L’economiadella Germania sta entrando in recessione e ieri ha fatto segnare il minimo da oltre 10 anni nell’indice manifatturiero per le Pmi. Anche per questo Mario Draghi, in quella che presumibilmente sarà la sua ultima audizione all’Europarlamento da governatore della Bce, aggiunge alla retorica consolidata di Francoforte (servono le riforme strutturali, i Paesi ad alto debito devono fare politiche prudenti), anche un paio di dichiarazioni più dritte sulla necessità di nuove politiche fiscali: “Le regole di bilancio vanno riviste. Finora sono state efficaci, sensate, per molto tempo, ora sono sensate perché evitano l’accumulo di debito, ma non sono così efficaci perché non hanno capacità anticicliche”. Insomma, come detto anche recentemente, la politica monetaria ha fatto quel che poteva ora tocca ai governi spendere. E non solo: “Nell’Eurozona uno strumento di stabilizzazione centrale è importante perché alcuni Paesi potrebbero essere soggetti a choc asimmetrici”. Un meccanismo insomma, visto che questo compito non è esplicitato nel mandato della Bce, che impedisca ai mercati di mandare all’aria i Paesi più deboli.
“Una svolta: adesso il porto più vicino sarà pure Marsiglia”
Affacciato alla sala della sede della Rappresentanza italiana alle Nazione Unite, vede la Trump World Tower, il secondo dei grattacieli che il presidente americano ha costruito a gloria del suo impero. Il presidente Giuseppe Conte è in trasferta a New York per partecipare al summit sul Clima e all’Assemblea generale Onu. Sta studiando un “modo saggio” per incentivare le imprese ecosostenibili, senza penalizzare chi si occupa di settori meno compatibili con la sfida ambientale: “Non fatemi pesare di essere venuto in aereo”, replica sorridendo a chi gli ricorda la traversata oceanica della giovane Greta Thunberg.
Ma la sua testa, lunedì, è tutta rivolta al Mediterraneo e agli accordi che alcuni dei principali ministri dell’Interno europei hanno avviato a Malta. Una “svolta storica” per Conte, che guarda con soddisfazione al nuovo corso. Quello, per intenderci, in cui sono finiti “gli atteggiamenti inutilmente litigiosi” che nei quattordici mesi del suo primo governo non hanno prodotto alcun risultato.
Cosa è cambiato rispetto al passato?
La prima premessa da fare è che c’è la massima determinazione a evitare che questo accordo possa avere un pull factor, ovvero incentivare nuovi sbarchi. Ma a Malta abbiamo ottenuto aperture finora impensabili, che per la prima volta possono davvero farci dire che ‘chi sbarca in Italia, sbarca in Europa’: la prima è che il meccanismo che stiamo per avviare inquadra tutti i migranti come richiedenti asilo, senza distinzione in base ai Paesi di provenienza. L’altra è che il ‘porto sicuro’ non è più necessariamente quello più vicino: si apre alla prospettiva, sempre su base volontaria, che possano essere individuati porti alternativi.
Significa che i migranti potranno arrivare, per esempio, anche a Marsiglia?
Non voglio entrare nei dettagli, dico che abbiamo ricevuto dai Paesi che hanno partecipato al vertice grande disponibilità a condividere integralmente gli effetti di questo accordo. Preciso anche che si tratta di un testo aperto anche a tutti gli altri Paesi dell’Unione europea che ieri non erano a Malta. Chi non aderirà dovrà certamente essere penalizzato sul piano delle conseguenze, stiamo ancora riflettendo come. Ma non solo: Ursula von der Leyen mi ha confermato che la nuova Commissione è intenzionata a investire sulla cooperazione con i Paesi di origine e di transito. E tre giorni fa, nel mio colloquio con il presidente libico Serraj, abbiamo rinnovato il nostro impegno a contribuire alla capacity building della loro Guardia Costiera. Inoltre, a Malta, si sono gettate le basi per una nuova disciplina dei rimpatri, che individua in quattro settimane il periodo ragionevole in cui vanno completate l’identificazione dei migranti, la valutazione della loro richiesta di asilo e l’eventuale rimpatrio. C’è piena consapevolezza, anche qui, che debba essere gestito dall’Unione europea, presto ci saranno novità.
