Torna “L’Ora di Palermo” baluardo rosso antimafia

Era il 1973 quando la giuria del “Premiolino” di Milano, uno dei più vecchi e importanti premi giornalistici italiani, decise di assegnare il riconoscimento a Vittorio Nisticò (Soverato, 1919-Roma, 2009), direttore de L’Ora di Palermo, e alla redazione del quotidiano siciliano. Nella motivazione si leggeva, tra le altre cose, che Nisticò “insieme ai suoi giovani redattori, da molti anni sostiene con coraggio e con un giornalismo tecnicamente molto efficace una battaglia civile quotidiana contro la mafia e contro la collusione fra le forze della criminalità e il sottogoverno”.

Nisticò se n’è andato nel giugno del 2009. La mafia c’è sempre. Invece il giornale L’Ora, quello di Mauro De Mauro, di Felice Chilanti, di Marcello Cimino, di Mario Farinella, di Giulana Saladino, di Salvo Licata, degli articoli di Leonardo Sciascia e dei disegni di Bruno Caruso, era morto nel maggio del 1992. Quando, come scrive Nisticò in Accadeva in Sicilia (Sellerio), “per le sprovvedutezze dei suoi editori”, la società Nem e il Partito democratico della sinistra (il Pds, ossia l’ex Pci), “le pubblicazioni un certo giorno furono sospese davvero”. Chiudeva per sempre dopo quasi un secolo di storia, che era cominciata il 22 aprile del 1900, sotto la direzione di Vincenzo Morello, noto come “Rastignac”, e con il denaro di Ignazio Florio jr., a capo di una delle più rilevanti dinastie imprenditoriali del Regno. La storia grande ed eroica dell’Ora, però, storia civile e politica, morale e culturale, ebbe come scenario non più la “Palermo felicissima” di Ignazio e di donna Franca Florio, bensì la Palermo della nuova mafia del cemento e quindi della droga, delle collusioni con la politica, del sacco edilizio della città e della strage dei carabinieri a Ciaculli, delle bombe messe dai “picciotti” alla tipografia del giornale, del sequestro e dell’assassinio di Mauro de Mauro e di altri due redattori dell’Ora, Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato.

Era la mafia di don Calogero Vizzini e di Genco Russo, di Luciano Liggio e dei La Barbera, dei Bontade e dei Badalamenti, che avrebbe avuto come referente politico la Democrazia Cristiana di Giovanni Gioia, di Salvo Lima e di Vito Ciancinino, e che sarebbe diventata la Cosa Nostra di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, delle stragi, degli omicidi di giudici, poliziotti e carabinieri, uomini politici, sacerdoti, imprenditori che si erano ribellati alle estorsioni. In quella Palermo, in quella Sicilia, per più di quarant’anni, da quando, nel dopoguerra la proprietà era passata al Pci, e in seguito attraveso la cooperativa dei giornalisti, il piccolo grande quotidiano di sinistra e antimafia di piazzetta Francesco Napoli, e prima di Palazzo Villarosa, fu un avamposto di donne e di uomini lasciati molto spesso soli nella difesa della democrazia, della libertà e della legalità. Come soli, d’altronde, vennero lasciati i magistrati Costa e Terranova, Chinnici, Falcone e Borsellino, i commissari Boris Giuliano, Cassarà e Montana, i capitani dei carabinieri Basile e D’Aleo, e Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Libero Grassi.

L’Ora non c’è più da un bel po’ di tempo. I suoi redattori sono emigati altrove, diversi sono in pensione, altri sono mancati. Chi è rimasto, tuttavia, non ha mai dimenticato quel legame e quell’amore per il giornale, quella stima e quell’affetto per chi, come Nisticò, lo diresse per oltre vent’anni, dalla metà dei ’50 al 1975. Così per ricordare il centenario della nascita di Nisticò, “maestro di tre generazioni di cronisti”, il Comitato ex giornalisti de L’Ora, presieduto da Marcello Sorgi, ha promosso a Palermo una giornata di celebrazioni per il 29 settembre. Ci sarà un momento ufficiale, o meglio, una postuma pubblica riconoscenza, con lo scoprimento di una targa commemorativa, da parte del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, in piazzetta Napoli, ultima sede del quotidiano. In serata sarà proiettato un video dedicato all’avventura de L’Ora, con particolare riferimento alle figure di Nisticò, di Mauro De Mauro, di Salvo Licata e di Nino Sofia. Verranno inoltre anticipate copertina e pagine del libro L’Ora – Edizione straordinaria, che comprende gli scritti di 46 ex redattori ed è stato coordinato da Sergio Buonadonna, Antonio Calabrò, Giuseppe Cerasa, Francesco La Licata, Claudia Mirto e Franco Nicastro.

Scriveva Nisticò, sempre in Accadeva in Sicilia, che, nei lunghi anni trascorsi a combattere mafia e politica sporca, attorno a lui e ai suoi cronisti c’erano “un’immensa palude di conformismo e di paure”, e “una vera selva di armature istituzionali poste a protezione delle degenerazioni del potere” e del “perenne compromesso, esso sì ‘storico’, della classe politica dominante con la mafia sovrana”. Fu in questo contesto che maturarono le bombe all’Ora dell’ottobre 1958, quando il giornale riuscì comunque a uscire e titolò “La mafia ci minaccia/ L’inchiesta continua”, e il sequestro-omicidio di De Mauro, nel settembre 1970. E fu in quel medesimo contesto che L’Ora, mai intimidito e mai messo a tacere, pubblicò le inchieste sulla mafia, sugli scandali della politica, sul neofascismo, di Orazio Barrese, Chilanti, De Mauro, Cimino, Farinella, Enzo Perrone, Saladino, Giovanni Spampinato, Nicola Volpes. Un impegno, rammentava Nisticò, che il giornale pagò “in termini di tre suoi redattori assassinati, di attentati e di perscuzioni giudiziarie”. A lungo unico quotidiano di sinistra di tutto il Sud, L’Ora fu capace anche di confrontarsi con le avanguardie culturali, i bisogni delle giovani generazioni e delle donne. Un giornale, in definitiva, e dei giornalisti, come sottolineò la giuria del “Premiolimo”, “unici nella storia del giornalismo in Italia”.

