Il 19 settembre Giancarlo Siani avrebbe compiuto sessant’anni. I lettori di questa rubrica sanno chi è, il giornalista napoletano ucciso il 23 settembre 1985 dalla camorra che voleva farsi Cosa Nostra. Giancarlo, giornalista precario de Il Mattino, appassionato del suo lavoro fino a non considerare i rischi che correva, ad un certo punto decise di raccontare la camorra. Infranse “regole”, scrisse quello che vedeva e sapeva, mise insieme i fatti e li analizzò, il tutto per poche lire e spinto da un dogma: il lettore ha il diritto di sapere la verità. Sempre. Nei giorni scorsi, il fratello Paolo gli ha scritto una bella lettera di auguri, uno straziante “mi manchi”, un grido di dolore individuale che è subito diventato collettivo e sociale. “Questo fa la camorra, impoverisce la società, porta via affetti, competenze, sottrae capitale umano. Distrugge la vita”, ha scritto. Giancarlo Siani, sicuramente sarebbe diventato un giornalista professionista e contrattualizzato. Forse avrebbe continuato la carriera nel suo giornale, o forse avrebbe seguito altre strade professionali. Crescendo avrebbe visto mutare la realtà. Il Mattino non è più quello degli anni Ottanta, grande quotidiano del Sud, sempre di tendenza filogovernativa e democristiana, ma capace di coltivare e preservare professionalità indipendenti. I giovani giornalisti ventenni che hanno raccolto il suo testimone, sono precari a vita, pagati a pezzo, sfruttati con partita Iva. Querelati e minacciati, non hanno copertura. Sono soli, proprio come era Giancarlo. Anche la camorra è cambiata, aspirava ad essere Cosa Nostra ed è invece diventata un’accozzaglia di gangster. Con piccoli boss che vestono e si muovono imitando i narcos messicani, e che sparano. Come e più di prima. Allora, se davvero vogliamo fare a Giancarlo gli auguri per i suoi mai vissuti sessant’anni, raccogliamo l’appello di un altro giornalista, Sandro Ruotolo, “disarmiamo Napoli, una pistola in meno, una vita in più”.
Come nel ’68, la protesta verde: settimana calda e sciopero globale
Caro Enrico, la prima manifestazione alla quale partecipai era contro l’inquinamento e l’assalto del cemento. Mobilitava studenti, figli dei fiori, la sinistra meno trinariciuta. Avevo quindici anni ed era prima del ’68. Da allora, non è cambiato nulla. Eccoci di nuovo in piazza per batterci contro il cambiamento climatico, provocato dall’inquinamento e dallo sfruttamento oltraggioso del pianeta. La differenza è che c’è Greta, la Giovanna d’Arco dello sciopero per il clima. E internet a farle da tam tam globale. La protesta è spalmata lungo la settimana iniziata venerdì 20, si concluderà sabato prossimo. Scorro il calendario di questa Climate Action Week. Nella fattispecie, le iniziative promosse da Fridays For Future Milano: esordio con presidio in piazza della Scala, più l’evento Medicine for Future (promozione dello yoga e di una adeguata nutrizione che salvaguardi l’ambiente). Hai notato? Tutto in inglese. Al Cazzaro Verde di “prima gli italiani” (ma ho visto a Pontida anche lo striscione “prima i comaschi”) gli sarà venuta l’orticaria per questo movimento globale che tanto coinvolge i giovani. Ieri, per esempio, è andato in scena Bike strike for the Future. Tradotto terra terra, una sana biciclettata per le strade meneghine in concomitanza col World Car Free Day, il giorno senza auto. Oggi mi riprometto di osservare scrupolosamente il No Meat Day, la giornata senza carne, sempre per salvare la sfessata Terra. Giovedì 26, vigilia del fatidico sciopero globale per il clima, ritorno alla Scala: in programma il flash mob catastrofico Milano Beach 2030, l’innalzamento dei mari porterà la spiaggia a Milano? Magari… E tuttavia, nessun accenno ad un altro pernicioso innalzamento. Quello edilizio: continua imperterrito a soffocare Milano. Nel 2018 il cemento ha divorato in città 11 ettari (a Roma 75). Il grande dibattito che divide Milano è The future of San Siro. Milan e Inter progettano uno stadio circondato da due grattacieli (uno di 143 metri) con hotel, uffici, centro commerciale, spazi per spettacoli, ristoranti. Ah sì, anche un po’ di verde.
Champions: più spendi più soffri
Se fosse un film e dovessimo dargli un titolo, dopo I quattro dell’Ave Maria con Bud Spencer e Terence Hill sceglieremmo I tre della Coppa con le Orecchie con Pep Guardiola, Kylian Mbappé e Andrea Agnelli: come si usa dire, prossimamente su questi schermi, anche se la prima a dire il vero c’è appena stata. Per chi non l’avesse capito, stiamo parlando dei desperados della Champions League: e cioè di quei club disposti a qualsiasi follia finanziaria pur di arrivare a mettere le mani sul più ambito trofeo continentale, i club che più spendono, più soffrono ma ogni anno ripartono da capo invariabilmente a mani vuote. Uno lo conosciamo bene, è la Juventus. Ma fuori confine ce ne sono due che in fatto di psicosi–Champions non scherzano: Manchester City e Paris Saint Germain. Non ci credete? Seguiteci nel ragionamento.