Resta il dramma dei centri di detenzione in Libia. Come pensate di affrontarlo?
Sono qui all’Onu anche per questo: chiederò al Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres di potenziare l’intervento Onu per aumentare gli investimenti necessari a garantire condizioni di vita decorose.
In questa nuova cornice internazionale cambierà l’atteggiamento del governo nei confronti delle Ong che salvano vite in mare o resterà il pugno duro previsto dai decreti Sicurezza?
La difesa dei nostri confini territoriali resta una nostra priorità, non dobbiamo rinunciare al diritto di regolare gli ingressi nel nostro Paese e a combattere l’immigrazione clandestina. I decreti Sicurezza restano in vigore, non li dismettiamo: nell’accordo di governo con il Partito democratico abbiamo solo concordato di recepire i rilievi del presidente della Repubblica. Da parte nostra resterà la massima attenzione ai comportamenti delle navi che effettuano operazioni di search and rescue: non saranno tollerati comportamenti anomali, come quello di spegnere il transponder per oscurare la loro posizione nelle acque internazionali. Dobbiamo pretendere da loro comportamenti trasparenti e massimamente corretti.
Significa che potranno ripetersi casi come quello di Carola Rackete?
Non mi piace parlare di casi singoli. Certamente chi sperona una motovedetta della Guardia Costiera dovrà sempre risponderne di fronte allo Stato, vale per qualsiasi cittadino italiano: non possiamo, per il clamore mediatico, creare un trattamento di favore per un cittadino straniero.
Le navi delle Ong resteranno ancora per giorni nelle acque del Mediterraneo senza autorizzazione allo sbarco?
Dissuaderemo qualsiasi intervento non corretto. Il salvataggio in mare non è delegato alle Ong. Conserveremo un atteggiamento rigoroso, ma il rigore si può applicare subito e non dopo un mese.
È quello che ha fatto il ministro Salvini nei suoi quattordici mesi al Viminale.
Il vertice di ieri a Malta ci insegna che gli atteggiamenti inutilmente litigiosi, sterilmente oppositivi e puramente provocatori fanno contenta l’opinione pubblica italiana, ma spesso non portano nessun risultato concreto.
“Ma come osate? Ci avete rubato sogni e adolescenza”
“La speranza viene da noi giovani, come osate? Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote, eppure sono tra i più fortunati. Le persone stanno soffrendo, le persone stanno morendo, interi ecosistemi stanno crollando”. ll discorso di Greta Thunberg al Climate Action Summit 2019 di New York arrivano come una scure. L’attivista svedese scarica sui potenti del mondo tutta la sua frustrazione, la rabbia di 16enne consapevole di lottare per una giusta causa eppure impotente nei confronti degli interessi economici prevalenti. Greta Thunberg ha gli occhi lucidi perché non percepisce nessun passo avanti nelle politiche per contrastare i cambiamenti climatici. “Il mio messaggio è che vi terremo d’occhio. Tutto questo – dice – è così sbagliato. Non dovrei essere qui, dovrei essere a scuola, dall’altro lato dell’oceano. Venite a chiedere la speranza a noi giovani? Come vi permettete?”. E ancora: “Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui parlate sono soldi e favole di eterna crescita economica? Come vi permettete? Per più di 30 anni – prosegue Greta – la scienza è stata chiara. Come osate continuare a voltarvi dall’altra parte, e venire qui a dire che state facendo abbastanza, quando le politiche e le soluzioni necessarie ancora non si sono viste? L’idea famosa di dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% delle possibilità di restare entro i 1,5 gradi, e il rischio di scatenare reazioni a catena oltre il controllo umano. Dite che ci ascoltate e che capite l’urgenza. Ma non importa quanto sia triste o arrabbiata, io non voglio credervi. Perché se davvero aveste capito la situazione e continuaste a non agire, allora sareste cattivi. E non vi voglio credere. Poi l’affondo. “Ci state deludendo, ma i giovani stanno iniziando a capirlo, gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi, e se sceglierete di fallire non vi perdoneremo mai”, aggiunge, sottolineando che “il mondo si sta svegliando e il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Il mio messaggio è che vi teniamo gli occhi addosso”.
