiutare l’azienda energetica ucraina per la quale lavorava suo figlio Hunter. Secondo la stampa Usa, non c’è però prova che ciò sia accaduto.

Francia, il caso Mediator. La pillola anti-fame che portava alla tomba

Sono passati dieci anni da quando è stato portato alla luce uno dei più grossi scandali sanitari in Francia. Dieci anni che le vittime dei laboratori Servier aspettano questo momento. Ieri si è aperto a Parigi il processo sul Mediator, il farmaco per curare il diabete somministrato anche come “anti-fame”, che ha causato la morte di centinaia, forse migliaia, di persone. Le morti accertate dalle autorità sanitarie francesi sono almeno 500. Ma nei fatti le vittime potrebbero essere molto più numerose: le ultime perizie giudiziarie parlano di 2.100 morti.

Si aggiungono centinaia di altri pazienti che hanno dovuto subire delle operazioni delicate al cuore e che oggi vivono con gravi problemi di salute. Il processo dovrebbe durare sei-sette mesi, con 110 udienze da ripartire fino al mese di aprile 2020. Durante il dibattimento saranno ascoltati più di cento testimoni. Sono quasi 2.700 le persone che si sono costituite parte civile e 376 gli avvocati a alternarsi in aula.

Sul banco degli imputati, il laboratorio Servier, uno dei colossi dell’industria farmaceutica francese, su cui pesano oggi diversi capi di accusa: omicidio, lesioni involontarie, truffa. Il gruppo Servier è infatti sospettato di aver prodotto e venduto il farmaco killer per più di trent’anni pur conoscendo i gravi effetti collaterali legati alla somministrazione, essendo all’origine di problemi di ipertensione e gravi lesioni alle valvole cardiache. È sotto accusa anche l’Ansm, Agenzia nazionale di sicurezza del farmaco, che sarà giudicata per omicidio e ferite involontarie: dovrà spiegare come mai non erano stati effettuati controlli e come mai è stato atteso così tanto prima di ritirare il farmaco, nonostante i tanti segnali d’allarme. Il grande assente al processo è l’uomo all’origine di questo enorme scandalo, Jacques Servier, il fondatore della casa farmaceutica, che è morto nel 2014 a 92 anni.

Il farmaco è stato somministrato a circa 5 milioni di persone in Francia tra il 1976 e il 2009. Nel dicembre 2009 è stato finalmente vietato e ritirato dal mercato, ma lo scandalo è scoppiato soltanto un anno dopo. Un’inchiesta giornalistica aveva rivelato all’epoca che le autorità francesi erano state allertate sin dal 1998 della pericolosità del farmaco.

Un rapporto medico in particolare metteva in guardia sugli effetti collaterali del benfluotex, il principio attivo del farmaco, una molecola delle famiglia delle anfetamine. Eppure il Mediator, già messo al bando in diversi paesi europei, era rimasto sul mercato francese. Il Belgio lo aveva ritirato nel 1978, la Svizzera nel 1997.

Più tardi, la Spagna nel 2003, seguito pochi mesi dall’Italia (dove era commercializzato con il nome di Mediaxal). La battaglia in favore delle vittime del Mediator è stata portata avanti soprattutto dalla dottoressa Irène Frachon, medico pneumologo dell’ospedale di Brest (Bretagna), che nella primavera del 2010 ha pubblicato il libro-inchiesta “Mediator 150 mg, combien de morts?” (“Mediator 150 mg, quanti morti?”). Vi raccontava come i primi sospetti sul farmaco le erano nati nel 2007 quando aveva preso in cura un paziente diabetico con lesioni alle valvole cardiache al quale era stato prescritto il Mediator, un farmaco molto diffuso per combattere il sovrappeso. “Ho passato ore e ore a studiare cartelle mediche. Era incredibile che quel veleno fosse ancora in circolazione. Ho visto delle persone morire, e ho visto anche il colpevole”, ha detto la Frachon a Le Parisien alla vigilia del processo. Non tutti i pazienti potranno prendervi parte. Molti stanno troppo male per fare il viaggio a Parigi. Come Martine Cabarbaye, 62 anni, agricoltrice, che racconta il suo caso a Libération.