In un recente studio il CIES, l’osservatorio del calcio europeo con sede a Neuchatel, ha stilato, bilanci dei club alla mano, una serie di graduatorie di grande interesse. La prima è la classifica, che di seguito riportiamo, dei club che negli ultimi 10 anni hanno speso di più sul mercato. 1. Manchester City 1638 milioni, 2. Barcellona 1525, 3. Chelsea 1428, 4. PSG 1392, 5. Juventus 1272, 6. Manchester United 1265, 7. Real Madrid 1236, 8. Atletico Madrid 1110, 9. Liverpool 1075, 10. Inter 968. Su chi abbia investito meglio i propri soldi, parla l’Albo d’Oro. Negli ultimi 10 anni il Real Madrid ha vinto la Champions 4 volte, il Barcellona 2, l’Inter, il Chelsea, il Bayern e il Liverpool una. Considerando che tra i cinque club rimasti a bocca asciutta, due si sono consolati vincendo almeno l’Europa League (l’Atletico Madrid 3 volte e il Manchester United una), nel club dei più spendaccioni quelli rimasti a secco sono alla fine tre: Manchester City, PSG e Juventus, e cioè il primo, il quarto e il quinto per quantità di soldi spesi sul mercato nell’ultimo decennio.
Ma visto che una nuova Champions è appena cominciata, il CIES ha stilato, cifre ufficiali alla mano, anche una seconda classifica: quella dei soldi spesi per assemblare le rose di oggi, le rose che da agosto hanno iniziato a darsi battaglia in patria e fuori. Ebbene, anche questa graduatoria dimostra come i tre desperados, per l’appunto City, PSG e Juve, stiano toccando picchi di disperazione inauditi se è vero che sono i club ad aver assemblato rispettivamente la prima, la seconda e la quinta rosa più dispendiose dell’intero universo. La top ten recita: 1. M. City 1014 milioni, 2. PSG 913, 3. Real Madrid 902, 4. M. United 751, 5. Juventus 719, 6. Barcellona 697, 7. Liverpool 639, 8. Chelsea 561, 9. A. Madrid 550, 10. Arsenal 498.
Domanda da un milione di dollari: riusciranno i nostri eroi a sottrarsi all’incantesimo e a mettere le mani, dopo tanto spendere e tanto penare, sul trofeo tanto agognato? E chi sarà il primo a estrarre la Colt e a freddare i rivali, sempre che non arrivi prima il Pat Garrett della situazione, Messi, Salah o Lewandowski fate voi, e cioè lo sceriffo capace di spedirli, come da copione, tutti e tre al creatore? Una cosa è certa: per Pep Guardiola, al soldo del principe arabo Mansur bin Zayd, per Kylian Mbappè, al soldo dello sceicco qatariota Nasser Al-Khelaïfi e per Andrea Agnelli, al soldo del cugino John Elkann (leggi Exor), il ratto della Champions è ormai un atto improcrastinabile. Wanted. Dead or alive.
La sinistra modello Warren ha tutto quel che manca al Pd
Troppo impegnato a costruire il governo Conte 2 e a gestire la scissione di Matteo Renzi, il centrosinistra italiano non si è ancora accorto di un nuovo fenomeno politico: Elizabeth Warren. Di solito il Pd e i suoi intellettuali di riferimento si innamorano dei leader stranieri quando questi vincono: c’è stata la fase Tony Blair, una dimenticata fase Hollande, la fugace stagione macroniana, la ancora più rapida moda Sanchez. Che Elizabeth Warren vinca o perda le primarie del Partito democratico americano e poi forse le presidenziali 2020, ha comunque già dimostrato che c’è vita a sinistra e offre una serie di risposte alla grande domanda che affligge da un paio di anni il Pd: come si risponde alla sfida populista e sovranista delle nuove destre?
Il partito Democratico americano ha ancora almeno dieci candidati in corsa, che offrono più o meno tutto il ventaglio delle alternative possibili a Trump. I nomi di prima fila, stando ai sondaggi, sono però ormai soltanto tre: Joe Biden rappresenta la tradizione (uomo, bianco, modeato, senatore dal 1972, ex vice di Barack Obama). Bernie Sanders, il candidato “socialista”, arcigno censore dei mali della sinistra quanto di quelli della destra, è stato il catalizzatore di quella corrente radicale che ha salvato i Democratici dalla paralisi ma nessuno lo considera capace di battere Trump, gli elettori di centro lo snobbano. E poi c’è Elizabeth Warren: fino a un paio di settimane fa la senatrice del Massachusetts, 70 anni, era ancora oscurata da Biden, che non piace davvero a nembre essuno ma ha l’etichetta dell’unico che può forse battere Trump. Il dibattito tv del 12 settembre ha cambiato qualcosa: Sanders è stato il solito Sanders, perfetto a modo suo ma non presidenziale, Joe Biden sembra sempre più anziano (ha 76 anni) e non ha detto niente di memorabile, tolto il solito ricordo commosso del figlio Beau morto di tumore nel 2015. Elizabeth Warren non ha azzannato Biden, ma ha usato bene lo spazio finale in cui ogni candidato doveva raccontare come si era rialzato dopo una sconfitta: i suoi difficili inizi da figlia di una classe media lontana dal “sogno americano”, il suo lavoro di insegnante, perso dopo la prima gravidanza, e poi il desiderio di riscatto, l’opportunità di frequentare l’università a Huston, dove si era trasferita col marito, la carriera accademica in provincia fino ad arrivare ad Harvard, e poi alla politica. Quel dibattito ha cambiato qualcosa. É scattata la scintilla, nei sondaggi il divario con Biden inizia a ridursi a poco più di dieci punti.