Ambiente? Il ricatto di Renzi per l’aeroporto di Firenze

“Serve un’Agenda Firenze: Peretola, Alta velocità, musei e turismo … Paola De Micheli non è Toninelli, Dario Franceschini non è Bonisoli, e avendo parlato con entrambi sono certo che il governo Conte2 avrà nei confronti del sistema aeroportuale toscano e del sistema museale fiorentino un approccio radicalmente diverso … La maggioranza è relativa, non assoluta. Senza di noi non c’è governo, è chiaro? Io non parlo di futuro, parlo di fatti. Il Mibact ha già firmato il ricorso contro la sentenza del Tar della Toscana che nel maggio scorso ha dichiarato nulla la Valutazione d’impatto ambientale, bloccando l’iter di realizzazione della nuova pista di Peretola … grazie al ministro Franceschini e al segretario generale del ministero Salvo Nastasi il ricorso è stato firmato… Non so se ricorda che in epoca gialloverde Bonisoli non ha mai voluto firmare”. Vale la pena di citarla estesamente, questa intervista del Corriere Fiorentino a Matteo Renzi di domenica scorsa. Perché c’è dentro tutto quello che ci si deve aspettare dal comitato di affari&influenze appena battezzato col nome che a Prodi ricorda quello di un fermento lattico.

Il metodo, intanto: che è, fin da subito, quello del ricatto craxiano. La rocca di Rignano sorge ora sulla strada stretta che tiene insieme 5 Stelle e Pd: ed è lì che il novello Ghino di Tacco esigerà taglie e pretenderà riscatti (i “fatti”). Il senatore-brigante esibisce fiero il primo bottino: e le anime belle a cui non erano bastati 4 anni di epocali disastri per emettere un fiato sul ritorno di Dario Franceschini al Mibac(t), possono ora giudicare senza temere di emettere un pre-giudizio. Il primo atto da neoministro del tenutario di bed and breakfast ferrarese è stato prendere la politica ambientale dei 5 Stelle e buttarla nel cesso, nel totale silenzio dei malcapitati. Anzi, peggio. I pentastellati del consiglio comunale di Firenze si sono affrettati a votare il programma di mandato di Dario Nardella (clamoroso salto dall’opposizione all’appoggio esterno), che hanno scoperto essere “del tutto in linea con il programma per le elezioni comunali presentato ai cittadini la scorsa primavera in occasione della tornata elettorale”. Dopo che i loro elettori, inferociti, hanno fatto notare che quel programma contiene anche il pacchetto delle Grandi Opere del Giglio Magico, hanno chiarito che non avevano capito su cosa si votasse, e dichiarato che “è diverso il giudizio sul completamento del nodo Alta Velocità così come concepito che, nella sua natura di opera costosa e inutile, riteniamo sia l’ennesima occasione dell’incredibile sperpero di denaro pubblico che nulla ha a che vedere con il bene collettivo”. Un incidente fantozzesco o l’inizio di quella metamorfosi alla Zelig che ai tempi della coabitazione con Salvini portava i 5 Stelle a indossare la camicia nera, e che ora quella con i piddini potrebbe presto indurli a vestire la grisaglia dei mediatori d’affari?

Intanto, una cosa è chiara, e spiega perché se ne parli in questa rubrica. Ed è che le spese del piccolo potere di ricatto del novello Ghino le faranno soprattutto il “paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, per usare le parole dell’articolo 9 della Costituzione. L’ossessione della nuova pista per l’aeroporto di Firenze (la cui società è presieduta dall’eterno amico Marco Carrai, che ha da poco offerto il domicilio anche all’ultima società creata da Renzi, la Digistart srl) è il manifesto di quello sviluppismo insostenibile anni Ottanta che tanto appassiona il nostalgico Renzi.

La prima decisione toscana da prendere per fare almeno finta di aver capito qualcosa del messaggio di quella Greta che tutti citano, sarebbe invece quella di rinunciare all’ampliamento dell’aeroporto. Perché non ha senso duplicare quello di Pisa, perché si distruggerebbe quel poco che resta delle zone umide dalla Piana, perché aumentare il traffico significa rovinare ancora un po’ la vita di quei cittadini già marginali che vivono intorno all’aeroporto. E per tutte le ragioni elencate nelle interminabili prescrizioni della Via della Regione Toscana che il Tar aveva giustamente annullato, ritenendola di fatto una bocciatura travestita da promozione. Invece no, Italia Viva vuole la pista. Chiarendo bene la genesi del suo nome: da leggere in opposizione a Italia Nostra e in continuità con Sblocca Italia. Italia Viva: il partito del Fare, il partito del Sì alla qualunque, il partito delle mani libere su territorio e patrimonio.

Renzi sgomita per intestarsi una politica sviluppista che in Toscana ha fin troppi promotori: a partire dal presidente Enrico Rossi, appena rientrato nel Pd e fervente apostolo della pista di Peretola e del suo modello di consumo. Proprio le prossime regionali rischiano di avvitarsi su questo tema: come farebbe, per esempio, LeU (il cui più autorevole esponente toscano è il sindaco di Sesto Lorenzo Falchi, eletto proprio come paladino della lotta contro l’ampliamento dell’aeroporto) a stare in una santa alleanza Italia Viva-Pd-5 Stelle? Se poi in nome del frontismo contro Salvini si decidesse di immolare proprio il tema della giustizia ambientale, il risultato sarebbe catastrofico: perché aumenterebbe ancora quell’astensione da nausea che prosciuga il bacino dei votanti, dando peso proprio ai voti di protesta alla Lega. Ma niente paura, il sorriso del senatore Ghino diffonde ottimismo: Toscana, stai serena!

Condannati in cerca d’oblio. Compravendita, cricca & C.

