Tonfo in Borsa della Juve. È il rischio per un gigantismo (europeo) ineluttabile

 

È da qualche anno che mi rendo conto di un punto: oramai i tifosi parlano più di Borsa, conti in rosso, plusvalenze e aumento di capitale che di tattica, qualità soggettive, polpacci e fiato, grinta e tecnica; quest’ultime sono evidentemente finite in “panchina”. Lo ammetto, pure io ho ceduto. Per questo mi pongo degli interrogativi su quanto sta accadendo alla Juventus, con il tonfo di ieri in Borsa, i costi cresciuti a dismisura per restare appresso al gigantismo europeo e l’incognita sempre più incognita del (prossimo) futuro bianconero. E non solo bianconero.

Giulio Sapati

L’aumento di capitaledeciso dalla Juventus e che copre un quinquennio, vale poco più di due anni di stipendi dell’attuale rosa. Ronaldo da solo percepisce oltre il 20% del monte salari. Dei 300 milioni considerati necessari da Andrea Agnelli, oltre il 60% verranno sottoscritti dalla Exor, la “cassaforte” di famiglia e maggior azionista dei campioni d’Italia (attorno ai 190 milioni). Il costo totale della formazione nelle mani di Sarri è più del doppio dell’aumento di capitale. Pare evidente che la Borsa tema questo gigantismo ineluttabile: continuare a crescere per non cadere, rilanciare sempre per coprire una crescita dei costi legati ai giocatori che, se da una parte avvicina la Juventus alle corazzate d’Europa, inseguite sul campo e sui mercati negli ultimi anni, dall’altra pare minarne le fondamenta. Come un corpaccione che si regge su gambe finanziarie troppo deboli per sostenersi sul lungo periodo, tanto più se l’obiettivo finale di questa continua ascesa dei costi non si realizza sul campo, ovvero con la vittoria della Champions, aspirazione-ossessione obbligata per la dirigenza bianconera. Senza compiere la definitiva ascesa sportiva, il mercato teme che il castello economico rischi di collassare su se stesso, non appena un ridimensionamento dei traguardi sportivi dovesse divenire necessario. Un circolo virtuoso sostenuto a caro prezzo – e fino a quando poi, da parte della “casa madre” amministrata da John Elkann? – che potrebbe rapidamente trasformarsi in vizioso, se i giocatori guidati da Sarri dovessero mostrare presto di non essere in grado di raggiungere gli obiettivi minimi che il mercato, e i tifosi, si aspettano. Perché sganciare la salute economica di una squadra come la Juve dalla sua tenuta sul campo appare impossibile, nonostante il battage e il marketing sul suo marchio.

Stefano Citati

Transformer woman: Lorenzin si porta su tutto

“L’alternativa non è tra Renzi e Grillo”, diceva Beatrice Lorenzin quando “lavorava per costruire l’autosufficienza politica” del partito di Alfano (peraltro un ossimoro). Come ha riassunto giorni fa Paola Zanca in uno splendido ritratto su queste pagine, “Nel dubbio se li è presi tutti e due”. Transformer Woman è entrata nel Pd e il Pd ha esultato oltremodo per tale miglioria. Un po’ come se il Milan, per rilanciarsi, comprasse il Poro Asciugamano, gli desse la fascia di capitano e pretendesse pure i cori festanti della curva esaurita (in tutti i sensi). Rispetto a Transformer Woman, Pierferdy Casini è l’uomo più inamovibile della politica italiana. Bea Lory nasce a Roma nel 1971. Diploma di maturità classica e niente laurea. Un’esaltante attività amanuense nel Giornale di Ostia. Entra poi in Forza Italia nel 1996. Dal fine 2004 a metà 2006 è Capo Segreteria Tecnica di Paolo Bonaiuti, e già lì immagini tutti quei neuroni far festa in brainstorming di genialità contagiosa. Al tempo la chiamano “la Meg Ryan di Acilia”, e menomale che la Ryan era distratta. Da allora Transformer Woman riesce a cambiare otto ruoli/formazioni/casacche in poco più di vent’anni. Ovvero: 1996 – Forza Italia, Movimento Giovani Lazio; 1997 – consigliera comunale Roma, XIII municipio, Forza Italia; 2008 – Popolo della Libertà – eletta Onorevole; 2013 – Nuovo Centrodestra, con Alfano; 2014 – candidata Europee Nuovo Centrodestra – Unione di Centro; 2017 – Alternativa Popolare; 2017 – Civica Popolare in appoggio al Pd di Renzi; 2019 – Pd di Zingaretti.