La Warren non è più soltanto la professoressa esperta di diritto fallimentare che su qualunque tema assicura “Ho un piano” (e ce l’ha davvero). L’onda lenta ma costante di entusiasmo che l’accompagna verso la sfida diretta a Joe Biden si alimenta di una serie di elementi che il centro sinistra italiano dovrebbe studiare con attenzione. Intanto ha davvero un piano, ed è un piano radicale che non si fonda sulla solita ricetta più deficit-più spesa. Vuole smantellare i giganti del digitale tipo Google e Facebook a colpi di antitrust, per riporarte il mercato dove ora ci sono monopoli, il suo pubblico scandisce lo slogan “due per cento”, l’aliquota della tassa sulla ricchezza che vuole applicare ai patrimoni sopra i 50 milioni, poi vuole cancellare i debiti accumulati dagli studenti per pagarsi l’università (una bomba sociale e finanziaria) e garantire una sanità più universale e sostenibile. Perfino in politica estera ha le idee chiare. Quando nel dibattito tv le hanno chiesto se riporerà subito a casa i soldati americani dall’Afghanistan è stata netta: “Sì, perché ho chiesto a tutti i generali con cui ho interloquito come si definisce la vittoria in Afghanistan e nessuno ha saputo rispondere”. La Warren ha quel programma che il Pd continua a rimandare a quella “costituente delle idee” che il segretario Nicola Zingaretti promette da febbraio.
La Warren ha poi sviluppato un populismo gentile che usa gli stessi strumenti del nemico, ma con stile diverso. Come Matteo Salvini cerca il contatto diretto con i sostenitori, si concede a tutti per un selfie, parla e ascolta. Il selfie con la Warren sta diventando un fenomeno social: invece di correre da un evento all’altro, la Warren si ferma anche due o tre ore dopo ogni comizio. Saranno poi i sostenitori, gratificati da tanta attenzione, a diffondere il verbo e le immagini su Facebook e Instagram e a moltiplicare così l’impatto.
Il suo populismo è genitle, ma radicale. E non lascia alibi agli avversari. Perché lei è più netta di tutti: in un Paese dove promettere più tasse e più spesa pubblica condanna alla sconfitta, la Warren ha recuperato una antica tradizione populista americana che vuole restituire potere e benessere alla classe media non con bonus e regalie ma attaccando i monopolistiche non sono più i signori delle ferrovie o dell’acciaio, come ai tempi dei Rockefeller e dei Mellon. Tutto in America oggi è paralizzato dalla eccessiva concentrazione in poche mani di interi settori: dalla grande distribuzione alla telefonia ai farmaci agli ospedali fino, ovviamente, a Google e Facebook. Donald Trump si è agitato molto, ma contro questi veri poteri non ha mosso un dito.
É presto per dire se tutto questo porterà Elizabeth Warren alla Casa Bianca nel 2020, di sicuro dimostra che a sinistra c’è vita e ci sono idee nuove. Almeno negli Stati Uniti.
Papilloma virus: i rischi del test fai–da–te
Hpv test fai da te? Rivoluzionario sì, ma non conviene. Il monito arriva da Gianni Amunni, direttore di Ispro, la rete oncologica toscana. I motivi sono semplici. Il nuovo test per la diagnosi del Papilloma virus, disponibile in farmacia per eseguirlo in autonomia a casa, inventato da due ex allievi della Normale di Pisa, fa notare l’oncologo, implica un rischio: l’uscita delle donne dal percorso di sanità pubblica, sicuro e controllato, in cui la paziente viene guidata e assistita da un medico esperto. Il nostro Servizio sanitario nazionale garantisce gratuitamente un test di screening per il tumore del collo dell’utero: il più affidabile tra quelli in commercio (oltre cento), che alle regioni viene a costare circa 6 euro (il test fai da te ne costa circa 9). Lo paghiamo già con le tasse, perché pagarlo due volte in farmacia? Un altro rischio per Amunni è che le donne tendano ad abusare del test individuale, facendolo magari tutti gli anni, quando invece, se l’esito è negativo, è sufficiente eseguirlo una volta ogni cinque anni. Ma sapersi fare un test non è sinonimo di garanzia e qualità.
Fed e il taglio dei tassi: il placebo che si somministra dall’inizio d’anno
Un medico condotto di un borgo, quando si presentava in studio un ipocondriaco di non eccelsi studi, gli prescriveva una ricetta a base di “acqua edulcorata” e, in combutta col farmacista, la magnificava come ritrovato portentoso. Invariabilmente, dal giorno dopo, il soggetto ne esaltava all’osteria gli effetti strabilianti. La Federal Reserve (la banca centrale americana) segue la stessa tattica per assecondare le paturnie della Casa Bianca. Da inizio anno somministra un placebo sotto forma di tagli dei tassi. Tuttavia, a differenza degli ipocondriaci, Trump non ne è entusiasta e pretende dosi sempre maggiori.