Cosa accomuna la famigerata compravendita di senatori di cui fu vittima il governo Prodi e la “cricca” dei Grandi eventi? E che collega lo scandalo delle sentenze pilotate in Sicilia, le inchieste sui finanziamenti alla Lega e quelle sulle cooperative rosse nel centro Italia? Sulla carta nulla, se non fosse che tutti i protagonisti di queste vicende spingono affinché venga rimossa ogni traccia dagli archivi del Parlamento degli atti che li chiamano in causa.

E così l’ex avvocato dell’Eni Piero Amara ha ottenuto nel 2014 la tutela dell’oblio: Palazzo Madama ha deciso su sua richiesta di deindicizzare un’interrogazione parlamentare che puntava a squarciare il velo su alcune sue attività assai poco chiare in Sicilia che già erano emerse nel 2011. Assai prima che venisse alla luce il suo ruolo di gran tessitore di relazioni tra consiglieri di Stato, giudici ordinari e aziende che partecipano ad appalti milionari.

 

Quel link scomodo con “Più Voci”

Da ultimo a esigere che il proprio nome venga oscurato negli atti parlamentari è Marzio Carrara, patron della Arti Group Holding costituita insieme a Alessandro Bulfon. E a Alberto Di Rubba, uno dei tre fondatori di “Più Voci” su cui indagano diverse procure per capire se la onlus sia stata usata dalla Lega di Matteo Salvini per ricevere finanziamenti. Ebbene Di Rubba era azionista di Arti Group con una quota di appena il 6 per cento pari a circa 10 mila euro, poi rivenduta 5 mesi dopo per 1,1 milioni di euro a Carrara proprietario di Cpz a cui il Carroccio ha affidato buona parte delle forniture di stampa, volantini e manifesti nella campagna elettorale del 2018. Almeno stando all’inchiesta del settimanale Espresso rilanciata in un’interrogazione che Carrara vorrebbe cancellare per sempre. Come? Sempre facendo appello al diritto all’oblio: per questo si è rivolto alla società di consulenza Ealixir specializzata nella rimozione di link indesiderati e nella salvaguardia della reputazione online di persone e aziende. Che ha chiesto al Senato, ben prima dei 3 anni minimi previsti, di deindicizzare l’atto di sindacato ispettivo presente nel motore di ricerca o in subordine di “anonimizzare” i dati del loro assistito. Perché “accostare l’attività imprenditoriale del gruppo Cpz alla vicinanza a un determinato partito politico ha generato un gravissimo e irreparabile danno”.

 

2008, il salto verso B. di Sergio De Gregorio

A chiedere l’oblio anche Andrea Vetromile, sedicente teste oculare della mazzetta che sarebbe stata allungata da Valter Lavitola, su input di Silvio Berlusconi a De Gregorio perché nel 2008 facesse il salto della quaglia passando dall’Italia dei Valori a Forza Italia: si è rivolto a Palazzo Madama e pure a Google chiedendo la immediata rimozione dal web di quella parte della relazione della Giunta di Palazzo Madama chiamata a decidere sull’arresto di De Gregorio in cui compare il suo nome. “La notizia – ha scritto nell’istanza per invocare la tutela dell’oblio -non attenendo a eventi di particolare importanza storico-politica, non riveste più il connotato dell’interesse pubblico alla informazione che avrebbe potuti giustificare la compromissione della dignità, del decoro e del diritto all’immagine dell’istante”.

A bussare in Parlamento per ottenere tutela dell’oblio rispetto agli atti parlamentari sono in tanti e talvolta per casi delicatissimi. È quello, ad esempio, di R.I.: per lui l’Autorità giudiziaria del Regno Unito aveva chiesto l’estradizione nell’ambito di un’indagine sul terrorismo internazionale di matrice islamica. Poi si era scoperto che non c’entrava nulla, vittima di un errore giudiziario in cui la sua identità era stata usurpata da terzi che ne “avevano utilizzato i documenti per commettere i reati a lui addebitati”.

 

C’è anche il testimone che aiuta i magistrati

Ovvia la tutela anche nei confronti di R.C., testimone di giustizia in processi contro la criminalità organizzata che ha ottenuto a più riprese che il suo nome venisse schermato dalle relazioni della Commissione Antimafia e dai resoconti che ne declinavano in chiaro le generalità a rischio della sua stessa vita.

Ma per altri che ne fanno richiesta non c’è in ballo la vita, ma tutt’al più gli affari. Come nel caso di Valerio Carducci. Chi è costui? L’imprenditore ha lavorato nell’ambito degli appalti a La Maddalena e a L’Aquila del G8 a fianco di personaggi quali Diego Anemone e Francesco Piscitelli. Ebbene ora vorrebbe liberarsi del passato a cui però ancora lo inchiodano i motori di ricerca. E quindi ha chiesto pure lui la deindicizzazione di due interrogazioni parlamentari sui lavori assegnati alla “sua” Gia.Fi costruzioni, chiamata in causa anche per la realizzazione di alcuni istituti di pena in Sardegna e per i lavori dell’auditorium di Firenze da cui partirono una serie di altre indagini che hanno rivelato il sistema gelatinoso della “cricca” dei Grandi eventi.

Decidere se accordare la tutela dell’oblio è come camminare sulle uova perché la tutela della privacy va sempre bilanciata all’interesse collettivo alla pubblicità degli atti, a maggior ragione quando l’assoluzione non sia definitiva. O se sui processi è calata la mannaia della prescrizione. Per questo è stata negata la deindicizzazione dell’interrogazione che riguarda Serafina Patrizia Scerra una professoressa finita nei guai nel 2009 nell’ambito di un’inchiesta della Dda di Catanzaro. Con quale accusa? Secondo gli inquirenti lei ed altri dirigenti scolastici calabresi avrebbero aggiudicato gare per la fornitura di materiali utili alla attività didattica, nonostante offerte più vantaggiose, sempre nei confronti della stessa impresa “anche in forza del vincolo associativo e della partecipazione a logge massoniche i cui componenti hanno posto in essere attività diretta ad interferire sull’esercizio di Pubbliche amministrazioni”.