Fioramonti: “Chi va ai cortei è un assente giustificato”
Saltare la scuola per scendere in piazza venerdì 27 settembre per il terzo sciopero globale organizzato dalla rete di attivisti Fridays For Future senza che la mancata presenza tra i banchi pesi sul conteggio finale. A chiederlo è il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti: “In accordo con quanto richiesto da molte parti sociali e realtà associative impegnate nelle tematiche ambientali, ho dato mandato di redigere una circolare che inviti le scuole, pur nella loro autonomia, a considerare giustificate le assenze degli studenti occorse per la mobilitazione mondiale”. Così, dopo aver definito la scorsa settimana lo sciopero globale per il clima “la lezione più importante che i ragazzi possano frequentare”, ora Fioramonti segue l’esempio del sindaco di New York, Bill de Blasio, che lo scorso venerdì ha chiesto di giustificare gli studenti – oltre un milione – che hanno disertato le lezioni per scendere in strada.
Insomma, in piazza per il clima con la benedizione del ministro. Un’idea che non convince del tutto i presidi. “Giustificare in massa l’assenza non ha molto senso. Sarebbe stato meglio ordinare la chiusura delle scuole. Servono misure di politica ambientale importanti, c’è perplessità sul fatto che non andare a scuola un giorno possa aiutare”, spiega Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi. Non la prende bene neppure Matteo Salvini: “Dopo aver proposto la tassa sulle merendine, il geniale ministro propone la bigiata di massa”. Intervistato dal tg del La7, Fioramonti stempera le polemiche: “Non spetta al ministro ma alle scuole decidere se accettare o meno le giustificazioni. Il mio è un messaggio per offrire anche agli studenti minorenni la possibilità di partecipare ai cortei senza che l’assenza venga considerata nel computo dell’anno scolastico. Io da ministro faccio di tutto affinché le scuole siano all’avanguardia in questo percorso”, conclude.
Tasse sui biglietti aerei e sugli zuccheri. Come funzionano nel resto del mondo
La proposta è questa: recuperare risorse in vista della prossima legge di Bilancio aumentando il prelievo fiscale su bibite gassate, zuccheri e voli aerei. Se ne discute da tempo, a dargli una forma concreta è stato il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, quando era viceministro nel governo gialloverde per recuperare almeno un miliardo per la ricerca. Rilanciata ora che è ministro, l’idea ha anche preso una piega ambientalista agitando M5S e Pd dopo il “mi pare praticabile” del premier Conte e poi la cautela chiesta da Di Maio e infine il ritorno dello stesso Conte, ieri, al “è solo una ipotesi”. Le nuove tasse che preoccupano soprattutto le imprese sono comunque già state introdotte in molti Paesi.
I voli. Il progetto di qualche tempo fa, basandosi sui dati del 2017, prevedeva un aumento in Italia di 0,50 euro sui biglietti dei voli nazionali e di 1 euro quelli internazionali, per un totale di 144 milioni di euro di incassi. Oppure di 1 euro sui voli nazionali e 1,5 euro su quelli internazionali con un incasso di 200 milioni di euro. Si ipotizzava, inoltre, una tassa aggiuntiva di 25 euro per passeggero per i voli in aerotaxi (1,75 milioni). Quella sugli aerei è una tassa già in uso nel mondo, una sorta di indennizzo per l’inquinamento. In Svezia è stata introdotta ad aprile e arriva fino a 40 euro, nei Paesi Bassi è stato presentato un disegno di legge (7 euro per i voli in partenza e una flight tax per i voli cargo), a luglio la Francia ha annunciato che dal 2020 applicherà un’ecotassa su quelli in partenza: 1,5 euro in Economy e 9 euro in Business nazionali e dentro l’Ue, 3 e 18 euro extra-Ue. In Germania, il maxipiano ambientale prevede come finanziamento l’aumento dell’Iva sui biglietti aerei. Secondo l’ultimo studio dell’International council on clean transportation nel 2018 “i velivoli hanno emesso 918 milioni di tonnellate di anidride carbonica, pari al 2,4% del totale globale, mezzo punto percentuale in più del 2016 e del 70% rispetto al 1990. Parallelamente però sono anche triplicati i passeggeri e i veicoli sono diventati più efficienti.