Pertanto la Fed mercoledì scorso tagliato ancora i tassi a breve dello 0,25%. Ma il male oscuro dell’economia americana (che contagia il resto del mondo) non sono certo i tassi di interesse troppo alti, bensì l’incertezza che predomina nelle aziende private da quando Trump ha iniziato la guerra dei dazi. L’espansione del commercio internazionale ha spinto la crescita globale per venti anni, permettendo di integrare le economie avanzate e prospere dell’Ocse con quelle emergenti e popolose.
Scardinare l’assetto istituzionale del libero scambio mondiale suscita un’incertezza devastante. Infatti al Simposio di Jackson Hole molti presidenti delle Fed regionali hanno confermato che gli imprenditori attuano una sorta di sciopero degli investimenti. Quasi nessuno si azzarda a lanciare progetti di espansione o di riconversione se non è chiaro come evolverà l’assetto del mercato internazionale e delle sue catene del valore. Viceversa nessuno dei grandi gruppi industriali sondati dalla Fed ha menzionato il costo del denaro come un fattore che scoraggi i piani di investimento o influenzi le strategie aziendali. In altri termini il meccanismo di trasmissione dalla politica commerciale alla crescita del Pil non opera solo attraverso l’import-export, ma soprattutto sul lato degli investimenti, che costituiscono lo stimolo determinante del ciclo economico. È illusorio aspettarsi che uno 0,25% in meno nel costo del denaro dia un impulso alla stagnante industria americana e possa controbilanciare le spinte recessive della guerra dei dazi.
Lo stesso vale per l’eurozona dove l’ultimo colpo di bazooka nella carriera di Draghi alla Bce permetterà ai governi di pagare interessi ridicoli sui titoli di stato. Ma difficilmente, come in passato, si trasmetterà all’economia reale dei paesi in crisi strutturale, Italia in primis, con un sistema bancario ancora convalescente. Per di più le regole di Basilea impediscono di fatto che il credito arrivi dove davvero serve: ai progetti di ristrutturazione, all’innovazione, alle start up, alle infrastrutture. In altri paesi supplisce un florido mercato dei capitali. In Italia non è mai esistito.
Conti correnti, altra stangata: ora ci costano 7,5 euro in più
Mentre gli italiani ancora non si sono ripresi dall’addio dei dispositivi fisici di sicurezza (le chiavette e i token fisici) per dare l’avvio alla nuova era dei pagamenti digitali, per i correntisti arriva un’altra brutta notizia che, quando si ha a che fare con le banche, equivale a una stangata. Non si ferma, infatti, la corsa delle spese per la gestione dei conti correnti: nel 2018 sono cresciute per il terzo anno di fila con un aumento medio di 7,5 euro, in netta accelerazione rispetto al 2017 (1,8 euro) e al 2016 (1,1 euro) portando la spesa media a 86,9 euro. I tre aumenti annui consecutivi fanno seguito ai cali registrati nel 2015 (-5,8 euro) e nel 2013 (-6,9 euro). Il report di via Nazionale evidenzia come anche per i conti correnti postali la spesa di gestione è sensibilmente aumentata (+4,9 euro dopo i +2,1 euro nel 2017). Si conferma, invece, l’economicità dei conti online con una spesa rimasta sostanzialmente invariata a 15,5 euro.
Bankitalia spiega che “le spese sono aumentate principalmente per effetto dell’incremento dei canoni di base e dei canoni delle carte di debito”, cioè il bancomat. Inoltre un contributo pesante è arrivato anche “dalla crescita congiunta del numero di operazioni e delle corrispondenti commissioni applicate sui pagamenti automatici e sulle spese di scritturazione e sui bonifici online”. Cosa significa? Che le banche spessissimo hanno modificato le condizioni contrattuali del conto corrente modificando all’insù le singoli voci come le commissioni per eseguire un bonifico, le spese per prelevare con il bancomat o la carta di credito o per effettuare un pagamento Pos. Voci che non vengono conteggiate dall’Indicatore sintetico di costo (Isc), vale a dire l’indice voluto dalla Banca d’Italia nel nome della trasparenza che consente di confrontare il costo dei conti per 6 diversi profili di operatività (giovani; famiglie con operatività bassa, media, elevata; pensionati con operatività bassa e media) e per i conti correnti a consumo con un unico profilo (operatività particolarmente bassa). L’Isc, infatti, ha anche un evidente limite: somma solo i costi annuali, fissi e variabili, escludendo le altre voci che non sono standard ma che poi vanno a incidere sull’esborso finale. È, per esempio, il caso dell’imposta di bollo (34,20 euro).
Una media del pollo di Trilussa che alla fine rilascia un quadro poco veritiero visto che l’Isc conferma solo che la spesa di gestione dei conti correnti tende ad aumentare man mano che si richiedono più servizi, diminuendo invece per quei profili caratterizzati da un’operatività relativamente semplificata (“giovani”, “famiglie”, “pensionati” a bassa operatività).
Così, secondo il monitoraggio effettuato da Bankitalia, emerge che le spese fisse ammontano a 55,5 euro (2,7 euro in più del 2017) e rappresentano circa i due terzi della spesa complessiva. La crescita maggiore è quella per i canoni di base (3,9 euro, 3,0 nel 2017), per effetto dell’aumento del costo del canone (da 42,2 a 52,7 euro).
