Una famiglia perbene. Superare le avversità con gentilezza, si può

“Domani è l’ultimo giorno!”. Un tuffo al cuore. E sì che me lo avevano annunciato. Prima di agosto, quando lei mi aveva detto “tra un paio di mesi ce ne andiamo”. Non sapevo nemmeno il suo nome, allora, nonostante i trent’anni di frequentazione. L’ho imparato adesso, nel momento dell’abbraccio: Nadia. Prima era la signora della tabaccheria, punto di riferimento per l’acquisto dei biglietti del tram. Ogni volta poche parole. Sempre di corsa, il tram in arrivo, il vizio indomabile di uscire di casa all’ultimo minuto. Lei, il marito Gino, il fratello Aldo. Nomi che fino a ieri non avrei saputo riordinare. Come quello dei due figli, Simone ed Elena, proprietaria del cagnolino beige acquattato in un angolo invisibile della cassa. Un quadro di famiglia confortevole, premuroso, ma che per uno di quegli sciagurati pudori fatti un po’ di timidezza un po’ di piacere urbano dell’anonimato non si era mai imbellito dei nomi propri. Insieme i signori Marchini hanno gestito dal 1978 fino al primo giorno dell’autunno 2019 un bar–tabaccheria nella zona sud est di Milano, all’incrocio tra via Ripamonti, via Giulio Romano e via Palladio.

Il bar “Palladio”, appunto. Una conduzione strettamente familiare. Apertura per il pubblico alle 7 (ma per loro alle 6.30), chiusura alle 7. Senza interruzione. Bancone e cassa, cassa e bancone. Riposo domenicale, rispettando i canoni di un tempo.

I clienti ci trovavano sigarette, biglietti dell’azienda tranviaria, giochi di stato, colazioni e aperitivi, perfino pranzi frugali. Ma soprattutto ci hanno trovato per decenni sorrisi e gentilezza. Anche se con i loro acquisti facevano guadagnare poco o affatto, anche se ci entravano venti secondi ogni due o tre giorni. Anche se uno dei gestori, come il signor Aldo, aveva in casa problemi da schiantare chiunque. Per me sono stati un rifugio. Quando avevo nelle orecchie o negli occhi memoria fresca dei turpiloqui o delle villanie metropolitane, mi faceva piacere passare davanti alla loro vetrina d’angolo, arricchita negli ultimi anni da un dehor vetrato a cinque tavoli, buttare un’occhiata o addirittura entrarci per pensare o di nuovo constatare simbolicamente che esisteva pur sempre il contrario: la cortesia sincera, quella civiltà rispettosa che essi così bene avevano portato a Milano dalla provincia del nord, lei e il fratello da Cremona, lui da Tortona. Una cordialità che non si concedeva invadenze, ricordo ancora l’occhio della signora che si illumina in perfetto silenzio quando compro prima di San Valentino un bacio perugina.

Ai Marchini non sono mancate le difficoltà. Come l’incendio che nel 1987 mandò tutto in fumo. Non mafia, quella volta, ma un elettricista improvvido il cui impianto aveva generato un cortocircuito devastante. Rifecero tutto, anzi ampliarono. Via la milanesissima sala biliardo e spazio a una saletta per fare sedere i clienti. Mentre i nonni paterni li aiutavano a tirar su i figli, stabilendosi in casa loro per cinque anni filati. Sull’onda degli entusiasmi azzurri dei mondiali del 2006 si ingegnarono pure a tenere aperto sera e domenica per le partite, ancora c’è il grande schermo di cui anch’io approfittai nell’anno del triplete. “Ma era un lavoro sfiancante”, racconta Elena. Tutto poggiava sulla nuova generazione, avviata ormai su altre strade professionali, massoterapista lui, società di servizi alle imprese lei. Così dopo qualche anno si tornò all’antica. Senza mai cedere al fascino delle macchinette da gioco. “Non le avremmo mai prese se non fossimo stati obbligati del Monopolio di Stato. Se volevamo i gratta e vinci dovevamo avere almeno due giochi video”. Ne presero una, ma risposero alla loro coscienza aggirando uno degli obblighi, senza violarlo: ricorsero a un gioco delle freccette, rinunciando ai guadagni facili del degrado civile.

E ora? La signora Nadia è un po’ malinconica. “41 anni di sacrifici. Ma forse avrei continuato. Ora riposeremo. C’è il secondo nipotino in arrivo a gennaio. Viaggeremo un po’”. Quest’estate, racconta orgoglioso il signor Gino, si sono fatti 5mila chilometri, da Friburgo all’Alsazia. Ma non chiedete loro se torneranno qui dentro, nella loro vera casa. L’hanno presa dei cinesi, gli acquirenti italiani avevano problemi con le banche. Tutto cambierà nei muri e negli arredi. Resterà, in questo spicchio di Milano cosmopolita, il profumo della gentilezza offerta per quarant’anni da una famiglia in cui scorre la storia dell’Italia per bene.