Zuccheri. Un’altra delle voci del progetto era la sugar tax, 20% in più sullo zucchero delle bibite. Si ispira alla tassa inglese applicata a tutte le bibite che superano una soglia minima. In Italia, secondo i primi calcoli, potrebbe generare un incasso fino a 470 milioni di euro. Certo, in Gran Bretagna con l’introduzione di questa tassa nel 2016, molte aziende hanno modificato le ricette, ma anche ipotizzando un comportamento simile l’incasso annuale arriverebbe a circa 235 milioni di euro. In Finlandia e Norvegia la tassazione dei soft drink è stata adottata da 20 anni, mentre otto anni fa il governo danese ha introdotto un’imposta universale sugli alimenti con un contenuto di grassi saturi superiore al 2,3%. Nel 2012 è stata introdotta in Francia, con un aumento del costo delle bevande di circa il 3,5%, poi aggiornata nel 2018. Nel 2014 il Cile ha aumentato l’aliquota sulle bevande zuccherate dal 13 al 18% e nello stesso anno il Messico ha imposto una tassa del 10% su tutte le bevande. In Ungheria è stata introdotta nel 2011 (accanto a quella sui cibi ad alto contenuto di sale), in Irlanda nel 2018. In tutti i casi, la riduzione delle vendite è stata immediata. In alcuni c’è poi stata una ripresa, in altri è stato dimostrato che gli effetti in termini di aumento della qualità della vita hanno compensato le eventuali perdite economiche.
Altre voci.Questi primi calcoli, a ogni modo, sono lontani dal miliardo e mezzo circolato in questi giorni e che invece combacia con l’idea originaria di Fioramonti che contemplava altre voci (e che sarà sicuramente soggetta a modifiche) come 300 milioni da nuove royalties sugli idrocarburi, almeno 130 dalle immatricolazioni di automobili di lusso, 19 dai superalcolici, almeno 385 dalle scommesse, 350 da un aumento sulle sigarette. Totale: minimo 1,6 miliardi di euro, massimo 2.
Per ogni 1,8 dollari di nuovi investimenti ne tornano indietro 7
Una “grande opportunità per gli investimenti”. Questo uno dei motivi ricorrenti negli interventi di ieri al Summit delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Leitmotive di interventi da parte delle multinazionali o della finanza. Tra tutti il fondatore di Microsoft, Bill Gates, che fa parte della presidenza della Global commission on Adaption insieme all’ex segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon e a Kristalina Georgieva, candidata a dirigere il Fondo monetario internazionale. Oltre a lui, tra gli intervenuti, anche Michael Bloomberg, proprietario dell’omonima società e “Inviato speciale dell’Onu per il clima”, capi di aziende come Danone o la leader mondiale del trasporto Maersk.
L’emergenza climatica ha anche un lato economico che va seguito con attenzione. Basta leggere il rapporto prodotto dalla Commissione co-presieduta da Bill Gates e rilasciato lo scorso 10 settembre: “Il tasso di rendimento complessivo degli investimenti in una migliore resilienza è elevato, con rapporti tra benefici e costi che vanno da 2 a 1 a 10 a 1 (e anche oltre)”. L’analisi spiega che “investire 1.800 miliardi di dollari a livello globale dal 2020 al 2030 potrebbe generarne 7.100 in benefici netti totali”.
Si tratta di un settore che comprende anche la geoingegneria, l’ingegneria della terra, di cui Bill Gates è stato uno dei principali esponenti. La fantasia che anima questa linea di ricerca è infinita, già dal fondatore del termine, il fisico italiano Cesare Marchetti che nel 1977 proponeva di infiltrare la CO2 in eccesso sulla terra direttamente sul fondo dell’Oceano Atlantico. Ci sono soluzioni più moderne come la dispersione di particelle di carbonato di calcio nella stratosfera o la distesa di teli bianchi in enormi aree della terra.