Meno significativo è stato l’aumento della spesa per le carte di debito (1,1 euro). Pressoché invariato, poi, l’esborso per le carte di credito: il calo dei clienti detentori di almeno una carta (scesa dal 38 al 36 per cento) è stato perlopiù compensato dall’aumento del costo di una singola carta. Sono, invece, diminuite le spese legate all’invio dell’estratto conto, quelle per le comunicazioni di trasparenza e, infine, quelle connesse a servizi residuali quali, ad esempio, la tenuta dei dossier titoli o la liquidazione periodica degli interessi. Le spese variabili sono cresciute di 4,8 euro, raggiungendo l’importo di 31,4 euro.
Eppure quando i clienti si accorgono che un conto è arrivato a costare decisamente troppo hanno un’arma importante: la portabilità che ne consente la chiusura a costo zero e il trasferimento, da parte della banca vecchia a quella nuova, nel giro di 12 giorni lavorativi. E, dopo anni di affossamento della legge, le banche non possono più rallentare la procedura a coloro che le vogliono abbandonare, con la scusa di lungaggini burocratiche e informazioni fuorvianti date agli sportelli, con l’unico scopo di tenersi il cliente per decenni. Se il trasferimento non viene completato nel termine previsto, per il solo fatto del ritardo si ha diritto a un indennizzo fisso e automatico di 40 euro, più una maggiorazione per ogni giorno di ritardo, commisurata alle somme presenti sul vecchio conto.
Bastone e carote. Muoversi fra le commissioni, confrontare i tassi, scegliere il conto migliore per le proprie tasche resta un dilemma. Anche se tutti questi calcoli dovrebbero essere facilmente confrontabili su ComparaConti.it (l’ex Pattichiari), il sito dell’Associazione bancaria italiana, dal 15 marzo 2017 il motore di ricerca è sospeso, perché manca l’adeguamento alla nuova direttiva europea sui pagamenti (Payment accounts directive).
La guerra del petrolio: rischio crisi e Ue in panne
Sabato 14 settembre il mondo si è bruscamente risvegliato dal sogno di pace petrolifera in cui si cullava dal 2008, quando i prezzi del greggio tornarono a calare dopo aver toccato i 120 dollari al barile. Un attacco condotto con droni contro gli impianti di Abqaiq (la più grande raffineria del mondo) e di Khurais della Aramco, la compagnia di Stato saudita, ha ridotto la produzione di greggio di Riad da 9,8 a 4,1 milioni di barili al giorno (Mbg), tagliando del 5% la produzione mondiale. I ribelli sciiti Houti dello Yemen hanno rivendicato l’azione come risposta all’intervento dell’Arabia Saudita nella guerra civile yemenita. Il regno sunnita e gli Usa hanno puntato il dito contro l’Iran sciita, che arma gli Houti, ma Teheran ha negato ogni responsabilità. In poche ore, il prezzo del greggio è aumentato anche del 20%, il maggior rincaro in un solo giorno dall’invasione irachena del Kuwait nel 1990, con riflessi sui mercati finanziari e sui beni rifugio come l’oro. Siamo davvero vicini a uno shock come quello dell’ottobre 1973, quando i Paesi arabi dell’Opec tagliarono di un quarto la produzione e alzarono i prezzi del greggio come arma nella guerra dello Yom Kippur contro Israele, facendo quadruplicare in cinque mesi le quotazioni e avviando una recessione mondiale?
Il rischio c’è. A scatenare un nuovo “infarto” petrolifero all’economia mondiale potrebbe essere una guerra tra l’Arabia Saudita, con i suoi alleati Usa e Israele, contro l’Iran, spalleggiato da Russia e Cina. Se ciò avvenisse, rischierebbero di bloccarsi per mesi le due coronarie mondiali del greggio: gli stretti di Hormuz, dove Emirati Arabi e sauditi fronteggiano gli iraniani, e di Bab el-Mandeb, con le rive di Gibuti in Africa e dello Yemen nella penisola arabica. Nell’estate 2018 Bab el-Mandeb, tra Mar Rosso e Golfo di Aden, è stato chiuso all’export petrolifero saudita (da lì passano 500-700mila barili al giorno) dopo che due navi erano state attaccate proprio dagli Houti. Ma dal canale di Hormuz tra Golfo Persico e Oceano Indiano nel 2018 è transitato ben di più: un quarto dei commerci mondiali, quasi 22 milioni di barili di greggio al giorno.
Il fatto è che, a dispetto degli allarmi sul riscaldamento globale e della necessità di “decarbonizzare” l’economia mondiale, la sete di petrolio continua a crescere. Nel 2018 i consumi mondiali hanno toccato il record di circa 99,3 Mbg e quest’anno sono previsti a 100,8. L’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) ha previsioni di domanda basate su tre scenari (“Sviluppo sostenibile”, “Politiche attuali” e “Nuove politiche”) che danno risultati molto differenti. Nel quadro di “sviluppo sostenibile”, i consumi dovrebbero toccare il picco l’anno prossimo e calare fino al 2040. Lo scenario delle “politiche attuali” vede invece una forte crescita fino al 2040. Ma nuovi standard di efficienza dei motori, sviluppo di carburanti alternativi e politiche di transizione energetica possono cambiare tutto, perché i trasporti da soli genereranno oltre metà dei consumi mondiali fino al 2040.