Raccontandosi al Dubbio, che non si legge neanche da solo ma che per ospitare un’intervista di Bea Lory è perfetto, Ella ha spiegato così il suo passaggio al Pd: “Nel 2013 ho partecipato alla scissione di Angelino Alfano, perché ritenevo che il centrodestra di allora si stesse spostando troppo a destra ed era una scelta che non condividevo. Nel Pd rafforzerò l’area liberale e popolare per evitare lo schiacciamento a sinistra, sostenendo la vocazione maggioritaria del partito”. Me cojoni (cit). Bea Lory sfanga ogni stagione, come un ogm che si adatta a tutto. Infatti, dopo aver difeso Berlusconi per quindici anni, è riuscita – pur perdendo le elezioni nel 2013 – a essere ministra (della Salute) cinque anni di fila con tre presidenti del Consiglio (teoricamente) distanti: Letta, Renzi e Gentiloni. Genio vero. Ha avuto due gemelli a 44 anni, e questo è bellissimo: lo era un po’ meno la campagna promozionale del 2016 sul “Fertility Day” con famiglie dalle “buone abitudini” (tutti bianchi) e dalle “cattive abitudini” (con un nero in mezzo), nonché donne con la clessidra in mano affinché si affrettassero ad avere figli per far felice la ministra. La quale, poi, dovette chiedere scusa. Politica (va be’) celebre (uhm) per i dieci vaccini obbligatori, le posizioni eticamente giovanardesche e il simbolo “petaloso” del 2018 che raggiunse consensi al cui confronto Giuliano Ferrara è Vercingetorige, ha saputo imbucarsi in un altro consesso di potere: fa bene a sorridere. Appena più discutibile la gioia di Zinga, che col suo bel carisma da salumaio intento a tagliarti (a mano) tre etti di finocchiona, ha postato su Facebook una foto giuliva accompagnata da cotanta prosa: “Ci tenevo a firmare io la tessera di @BeaLorenzin, anche per ringraziarla di averlo fatto in questo momento molto particolare. Testimonia il Pd plurale e ricco che vogliamo costruire”. Ecco: se Zinga ha davvero in testa di creare un Pd in grado di attrarre le Lorenzin, siamo oltre Basaglia. Ed è bene che, quella salumeria, la apra sul serio: avrebbe più futuro.

Matteo Renzi, mezzo brand e mezzo “prend”

Caro Matteo Renzi, perché l’ha fatto? Dopo l’altro Matteo la domanda tocca inevitabilmente anche a lei: a quasi tre anni di distanza dalla sconfitta al referendum e dal suo clamoroso abbandono della politica – eh, ma quando c’è una promessa da mantenere, lei è una sicurezza – cosa l’ha spinta a ributtarsi anima e corpo nell’agone, lasciando il Pd e fondando un nuovo partito?

Ora che i popcorn e le passeggiate a Pontassieve le avevano fatto recuperare una forma smagliante, aveva riassaporato l’armonia famigliare con Agnese, i bimbi, i teneri nonni Tiziano e Lalla, aveva anche messo da parte qualche spicciolo con le conferenze all’estero e la tv – sia pure solo per una pizza la domenica –, perché riprecipitare nel tunnel delle telefonate e dei chili di troppo, delle interviste e dei ventriloqui, delle tv e degli hashtag su Twitter? Noi – non senza fatica e con una lunga e sofferta terapia a scalare – ci eravamo quasi fatti una ragione del suo #senzadime, ma niente: lei ha voluto stupirci ancora una volta, regalarci di nuovo il suo sguardo sul mondo e il suo know-how per far ripartire il Paese. Noi ci preoccupavamo per lei e lei per noi, per cui innanzitutto grazie di essere tornato!