La Maersk, leader danese nel trasporto mondiale, si è impegnata a raggiungere le “emissioni zero” entro il 2050, Danone, invece, si è impegnata nello sviluppo sostenibile a livello agroalimentare creando insieme a Unilever e Nestlé la Sustainable Food Policy Alliance per “impegnarsi in soluzioni innovative, basate sulla scienza per agire contro i costi del climate change”.
Si tratta di progetti che andranno finanziati con fondi pubblici ma anche il settore privato può fare la sua parte se è vero che i ritorni attesi possono arrivare fino a dieci volte l’investimento e, nel campo dell’agricoltura, anche fino a 17.
Tra le leve dell’investimento non va trascurato il gigantesco comparto delle assicurazioni. Come si legge nel documento redatto dall’Onu in occasione del vertice di ieri, l’Asset Owner Alliance, il più grande gruppo di fondi assicurativi e pensionistici del mondo con investimenti superiori ai duemila miliardi di dollari, si è impegnato a garantire la de-carbonizzazione dei modelli industriali dei loro assicurati. L’International Development Finance Club – un gruppo di 24 tra banche nazionali e regionali focalizzato nei mercati nei Paesi emergenti – sta per annunciare l’impegno di mille miliardi di dollari e promuoverà, insieme al Green Climate Fund, un più agevole accesso alla finanza del clima.
Non a caso è stata proprio un’analisi redatta dal gruppo Bloomberg lo scorso 6 settembre a individuare gli investimenti e gli obiettivi da sostenere. “C’è molto da fare nel campo delle obbligazioni transitorie: andrebbe creata una classe di bond separata che individui delle aziende che si riconvertono a forme pulite di business”. E tra gli esempi indicati c’è proprio un’azienda italiana, la Snam che ha emesso obbligazioni per 500 milioni di euro a inizio 2019 per progetti finalizzati alla riduzione del 25% di emissioni di etanolo entro il 2025. E lo stesso sta per fare Enel con “l’obiettivo di finanziare energie rinnovabili”.
Greta mette in riga l’Onu: 66 Paesi per emissioni zero
La più lesta per la foto di grido è Angela Merkel che, poco prima di pronunciare il suo intervento, si intrattiene con Greta Thunberg, la sedicenne voce della protesta globale contro il cambiamento climatico. L’oppositore chiave resta Donald Trump che, contrariamente agli annunci, decide di giungere al vertice Onu sui cambiamenti climatici che ieri ha riunito i capi di Stato e di governo del pianeta, ma resta in silenzio, ascolta per 15 minuti e poi se ne va. Chi fa il discorso più caloroso, cercando di scaldare la platea, che pure risponde con applausi, è Emmanuel Macron. Il più autorevole è Papa Francesco che chiede un “intervento per il clima dal basso”, quindi in grado di ascoltare i giovani. E poi c’è Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio italiano che ambisce a svolgere, nella battaglia per la riconversione ecologica, “un ruolo da leader a livello mondiale”.
In mezzo a loro decine e decine di interventi – dall’emiro del Qatar al presidente egiziano, dalla premier neozelandese al presidente del Cile – in larga parte retorici perché è chiaro che un vertice dell’Onu può prendere solo impegni.
E poi c’è lei, Greta, che solo un anno fa manifestava tutta sola davanti alla propria scuola e che ieri, con la voce emozionata e indignata allo stesso tempo, ricordava alla prestigiosa platea che “io dovrei essere a scuola, dall’altra parte dell’oceano, non qui” (nell’articolo in alto il suo intervento).
I capi di Stato e di governo non si impressionano facilmente, ma di questa protesta hanno iniziato a tenere conto. E sul piano del consenso, Greta ha una forza ancora non del tutto espressa.