Per sei anni la donna ha preso il Mediator per dimagrire. In qualche settimana, ha perso 15 chili. Ma poi sono sopraggiunti i problemi polmonari e l’operazione al cuore, nel 2005: “Non ho mai recuperato al 100% – ha detto – ci sono tante cose che non posso più fare”. In tutti questi anni Servier non ha mai riconosciuto di aver mentito.

Ieri per la prima volta uno degli avvocati del gruppo farmaceutico, Jacques-Antoine Robert, in un’intervista alla radio-tv France Info ha riconosciuto per la prima volta che “degli errori sono stati commessi”.

“I rimpianti sono immensi perché la realtà è terribile”, ha detto. Servier ha già versato, dal 2012 a oggi, 131 milioni di euro di indennità alle vittime. Più di 3700 pazienti hanno ricevuto un’offerta in denaro per compensare il danno e la malattia conseguita dopo aver assunto la pillola-killer.

Dieci anni in libertà

Ieri abbiamo festeggiato i nostri primi dieci anni in edicola: qui pubblichiamo alcune delle tante lettere di auguri inviateci dai nostri lettori. Grazie a tutti per l’affetto, la passione e il sostegno. Continuate a scriverci e a leggerci numerosi.

 

Il miglior amico del “Fatto”: il micio

Anche il mio gatto legge il vostro giornale.

Giuliana Simon

 

Tanti auguri!. E andate avanti così

La mia prima copia del Fatto Quotidiano conservata dopo 10 anni. Lo leggo da allora tutti i giorni. Auguri e andate avanti così.

Maurizio Giampiero Vergine

 

Quel primo numero da incorniciare

Oggi Il Fatto Quotidiano compie 10 anni. E il suo primo numero, con quel titolo strepitoso, “Letta indagato” è incorniciato a casa mia, a Roma, in bella mostra. In un Paese malato come il nostro, essere lettore e sostenitore di un giornale libero come Il Fatto non può essere altro che motivo di orgoglio.

Lorenzo Chiavetta

 

Come direbbe Renato Zero: “Grazie di esistere”

Carissimi amici del Fatto vi ho scoperto fin dagli inizi di questa stupenda avventura… Non sapete la gioia che ho provato quando ho saputo che avete fondato il giornale trattando tematiche a cui credo molto… Come direbbe Renato Zero, “grazie di esistere”.

Gianluca Toniolo

 

Siete la mia famiglia e un faro nelle difficoltà

Gentile direttore e tutti voi del Fatto, sono una vostra lettrice dal primo numero (che conservo come una reliquia), adesso sono socia sostenitrice e vi assicuro che ho letto tutte-tutte e per intero le uscite. Vi considero la mia famiglia, siete stati il mio faro quando mi sentivo isolata… Forse è grazie a voi che all’età di 39 anni mi sono iscritta all’università e nonostante il lavoro sono riuscita ad arrivare quasi alla fine della triennale (manca la tesi)… Grazie di cuore.

Sara Landini

 

Mio figlio Alberto è cresciuto con voi

Il 20 settembre 2009: nasce mio figlio Alberto. Tre giorni dopo nasce il Fatto Quotidiano. La mia vita da allora è fortemente cambiata, direi stravolta. Fortunatamente in meglio. Ad Alberto si sono poi aggiunti altri due fratelli: Linda e Giulio. Il Fatto può essere considerato il quarto figlio o un amico di famiglia, sempre presente da 10 anni a questa parte. Dal 20.9.11 al 20.9.12 decidemmo di fotografare Alberto ogni giorno (310 foto, al tempo non uscivate al lunedì) assieme al Fatto. Era il nostro modo per sancire un patto gemellare, due vite in qualche modo unite per sempre. Vi invio come regalo per il vostro decimo compleanno le foto salienti, unito ai nostri migliori auguri a tutta la redazione. Siete unici, ci avete aiutato a comprendere dieci anni del nostro amato Paese come nessun altro sarebbe stato in grado di fare. Tanti auguri, vi vogliamo bene.