Certo, poi ci sono i malpensanti – tanto quelli ci sono sempre – che trasformano la sua generosità in opportunismo, la sua filantropia in avidità, il suo spendersi in arroganza: lei è un brand e la riducono a un prend. Sono quelli che spiegano il suo strappo dal Pd come 1) una banale crisi di astinenza da visibilità; 2) una concreta fame di poltrone, viste le imminenti nomine in aziende pubbliche e partecipate; 3) una bramosia di condizionamento costante dell’azione di governo, a mo’ di ago della bilancia, con i suoi panda dentro e gli adepti fuori; infine 4) un trampolino di lancio per il suo nuovo partito, che vuole pescare tra i dem delusi dall’alleanza coi 5 Stelle e gli elettori di Forza Italia, in vista delle prossime politiche che lei vuole decidere nei tempi (staccando la spina a Conte) e nei modi (la sfida epocale tra lei e Salvini, senza né sinistre né, men che meno, grillini a intralciare l’inarrestabile corsa verso Palazzo Chigi). In fondo già adesso, col semplice addio e il lancio di Italia Viva, tutto il dibattito è stato polarizzato sullo scontro Renzi/Salvini, grazie ai tanti renziani “in sonno” nelle redazioni di stampa e tv.

Caro Renzi, ma che ne sanno ’sti gufi – che bello poter tornare al suo immaginifico armamentario, mai dimenticato – della sua attuale narrazione? Si aggrappassero pure ai fake del loro trito storytelling, tornassero pure alla loro ossessione antirenziana, che sta solo lì a dimostrare quanto lei sia ancora – e sempre – cruciale: stagliato al centro della scena politica! Che ne sanno i sondaggisti che la danno a un misero 4 per cento, nascondendo colpevolmente lo zero che l’affianca e che, dalle storiche Europee 2014 al Sì al referendum 2016, non l’ha mai abbandonata? Che ne sanno i telespettatori, che appena l’hanno vista da Giletti hanno cambiato su Salvini dalla D’Urso? E gli elettori Pd che, negli stessi sondaggi, sono contenti che lei se ne sia finalmente andato per la sua strada? Continuassero pure a mangiare gnocchi fritti alla Festa dell’Unità, lei può permettersi ben altro: Eataly, lo stellato Bottura, su su fino alle cene di Arcore.

Caro Renzi, nella sua infinita bontà li perdoni: non sanno quello che dicono (e qualcuno è già pronto a rimangiarselo).

Altro che Italia Viva: Viva Renzi! E pazienza per l’Italia.

Quindi pisapia è come il dottor Mengele?

Tenendo conto che l’intelligenza e la saggezza appartengono a quel tipo di grandezze che messe insieme non si sommano ma fanno media, cosa pensereste di una legge o di una risoluzione votata concordemente da Berlusconi, Pisapia, Fitto, Calenda, Tajani, Picierno, Moretti e leghisti vari? Nelle sfere eteree del Parlamento europeo, dove già sedettero personalità del calibro di Iva Zanicchi, Mario Borghezio, Barbara Matera e Matteo Salvini (quest’ultimo non troppo spesso, in verità), costoro, tra gli altri, hanno appena votato all’unisono una risoluzione con cui l’Europa esorta-obbliga gli Stati membri a condannare alla pari nazismo e comunismo (chiamato anche disinvoltamente stalinismo).

La risoluzione, passata con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti e pretenziosamente intitolata “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, sorge dalla preoccupazione di veder risorgere copie del nazi-fascismo (già condannate con la risoluzione del 25 ottobre 2018) ma anche del comunismo (chissà dove le vedono: la cosa più comunista degli ultimi anni è stata Bandiera rossa cantata dai grigliatori di salsicce alla festa dell’Unità). Ora, le probabilità che una qualunque cosa votata insieme da Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega fosse demenziale o dannosa (vedi Tav e leggi elettorali) erano già alte. Ma come si fa a mettere sullo stesso piano quelli che deportavano, gassavano e bruciavano le persone nei forni crematori e quelli che hanno sconfitto Hitler?

Il punto 17 della risoluzione sfiora il tautologico: il Parlamento “esprime inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti”. Cioè, sorvolando sul fatto che il comunismo nacque come ideologia per la liberazione delle masse oppresse e il nazismo come ideologia razzista di esaltazione della morte, per questi sempliciotti la falce e il martello sono equivalenti alla svastica, ai busti di Hitler, ai vini di Mussolini. Prova ne sarebbe il bando che vige nei Paesi anticomunisti, che però hanno tutt’altra storia rispetto all’Italia, dove i comunisti, insieme alle altre forze antifasciste, hanno scritto la Costituzione.