Il Salone dell’auto si fa Motor Show tra Milano e Monza

Il dopo Torino del salone di Parco Valentino ha un nome ancora più lungo, si chiama “Milano Monza Open-Air Motor Show”. Del resto, serve a specificare da un lato la natura del salone, all’aria aperta appunto (concetto mutuato da quello di “Parco Valentino”), dall’altro il fatto che si dividerà su due fronti: Milano, con protagonisti il Duomo e il Castello Sforzesco, e Monza col suo autodromo, luogo che si preannuncia essere il vero centro nevralgico di tutta la manifestazione. Doppia location e doppia inaugurazione, quindi, per la prima edizione del Salone di Milano-Monza che si terrà dal 18 al 21 giugno 2020: “Stiamo proponendo una manifestazione con un format creato per riavvicinare il pubblico all’automobile in tutte le sue motorizzazioni”, ha specificato il presidente Andrea Levy. È un evento che vede un passaggio di testimone importante: quello dell’esperienza del Parco Valentino, che in 5 anni è sempre cresciuto e forse avrebbe potuto ancora molto, se ad arrestarlo non fossero stati i dissapori tra il Comune di Torino e la macchina organizzatrice del Salone stesso. Il nuovo Motor Show, che porterà in scena 40 brand automobilistici e circa 500 mila spettatori, sarà aperto il 17 giugno nel centro di Milano da un’imponente parata. Poi a Monza, il 18, la seconda sfilata delle Case partecipanti, ciascuna rappresentata dal modello più iconico: l’Area Roccolo sarà lo spazio delle anteprime e delle intere gamme, mentre quella Gerascia sarà dedicata alla storia dell’industria automobilistica. Infine i paddock, punto di ritrovo per i test drive. Al contempo Milano, città “contemporanea e sensibile alle tematiche ambientali” come l’ha definita il sindaco Giuseppe Sala, sarà il centro di dibattiti intorno al tema della mobilità sostenibile.

Discovery Sport: Il restyling di mezza vita

Non contenti di aver sfidato i tedeschi a casa loro, ovvero al salone di Francoforte, con l’inedita Defender, gli uomini di Land Rover hanno subito tirato fuori un’altra primizia. Si tratta del restyling dell’entry level alla gamma di suv del marchio inglese: la Discovery Sport è infatti arrivata a metà del suo ciclo commerciale, e dunque andava rinfrescata un po’. I ritocchi esterni hanno riguardato l’intera economia del veicolo: frontale, tetto, linea di cintura, gruppi ottici e portellone. Il tutto cercando di migliorarne le proporzioni accentuandone il carattere sportivo, come spiegato dal responsabile design Gerry McGovern.

Gli interventi più decisi, tuttavia, sono nell’abitacolo. Dove nonostante la lunghezza standard di 4,60 metri, c’è spazio abbondante sia per i passeggeri (fino a 7) che per i loro effetti personali (900 litri la capienza del bagagliaio). A questo si aggiunge la possibilità di ricaricare in wireless il proprio smartphone, la cura per i materiali e un sistema infotelematico tutto nuovo, dove spicca il Ground Monitor: questo proietta sullo schermo touch le immagini di una videocamera che illumina a 180 gradi la zona antistante e sottostante il veicolo. Una roba molto utile quando, ad esempio, si affrontano tratti ripidi in fuoristrada e non si riesce a capire cosa ci sia davanti e sul fondo del veicolo.

Il comparto telecamere è completato poi dallo smart rear view mirror, ovvero quello che spingendo un bottone trasforma lo specchietto retrovisore in uno schermo su cui vengono proiettate le immagini della telecamera posteriore. Soluzione che garantisce una visuale più larga e chiara anche di notte o in condizioni meteo avverse, a cui però bisogna fare l’abitudine.

Altra novità è l’utilizzo della piattaforma costruttiva più nuova del gruppo inglese, la Pta (Premium transverse architecture). Scelta che ha permesso, oltre all’aumento della rigidità del 13% rispetto al passato, anche di introdurre l’elettrificazione nella trazione. Tutta la gamma di motori Ingenium disponibili (tre benzina e quattro a gasolio) è dotata di mild hybrid a 48 Volt, sistema che tra l’altro recupera energia in frenata, e se questa avviene a velocità inferiori ai 17 km/h spegne il motore.

Quanto alla scelta, si va dal diesel 150 Cv con cambio manuale e trazione anteriore alla 4×4 con trasmissione automatica da 250 Cv a benzina. Convincente, la prima, sia su asfalto che in fuoristrada grazie soprattutto alle sospensioni attive, la cui mancanza si fa sentire su altre versioni. In seguito, entro la fine dell’anno, arriveranno anche una variante ibrida plug-in e una con motore a tre cilindri.

E veniamo al capitolo prezzi. Molto difficile, vista l’iniezione di tecnologia proveniente dai segmenti superiori, che si mantenessero ai livelli del modello attuale, ovvero intorno ai 36 mila euro. Per avere la nuova Discovery Sport (la 150 Cv benzina) ce ne vorranno almeno 39 mila, che salgono tranquillamente se si decide di approfittare dei tanti optional previsti dalla casa inglese.

Davide, il re dei 400 metri: “Se inseguo, mi gaso di più”

Che il destino del campione gli si fosse appiccicato alla nascita già sul nome – anzi sul cognome –, Davide Re (appunto) ha iniziato a dimostrarlo sin da piccolo, quando dai 5 ai 10 anni partecipò a tutte le edizioni della Baby Marathon nella sua Imperia. “E vinsi tutti gli anni!”, prorompe fiero; fa una pausa… “no, ora che ci penso una volta arrivai secondo”, precisa in una smorfia di buffo corrucciamento, che scioglie in un sorriso i lineamenti seri del volto etrusco. Nel mondo dell’atletica, così si legge e si sente dire, lui è per i 400 metri quello che Filippo Tortu è per i 100: l’italiano più veloce di sempre. Davide Re (classe 1993) è, infatti, il primo azzurro ad averli corsi in meno di 45 secondi: il suo record è di 44,77 (realizzato il 30 giugno, al meeting di atletica a La Chaux–de–Fonds, in Svizzera) e grazie a esso si è già qualificato alle Olimpiadi di Tokyo, nel 2020.