 

Il costruttore e le “coop rosse”: carte nella nebbia

Sarebbe voluto tornare puro come un giglio, anche su web, il costruttore Leonardo Giombini, arrestato nel 2006 con l’accusa di false fatturazioni, appropriazione indebita e trasferimento illecito di valori all’estero in un sistema collaudato di piena commistione tra imprenditori collegati alle cosiddette cooperative “rosse”, esponenti di istituti di credito e rappresentanti anche apicali della politica umbra.

La sua richiesta di cancellare dagli archivi i dati dell’inchiesta che lo ha riguardato oltre 10 anni fa non è stata accolta. Ma ora l’interrogazione che era stata presentata all’epoca è accompagnata dalla sentenza che ha dichiarato prescritti i reati a suo carico. Nel frattempo è stato condannato per riciclaggio in quel di San Marino: aveva provato ad aderire ad una voluntary disclosure nel tentativo di ripulire denaro di illecita provenienza.

L’Abruzzo targato Marsilio è tutto nomine & stipendi

Non vuole rubare altro tempo, dice dopo dieci minuti scarsi dall’inizio della conferenza stampa indetta per celebrare i primi sei mesi di governo, “non sto a citare ogni singolo dettaglio”: sì, c’è proprio poco da dire e Marco Marsilio, il governatore trascinato da Roma in Abruzzo da Giorgia Meloni per sfrattare il centrosinistra dalla Regione, impiega pochissimi minuti a raccontare cosa ha fatto in questo primo semestre di legislatura durante la convention indetta in pompa magna giovedì scorso a Pescara al museo delle Genti, sala strapiena di consiglieri, supporter e segretari di partito. E in effetti non c’è molto da elencare, in Abruzzo, ad eccezione delle nomine: la giunta di centrodestra nella distribuzione di promozioni, incarichi, consulenze in un frenetico copia-incolla delle delibere firmate dall’ex governatore Luciano D’Alfonso. Direttori, dirigenti, tutti col marchio del predecessore di Marsilio. Così bravi da essere confermati e qualcuno promosso. Alla faccia del cambiamento.

Dai, diamogli tempo, era il refrain di amici e sostenitori, che volete che faccia in due mesi. Poi i mesi sono diventati tre, poi quattro, poi sei. Ed eccoci qua. Nomine & stipendi. Mica poi li vogliamo lasciare a becco asciutto i nuovi manager delle Asl abruzzesi, proprio no, e allora aumentiamo gli stipendi. Anche quello del neo assunto alla Asl di Chieti Thomas Schael, marito dell’attrice Caterina Vertova, subito ribattezzato il tedesco col farfallino, per il suo vezzo di indossarlo anche al lavoro e di prima mattina. Mentre due giorni fa hanno liberato la poltrona della Asl di Pescara, dando il benservito al manager Armando Mancini. L’obiettivo: avere un’altra casella da assegnare alla destra.

Tutti manager che, secondo Marsilio sono remunerati poco e male, meno che nelle altre regioni, e che fa se il dirigente di una Asl abruzzese, tra le più piccole d’Italia con circa 300mila abitanti, debba guadagnare tanto quanto un collega che gestisce 5/600mila abitanti, come in Toscana, Puglia, Lazio, Marche, Campania. E così ecco pronti così gli aumenti da 40 mila euro per ognuno dei 4 manager.

Più soldi per tutti, quindi. Che non sono pochi, non solo se rapportati alla qualità dei servizi sanitari abruzzesi, alle liste di attesa lunghe anni, ai malati sballottati da un ospedale all’altro, alle barelle nei corridoi, ai medici in fuga dagli ospedali. Il direttore generale di una Asl abruzzese fino a oggi guadagnava circa 115 mila euro, ora invece, con una botta sola, arriverà a 149 mila, come i prezzi del supermercato che finiscono con un “9”.

Non solo: gli aumenti dei manager si rifletteranno anche sugli stipendi di direttore sanitario e amministrativo, che percepiscono per legge il 90% di quello che guadagna il direttore generale. Altri 30 mila euro circa. E se consideriamo che ogni Asl ha un direttore amministrativo e un direttore sanitario, avremo altre otto figure che beneficeranno degli aumenti.

Sei mesi di febbrile attività nel settore incarichi & consulenze, quelli del centrodestra al governo dell’Abruzzo: dopo aver assunto nel suo staff la del sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi, del suo stesso partito Fratelli d’Italia, e Monica Astrologo, la moglie di Michele Russo, l’uomo che gli ha curato la campagna elettorale e candidato governatore mancato, passa la palla alla Tua, la società di trasporti regionale che grazie a un bando al quale vengono invitate nove ditte ma solo una risponde, affida una consulenza da 225 mila euro per la comunicazione proprio alla Mirus, la società di Russo. Che dovrà solo fornire consigli, poi a scrivere i comunicati e alle conferenze stampa ci penserà qualcun altro.

Ci si conosce un po’ tutti, alla Tua: il neo direttore generale Max Di Pasquale viene dalla Gtm (dove fu assunto nell’estate 2010 proprio da Michele Russo come vice direttore per poi diventare direttore generale in un anno, beneficiando di un aumento di 35 mila euro). Ma non è il solo bando su misura: nello stesso mese la Tua si produce in un altro salto acrobatico, e indice una gara telematica per la ricerca di un consulente Industry 4.0 e supporto all’ottimizzazione della supply chain. La vincitrice è Irini Pervolaraki, componente dello stesso cda nel quale era entrata su designazione di D’Alfonso. L’importo, per otto mesi, è di 38 mila euro. Il giorno dopo l’aggiudicazione, il 28 giugno, viene rinnovato il cda della Tua e Irini non c’è: quel bando, insomma, è una specie di liquidazione.

Anche le attività di cui va fiero Marsilio passano da lì: assunzioni, aumento di personale, promozioni, come nella Ricostruzione dove uno si aspetterebbe interventi, case e scuole ricostruite e invece no, Marsilio gongola annunciando di aver disposto l’aumento del 50% del personale negli uffici, che forse si tradurrà in più pratiche. Forse. E anche in Regione i dipartimenti restano otto ma lui aggiunge altri 4 servizi autonomi: più poltrone per tutti.