Andrea Dioni, con Valeria, Alberto, Linda e Giulio

 

Un assiduo frequentatore sin dal debutto in edicola

Buongiorno, vi seguo dal primo numero e sino a oggi sono stato un frequentatore delle vostre pagine… Un saluto a tutti voi e grazie per l’impegno profuso.

Darko Perrone

 

Non mollate mai davanti alle censure

Carissimi, certo non sono illustre e famoso come quelli che hanno offerto volto e firma e auguri ai dieci anni del Fatto, ma mi vanto di avere scoperto Il Fatto! Io che appartengo a quella generazione che dagli anni 60 si è nutrita, anzi, ubriacata di sogni… Io che non volevo mollare davanti a certe censure! Poi mi sono adeguato, ma dentro ero sempre arrabbiato… Non mollate, ragazzi, il Fatto è di famiglia…

Mario Dentone

 

Siete bravi, competenti, liberi e molto ironici

Cari tutti, ho cominciato a leggere il Fatto dal primo numero… Siete bravi, chiari, competenti, liberi e spesso molto ironici. Amo moltissimo i giochi di parole, per cui leggo con goduria i titoli e gli articoli di Travaglio, Scanzi, Lucarelli… Vi voglio bene!

Germana Piovesan

 

Un pensiero affettuoso dai miei amati alunni

Caro Marco, ti allego una dedica dei miei alunni.

Gaia Colosimo

 

Sono un fedele abbonato e che bello “Millennium”

Grazie di esistere: non sono abbonato e oggi sono contento di acquistare il mio giornale con l’aumento. Ho molto apprezzato Millennium.

Angelo Mollica

 

Le vostre battaglie sono le nostre: lunga vita

Siamo lettori della prima ora e continuiamo orgogliosamente a conservare il primo storico numero del Fatto. Abbiamo seguito con passione le vostre battaglie che collimano con le nostre idee e di esse abbiamo fatto un vessillo di libertà e di indipendenza. Con l’aiuto del Fatto abbiamo superato gli incubi di derive e deviazioni che ci ottenebravano e volevano costringerci al silenzio. Per questo e tanto ancora grazie a tutti voi del Fatto Quotidiano e tanta vita.

Vito Rotondi e Francesca Nicotera

 

Conservo le vostre copie come Paperone i suoi cents

Grazie, Fatto, per questi 10 anni di onestà intellettuale in un mondo di venduti. È stata una boccata d’ossigeno. Avevo sentito parlare di voi: il 23 settembre 2009 sono corsa in edicola e ho comprato il mitico n. 1 che conservo con la stessa cura e lo stesso affetto con i quali Paperone conservava il cent n. 1. In estate ogni mattina facciamo 4 km di andata e 4 di ritorno per andare all’edicola e non ti dico come rimaniamo male quando non ti troviamo perché lì, a Isola Capo Rizzuto, arrivano pochissime copie. Puoi fare qualcosa?… Sei parte della famiglia: quando c’è maretta politica ci appoggiamo a te e condividiamo sempre la tua opinione, cioè quella dei tuoi bravissimi giornalisti. Tutti. Millennium è una fuoriserie e Loft, i libri e tutto ciò che fate ci fanno sentire parte orgogliosa di una grande comunità che sa quel che dice e quel che vuole. Noi ci fidiamo di te, Fatto. Grazie.

Laura Nardi e famiglia

 

Tutta la mia stima alla vostra professionalità

Sono un pensionato che ogni giorno compra Il Fatto. Con piacere sono vicino a tutti voi che lavorate con alta professionalità. Continuate sempre in questa direzione. Con tanta stima, spero di venire nel 2020 alla festa del Fatto.

Vito Matarazzo

 

Complimenti, fate giornalismo di qualità

Da 10 anni leggo il giornale che avrei sempre voluto leggere! Non ne ho perso un numero e quindi è doveroso farvi e farci gli auguri e auspicare che il giornalismo di libertà e qualità abbia sempre chi lo promuova come voi: complimenti!

Marco

 

Virginia Raffaele

Auguri al Fatto per 10 anni di notizie, anteprime, scoop, polemiche, inchieste e successi. Auguri perché una voce in più – di qualunque opinione – è sempre una risorsa per la democrazia. Complimenti a Marco, perché 10 anni da Fatto non sono facili da reggere. E complimenti a chi ci ha lavorato, perché pure 10 anni di Travaglio… Auguri, e sempre viva l’informazione!