A ben osservarlo, del quattrocentista Davide ha tutte le fattezze fisiche, anche se ha praticato pure lo sci agonistico fino ai sedici anni. È alto 1,83 m, ha gambe potenti e piede veloce e insieme leggero. “Sono un quattrocentista di resistenza, a dire il vero. Do il meglio di me negli ultimi cento”, precisa di nuovo. I commentatori alla Tv – che sanno bene quello che dicono – lodano la sua “ultima curva”, capace di recuperare posizioni a suon di falcate. Un esempio? Persino i non appassionati di atletica ma semplicemente i lettori curiosi, cercando su YouTube il video della staffetta 4×400 m maschile alla Coppa Europa di quest’anno a Bydgoszcz, potranno capire cosa significa. In quella gara, Davide è schierato all’ultimo tratto: riceve il testimone dal suo compagno per terzo, dietro l’atleta polacco e quello francese che si trova in testa.

All’ultima curva, cambia passo e alla svelta supera il polacco. Il francese Loïc Prévot sembra lontanissimo, destinato a vincere, ma Davide non molla, corre gli ultimi cinquanta metri con i pugni serrati e gli occhi chiusi, alla disperata: o tutto, o niente! “Nella generale contrazione di ogni muscolo, è un riflesso istintivo che non controllo. Lo faccio per cercare di dare tutto, per reclutare ogni minima fibra di ogni minimo muscolo che mi possa aiutare ad andare ancora più veloce”. Alla fine Davide vince l’oro a due decimi di secondo sul francese: “Se non sono già in testa io, mi gaso ancora di più a puntare l’avversario con sana cattiveria”, confessa con gli occhi accesi del cecchino, “mi diverte farmi attraversare dall’adrenalina del sorpasso”. Ma l’adrenalina ha anche un altro compito cruciale: placare il dolore. “Quello che frena molti corridori a sperimentarsi nei 400 è la paura per la sofferenza fisica”, spiega. “Funziona così: negli ultimi cento metri inizia a farti male tutto. Polpacci, piedi, cosce, caviglie”.

La resistenza a questo, sembra essere la prima qualità di uno che vuol correre. E se non si resiste? Semplice, “Va male!”. Quando capita che in una gara le cose non vadano per il verso giusto, e i giornalisti con strabiliante originalità gli chiedono cosa sia andato storto, lui confessa, ridendo: “In quel caso ho una risposta jolly (imposta la voce): Riguarderò il video con la mia allenatrice (Maria Chiara Milardi, ndr) per capire!”.

Dietro il riserbo e un’ironia tutta ligure, tuttavia, c’è un altro Re. Non è, dunque, soltanto l’atleta rigoroso che in quel di Rieti dove si allena, ritma alla perfezione la sua giornata tra sport e studio all’università, che bilancia ogni pasto (50/55% di carboidrati, 30% di proteine, 15% di grassi), e che nelle settimane precedenti a una gara importante allena il cervello, ripetendosi a mente il percorso per la gestione delle energie di ciascun passo. C’è anche il giovane uomo Davide che ha troppo rispetto per il suo talento e la buona sorte che esso costituisce per dilungarsi sul peso delle aspettative delle persone che ruotano attorno a un atleta (e sono molte), o per inanellare tutte le rinunce – la famiglia lontana, la vita controllata, il rapporto a distanza con la ragazza, lo speciale legame con la sorella gemella – imposte dalla carriera. Tutto affiora da una frase, solo all’apparenza anodina, che si lascia sfuggire: “Tutte le più grandi decisioni le prendo insieme a mio padre”.

Per concludere, mentre speriamo che Davide realizzi il suo e nostro sogno di essere il primo italiano a disputare una finale dei 400 metri ai mondiali di Doha (dal 27 settembre al 6 ottobre) o a Tokyo, sappiamo che in lui scorre non solo il sangue dei campioni ma anche la nobiltà degli eroi epici.

Snowden: “Perchè ho sacrificato la vita alla verità”

Prima di diventare un eroe dell’hacktivism, Edward Snowden era un patriota impegnato nella guerra contro il terrorismo dichiarata da George W. Bush. Per la prima volta, nella sua autobiografia “Memorie vive”, uscita il 19 settembre in Francia, l’ex analista della Nsa, spiega come ha scoperto le derive del governo americano e perché ha deciso di sacrificare il suo futuro per denunciarle. Contro di lui, il più famoso dei whisteblower – per aver rivelato i documenti confindenziali più importanti della storia degli Stati Uniti – le autorità americane, che perseguono una politica di tolleranza zero contro gli informatori, sono state spietate. Martedì scorso, mentre Snowden promuoveva il suo libro, la giustizia Usa ha aperto una procedura per violazione della clausola di riservatezza inclusa nel contratto che lo vincolava ai servizi segreti. La causa intentata dal tribunale federale di Alexandria, vicino a Washington, richiede il sequestro dei proventi generati dalla vendita del libro e dalle sue conferenze. “Non c’è migliore prova di autenticità: il governo che avvia una procedura contro di te dicendo che il libro è troppo realistico e quindi che scriverlo è contro la legge”, ha reagito su Twitter l’informatore dal suo esilio in Russia. Il libro non contiene nuove rivelazioni shock sui programmi ultrasegreti della Nsa. Rivela invece alcuni aneddoti sul funzionamento interno delle agenzie di intelligence Usa. Ma l’autobiografia è interessante per un altro motivo: ci fa conoscere meglio un giovane che niente sembrava destinare a diventare un eroe dell’hacktivism. “Mi chiamo Edward Snowden – il volume si apre così -. Prima lavoravo per il governo, oggi sono al servizio di tutti. Mi ci sono voluti 30 anni per capire la differenza, e quando l’ho colta, ho avuto qualche problemino in ufficio”. Nato nel 1983 a Elizabeth City, nella Carolina del Nord, Snowden è venuto al mondo patriota. Il padre è ingegnere della guardia costiera. I suoi antenati, dei quakers britannici, immigrarono nel Maryland nel XVII secolo. Un ramo della famiglia era talmente ricco da possedere una vasta proprietà, poi ceduta all’esercito per installarvi il Fort Meade, la sede della Nsa. La madre “è discendente diretta dei padri fondatori”, i primi americani arrivati nel 1620 per fondare la colonia di Plymouth, nel Massachusetts. Gli antenati di Snowden hanno patecipato a tutti i conflitti della storia americana, dalla guerra di indipendenza alla Seconda guerra mondiale: “La mia famiglia ha sempre risposto alla chiamata del dovere”.