Così, il governo del cambiamento cambia solo il nome ma gli uomini no. Sono rimasti in sella, prorogati o insigniti di nuovi incarichi, l’ex direttore generale Vincenzo Rivera, che da segretario di Del Turco divenne fedelissimo di D’Alfonso, Daniela Valenza, ex avvocatessa nel processo Housework per il quale D’Alfonso fu arrestato e poi assolto, Emanuela Grimaldi, compagna del presidente del tribunale di Pescara, assunta alla Regione grazie a un contratto di mobilità dalla Asl di Teramo proprio da D’Alfonso e promossa da Marsilio direttore del Dipartimento per i Rapporti con l’Europa, promossa all’Europrogettazione anche la dirigente Paola Di Salvatore. Un altro “prodotto continuativo” come direbbero quelli del commercio, è Fabrizio Bernardini, da sempre nel cuore del centrodestra e del centrosinistra. Ma restano ben saldi in sella anche i presidenti delle partecipate dalla Regione, che in campagna elettorale il centrodestra diceva di voler sfrattare a calci nel sedere.

Il governo del cambiamento in Abruzzo è il governo copia-incolla e gli elettori, delusi, pensano che è cambiato solo il nome del presidente. Anche se Marsilio, nella sua conferenza stampa, lascia snocciolare cifre a suo dire eclatanti agli assessori: 140 delibere proposte dall’assessore al Bilancio, il calendario scolastico cambiato dall’assessore all’Istruzione, 64 proposte di delibere dell’assessore alla Sanità che ha disposto, finalmente, l’assunzione di 1.700 persone. In comode rate però.

Conte 2: la Puglia al governo (un po’) all’insegna di Moro

Fu proprio lui, Giuseppe Conte, allora capo del governo gialloverde, a dichiararlo per primo in un’intervista concessa al direttore Marco Travaglio e pubblicata sul Fatto Quotidiano il 18 luglio 2018: “Il mio modello di premier? Aldo Moro”. E perciò la “consacrazione” di Eugenio Scalfari sulle pagine di Repubblica il 17 luglio scorso, quando era già iniziata la metamorfosi che ha portato Conte alla guida del nuovo governo giallorosso, è arrivata con un anno di ritardo: “Valutando il Conte di oggi non è affatto escluso pensare che ripeta in qualche modo le idee di Moro”, ha scritto il fondatore di quel giornale. Ma c’è stato anche chi, come l’ex inossidabile dc Vincenzo Scotti, ha voluto paragonarlo incautamente a Giulio Andreotti, ricordando il “governo di solidarietà nazionale” con il Pci e dimenticando però che quella svolta fu progettata e promossa proprio dal teorico delle “convergenze parallele”, assassinato dalle Brigate rosse il 9 maggio del 1978.

Pugliese di Volturara Appula, provincia di Foggia; moroteo d’ispirazione; fedele di padre Pio, il bi–premier “Giuseppi” Conte, come l’ha chiamato Donald Trump in un frettoloso tweet con cui gli impartiva la benedizione per il suo secondo governo, riprende un’eredità politica che risale indietro di oltre quarant’anni, al quinto e ultimo governo Moro (1976) fino all’avvio del “compromesso storico”. Bisognerà attendere gli sviluppi della situazione politica per verificare se e quanto l’accostamento fra i due personaggi sia fondato o meno. Ma si può dire intanto che con il bis di Conte a palazzo Chigi la Puglia riconquista una leadership nazionale perduta ormai dagli anni Settanta.

Tanto più che nella nuova squadra di governo figura un suo corregionale come Francesco Boccia, nominato ministro per la delicata gestione degli Affari regionali e delle autonomie, da tempo fautore nel Partito democratico dell’accordo con i Cinquestelle. Della pattuglia pugliese al governo, fa parte poi l’ex sindacalista salentina Teresa Bellanova, responsabile delle Politiche agricole e forestali, diventata nel frattempo capo delegazione di Italia Viva. Senza dimenticare che dalla filiera della cosiddetta école barisienne guidata da Beppe Vacca, prima direttore e poi presidente dell’Istituto Gramsci, proviene anche l’autorevole ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, uno storico legato a quello stesso Istituto, ex dalemiano considerato vicino al segretario democratico Nicola Zingaretti.

Al di là delle rispettive origini ed estrazioni, c’è un humus di fondo che accomuna a distanza di tanti anni figure diverse come Conte e Moro. Ed è una certa “pugliesità” che deriva dalla storia, dalla cultura e dalla tradizione di quella regione. Una terra di confine, lunga e stretta, tutta affacciata sul mare e aperta verso l’Oriente. Una popolazione avvezza da sempre all’accoglienza e all’integrazione. Un luogo dell’anima e della memoria, in cui si fondono la matrice levantina e il pragmatismo commerciale. Una regione con un capoluogo come Bari che ha scelto per patrono San Nicola, un protettore forestiero e per giunta di colore. Non c’è da meravigliarsi più di tanto se oggi Conte gode nei sondaggi di una fiducia personale pari al cinquanta per cento, superiore a quella di Matteo Salvini, mentre il suo governo al momento non piace a metà degli italiani. Il presidente del Consiglio appare più credibile e affidabile della stessa alleanza che lo sostiene, un uomo moderato ed equilibrato in grado di mediare fra il M5S e il Pd, per conciliare – lui, pugliese d’ispirazione morotea – le loro “divergenze parallele”. Il suo predecessore, come si sa, fu l’artefice dell’apertura prima ai socialisti e poi ai comunisti, per allargare così quella che chiamava la “base democratica” della società italiana. In un’epoca orfana di ideologie, Conte ha cominciato a governare con la Lega e ora governa con i dem, dopo essersi assunto l’arduo compito di traghettare i Cinquestelle sulla sponda istituzionale.

Con uno stereotipo più o meno spregiativo, molti l’hanno definito sbrigativamente “un democristiano”. Se questa etichetta si riferisce alla moderazione e all’equilibrio, caratteristiche culturali del cattolicesimo democratico, si può anche considerare appropriata al personaggio. Le sue sono doti che appartengono a quella civiltà contadina, popolare, in cui i meridionali e in particolare i pugliesi affondano per la maggior parte le proprie radici.