Così ieri ben 66 Paesi, 102 città e 93 imprese (tra cui Nestlé, Nokia e L’Oréal) hanno annunciato l’impegno a raggiungere zero emissioni entro il 2050. La Russia, poi, ha reso nota l’adesione all’Accordo di Parigi sulla riduzione delle emissioni e il presidente del Cile ha annunciato la formazione della Coalition Ambition Alliance in vista di Cop25 a Santiago nel 2025. Si espande anche la Powering Past Coal Alliance che si propone di abolire il carbone come fonte energetica e ora include 30 Paesi e 31 multinazionali che si impegnano a non costruire più impianti a carbone entro il 2020. Anche Macron ha annunciato questo impegno entro il 2021 oltre a proporre di fondare la politica commerciale sul rispetto degli Accordi di Parigi (chiaro colpo a Bolsonaro). Per monitorare tutti gli impegni e i risultati ottenuti, l’Onu ha creato il Global Action Portal. C’è l’impegno della Central African Forest Initiative per mantenere la copertura delle foreste in Gabon, Camerun, Repubblica centrafricana, Congo e Guinea equatoriale. La Climate Investment Platform punta a mobilitare mille miliardi di dollari in investimenti in energia pulita entro il 2025 in almeno 20 paesi in via di sviluppo
L’elenco delle iniziative che saranno definite nel documento conclusivo è ancora più ampio e le ambizioni sembrano di rilievo. Il Segretario generale ha aperto la sessione dicendo che le “giovani generazioni sono qui per esigere soluzioni e chiedere azioni urgenti”. “Questo non è un summit per parlare, abbiamo già parlato abbastanza, e non è un summit per negoziare, non si negozia con la natura: questo è un summit per agire”. “Nel 2050 non ci sarò” ha concluso, “ma mia figlia sì, e io non voglio essere complice”.
Le iniziative, come è nella costituzione materiale del pianeta, spetteranno ai singoli Stati e agli accordi congiunti che questi prenderanno. L’assenza degli Usa si fa sempre sentire, mentre la Cina, l’altra potenza mondiale, la prende alla larga. Anche il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ieri non si è fatto vedere e insieme a Trump ha rappresentato il bersaglio privilegiato dell’intervento di Macron.
Giuseppe Conte, in questa situazione, afferma di voler puntare a una “leadership internazionale” e nel suo intervento ha ribadito l’appoggio all’Accordo di Parigi, la “neutralità del carbonio entro il 2050” proponendo “l’eliminazione graduale dell’energia a carbone entro il 2025”.
Conte ha fatto riferimento al “New Deal verde” del governo “per progettare tutti i programmi nazionali di investimento pubblico in modo coerente con l’obiettivo di raggiungere emissioni nette zero nel 2050”. Poi, una iniziativa da presentare al Summit: “Catalizzare la transizione energetica attraverso l’infrastruttura di alimentazione digitale”. Basato su un partenariato pubblico-privato, “mira a digitalizzare le infrastrutture energetiche e promuovere le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo”.
Siete circondati
Un anno fa mi chiamò un amico commercialista e onesto: “Io ce la metto tutta per convincere i miei clienti a pagare le tasse. Ma i continui annunci di condoni nella legge di Bilancio, tutt’altra cosa dalla ‘pace fiscale’ con la rottamazione delle vecchie mini-cartelle esattoriali ormai impossibili da recuperare, mi rendono la vita impossibile. Nessuno pagherà perché aspettano tutti la sanatoria. Sarà un disastro”. Alla fine il mega-condono targato Lega non ci fu, per l’opposizione di Conte e M5S (che però dovettero ingoiare lo stralcio della norma Bonafede sulle manette agli evasori), ma quei mesi di annunci fecero calare comunque il gettito. Intanto Conte si dannava l’anima telefonando a tutti i capi di governo europei per convincerli a prendersi una quota di migranti portati sulle nostre coste (e solo su quelle) dalle navi delle Ong. Nel suo primo Consiglio Ue di giugno, aveva ottenuto che tutti accettassero il principio “chi sbarca in Italia sbarca in Europa”, ma le ripartizioni erano passate solo “su base volontaria”. Intanto il cosiddetto ministro dell’Interno Salvini, inabile al lavoro, dai palchi e dai balconi della sua campagna elettorale permanente ruttava scemenze tipo “porti chiusi”, “la pacchia è finita”, “restino lì fino a Natale”, salvo poi far sbarcare tutti dopo giorni d’inutile attesa.