Edward ha nove anni quando il padre viene trasferito nel quartier generale della guardia costiera e la famiglia si trasferisce a Crofton, nel Maryland. La madre trova un impiego presso “una compagnia assicurativa indipendente della Nsa” e trascorre gran parte del suo tempo a Fort Meade. In questo quartiere residenziale, in molti lavorano per l’esercito: “Nell’ambiente in cui sono cresciuto, nessuno parlava del suo lavoro. Spesso gli adulti non avevano il diritto di parlarne neanche in famiglia”. È il padre che lo inizia molto presto all’informatica e gli insegna le basi della programmazione. I videogiochi diventano una passione divorante. Il giovane Snowden è timido, riservato, trascorre la maggior parte del suo tempo libero a casa: “A scuola mi prendevano in giro perché portavo gli occhiali, non mi interessavo allo sport e parlavo con accento del sud”.

Snowden è un bambino prodigio, ha un QI di 140. Ma il suo percorso scolastico è caotico. A 15 anni lascia il liceo e si iscrive all’università, ma si laurea solo diversi anni dopo. Se la scuola non gli interessa, è anche perché appaga la sua sete di conoscenza su Internet. Come tutti, attraversa una crisi adolescenziale, che vive a modo suo: “Mi sono lanciato nella pirateria informatica, che, per quanto ne sappia, resta il modo più sano, ragionevole ed educativo per i giovani di rivendicare la propria autonomia e di rivolgersi agli adulti alla pari”. È solo nella sua auto quando il primo aereo dirottato da Al Qaeda si schianta contro una delle torri del World Trade Center. Il giovane, come gran parte del paese, precipita nella rabbia e nel desiderio di vendetta. Appoggia la decisione di George W. Bush di invadere l’Iraq in nome della “guerra contro il terrorismo”: “È il più grande rimpianto della mia vita”. Si arruola nell’esercito ma, durante un’esercitazione, si frattura la tibia e trova un altro modo per servire il paese: per aggirare le regole di bilancio, le agenzie d’intelligence americane ricorrono spesso a prestatori esterni che fungono da copertura. Ma per lavorare in questo tipo di strutture bisogna prendere un’abilitazione. E Snowden la ottiene con successo. Nello stesso periodo, su un sito di incontri, conosce Lindsay Mills: “La compagna e l’amore della mia vita”. Lavora allora presso la sede della Cia a Langley, in Virginia, dove trascorre notti intere a leggere rapporti classificati da tutto il mondo. A 24 anni, è inviato a Ginevra come responsabile della “gestione dell’assistenza tecnica delle operazioni della Cia”. Nel 2009, è in Giappone per integrare un servizio della Nsa, il Pacific Technical Center, con sede nella base aerea di Yokota, periferia ovest di Tokyo. All’epoca, anche se alcune informazioni cominciano a circolare nei media, Snowden non sospetta ancora che il suo paese stava portando avanti dei programmi di sorveglianza di massa in tutto il mondo. È anche il caso ad aprirgli gli occhi. Nel luglio 2009 viene reso pubblico un “Rapporto sul programma di sorveglianza del Presidente”. La versione diffusa però è stata svuotata dei contenuti sensibili. Qualche tempo dopo, una versione del rapporto, classificata “informazioni sottoposte a controllo straordinario”, arriva “per errore” sulla sua scrivania. “Solo alcune decine di persone in tutto il mondo erano autorizzate a leggerlo”, scrive. Il documento contiene “un resoconto dei programmi di sorveglianza più segreti della Nsa, la lista delle sue direttive e la presentazione della linea strategica adottata dal ministero della Giustizia per eludere la legge e violare la Costituzione Usa”, ricorda. “Dopo aver letto quel rapporto”, Snowden trascorre “settimane, forse mesi, come in trance”.