Bizzarro il punto 18: il Parlamento “osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici… nonché alla propagazione di regimi politici totalitari”. Quindi, questo Parlamento che osserva le piazze e i monumenti – e perciò non ha tempo di studiare – ritiene che “via Stalingrado” sia pari a “via Hermann Göring”, e che le targhe a memoria dell’Armata Rossa che il 27 gennaio 1945 liberò Auschwitz (no, non furono gli americani come nel film premio Oscar di Benigni) spianino la strada alla riapertura dei gulag. Patetico il paragrafo J, in cui si ricorda il 50° anniversario del patto Molotov-Ribbentrop, quando “le vittime dei regimi totalitari sono state commemorate nella Via Baltica, una manifestazione senza precedenti cui hanno partecipato due milioni di lituani, lettoni ed estoni, che si sono presi per mano per formare una catena umana da Vilnius a Tallinn…”. Facciamoci spiegare il patto Molotov-Ribbentrop da Alessandro Barbero, che conosce la Storia un po’ meglio degli eruditi parlamentari. Nel ’39 Stalin propose a Francia e Inghilterra un accordo che prevedeva l’invio di 2 milioni e mezzo di soldati russi al confine con la Germania. Le due potenze traccheggiavano, e l’accordo saltò. Del resto l’Inghilterra vedeva con simpatia Hitler: la Germania era il “baluardo dell’Europa contro il bolscevismo”. Il 23 agosto l’Unione Sovietica, sfibrata dalla guerra col Giappone in Mongolia, per difendere i suoi confini firmò il patto Molotov-Ribbentrop.

Nel 2019 ci volevano Berlusconi, la Picierno e Pisapia (che in sostanza mette al bando sé stesso, essendo stato deputato di Rifondazione Comunista per due legislature), a spiegarci che in realtà erano tutti uguali: Marx e Stalin, Terracini e Goebbels, Lenin e il dottor Mengele. Ci volevano questi ottimati lib-dem in comunella coi leghisti amici di CasaPound, per minimizzare in un pastone bipartisan i crimini del nazi-fascismo con un “e allora le foibe?” di pedantesca burocrazia. Consigliamo una rilettura di Primo Levi, a Bruxelles: “Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo”. Erano i russi, e non erano affatto uguali ai nazisti, checché ne dica questo Parlamento che riscrive la Storia grazie alla quale esiste.

Vizi e nebbie dei ri-costituenti

C’è un vizio ricorrente nei nostri governi: presentarsi come un “governo costituente”. Lo fece Renzi, tentando una riforma costituzionale infelice che il voto popolare ha sepolto, ma lo aveva già fatto Letta. Anche il governo Conte II, pur con toni più misurati e sobrii, ha indicato le riforme costituzionali come una tappa obbligata del proprio percorso.

Nel discorso con cui ha chiesto e ottenuto la fiducia, Conte dice infatti che “il progetto politico di questo governo segna l’inizio di una nuova, risolutiva stagione riformatrice”. D’accordo quando dice che “è nostra volontà inserire in calendario il disegno di legge che promuove la riduzione del numero dei parlamentari”: scelta giusta, visto che questa riforma ha già compiuto i tre quarti del proprio iter parlamentare. Giusta è anche l’idea, che non tocca la Costituzione, di modificare la legge elettorale con legge ordinaria (forse solo un sistema proporzionale “puro” darebbe speranza di far rinascere una qualche sinistra degna di questo nome). Ma che cosa vuol dire Conte quando soggiunge che “è nostro obiettivo procedere a una riforma dei requisiti di elettorato attivo e passivo, nonché avviare una revisione costituzionale per assicurare maggiore equilibrio al sistema e far riavvicinare i cittadini alle istituzioni”? Che cosa intende quando dice che “nel quadro delle riforme costituzionali è intenzione del governo portare a termine il processo che conduca a un’autonomia differenziata giusta e cooperativa, che salvaguardi il principio di coesione e la tutela dell’unità giuridica ed economica”? E quale riforma ha in mente quando parla di “definire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, e anche i fabbisogni standard, perché bisogna dare attuazione completa al 5° comma dell’art 119 della Costituzione”? Su quest’ultimo punto intende agire mediante legge ordinaria o intervenendo sulla Costituzione?