Ora, un anno dopo, abbiamo un ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, che risiede inopinatamente al Viminale, lavora molto e parla poco: ieri a Malta ha raccolto i primi frutti della semina contiana, con l’accordo per i ricollocamenti automatici (non più caso per caso) dei migranti. Meglio di niente. E, nella nuova legge di Bilancio, non è prevista alcuna sanatoria fiscale. Anzi, Conte promette finalmente la galera agli evasori. Siccome nella lotta all’evasione fiscale anche gli annunci sono importanti, per levare ogni aspettativa a chi sogna di farla franca, il governo è quasi a metà dell’opera. Ora si spera che completi l’altra metà a fine settimana, quando il premier riunirà Bonafede e gli sherpa del Pd per dare il via libera al pacchetto Giustizia: che dovrà contenere la norma stralciata un anno fa. Quella che aggrava le pene per i reati fiscali, abbassa le soglie di impunità follemente alzate da Renzi ed estende ai delitti finanziari le confische patrimoniali già previste per mafia e corruzione, in aggiunta al blocco della prescrizione già fissato per legge dal 1° gennaio. Basterebbe annunciarla per innescare la corsa degli evasori a mettersi in regola prima che scatti la mannaia. Lo slogan potrebbe essere: “Arrendetevi, siete circondati”. Sarebbe il miglior modo per tacitare gli imbronciati da talk: quelli che detestano il Conte 2 e non sanno perché.
Odissea in Antartide. La scienza è fallibile ma è l’unica salvezza
Dimenticate la scienza così come l’avete sempre immaginata: laboratori asettici, strumentazioni lucide e perfette, moquette intonsa sulla quale avanzano scienziati con camici immacolati pronti a gioire di successi sicuri e roboanti. La vita di uno scienziato, in realtà, è completamente diversa e, per fortuna, molto più movimentata di quanto possiamo immaginare. Portare avanti un progetto scientifico può essere addirittura rocambolesco, un’avventura fatta di amicizie intense ma anche puntellata da incidenti dai tratti persino tragicomici. E spesso vissuta in luoghi inospitali dove non ci sono alberghi a cinque stelle, ma vecchie camerette, niente web, spedizioni dove bisogna tornare a casa col sacchettino degli escrementi per non lasciare traccia. A raccontarci quest’altra faccia della scienza è L’esperienza del cielo (La nave di Teseo edizioni), scritto dall’astrofisico Federico Nati (federiconati.it) dell’Università Milano Bicocca.
Il romanzo è il diario di una missione in Antartide effettuata nel 2018 con una squadra internazionale e nata per scoprire come mai – come dice l’autore con una battuta – “c’è un calo demografico delle stelle”, in altre parole nascono meno stelle del previsto. Per cercare di capirne di più, la Nasa decide di spedire nella stratosfera un telescopio di tre tonnellate, chiamato Blast, e Federico Nati entra a far parte del progetto attraverso un semplice colloquio via Skype. Il finale del libro non è quello che ci si potrebbe aspettare – Blast non viene lanciato – ma in un certo senso proprio questo è il bello, perché restituisce la verità che c’è dietro ogni esperimento scientifico: “Lavori anni, decenni, poi una vite messa male, un cavo tagliato da qualcuno che ci è passato sopra con una sedia, un pulsante che ci si dimentica di premere, uno spedizioniere che distratto dallo smartphone non clicca la spunta giusta rischiano di far saltare tutto il progetto”.
I problemi, infatti, spuntano da ogni parte, gli insuccessi creano tensioni e ansie. Eppure, “fallimenti e rinvii non impediscono la crescita dei progetti, che a volte riescono per scoperte casuali”, dice Nati, che tra breve tornerà in Antartide per ritentare il lancio. Nel libro l’autore racconta anche i sacrifici, la fatica – contro una certa retorica dei cervelli in fuga entusiasti – di lasciare il proprio Paese e di avere carriere complicate in luoghi lontanissimi da casa. Non c’è rabbia verso l’Italia, solo la consapevolezza del “grandissimo spreco del formare esperti validissimi senza trattenerli”.
E poi lo stupore del fatto che la scienza non sia considerata cultura, “tanto che ci si vergogna di non aver letto i Promessi Sposi ma non di non conoscere il Teorema di Pitagora”, mentre c’è scarsa conoscenza del metodo scientifico “l’unico che può spiegare ciò che sta accadendo”. Così come gli scienziati, anche quelli che lavorano “senza le glorie della storia, senza i successi dei premi, senza le prime pagine dei giornali” sono gli unici in grado di prendersi cura della Terra, guarire le persone, creare conoscenza dell’universo.