Nel 2011, torna negli Usa e inizia a lavorare per la Cia. Ma sta male, comincia ad avere delle crisi di epilessia. Nel 2012, viene inviato alle Hawaii, a Tunnel, una base della Nsa installata in una ex fabbrica aeronautica “nascosta in un campo di ananas”. È responsabile della gestione di Sharepoint, un programma di gestione interna dei documenti di Microsoft. Questo posto gli dà accesso a molte informazioni e decide di “indagare”: “Volevo sapere se il mio paese aveva messo in atto un sistema di sorveglianza di massa e, se sì, come”. Gli viene un’idea audace: sviluppa un software di nome Heartbeat, un sistema di centralizzazione dei diversi canali d’informazione della Nsa. “La quantità di informazioni che poteva aspirare era mostruosa: ha succhiato documenti da tutti i siti interni, gli aggiornamenti degli ultimi progetti di ricerca crittografica, i verbali delle riunioni del Consiglio di sicurezza nazionale – spiega -. Quasi tutti i documenti che ho poi divulgato sono stati recuperati grazie a Heartbeat”. I suoi timori si confermano: il suo Paese ha messo su, con l’aiuto dei suoi alleati, un sistema di monitoraggio di massa delle comunicazioni a livello globale. Decide che queste informazioni devono essere pubblicate e si mette alla ricerca di giornalisti che hanno già lavorato su questioni di sicurezza nazionale. Trova Laura Poitras, documentarista che lavora sulla politica estera degli Usa dall’11 settembre, e Glenn Greenwald, militante per i diritti civili e reporter al The Guardian. Prepara il trasferimento dei documenti raccolti via Heartbeat. Pur conoscendo i sistemi di sorveglianza della Nsa, vuole sapere come vengono applicati nella pratica e cosa l’agenzia riesce a sapere. “Il programma che rende possibile questo accesso è Xkeyscore. Una sorta di Google che, invece di mostrare pagine pubbliche, propone i risultati trovati nelle tue e-mail, chat, file privati”. Alle Hawaii, l’unico accesso a Xkeyscore si trova al National Threat Operations Center (Ntoc), il centro delle operazioni per la lotta contro le minacce nazionali. Risponde allora a un annuncio per lavorare come “analista alle infrastrutture” presso una società in subappalto, la “Booz Allen Hamilton”. Qui può accedere a Xkeyscore. Sarebbe stato possibile persino fare una ricerca con il nome del presidente. Dice di non averlo fatto ma “tutte le comunicazioni erano nel sistema”.

Ora che ha le prove, prepara la sua fuga. Svuota i suoi conti bancari, nasconde i contanti prelevati e formatta i suoi computer. Sceglie Hong Kong per incontrare la stampa. “In partenza per lavoro. Ti amo”, annota su un biglietto per Lindsay. A Hong Kong, però, i giornalisti non ci sono. Laura Poitras ha accettato l’incontro, ma vuole prima convincere Glenn Greenwald ad accompagnarla. Per dieci giorni, Snowden resta chiuso in albergo. I giornalisti arrivano il 2 giugno. Con loro c’è anche Ewen MacAskill del Guardian. Il resto della storia è noto. Il 5 giugno, il quotidiano britannico pubblica il primo articolo con i dettagli dei documenti di Snowden. Il 9 giugno, diffonde il video in cui spiega i motivi del suo gesto. Da quel giorno Snowden diventa un “bersaglio mobile”. Il 14 giugno, giorno del suo 30esimo compleanno, il governo Usa lo accusa di violazione dell’Espionage Act. Intorno a lui si forma un gruppo di attivisti, giornalisti, avvocati. “È a questo punto che entra in scena Sarah Harrison, giornalista ed editrice a WikiLeaks”. La sua esperienza in materia di esilio, accumulata con Julian Assange, bloccato all’ambasciata ecuadoriana a Londra, è preziosa. Parte il piano per raggiungere l’Ecuador, passando per la Russia e Cuba. Ma ​​a Mosca, Snowden e Sarah Harrison vengono accolti da un agente dell’Fsb, gli 007 russi, che lo informa che il suo passaporto è stato annullato dagli Usa. I due trascorrono 40 giorni in aeroporto. Chiedono l’asilo a 27 paesi, invano. Il primo agosto laRussia gli concede un asilo temporaneo che da allora viene rinnovato.

Ora Snowden vive in un due stanze a Mosca, dove Lindsay Mills lo ha raggiunto tre anni fa. Si sono sposati. La vita di Snowden è quasi normale. Il gioco è valsa la candela? È certo che, da allora, in tutto il mondo, sono nati dibattiti sulle questioni legate alla privacy, alla sorveglianza e alla sicurezza informatica. Negli Usa, “le rivelazioni del 2013 hanno incendiato il Congresso e le Camere hanno creato diverse commissioni d’inchiesta per far luce sugli abusi della Nsa”. Lavori sfociati nell’Usa Freedom Act del 2015 che rivede delle disposizioni del Patriot Act. In Europa è stato adottato il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (Rgpd). Le aziende del web, colte in flagrante delitto di collaborazione con l’intelligence, hanno modificato le loro pratiche e gli strumenti di crittografia per il pubblico si sono moltiplicati. Ciò non significa che la battaglia è vinta. Lo stoccaggio dei dati personali è esploso. Per far fronte alle nuove minacce, Snowden conta sulla “nuova generazione”: “Nata dopo l’11 settembre, essa ha vissuto con lo spettro della sorveglianza. Questi giovani, che non hanno conosciuto altri mondi, ne stanno immaginando uno, ed è la loro creatività politica e il loro ingegno tecnologico che mi danno speranza”.