Altri hanno bollato di trasformismo il bi-presidente Conte. E francamente, non si può negare che il repentino passaggio dalla guida di un governo gialloverde a uno giallorosso implichi una spiccata capacità di adattamento e una buona dose di opportunismo, nobilitate magari dal senso di responsabilità verso il Paese. Ma anche questa attitudine è riconducibile verosimilmente alla sua origine pugliese, nel solco di un pragmatismo impastato di sano realismo, di abilità commerciale e anche di consuetudine secolare con la coltivazione della terra, con i suoi ritmi naturali e i suoi tempi lunghi.

Non sempre, per la verità, la classe politica pugliese è stata all’altezza dei suoi compiti e delle sue funzioni. Né quella democristiana né quella di sinistra. I rispettivi ritardi culturali, uniti alla pratica antica del clientelismo e alla piaga endemica della corruzione, hanno penalizzato la crescita della regione, come di tutto il Mezzogiorno, rallentandone pesantemente il riscatto e la modernizzazione. Ma per considerare Moro uno statista fu necessario aspettare che fosse trucidato dai terroristi. Oggi c’è solo da augurarsi che la “stagione dell’odio”, alimentata dall’intolleranza, dalla xenofobia e dal sovranismo, non allevi “nuovi barbari” e non produca nuove violenze.

Tortura, prima indagine: botte a S. Gimignano

Lo hanno umiliato “abbassandogli i pantaloni” prima di pestarlo con pugni e calci. Trattamento che la Procura di Siena definisce “inumano e degradante”, condito da “violenza” e “crudeltà”. Per questo nei giorni scorsi ha indagato con l’accusa di tortura 15 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano.

Dopo l’entrata in vigore della legge del 2017, questo è il primo caso in Italia in cui è contestato il reato di tortura a pubblici ufficiali. La pm di Siena, Valentina Magnini, aveva chiesto gli arresti domiciliari che però il gip Valentino Grimaldi non ha concesso. Ha disposto per quattro di loro la sospensione dal servizio per quattro mesi. L’inchiesta, anticipata da Repubblica, è partita dalla testimonianza di sei detenuti a un’operatrice penitenziaria e poi con lettere formali ai tribunali di Siena e di Sorveglianza. A raccontare i fatti dell’11 ottobre sono i detenuti della sezione di massima sicurezza, tutti accusati di reati gravi come il traffico di droga e l’associazione mafiosa di stampo camorrista: a metà pomeriggio, 15prelevano un detenuto 31enne tunisino che deve scontare un anno per trasferirlo in un’altra cella. Sta per entrare nella doccia, quando vede gli agenti si accorge che qualcosa non va. I poliziotti lo prendono con la forza e senza troppe spiegazioni lo trascinano lungo il corridoio del carcere. Poi, è l’accusa, arrivano le botte. “Il ragazzo gridava di dolore, sempre più forte” racconta uno dei testimoni, come riportato nelle carte dell’inchiesta. Pugni, calci, l’umiliazione dei pantaloni abbassati e le minacce esplicite riferite dai detenuti che hanno assistito alla scena: “Ti ammazzo”, “Non ti muovere o ti strangolo”, “Perché non te ne torni al tuo Paese?”. Il giovane sarebbe poi stato trascinato in cella e lasciato lì, privo di sensi.

Per timore delle ritorsioni rifiuta di farsi medicare: non denuncia e al dottore dell’Asl che gli chiede come si sia procurato una profonda ferita sopra l’occhio risponde di essere “caduto” in cella.

C’è poi un’altra violenza: un detenuto assiste alla scena dallo spioncino e protesta prima di essere colpito con un pugno da un agente. Prognosi di due giorni. Gli agenti sono accusati anche di minacce, lesioni e falso per aver provato a insabbiare le prove. Quelli dell’11 ottobre non sembrano essere gli unici episodi di violenza: “Quando venivano tutti insieme, in venti, l’unico scopo era picchiare” spiega un testimone. Non solo: “Noi del reparto di isolamento avevamo paura e dormivamo a turno per non essere presi alla sprovvista”. Nel mirino dei detenuti c’è lo “sfregiato”, uno dei poliziotti indagati. Gli agenti comunicavano tra loro in una chat whatsapp chiamata “la mangiatoia” sulla quale indagano i pm. Ieri il Garante toscano dei detenuti ha denunciato “la situazione intollerabile” mentre il sindacato della polizia penitenziaria ha invitato a “non trarre conclusioni affrettate”.

Parcella di 1 milione da Toto a Bianchi alla cassa dei renziani

C’è un incarico da oltre un milione di euro sul quale si stanno concentrano i pm della procura di Firenze che indagano su Alberto Bianchi, l’ex presidente della cassaforte del renzismo, la Fondazione Open, accusato di traffico di influenze.

La consulenza è stata affidata al legale nel 2016 dalla Toto Costruzioni Generali, azienda che opera nel settore delle costruzioni e nella gestione di molti progetti infrastrutturali in Italia e nel mondo.

L’incarico riguardava una accordo transattivo tra la Toto e la società Autostrade, finite in un contenzioso che si trascinava da anni. Bianchi – che per l’occasione lavora all’interno di un collegio di avvocati – risolve la disputa tra le due aziende e riesce a far incassare alla Toto circa 70 milioni di euro.

La sua parcella, in base ad un accordo precedentemente stilato con la società, ammontava a poco più di un milione di euro, comprensivo di Iva.

Fonti vicine a Bianchi spiegano che la parcella incassata è stata poi divisa in questo modo: due terzi allo studio legale Alberto Bianchi e associati e un terzo all’avvocato che comunque aveva procacciato il cliente. Fin qui è la chiusura di un accordo tra un azienda e un professionista. È l’operazione successiva all’incarico della Toto Costruzioni Generali (che ieri in una nota ha voluto confermare “la totale correttezza e trasparenza del proprio operato”) che insospettisce gli investigatori. Successivamente all’incasso della parcella, infatti, Bianchi effettua un versamento.