C’è poi una domanda ancor più pressante: le riforme costituzionali prospettate dal governo vanno intese come interventi “chirurgici”, da discutersi uno per uno, o si intende, ripercorrendo la strada di Renzi, arrestare il percorso dell’unica riforma costituzionale già avviata a soluzione (la riduzione del numero dei parlamentari) per immetterla all’interno di un vasto ddl costituzionale con svariate riforme? Si è parlato di un “accordo segreto” M5S-Pd per una “piccola rivoluzione della Costituzione in cinque punti” (Repubblica), che sono in realtà sei, questi :

1. taglio del numero dei parlamentari (già in itinere);

2. “sfiducia costruttiva” (ogni mozione di sfiducia dovrebbe indicare una maggioranza alternativa);

3. modifica del corpo elettorale che elegge il Capo dello Stato (riducendo il numero dei delegati regionali);

4. partecipazione dei presidenti di Regione alle sedute del Senato quando si discutano leggi di loro interesse;

5. parificazione di elettorato attivo e passivo per Camera e Senato (18 anni per votare, 25 anni per essere eletti);

6. fiducia al governo in seduta congiunta Camera-Senato onde evitare risultati difformi;

Senza discutere queste idee, in parte diverse da quel che Conte ha menzionato nel suo discorso, non si possono tacere tre ragioni di preoccupazione. La prima si può formulare con le parole di Piero Calamandrei, secondo cui, “quando il Parlamento discuterà pubblicamente la Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana”. L’idea di un “governo costituente” è l’opposto dell’indirizzo etico-politico raccomandato da Calamandrei (e richiamato da Zagrebelsky nella campagna per il No al referendum sulla riforma Renzi), anzi somiglia piuttosto a un’incauta dichiarazione dell’allora presidente del Consiglio Monti in un’intervista allo Spiegel del 5 agosto 2012, secondo cui “i governi devono educare i loro Parlamenti”.

Seconda preoccupazione: se le varie ipotesi di riforma costituzionale (quelle elencate più altre che fatalmente emergeranno) dovessero essere messe tutte insieme, componendo un ampio disegno, si verrebbe a ricadere nella stessa “sgrammaticatura istituzionale” dei due ultimi tentativi di riforma (Berlusconi e Renzi), entrambi bocciati dal voto popolare. Gravissimo sarebbe l’errore di comporre in un’unica riforma materie disparate, senza lasciare all’elettore che sia d’accordo con una sola di quelle proposte la possibilità di esprimere separati pareri su separate materie. Su ciascun punto andrebbe avviata, su iniziativa del Parlamento e non del governo, una distinta procedura di ddl costituzionale, cominciando dalla riduzione del numero dei parlamentari, mentre altre possibili riforme costituzionali andrebbero semmai proposte e discusse (ed eventualmente sottoposte a referendum) una per una, separatamente.

Non sto affatto dicendo che non si può cambiare la Costituzione. Anzi: la Costituzione si può, e qualche volta si deve, modificare in nome della Costituzione, e l’art. 138 dice espressamente come fare, con una procedura volutamente lenta e complessa, deliberata dalla Costituente per mettere la Carta al riparo dai colpi di maggioranza. Ma la retorica delle riforme e della loro urgenza è tanta e tale, che sin dal governo Letta si tentò di scassinare la procedura dell’art. 138 con improprie scorciatoie. Non meno sorprendente è che, anziché proporre modifiche puntuali a singoli articoli o segmenti della Costituzione, come è sempre avvenuto fino alle proposte Berlusconi e Renzi, si sia inteso allora stravolgerla cambiando, né più e né meno, “la forma di Stato e la forma di governo”. Quelli non furono passeggeri errori di grammatica o di galateo istituzionale: fu una svolta epocale che gettò pesanti ombre sul nostro futuro. Mi auguro che il governo Conte non voglia avviarsi sulla stessa strada che altri hanno sperimentato con loro danno. E con danno del Paese.

La terza preoccupazione può apparire più sottile ma è invece la più forte. Questo insistere sull’impellente necessità di cambiare la Costituzione non è solo un neutro rituale retorico. Al contrario, ha un effetto di lungo periodo, assai rischioso: radica l’impressione che la Costituzione sia talmente invecchiata che è comunque necessario ringiovanirla con radicali “riforme“, poco importa da chi scritte. Diffondere tale sfiducia nella Costituzione è contrario alla vita della democrazia nel nostro Paese. Allontana la consapevolezza che la Costituzione così come è rappresenta il manifesto dei nostri diritti (spesso calpestati o ignorati). Coltiva l’illusione che una Costituzione in qualsiasi modo diversa sarebbe ipso facto migliore. Non è detto che un tal progetto riesca: come si è visto con il referendum sulla riforma Renzi, un tentativo di riformare la Costituzione può non solo fallire alla prova del voto, ma anche innescare nuovi meccanismi di consapevolezza. Ma assai meglio sarebbe che il Conte 2 non imboccasse la strada, fallimentare, di una vasta riforma della Costituzione. Se così non fosse, dovremmo prepararci a innescare un adeguato fuoco di sbarramento.