(traduzione Luana De Micco)

Quelli che disprezzano Woody Allen

“Ma com’è possibile Filippo che tu questa frase non la capisca?” – “Che ti devo dire a me Woody Allen non piace!” – “No, è inaccettabile. Te lo ripeto, la frase è questa: ho smesso di fumare, vivrò una settimana in più e in quella settimana pioverà moltissimo” – “Ma che c’entra smettere di fumare con la pioggia?” – “ È lì la comicità, uno fa uno sforzo enorme per smettere di fumare, campa una settimana di più e in quella settimana piove sempre” – “Che tristezza!” – “Ma è una battuta surreale! Woody Allen ha sempre fatto la parte dello sfigato. I perdenti fanno ridere, i vincenti no” – “Ah, non sapevo che i vincenti non facessero ridere. Capisco, ma che c’entra la pioggia col fumo?” – “Vabbè, proviamo ancora: non solo Dio non esiste, ma prova a trovare un idraulico il sabato sera… ah ah ah questa l’hai capita?” – “Ma perché ridi? Non l’ho capita. Che c’entra Dio con l’idraulico?” – “Oddio, non è possibile! Riproviamo: ho sempre avuto un gran desiderio di tornare nell’utero… di chiunque” – “E questa poi, una volta che un bambino è uscito dall’utero materno, è nato e basta!” – “Ma allora tu non capisci proprio niente! Dimmi, di cosa ridi tu?” – “Paperissima” – “Lo sospettavo. La comicità di Woody Allen nasce sempre da una situazione normale, rovesciata. Per esempio fa dire a un gangster degli anni trenta questa battuta: portavo sempre una pallottola nel taschino all’altezza del cuore, un giorno qualcuno mi ha tirato contro una bibbia e la pallottola mi ha salvato la vita” – “Le bibbie non si tirano, si leggono!” – “Vediamo se riesco a farti ridere, sai qual è il colmo per un falegname? Portare a teatro la moglie… scollata” – “Ah ah ah, ecco questa mi fa ridere” – “Non avevo dubbi, certo che ti fa ridere, perché non è di Woody Allen è una vecchia battuta di avanspettacolo”.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Lettera 22: bellezza e design by Olivetti, fabbrica italiana

È allo stesso tempo naturale e paradossale incontrare un libro come Piccoli tasti, grandi firme, l’epoca d’oro del giornalismo italiano (1950-1990) a cura di Luigi Mascheroni, La Nave di Teseo Editore. È naturale, perchè qualcuno, dotato di memoria e cultura doveva prima o poi ricordarsi di una piccola e splendida macchina per scrivere italiana che ha fatto la sua comparsa, quasi nello stesso tempo, nei bellissimi negozi Olivetti in cui si vendeva nel mondo e al Museum of Modern Art di New York, che ne ha immediatamente riconosciuto la qualità del disegno; e l’ingresso del disegno d’autore in oggetti di poco costo che fino a quel momento erano rimasti esenti dalla bellezza e anzi (vedi tutte le altre macchine da scrivere del mondo) coltivava una certa bruttezza del prodotto meccanico di consumo, in quanto “macchina” che non ha nulla a che fare con il nobile servizio, che è scrivere. Ma è paradossale, perché l’autore del libro, che è anche il curatore di una mostra sulla “Lettera 22” (Ivrea, Museo Civico, fino al 31 dicembre) e dunque l’autore del catalogo, ha genialmente trovato un percorso per attraversare il mondo della rete, dell’informatica, del trojan “e della identificazione totale degli utenti”, badando a restare nello spazio e nel tempo di quella macchina, che è stata lo strumento di lavoro, per tre decenni, di un numero grandissimo di persone, tra cui quegli scrittori e giornalisti del mondo che ancora ricordiamo con l’attenzione di allora.

Qualche lettore avrà notato che, nelle righe che precedono, ho scritto “macchina per scrivere”. E non “da scrivere”. Lo faccio perché così chiamava il suo prodotto Adriano Olivetti, e così voleva che facessimo noi, che lavoravamo con lui in quella che allora era la fabbrica (lui usava sempre questa parola, non “impresa” o “azienda”) più bella del mondo. E quando mi è stato chiesto di continuare il mio lavoro negli Stati Uniti, dove Olivetti aveva comprato un grande complesso industriale, la sorpresa è stata di trovare la Lettera 22 esposta, sulla Fifth Avenue di Manhattan, nel modo più originale a cui si possa pensare. Non nel negozio Olivetti ma fuori, sul marciapiede della celebre strada. La piccola e ormai celebre Lettera 22 era appoggiata su un piano di metallo sostenuto da una colonna. La macchina aveva sempre carta bianca nel rotolo in modo che i passanti (che si mettevano in fila ) potessero scrivere una frase. Anche quella straordinaria trovata espositiva è diventata una fotografia celebre e una immagine da museo. Chi leggerà il bel libro–catalogo di Mascheroni noterà che l’autore ha dedicato molta attenzione (era giusto e importante) ai celebri personaggi che in foto famose sono ritratti accanto al piccolo prodigio Olivetti. Io mi sono soffermato di più sulla macchina, perché la prima cosa che mi è stata chiesta, quando ho cominciato a lavorare a Ivrea, è stato di imparare a fabbricarla. “Non si può dirigere il lavoro degli altri se non si sa che cosa fanno”, era la prima cosa che ti diceva Adriano Olivetti. Per questo la Lettera 22, il libro e la mostra sono molto di più di uno sguardo benevolo a un momento importante del passato italiano.

“Memorie di Adriano”: rinasce a teatro il capolavoro di Marguerite Yourcenar

Già a guardarselo l’Olimpico di Vicenza di Andrea Palladio, il più antico dei teatri coperti in tutto il mondo, è un urto al sangue. A restarsene seduti lì, poi, per farsi attraversare nelle carni da Pino Micol è come far l’amore in tutte le maniere e i modi propri degli Dei. Micol sta dettando le parole di Marguerite Yourcenar – Memorie di Adriano, Frammenti, regia di Maurizio Scaparro – il buio di un istante decide il sipario e il pubblico si leva in piedi per un applauso che non finisce mai. È tutto un battimani fatto di bravo–bravo! a significare ancora–ancora come quando da un amplesso assoluto se ne vuole ancora e sempre di più.