In caso di blocco delle rotte del greggio ci si approvigionerà alle riserve strategiche nazionali. Gli Usa le hanno create dopo la crisi del 1973: sono pari a circa 650 milioni di barili, oltre ad altri 416,1 negli stock privati, a fronte di un consumo Usa pari a un quinto del totale mondiale, 20 Mbg nel 2017. Le riserve strategiche Ue coprono tre mesi di consumi ma potrebbero non bastare in caso di tensioni prolungate o di blocco russo. Anche la Cina ha un piano a lungo termine per costituire riserve nazionali di petrolio: gli ultimi dati ufficiali di Pechino sulle sue riserve strategiche, a dicembre 2017, le dichiaravano pari a 276,56 milioni di barili. A fine 2018 però la Cina ha registrato un aumento del 25% su base annua dell’import di greggio: un segnale senza precedenti di accumulazione di riserve strategiche, che potrebbero essere vicine all’obiettivo di 550 milioni di barili.
Nel 2017 le riserve estrattive globali accertate erano pari a 1.645 miliardi di barili, circa 50 anni di produzione. Il Venezuela detiene le maggiori riserve al mondo con 301 miliardi di barili “censiti” nel 2017, seguita dall’Arabia Saudita (266 miliardi) e dal Canada (170). Ma riserve non significano necessariamente produzione, perché c’entrano la politica e gli interessi strategici. Dopo l’embargo di Washington, Caracas ha visto crollare la produzione di greggio. Intanto nel 2018 gli Usa sono diventati il primo produttore mondiale superando Russia e Arabia Saudita. D’altronde gli Stati Uniti da decenni usano la politica internazionale come arma sul mercato petrolifero: lo dimostrano le sanzioni all’Iran del 2012 per il nucleare e quelle alla Russia del 2014 per l’annessione della Crimea, che frenando l’export di greggio hanno pesato notevolmente sulle economie di Mosca e Teheran. I sauditi però non sono solo i maggiori esportatori di petrolio al mondo: a settembre 2018, l’Arabia Saudita aveva una capacità di riserva produttiva di greggio non utilizzata di 1,5 milioni di barili al giorno, il 72% della capacità di riserva mondiale, che può influire sul mercato mondiale. Dopo l’attacco del 14 settembre, però, i tempi di riattivazione degli impianti sauditi continuano ad allungarsi e ora Riad è costretta a comprare petrolio da altri produttori per rispettare le consegne già concordate.
L’Opec domina la produzione ma da qui al 2023 Usa Brasile e Canada guadagneranno quote sul mercato mondiale. Cina e India spingeranno invece la domanda arrivando a quinto dei consumi totali, che toccheranno i 104,7 Mbg: Pechino, che ha Mosca come primo fornitore, utilizzerà 14,4 Mbg dai 12,5 del 2017, con importazioni nette (import meno export) in aumento a 10 Mbg dagli 8 del 2017. Tra quattro anni, grazie alle nuove tecnologie estrattive (fracking, shale oil) il Nordamerica diverrà praticamente autonomo nella produzione e farà lavorare le raffinerie Usa per esportare in Messico. L’“autarchia” petrolifera di Usa e Canada però non sarà mai possibile per l’Unione europea, anche se nel 2023 l’import netto europeo calerà a 9,2 Mbg dai 10,1 del 2017. In quell’anno la Ue dipendeva dall’estero per l’86,7% dei consumi, con l’Italia al 91,5%: quasi un terzo veniva dalla Russia, seguita da Norvegia, Iraq, Kazakistan e Arabia Saudita. A restare scoperta però sarà soprattutto l’Asia, che dipende proprio dal flusso che passa per Hormuz. Tutti i segnali, così, indicano che un eventuale conflitto tra Arabia Saudita e Iran rappresenterebbe una mossa nella lunga partita a scacchi tra Usa e Cina per la supremazia globale nel 21esimo secolo.
I cervelli in fuga ci costano ben 3,5 miliardi ogni anno
Se i flussi in entrata sono al lumicino, altrettanto non si può dire di quelli in uscita. Che hanno un costo proporzionale al livello di formazione, ma non solo. Con i cosiddetti cervelli in fuga lo Stato spesso ci perde due volte: quando partono e quando rientrano. Perchè non riesce a trattenerli e non ottiene il gettito fiscale aggiuntivo che deriverebbe dalla permanenza stabile in Italia. A quasi vent’anni dall’inizio delle politiche di incentivo al rientro dei cervelli è difficile, se non impossibile, farne un bilancio puntuale. È possibile però fare qualche stima per avere idea delle cifre in ballo. In soli due anni (2016-2017), secondo l’Istat si è trasferito all’estero un “patrimonio” da 56mila laureati su cui le casse pubbliche hanno investito poco meno di 7 miliardi per un costo d’istruzione pro-capite di 121.500 euro (dato Cnr).
Chiaramente si tratta solo di stime alle quali si deve aggiungere anche il costo legato a tutti gli altri conterranei all’estero con un titolo di studio medio-alto (156mila nel 2017), nonché tutti quelli che già da tempo hanno abbandonato il Paese. E poi una valutazione costi-benefici sul sistema di agevolazioni per il rientro dei cervelli su cui l’Italia punta dal 2001. All’epoca, il governo stanziò 40 miliardi di lire. Una cifra analoga arrivò l’anno dopo, ma poi le somme si assottigliarono fino ai 10 milioni appena stanziati nel decreto crescita. L’obiettivo era far rientrare i cervelli in fuga che, nonostante i vantaggi fiscali, avrebbero comunque portato gettito aggiuntivo. Una visione con cui concorda anche il gruppo Controesodo, associazione che tutela i cosiddetti “impatriati”.