Pa, sbloccate 12mila assunzioni tra polizia carabinieri e pompieri

È stata sbloccata la procedura per l’assunzione di 12mila agenti da dividere tra carabinieri, finanzieri, vigili del fuoco e altri corpi. Il provvedimento è stato firmato dal ministro della Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone e adesso dovrà passare al vaglio della Corte dei Conti: dopo questo step si potrà dare il via libero definitivo all’assunzione di 11.950 persone che andranno a ricoprire diversi ruoli all’interno delle forze dell’ordine. Nel dettaglio si tratta di 4.538 carabinieri, 3.314 poliziotti, 1.900 fiamme gialle e 1.440 vigili del fuoco. Per la maggior parte dei posti (circa 10mila) si tratta di turnover, ma tra queste vi sono anche 1.657 immatricolazioni straordinarie. Mentre dal 23 ottobre scatterà la possibilità di assumere altre 614 unità per una spesa a regime di 26,7 milioni di euro, costo che sale a 30,4 milioni se si considerano gli 86 posti già autorizzati dal primo marzo scorso tra i 100 indicati per il Corpo della polizia penitenziaria. La conferma delle 12mila assunzioni sbloccate arriva anche dal premier Giuseppe Conte, che su Twitter ha scritto: “Sbloccati 12mila posti nelle forze dell’ordine. L’attenzione al settore e la sicurezza dei cittadini rimangono una priorità per il governo”.

Dall’affare con i Toto l’amico di Renzi incassò il quadruplo

L’amministratore delegato della società del gruppo Toto, la Renexia, Lino Bergonzi, è indagato per appropriazione indebita in concorso con Patrizio Donnini, imprenditore da sempre vicino all’area renziana. È da questo punto che bisogna partire per fare chiarezza sull’indagine condotta dai pm di Firenze e dagli investigatori della Guardia di Finanza. Donnini, che da sempre si occupa di comunicazione – è stato tra i fondatori della Dot Media che ha lavorato per la Lepolda – oggi guida la Keesy. La sua nuova creatura è lanciatissima: offre servizi a chi gestisce i b&b in decine di città e ha stretto accordi con diverse amministrazioni, compresa quella di Firenze – si legge sul sito del Comune – per quanto riguarda il pagamento e la riscossione dell’imposta di soggiorno nel settore extra alberghiero.

Per comprendere la sua vicinanza alla famiglia Renzi possiamo ricordare un messaggio intercettato nel 2015: “Perdonami – scrive Tiziano Renzi all’ex ad di Consip, Luigi Marroni – Patrizio Donnini avrebbe bisogno urgente di darti una notizia posso dare tuo riferimento scusa e grazie”.

Tra il business della comunicazione e quello del turismo, però, Donnini ha avuto una parentesi: gli affari nell’eolico. Ed è proprio questo che interessa alla procura di Firenze che l’ha indagato per appropriazione indebita e sospetta l’autoriciclaggio. Attraverso la sua Immobil Green Srl infatti acquista nel 2016 e 2017 cinque società autorizzate a produrre energia eolica. E le rivende in poco tempo a Renexia, riuscendo ad ottenere una plusvalenza in totale di 950 mila euro. Questi ricavi, però, vengono segnalati dalla banca agli investigatori. Donnini non chiude un affare da poco: rivende a Renexia a un prezzo quattro volte superiore a quello di acquisto.

Ora i casi sono due. Il primo: la Renexia ha sborsato inopinatamente una cifra inverosimile. E in questa vicenda è la parte danneggiata. Il secondo: il suo ad, Lino Bergonzi, ha agito con il consenso del gruppo. E in questo caso, invece, non avrebbe danneggiato nessuno. Se così fosse, però, bisogna chiedersi il perché di un’operazione apparentemente anti economica. Stando alle accuse, che vedono Bergonzi indagato per appropriazione indebita, è Renexia il soggetto leso. La prova del nove è però piuttosto elementare: se Bergonzi sarà lasciato al suo posto – di fatto è ancora lì, e gli atti d’indagine sono noti almeno da luglio – vorrà dire che il gruppo, nonostante l’accusa, non ha perso fiducia in lui. E che, in qualche modo, ritiene che l’operazione con Donnini non sia stata scorretta. Ma allora: perché Renexia sborsa il quadruplo? È quel che cercano di capire gli investigatori.