Un privilegio la prima all’Olimpico, giovedì scorso, di uno spettacolo che rinnova in ogni esecuzione la perfezione del capolavoro di Yourcenar; un testo collaudato da Giorgio Albertazzi – fu il blasone della sua grandezza – e che oggi, con la regia di Scaparro, trova nella phoné di Micol la completezza panica che lo rende ancor più che repertorio, bensì rito. C’è la re–ligio in questo testo, ovvero l’essenza del legarsi in una catena di strazianti armonie, non ultima quella dell’estremo passo – entriamo nella morte con gli occhi aperti – e poi anche la sostanza della bellezza. Ed è quel numinoso patto che assegna a ognuno, tra gli individui chiamati dal destino, la responsabilità di farsene custodi del bello. E c’è, infine, tutto quello che il mondo tornerà ad avere: l’iniziazione al mistero di Mithra, la divinità solare che mai riposa.

Mithra è il dio nascosto di tutti i templi. È persiano, indiano, ellenistico e romano, dunque universale. È il Grande Re che Adriano, l’imperatore delle armate di Roma, incontra per tramite dei suoi soldati. L’imperatore Adriano – nella compiutezza di Shab–e Yalda, il solstizio nelle nevi di Persia – riconosce Mithra in un’orgia di tauromachia. Il sacro Toro è colpito al collo dall’officiante presso l’ara. I serpenti suggono il sangue che sgorga dalla ferita dell’animale, uno scorpione ne rosicchia i testicoli, e così il Dio nascosto assume su di sé il cosmo per farne ordine, alleanza e benefica alba dell’eterno. E del vero. Non c’è verità che non susciti scandalo. Solo per un inciampo – un capriccio della caducità – il mondo è diventato cristiano e non, come stava per decretare Roma imperiale, devoto a Mithra per come reclamavano le armate dei Cesari nel I e II secolo d.C.

Adriano, a Tivoli, scrive una lettera a Marc’Aurelio, il suo successore. Nessun imperatore può caricarsi il peso della storia sotto lo sguardo del proprio medico ma nel rito che Micol officiava giovedì scorso – ieri sera l’ultima replica – il tempo fuori dal teatro cedeva il passo al sontuoso scandalo consumato all’interno del colonnato: tutto ciò che d’importante è stato proclamato nella storia è stato detto in greco. I barbari che hanno poi lordato il nitore della parola di luce – il logos – inevitabilmente dovranno assomigliare ai nostri padri se vorranno accostarsi alla grandezza.

Un vero e proprio evento, le Memorie d’Adriano. Micol che è stato il migliore dei Cyrano, strepitoso nell’allestimento de La Visita della Vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt, nelle mani di Scaparro – chiamati entrambi dal direttore dell’Olimpico, Giancarlo Marinelli, un genio – ha dato il meglio di sé al punto che la Yourcenar, richiamata tra i mortali, giovedì sera era seduta lì, in tribuna, col pubblico che non la finiva più di sfinirsi in applausi.

Bibbiano, effetti collaterali: “La ‘nostra’ bimba in affido adesso tornerà nel degrado”