Parliamo di circa 700mila euro destinati proprio alla fondazione vicina ai renziani, la Open, che Bianchi ha a lungo presieduto. Denaro, spiegano fonti vicine a Bianchi, finito nelle casse della fondazione – che tra le altre cose, finanzia anche la Leopolda – in un momento in cui Open era in difficoltà economiche.

Nella primavera del 2018 però si decide di chiudere la fondazione e Bianchi riesce a recuperare solo una parte di quei soldi: circa 200 mila euro.

È su questi passaggi di denaro che sta cercando di fare chiarezza la procura di Firenze. Lunedì 19 settembre è stato perquisito l’ufficio legale di Bianchi. Ed è stata acquisita anche altra documentazione, come i bilanci della fondazione e l’elenco dei finanziatori della Leopolda. A luglio, invece, la Guardia di Finanza ha bussato alle porte di una società del gruppo Toto, la Renexia, che in passato ha finanziato la Open.

La consulenza da oltre un milione di euro affidata a Bianchi, infatti, non è l’unico contatto tra la Toto e il mondo dei renziani. Da un lato la Renexia Spa ha finanziato anche la Fondazione Open con un versamento che, stando a una lista pubblicata nel 2017, era di circa 25 mila euro. Dall’altro, sempre tramite la Renexia, il gruppo Toto ha un ulteriore contatto con un renziano della prima ora, Patrizio Donnini, fondatore della Dot Media, società di comunicazione che ha lavorato anche per la Leopolda. E in un’altra inchiesta – parallela e diversa da quella su Bianchi, ma sempre della procura di Firenze – Donnini è indagato per appropriazione indebita e autoriciclaggio.

In questo caso al centro dell’inchiesta ci sono delle compravendite tra una società dell’imprenditore, la Immobil Green Srl, e la Renexia, relative al settore dell’energia eolica. Operazioni grazie alle quali la Srl di Donnini ha incassato ingenti surplus. “Donnini – hanno spiegato al Fatto i suoi legali – ha documentato tutte le operazioni di compravendita immobiliare e le stesse sono state eseguite nella massima trasparenza. In ogni modo è un’operazione che nulla c’entra con Bianchi. Non è questo l’oggetto dell’indagine”.

L’oggetto principale di questo filone dell’indagine, infatti, riguarda la compravendita delle società tra Immobil Green e Renexia.

Gli investigatori stanno ricostruendo i vari passaggi che hanno consentito alla società di Donnini di realizzare la plusvalenza in questione. A partire dall’acquisto, da parte della Immobil Green, delle due società rivendute a Renexia.

Di Maolo rinuncia, patto 5S-Pd per Bianconi

Dopo giorni di rifiuti eccellenti e trattative ad oltranza, il candidato di Pd e M5S alle elezioni regionali umbre del 27 ottobre ha un nome e un volto: è il presidente di Federalberghi Umbria, Vincenzo Bianconi. La candidatura dell’imprenditore di Norcia è arrivata ieri dopo il rifiuto di Francesca Di Maolo, la Presidente dell’Istituto Serafico di Assisi su cui Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti avevano puntato nelle ultime ore.

Lei però in tarda mattinata ha deciso di declinare preferendo continuare ad occuparsi di bambini e ragazzi con disabilità fisiche e psichiche. Così a metà pomeriggio, Bianconi si è presentato dicendosi “innamorato” della sua terra e accettando l’invito che gli hanno rivolto le tante “forze civiche, associative e politiche”: “È ora di ricostruire il futuro dell’Umbria, perché la nostra è una Regione straordinaria e civile che ha bisogno, però, di fortissimi cambiamenti”. Poi il manifesto politico, dall’ambiente al lavoro fino alla sicurezza e legalità. Bianconi, 47 anni, laureato in Economia del Turismo all’Università di Perugia, è uno degli imprenditori più noti della Regione: è anche vicepresidente del Distretto Biologico di Norcia, presidente dell’associazione “I Love Norcia” nata dopo il terremoto dell’ottobre 2016 e della delegazione Italiana di Relais & Chateaux che riunisce strutture di lusso e ristoranti gastronomici italiani. Insieme al padre Carlo e al fratello Federico ha fondato il “gruppo Bianconi”, che a Norcia conta su una serie di hotel e ristoranti di lusso tra cui Palazzo Seneca (il primo albergo riaperto dopo il terremoto) e gli stellati Vespaia e Granaro del Monte. Dopo l’annuncio, è arrivato il sostegno di Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti. Il primo ha scritto un lungo post su Facebook in cui ha elogiato l’imprenditore: “È un simbolo dell’Umbria – ha scritto il capo politico del M5S – di una comunità che è stata tragicamente ferita dai terremoti del 2016, ma che non si è lasciata prendere dallo sconforto e si è rimboccata le maniche. L’Umbria può ripartire da Vincenzo”. Il segretario del Pd invece ha parlato di “bella e forte candidatura” mentre il ministro della Cultura, Dario Franceschini, esulta per l’accordo: “È un altro passo verso la creazione di un campo riformista in grado di battere la destra e cambiare l’Italia”. Secondo fonti dem, Bianconi in passato sarebbe stato vicino all’area del centrodestra umbro: nelle chat del Pd è girato molto un suo post del 12 maggio in cui, pur dicendosi “non schierato politicamente”, sostiene la candidata di Forza Italia alle europee Arianna Verucci, imprenditrice di Norcia la cui azienda era stata colpita dal sisma (poi non eletta).

Nelle prossime ore M5S e Pd dovranno incontrarsi per formare le liste e far partire ufficialmente la campagna elettorale. Non ne faranno parte né Francesca Di Maolo né la prima cittadina di Assisi Stefania Proietti che ieri mattina si è ritirata per “continuare a fare il sindaco”. Invece sosterrà Bianconi il Presidente di Confocooperative Andrea Fora, già lanciato nelle ultime settimane dal Pd.