Il punto è però che finora molti “impatriati”, terminate le agevolazioni, sono tornati all’estero. Secondo Controesodo, ogni anno il 25% delle persone che hanno beneficiato della legge sul rientro dei cervelli, è poi ri-espatriato con una doppia perdita per l’Italia. “La nuova formulazione degli incentivi nel decreto crescita risolve questo problema, in modo intelligente, puntando sul radicamento permanente di chi rientra con uno sconto fiscale che può essere esteso nel tempo se si hanno figli o si compra casa. Insomma, a condizione che ci si fermi a lungo”, spiega il presidente di Controesodo Michele Valentini. Ma solo a coloro che sono rientrati dal luglio 2019 producendo una “discriminazione insensata” sulla base della data di rientro, come puntualizza Controesodo che in questi giorni si sta battendo per evitare che il decreto tagli fuori dai benefici 12mila persone rientrate in Italia dal 2011 in poi con la legge per il rientro dei cervelli. Pena “il rischio di esacerbare il fenomeno del ri-espatrio”.
Un fenomeno molto diffuso soprattutto nel mondo della ricerca scientifica che, secondo l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca (Adi), nell’ultimo decennio ha visto fare i bagagli a 30mila cervelli. “Vista la situazione in Italia con continui tagli e ridimensionamenti, difficilmente chi torna, riesce poi a restare”, spiega Maria Carolina Brandi del Consiglio nazionale delle Ricerche Irpps. Con un doppio danno per le casse pubbliche.
Industriali al governo: servono più migranti
“L’ultima volta che un governo ci ha chiesto di quanta manodopera straniera abbiamo bisogno?”. Al presidente di Confindustria viene da ridere. A Cernobbio si stanno chiudendo i lavori del Forum Ambrosetti e Vincenzo Boccia infila una lunga serie di interviste. Dopo aver ragionato di crescita, cuneo fiscale, investimenti, l’ultima domanda sembra un po’ fuori luogo. O forse no. “Da tempo non affrontiamo più certe questioni”, riparte subito Boccia, ma il tono si fa serio: “Se blocchiamo i porti creiamo un blocco anche su questi temi”. I dati dicono che siamo ultimi in Europa per numero di permessi di lavoro agli stranieri: 0,23 nuovi ingressi per mille abitanti nel 2018, record negativo di una parabola imboccata ormai da anni. Eppure il Paese invecchia e la natalità ai minimi storici mette a repentaglio il futuro del nostro welfare. Possibile che nel 2018 gli ingressi per lavoro siano appena 13.877? La Polonia ne conta 600mila. Tanto che il Gruppo di Visegrád vanta da solo il 60% degli ingressi in Ue per ragioni occupazionali (elaborazione Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat 2018). Ma il paragone che preoccupa la classe produttiva presente a Cernobbio è quello con l’Italia del passato. Che nel 2007 emanava decreti flussi da 250mila permessi di lavoro e in meno di dieci anni è scesa a poche migliaia (dati Viminale).
È vero, c’è stata la crisi. Ma quali sono oggi le reali esigenze del sistema Italia? In base a quale criterio si sono decise le quote (identiche) degli ultimi cinque anni? Rispondere è quasi impossibile, perché il Documento di programmazione triennale previsto dalla legge non lo redige più nessun governo: l’ultimo è del 2006, c’era Prodi. Sarà che il nostro sistema produttivo può fare a meno degli stranieri? Esattamente l’opposto, stando a quanto affermano i suoi rappresentanti. “Il nostro centro studi”, racconta Emanuele Orsini di FederlegnoArredo, “calcola che da qui al 2021 il nostro settore avrà bisogno di 20mila nuovi occupati”. E chiarisce che si tratta soprattutto di piccole e medie imprese dove la maggioranza della manodopera è straniera. “Gli immigrati sono un ambito dove formare questa manodopera, un grosso innesto per la nostra economia”, fa eco Achille Colombo Clerici di Assoedilizia, altra associazione di settore a elevata presenza di extracomunitari. E c’è chi va oltre. Per il presidente di Brembo, Alberto Bombassei, “non è solo questione di numeri”, e chiede “un progetto politico sull’integrazione degli extracomunitari”. “Poi”, aggiunge l’ex deputato di Mario Monti, “abbiamo tanti italiani disoccupati”. Che la concorrenza tra italiani e stranieri sia un fenomeno marginale e circoscritto ad aree a bassa specializzazione lo dice il il nuovo Rapporto su stranieri e mercato del lavoro pubblicato a luglio dal ministero del Lavoro. “Gli immigrati fanno lavori molto diversi dai nativi”, si legge. Ma statistiche e numeri non bastano a rassicurare quanti continuano a sentirsi minacciati dall’immigrazione. “Proprio perché la disoccupazione è elevata bisogna ragionare in termini selettivi”, ribatte Riccardo Illy. “Domanda e offerta spesso non combinano e le aziende non trovano i lavoratori di cui hanno bisogno”. Raffaele De Nigris dell’omonimo e storico acetificio la mette giù dura: “I livelli apicali non li trovi perché fuggono all’estero, e la manodopera è scarsa perché i canali per intercettare quella straniera sono insufficienti. Siamo in mezzo a un guado”. Quindi il lavoro ci sarebbe? “Sicuramente”. E allora? “E allora l’immigrazione va gestita”, insiste Illy, che rilancia la richiesta di un cambio di paradigma: “Oltre alla gestione degli arrivi servono inserimento e integrazione”.