Di certo c’è che Donnini da tempo è legato ad ambienti renziani. Non c’è solo il messaggio di Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, a testimoniarlo. La società da lui fondata, la Dot Media, è detenuta per il 50 per cento dalla ex moglie di Donnini, Lilian Mammoliti, mentre un altro 20 per cento è di Alessandro Conticini, fratello di uno dei cognati di Matteo Renzi. Il nome della Mammoliti appare negli atti di un’inchiesta della procura di Cuneo, che vede la madre di Renzi, Laura Bovoli, accusata di bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false per operazioni inesistenti, per i rapporti che la società di famiglia, la Eventi 6, intratteneva con una società cuneese di volantinaggio, la Direkta, fallita nel 2014. Secondo quanto detto da un commercialista ai pm di Cuneo, alla Mammoliti era stata affidata la “contabilità della Direkta Srl”.

Ma torniamo all’indagine fiorentina su Donnini. Il sospetto degli investigatori è che l’imprenditore abbia rilevato le società dell’eolico con la certezza di poterle rivendere. Ma perché Donnini improvvisamente si occupa di eolico? E perché Renexia acquista al quadruplo del prezzo pagato da Donnini?

Ora Donnini, come anticipato, si occupa di turismo con la Keesy srl (società estranea all’indagine fiorentina), nella quale arrivano riserve proprio dalla Immobil Green. Nel bilancio 2017 ci sono 753mila euro di “versamenti c/capitale”. Nel 2018, alla voce “altre riserve” ci sono 795.287, che sono i versamenti effettuati nel corso del 2018 dal socio, la società controllante Immobil Green Srl.

Quella su Donnini non è l’unica inchiesta fiorentina che riguarda un renziano della prima ora: un’altra indagine ha messo nel mirino Alberto Bianchi, ex presidente della fondazione Open, la cassaforte del renzismo, ora accusato di traffico di influenze. Anche in questo caso c’è un collegamento con il gruppo Toto, dal quale Bianchi ha ricevuto un incarico per un contenzioso con Autostrade, con parcella di circa un milione di euro. Due terzi della somma sarebbero stati versati da Bianchi al suo studio associato, un terzo per sé. Dal suo conto il legale avrebbe poi versato alla Open circa 200 mila euro (non 700 mila come indicato erroneamente ieri dal Fatto) che in quel momento era in difficoltà economiche. Salvo riprenderne – secondo fonti vicine all’avvocato – circa 190 mila euro quando la fondazione stava per chiudere.

Boccia: “L’autonomia va bene, ma solo dopo i servizi minimi”

“Andrò ad ascoltarli con la Costituzione sotto il braccio”. Il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, aveva avvertito i governatori in vista del tour che lo porterà in giro per il Paese, a iniziare da Veneto ed Emilia Romagna. L’autonomia regionale resta un tema centrale, ma potrà essere pienamente attuata solo quando saranno stabiliti i Livelli essenziali delle prestazioni, i Lep, nominati ma non definiti dall’articolo 120 della Carta. Si tratta di uno standard di servizi che dovranno essere erogati in modo paritario in tutte le regioni, anche ad autonomia avvenuta. “Sono andato in Veneto perché penso che l’autonomia differenziata sia un punto fermo del programma del nostro governo. Vogliamo farla, e farla bene, ma in maniera coerente e deve diventare lotta alla diseguaglianze. Proporremo un modello che capovolge il meccanismo che finora è stato seguito – spiega il ministro del Pd – Lo Stato ha la forza, le competenze per definire subito i livelli essenziali”. Il governatore leghista Luca Zaia fa buon viso a cattivo gioco (per ora): “Figuratevi se noi non siamo disponibili. L’importante è che i tempi siano brevi”.