 

Massimo Giletti

Dieci anni di libertà!
Grazie!

Di Maio: “Al Sisi dica come intende punire i colpevoli”

“Ci aspettiamo dall’Egitto una risposta il prima possibile su come intendano punire i colpevoli del delitto Regeni”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio lo ha detto a New York dopo l’incontro tra il premier Giuseppe Conte e l’omologo egiziano Abdel Fatah al Sisi. Il governo, secondo Di Maio, continuerà a impegnarsi fino a che “non ci sarà un chiaro epilogo della vicenda Regeni, la verità su tutta la vicenda e ovviamente i colpevoli puniti”. Non è la prima volta che il governo Conte chiede all’Egitto di sbloccare l’inchiesta e favorire la collaborazione con le autorità italiane. Ma nulla è accaduto. Giulio Regeni sparì il 25 gennaio 2016; il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo. Da quel momento polizia e servizi di sicurezza egiziani hanno depistato le indagini. La certezza è che Regeni fu “venduto” da un suo interlocutore come spia al servizio degli inglesi; Giulio era dottorando a Cambridge. Per questo fu prelevato. Ci sono cinque persone sotto indagine per la sua morte: ufficiali appartenenti ai servizi segreti civili egiziani (dipartimento Sicurezza nazionale) e della polizia investigativa. Ad accusarli è la Procura di Roma, ma dal Cairo nessuna collaborazione.

Ritardi e tariffe, Trenitalia non deve più barare

Trenìt, l’applicazione che compara i dati degli orari (e dei ritardi) dei treni, non poteva che comunicarla su Facebook la vittoria contro Trenitalia. “Il tribunale di Roma ci ha dato ragione nel contenzioso cautelare ritenendo che non ci siano i presupposti per la sospensione del servizio. Torniamo operativi”. L’ordinanza del giudice, contro il ricorso presentato da Trenitalia, è stata emessa il 4 settembre, ma è oggi che quel trionfo è conclamato, dal momento l’ex monopolista non ha presentato reclamo per appellarsi. Una decisione che mette così la parola fine a una vicenda legale che va avanti da mesi. E che, per la prima volta, sancisce che i dati che migliorano la qualità delle vita dei passeggeri e dei pendolari non sono coperti da copyright e vanno trattati da Trenitalia come se fossero riservati. Se l’ex monopolista dovesse continuare a negarne l’utilizzo, potrebbe essere tacciata di abusare della sua posizione dominante, dal momento che Trenitalia consente il riutilizzo di questi dati solo ai partner commerciali.

Dietro a Trenìt(che fa parte del TechHub London, il più importante incubatore europeo di startup), lanciata nel maggio 2014 e scaricata da 3 milioni di utenti, c’è l’imprenditore Daniele Baroncelli che, già nel 2009 a Londra ha lanciato la prima applicazione per consultare gli orari dei treni (solo tre anni dopo è arrivata l’app ufficiale di Trenitalia). “Non abbiamo mai cagionato danni a Trenitalia”, spiega Baroncelli. “Il motivo dell’avversione dell’ex monopolista verso Trenìt è AltaVelocita.it, ovvero il portale che abbiamo lanciato a dicembre 2018 che riporta i prezzi più bassi delle Freccia e di Italo per fascia oraria”. Un elemento non di poco conto visto che due anni fa Trenitalia è stata multata per 5 milioni di euro dall’Antitrust perché aveva escluso dai propri sistemi di prenotazione alcune soluzioni sui treni regionali che sono generalmente più economiche. “È evidente – sottolinea Baroncelli – che qui siamo agli antipodi dell’open data. Non solo Trenitalia non ne ha uno, ma addirittura cerca di distruggere chi utilizza i suoi dati pubblici in modo trasparente”.

Trenitalia, che conferma di non aver proceduto con il reclamo d’urgenza, “si riserva comunque di adottare le iniziative più opportune”, ma nega di essere un ostacolo alla sharing economy.