Meno ingressi regolari, più economia sommersa
Altro che “discontinuità” col governo gialloverde. Stando ai numeri e alla normativa vigente, le proposte raccolte sembrano più una rivoluzione. “L’Italia non ha più una strategia in merito, ed entrare regolarmente per lavoro è ormai impossibile”, commenta William Chiaromonte, ricercatore di diritto del Lavoro all’Università di Firenze. “La causa principale è la disciplina legislativa che pretende di far incontrare domanda e offerta quando l’aspirante è ancora nel suo Paese d’origine”, dice, spiegando che il nostro è un mercato del lavoro dove la chiamata è spesso nominativa, tra persone che già si conoscono. Eppure, in un Paese che da qui al 2023 avrà bisogno di tre milioni di nuovi occupati (dati Unioncamere), non c’è alternativa. Al contrario c’è chi ci guadagna.
Se il percorso regolare si estingue, gli immigrati economici ingrossano le fila dei richiedenti asilo allungando i tempi della burocrazia dell’accoglienza. Poi, visto che nessuno può assumerli e nessuno li rimpatria, entrano nel mercato nero. “Una distorsione che arricchisce la criminalità e ha sconvolto settori macroscopici come edilizia e agricoltura”, denuncia Chiaromonte. Le dimensioni del fenomeno? Gli stranieri sono il 74% dei lavoratori domestici, il 56% dei badanti, fino al 40% dei braccianti di agricoltura e allevamento (Istat). Facile immaginare cosa significhi la drastica riduzione dei permessi di lavoro in settori già caratterizzati da ampie quote di sommerso. Sono uomini e donne che non pagano tasse, contributi, che non contribuiscono alla crescita del Pil.
Lo straniero conviene: l’incasso supera la spesa
“Se investissimo nelle persone che arrivano in Italia probabilmente ne caveremmo molto di più rispetto alla sensazione che vengano a fare solo lavori di bassa qualità, peraltro lavori dei quali in Italia continuiamo ad avere un gran bisogno”, sostiene il presidente del gruppo Falk, Enrico Falck. È convinto che tanta parte dei lavoratori stranieri sia sovraistruita rispetto alle mansioni che svolge. A voler verificare si scopre che si tratta del 37,4% degli stranieri, mentre tra gli italiani è il 22% (Idos 2017). Ma sono tempi duri per chi la pensa come Falck.
Fondi europei sprecati: non si vuole l’integrazione
La giunta leghista della Provincia Autonoma di Trento ha appena rinunciato a 1 milione di fondi europei (Fondo asilo, migrazione e integrazione) destinati ai corsi di italiano per stranieri. Soldi che l’Italia non riceverà. Mentre il Friuli Venezia Giulia, sempre a guida Lega, sta tentando di usarli per i rimpatri volontari. Che manchi un piano unitario è evidente. Come ci siamo arrivati? Lo chiediamo ad Andrea Stuppini, per anni rappresentante delle Regioni nel Comitato tecnico nazionale sull’immigrazione. “Nei primi anni Duemila i decreti flussi rispondevano alle associazioni datoriali che chiedevano centinaia di migliaia di stranieri – racconta – Già allora il grande assente era la politica per l’integrazione. Così, in mancanza di un progetto robusto, una legislazione già ridimensionata dalla Bossi–Fini venne definitivamente travolta da crisi economica ed emergenze umanitarie. E i permessi di lavoro diventarono un fenomeno da limitare al massimo”. Un esito che imputa “a scelte politiche”. Vie d’uscita? “Ricostruire un rapporto forte tra lavoro e integrazione, cambiando le norme e ripristinando l’istituto dello sponsor, che permetteva ad associazioni pubbliche di garantire per la persona, così che l’incontro con il datore potesse avvenire anche in Italia”.
Da ultimo, “serve un dialogo con i Paesi africani di provenienza”. Un parere diffuso tra gli industriali: “Un modo per dare ordine ai flussi è formare le persone a monte”, ragiona Giampiero Massolo di Fincantieri, che nel Nordest fatica “a trovare carpentieri e saldatori che dobbiamo importare dal Bangladesh”. E Boccia di Confindustria ha già la proposta: “L’industria europea a partire da quella italiana, attraverso partenariati industriali in quei paesi e col nostro governo, può fare un’operazione rilevante nell’interesse di tutti”. Ma proprio tutti. Dalla sanità alla scuola, dai servizi sociali all’accoglienza, lo Stato spende per gli immigrati meno di quanto non incassi in tasse e contributi dai 2,3 milioni di stranieri che dichiarano redditi. I dati sono quelli del 2016, anno record per numero di sbarchi. Eppure il saldo è positivo: tra +1,7 e +3 miliardi di euro (Dossier statistico immigrazione 2018 Idos).
“Tra invecchiamento e natalità ai minimi, in 20 anni i residenti in età da lavoro passeranno da 36 a 29 milioni: fossimo un paese normale, ci interrogheremmo sul nostro futuro”, commenta il portavoce di ASviS ed ex presidente Istat Enrico Giovannini. E sul futuro aggiunge un aneddoto: “Un anno fa proponemmo al governo di istituire un centro di studi sul futuro accanto alla presidenza del Consiglio, come in molti altri paesi. Ci è stato risposto che non è una proposta interessante. Ora che il governo è cambiato speriamo che anche certe risposte possano cambiare”.