Virginia Raggi cambia quattro assessori. In giunta la moglie di Enrico Stefàno

Un rimpasto abbondante, con quattro assessori politici al posto dei tecnici. È la svolta che segna “una nuova fase” per il Comune di Roma, assicura la sindaca Virginia Raggi: corredata da un’apertura al Pd e da qualche polemica, perché uno dei nuovi quattro assessori è Veronica Mammì, moglie di Enrico Stefàno, consigliere al secondo mandato ed ex presidente del Consiglio comunale. Tante le letture possibili per la mossa della Raggi, che ieri ha annunciato l’ennesima tornata di cambi in Giunta. Via Laura Baldassarre, Flavia Marzano, Rosalba Castiglione e Margherita Gatta, dentro tre consiglieri del M5S: da Pietro Calabrese che guiderà l’Assessorato ai Trasporti a Valentina Vivarelli (Patrimonio e Politiche abitative) mentre al Sociale va Mammì, ormai ex assessore municipale. Invece Linda Meleo passa dai Trasporti ai Lavori pubblici. “Dopo aver ristrutturato le fondamenta della macchina amministrativa – sostiene Raggi – imprimiamo un’accelerazione per portare a compimento il programma politico”. Poi la sindaca tende la mano ai dem, a cui è disposta a dare due presidenze nelle commissioni: “Siamo molto contenti di come va questo governo, non c’è nessuna preclusione a collaborazioni”.

Sereni: “Ma quale sessismo… avrebbe diviso la coalizione”

“Sull’ipotesi di Stefania Proietti non si sarebbe costruita l’unità ampia necessaria. Il Pd ha chiesto a tutti i sindaci di centrosinistra di mantenere l’impegno e completare il loro mandato. Questo criterio non poteva essere superato, peraltro dopo una discussione di mesi nei vari mondi civici alla quale la stessa Proietti ha partecipato direttamente senza mai manifestare la volontà di essere lei a correre. Ci accusa di sessismo? Non mi sembra proprio questo il tema visto che sono state prese in considerazione con la stessa serietà sia candidature femminili che maschili”. Marina Sereni, umbra, responsabile Enti locali del Pd (da sempre vicina a Dario Franceschini) e soprattutto viceministro degli Esteri racconta un percorso di mesi.

Come si è arrivati alla scelta di Vincenzo Bianconi?

Dopo l’addio della Marini, il Pd ha detto che sarebbe stato disponibile a fare un passo indietro, non presentando un proprio candidato, ma sostenendo un civico, appoggiato da più liste compresa quella Pd. In mezzo a questo processo è nato il nuovo governo.

Cos’è che non andava bene di Andrea Fora?

Fora è stato vissuto da M5S come una candidatura del Pd. Anche se aveva tutte le caratteristiche per allargare.

Brunello Cucinelli è mai stato veramente in campo?

Non mi risulta. Ma il suo invito a trovare una candidatura civica comune è stato determinante per sbloccare la trattativa.

E Catia Bastioli?

Ha avuto lo stesso ruolo di Cucinelli.

Come mai tra Francesca Di Maolo e Bianconi la scelta è caduta su di lui?

Abbiamo fatto una verifica in contemporanea sui due. Lei non si è detta disponibile. Lui sì e lo ringraziamo.

Quanto è stato importante il ruolo della Chiesa?

La componente cattolica è importante. E spero che il mondo cattolico sarà presente nel progetto civico che si sta costruendo, non certo come gerarchie, ma come impegno sociale e associativo.

In Emilia la candidatura di Stefano Bonaccini è intoccabile?

Bonaccini è stato un bravo presidente. Noi ripartiamo da lui. Ma si vota a gennaio, quindi c’è tempo di ragionare. E non ci sono ricette esportabili a tutti, come ha dimostrato l’esperienza umbra.

La prima direzione del Pd senza Matteo Renzi ha fatto registrare sollievo?

No. Ci si è interrogati su come far sì che il Pd resti un partito largo e plurale, nonostante le scissioni fatte da due ex segretari. Nessuno pensa a un partito di sinistra che si allea a uno di centro.

Quindi ci vuole uno sbarramento elettorale alto per bloccare la strada a Renzi?

(Ride)Se ne parlerà quando si discute di legge elettorale.

Insomma, oltre a Bersani, devono entrare in molti.

Esattamente. Ci vuole apertura e innovazione. L’ingresso di Serse Soverini e di Beatrice Lorenzin è importante, oltre che simbolico.

Senza la Lega, la politica estera sarà più semplice?

L’Italia si è ricollocata pienamente nell’area euro-atlantica. E ha ripreso la sua centralità in Europa: grazie al nuovo ministro Lamorgese a Malta si ottiene un impegno per la redistribuzione automatica dei migranti. E c’è lo sviluppo sostenibile: Conte e Di Maio all’Onu si stanno impegnando in questo senso.

Non c’è da temere la rivalità tra Trump e Cina?

Le guerre commerciali danneggiano l’Europa. Alla Cina dobbiamo chiedere il rispetto delle regole di mercato e al tempo stesso trovare terreni di cooperazione.