Il teschio della discordia: guerra nei tribunali per il ladro di cacio
La “guerra del teschio” continua. C’è stata una sentenza di primo grado, una di appello e poi la Cassazione. Ma non basta, ora ad occuparsi di quel che resta del cranio di Giuseppe Villella saranno le Corti di giustizia europee, e, se non dovesse bastare, anche gli organismi dell’Onu per i diritti umani. L’ingegner Domenico Iannatuoni, pugliese del 1953 trapiantato al Nord, non si ferma, col suo Comitato “No Lombroso” continuerà a dare battaglia.
Povero “Peppuzzo”, pecoraio disgraziato e affamato nato nel 1802 a Motta Santa Lucia, 826 abitanti oggi, 1715 a metà Ottocento, un pugno di case stretto tra le montagne della provincia di Catanzaro. La fame nera, ricostruisce in un suo libro l’antropologa Maria Teresa Milicia, lo portò a rubare “cinque ricotte, una forma di cacio, due pani e due capretti”. Ricercato dai carabinieri della nuova Italia, sabauda e unita, scappò e venne catturato. Rinchiuso nelle carceri del Regno come brigante, morì a Pavia nel 1864 distrutto da tisi, scorbuto e tifo. Neppure da morto trovò quella pace che non ebbe da vivo, perché la sua testa destò anni dopo la morbosa curiosità di Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare. Medico, per alcuni il fondatore della moderna antropologia criminale, per molti un cialtrone dalle teorie strampalate, basate sul nulla, e ispirate da un marcato razzismo antimeridionale. A Cesare bastava analizzare un volto, misurare l’ampiezza della testa e la distanza tra naso e orecchie, osservare un cranio, per stabilire la propensione al crimine di un individuo. Cercava le origini del male, ma anche quelle del genio, quello di Leone Tolstoj, ad esempio. Lo colpivano l’aspetto massiccio dello scrittore, la sua lunga barba, la testa grande e l’immensa forza fisica, e allora si recò a Mosca nel 1897 per incontrarlo. L’autore di “Guerra e pace” lo ricevette, ma capì lo scopo di quella strana visita, e furono giorni amari per Lombroso, Tolstoj tentò di annegarlo in una piscina e sul suo diario lo definì “un vecchietto ingenuo e limitato”.
Lombroso studiò il cranio di Villella, analizzò la presenza di un “cervelletto a tre lobi, non due”, la prova regina dell’”atavismo criminale”. La testa di Peppuzzo, non raccontava la storia di un uomo affamato, ma quella di un “delinquente atavico”. Da allora quel cranio è esposto al pubblico a Torino, nel museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso. “Una vera aberrazione”, taglia corto l’ingegner Iannantuoni. “L’idea di fare qualcosa di concreto ci venne anni fa, quando fu riaperto il Museo. C’erano 150 resti, tra gli altri quelli di Villella e del brigante Antonio Gasparrone. A Lombroso servivano a dimostrare che il meridionale era un uomo minore, atavicamente un delinquente. Una teoria che si propaga fino ai giorni nostri”. Insieme ad un gruppo di amici, l’ingegnere fonda il “Comitato No Lombroso” (sito Nolombroso.org), raccoglie 10mila adesioni, anche quelle di paesi e città, del Sud e del Nord. Vengono subito bollati come “neoborbonici”, etichetta che l’ingegnere respinge, “preferisco meridionalista, uno che vorrebbe la stazione ferroviaria a Matera”. Insieme al Comune di Motta San Felice fa causa all’Università di Torino e al Museo. Vincono in primo grado, perdono in Appello, perché quei resti vengono considerati “bene culturale”. Ricorrono in Cassazione e perdono di nuovo. “Ma non ci fermiamo, ricorreremo alla Corte di Strasburgo e, se necessario all’Onu. L’obiettivo? Dare degna sepoltura nel suo paese a Villella”. Peppuzzo, brigante e delinquente atavico per aver rubato “cinque ricotte…”.