Gentile Selvaggia, da una parte le mamme esaltate che salgono sul palco di Pontida con le figlie accanto, dall’altra le inchieste che svelano – per fortuna – lo sporco. I genitori accusati ingiustamente, gli psicologi a processo, il sistema degli affidi che forse diventerà migliore. E poi ci siamo noi, un effetto collaterale di Bibbiano, che tutti ignorano. Noi che paghiamo per gli errori di altri e per l’attuale terrore di chi gestisce gli affidi di trovarsi accusato di essere complice dei cattivi psicologi. Questa è la nostra storia, mia e di mio marito: siamo stati contattati a metà gennaio dal centro affidi della nostra città per sondare la nostra disponibilità ad accogliere una bimba di 2 mesi e mezzo che dalla nascita era in ospedale. Era nata prematura ma stava bene; non poteva più restare nel reparto di TIN (terapia intensiva neonatale) per il rischio di contrarre infezioni. Ma soprattutto, la piccola era in una fase della vita in cui lo sviluppo dell’attaccamento è fondamentale. Ci hanno spiegato che era una situazione urgente in quanto la sua mamma era andata via lasciandola lì. I servizi sociali ci hanno raccontato dettagliatamente la sua storia: la bambina è nata con tracce di cocaina e metadone perché la sua mamma è una tossicodipendente da decenni; la piccola Sara alla nascita ha avuto delle crisi di astinenza ma non abbastanza forti da doverle somministrare una terapia, sono state sufficienti le cure amorevoli delle infermiere. La sua mamma dopo tre giorni dal parto è andata via dall’ospedale senza riconoscerla, è stata contattata più volte senza risposta: vani i tentativi di cercarla al Sert e dai suoi genitori. Alla fine la bambina è stata da lei riconosciuta dopo 17 giorni dalla nascita, quindi fuori dai termini legali. Dei parenti fino al quarto grado, nessuno se ne voleva occupare. Era urgente trovare una soluzione per lei e la procura (con i servizi sociali) hanno agito subito con la L. 403; dopo due mesi e mezzo in cui il tribunale per i minori non si è pronunciato in alcun modo. Noi abbiamo dato la nostra disponibilità, abbiamo avuto tre giorni per organizzarci, siamo stati nella sua città per conoscerla e avere tutte le informazioni necessarie per prenderci al meglio cura di lei. È stata con noi un mese, bellissimo. Poi improvvisamente sono arrivati due decreti da parte del tribunale, in cui i giudici bocciavano il procedimento d’urgenza, poiché la bambina stava in un luogo sicuro (l’ospedale) e avrebbe potuto continuare a stare lì. Si disponeva l’immediato trasferimento dai nonni materni che nel frattempo avevano cambiato idea. Per noi è stata una doccia fredda: eravamo consapevoli che si trattasse di un affido ma non pensavamo così breve. Siamo stati investiti da un forte dolore per la sua perdita, ma soprattutto da un’immensa preoccupazione, in virtù della situazione in cui versava la famiglia d’origine. I nonni non si sono mai interessati a lei, non sono mai andati a trovarla in ospedale adducendo come motivazione il fatto di non avere l’autorizzazione da parte della figlia e di rischiare una denuncia da quest’ultima; la nonna ha anche aggiunto che in quel periodo si trovava impossibilitata perché doveva occuparsi della madre che era ricoverata. I nonni hanno già cresciuto un’altra nipote, sorella di Sara, che oggi ha 18 anni e vive con loro. Questa ragazzina poco tempo fa era incinta e ha perso il bambino che portava in grembo al quinto mese: esperienza devastante, un lutto da superare. I servizi ci dicono di esserne a conoscenza, che purtroppo non si sapeva nemmeno chi fosse il padre. La ragazzina fa uso di sostanze, non è un segreto visto che lo espone sui social. Probabilmente è il motivo per cui ha avuto l’aborto. Nel decreto è stata sottolineata come positiva la sua presenza in casa in quanto la sua giovane età e la sua capacità affettiva rappresenta una risorsa per i nonni nell’accudimento della sorellina. Forse ho dimenticato un’infinità di dettagli ma non importa: volevo solo esprime il mio rammarico verso chi prende decisioni affrettate senza valutare a fondo le situazioni familiari che potrebbero compromettere una piccola vita. Tale decisione – mi è stato spiegato con chiari giri di parole da addetti ai lavori coinvolti in questo caso – è stata presa perché si è temuta un’esposizione mediatica a seguito delle terribili vicende di Bibbiano. Un giudice onorario mi ha detto: “Non vi ha insegnato niente Bibbiano”? Ecco, questo fa male. Sapere che dei professionisti non abbiano neanche un pizzico di buon senso e in questo periodo storico non si prendano delle responsabilità per paura, per me è aberrante. Spostare una bimba in un contesto ancora da valutare e magari da supportare: un luogo, forse, pericoloso per via delle incursioni della mamma che fa uso conclamato di sostanze; un padre che non l’ha riconosciuta perché aveva una gamba ingessata e non si è potuto recare all’anagrafe per registrare la sua nascita (un pluripregiudicato peraltro); una ragazzina adolescente che ha bisogno lei stessa di aiuto, altri due fratellini affidati ad un altro padre. Questo è un contesto in cui far crescere una bambina? Scusa lo sfogo, ma il dolore è tanto. E nessuno parla di questo: della paura, dopo Bibbiano.

G

 

Cara G., gli effetti diretti e collaterali del sistema Foti sono drammatici e probabilmente si smaltiranno negli anni. Su questo (la paura dei giudici di essere additati come complici del sistema Bibbiano) non avevo ancora riflettuto. Grazie.

 

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De Bortoli va dal Goi e chiarisce “l’odore stantio di massoneria”

Galeotto fu l’Equinozio d’Autunno e soprattutto la festa per il Venti Settembre della Breccia di Porta Pia, nel 1870. E così venerdì scorso Ferruccio de Bortoli è stato uno degli ospiti d’onore – insieme con Luciano Violante e Maria Latella – del Grande Oriente d’Italia, la maggiore obbedienza massonica del nostro Paese, guidata dal senese Stefano Bisi.

L’evento si è tenuto al Vascello, sul Gianicolo, sede nazionale del Goi (una volta era Palazzo Giustiniani, oggi del Senato), laddove Giuseppe Garibaldi difese invano la Repubblica romana e mazziniana dai francesi e dal Papa. Ma torniano ai giorni nostri. Molti ricorderanno che un lustro fa, nel 2014, l’allora direttore del Corriere della Sera percepì “uno stantìo odore di massoneria” attorno al Patto del Nazareno tra il Pregiudicato Silvio Berlusconi e lo Spregiudicato Matteo Renzi.

Il riferimento implicito debortoliano era anche per lo sherpa dell’accordo, il renzusconiano Denis Verdini, toscano come Renzi e assillato da notevoli guai giudiziari, tra inchieste, processi e condanne. L’allusione dell’autorevole giornalista scatenò voci e sospetti e lo stesso Bisi smentì in un’intervista al Fatto l’appartenenza all’obbedienza del Goi, intervista che da allora fece bella mostra di sé, incorniciata, sulla scrivania verdiniana. Dunque, il 20 settembre de Bortoli ha debuttato sul presunto luogo del delitto e ovviamente ha chiarito il senso delle sue parole: “Sono stato rimproverato a lungo in questi anni per questa frase. Ma la mia era semplicemente –ha spiegato ringraziando il Grande Oriente per l’invito alla manifestazione e riconoscendo i meriti storici della Libera Muratoria – una ricerca di trasparenza, nel momento in cui si parlava, con il Patto del Nazareno che aveva ovviamente una via toscana di un certo tipo, anche del rifacimento della Costituzione”.

A modo suo, con quel “via toscana di un certo tipo”, l’ex direttore del Corsera rivendica ancora quella denuncia. E se il Goi non c’entra nulla, come ormai assodato, la nebbia di sospetti su quel Patto e anche sulla vicenda di Banca Etruria, nella terra del metodo deviato di Licio Gelli, imitato varie volte nella Seconda Repubblica (si pensi alla P3 e alla P4) non si è dissolta.