“Manette ai grandi evasori”. Conte rilancia, il Pd freddo

Era un cavallo di battaglia dei 5Stelle. Poi è arrivato il governo con la Lega e il condono chiamato “pace fiscale”. Cambiata la maggioranza, e subentrato il Pd, Giuseppe Conte prova a riaprire il capitolo, sperando in una sorte migliore. S’intende l’inasprimento delle pene per chi evade, declinato sempre con “i grandi evasori”. Dopo averlo evocato alla festa della destra di Fratelli d’Italia di Atreju (beccandosi pure qualche fischio), il premier lo ha ribadito ieri a Lecce, sul palco insieme a Maurizio Landini per le “Giornate del Lavoro” della Cgil.

Davanti a una platea certo meno ostile, Conte ha tracciato una linea in vista della manovra. Sul fisco ha spiegato che la stagione dei condoni deve finire: per lui le definizioni agevolate sono “una ‘una tantum’” perché “non posso diventare parte integrante della disciplina fiscale”. “Chi sbaglia deve pagare”, ha detto prima di dirsi “favorevole a pene detentive per i casi di conclamata e grave evasione”. Non poteva mancare la necessità di “alleggerire la pressione fiscale”. Anche se “non abbiamo molte risorse”, ha premesso, “già quest’anno stiamo lavorando per dare un segnale significativo sul cuneo fiscale”.

Insomma, lo spazio per grandi interventi è quel che è. Per questo, provvedimenti dal forte impatto mediatico possono essere utili al governo. I 5Stelle, ovviamente, rilanciano. “Ogni tanto qualcuno prova a insinuare che abbiamo cambiato idea sui grandi evasori! No, per nulla”, replica il viceministro all’Economia Laura Castelli (M5S) alle indiscrezioni apparse sui giornali. Dal Pd silenzio assoluto.

L’uscita del premier – che oggi sarà a New York con Di Maio per l’assemblea delle Nazioni Unite – non è però peregrina. Lo stesso programma di governo M5S-Pd prevede “l’inasprimento delle pene, incluse quelle detentive, per i grandi evasori”. Non è chiaro, però, cosa s’intenda. Per cifre assi elevate, il carcere è già previsto. Ma dopo le riforme degli ultimi anni, i ritardi degli accertamenti a causa delle risorse esigue della macchina fiscale e il rischio prescrizione il panorama vede un esiguo numero di condanne ed è assai difficile trovare detenuti per reati tributari. Nel 2015, poi, la riforma fiscale del governo Renzi ha aumentato le soglie che fanno scattare il penale per i reati di infedele e omessa dichiarazione da 50 mila a 150 mila euro e per l’omesso versamento Iva da 50 mila a 250 mila. L’ex premier, ora quarto attore della maggioranza, difficilmente darà l’assenso a un ritorno alle vecchie norme.

Già nel governo gialloverde i 5Stelle avevano promesso un intervento – peraltro previsto dal contratto con la Lega – poi saltato in cambio dell’addio alla versione potenziata della pace fiscale (che comprendeva, in parte, anche le frodi). Il premier vorrebbe inserirlo all’interno di una riforma del sistema fiscale che giudica “iniquo e inefficiente”. In parte potrebbe entrare in un decreto fiscale collegato alla manovra. Al momento, però, non c’è una traccia concreta sulla strada che si vuole intraprendere. L’unica risale a novembre 2018, al blitz tentato dal M5S con un emendamento alla legge anticorruzione. Quel testo riduceva di 50 mila euro le soglie alzate da Renzi per l’infedele e l’omessa dichiarazione e per l’omesso versamento dell’Iva, con le pene che passavano da un minimo di uno e un massimo di 3 anni di reclusione a 2 e 5 anni (per omessa dichiarazione si rischiava, con le nuove disposizioni, dai 2 ai 6 anni). L’emendamento triplicava la reclusione prevista per la frode fiscale (da un minimo di 4 a un massimo di 8 anni) e aumentava quella per l’evasione con l’uso di documenti falsi o operazioni simulate. Il no della Lega fermò il testo, mai depositato. Conte ora riapre la partita, almeno a parole.

Intanto ieri Di Maio e Renzi si sono trovati d’accordo nel bocciare i piani, avallati dal premier, di aumentare le tasse sui biglietti aerei e bevande gasate per finanziare la scuola.

Ma mi faccia il piacere

Ballusti. “Vedere il governo Di Maio-Travaglio che nega ai magistrati l’arresto di un presunto corrotto è cosa che ci ripaga di tante sofferenze. È la prova che anche nei momenti più bui Dio esiste e non vota né Cinque Stelle né Pd (e neppure legge il Fatto quotidiano)” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 19.9). Il bello degli editoriali di Sallusti è che si sente sempre in lontananza una sirena, ma non si capisce mai se stia arrivando la Guardia di Finanza o l’ambulanza.

La colletta. “Formigoni perseguitato: ‘Restituisci 47 milioni’. Ma come farà il Celeste se non ha un euro?” (Libero, 18.9). Fate la carità a un povero tangentista.

Tutto d’un prezzo. “Di scissioni ne abbiamo viste già abbastanza, non è all’ordine del giorno e non ci sto lavorando io a qualcosa di diverso” (Matteo Renzi, senatore Pd, 6.12.2018). “Io non chiedo niente, siamo pronti a dare una mano. Io le scissioni non le ho mai fatte, anzi le ho subite” (Renzi dopo le primarie Pd vinte da Zingaretti, 4.3.2019). Lui ha sempre una parola sola. Ed è sempre sbagliata.

Sintonia in B. minore. “Profonda sintonia” (Matteo Renzi, allora segretario Pd, dopo il patto del nazareno con Silvio Berlusconi, 14.1.2014). “Incontro tra Salvini e il Cav. ‘Sintonia totale’” (Il Dubbio, 14.9). Ecco, appunto.

Sintonia in B. maggiore. “Presidente Berlusconi, non c’è bisogno che lei mi ricordi quanto ha fatto. Le sue imprese sono scritte nei libri di storia” (Giuseppe Conte nelle consultazioni secondo il Corriere della sera, 22.9). Più che altro nei mattinali di questura.

Severa autocritica. “Salvini: ‘Alle regionali ci libereremo dei poltronari’” (La Verità, 21.9). Si ritira?

Compro due consonanti. “Montalbano… il commissario di Licata”, “…il commissario di Ligata” (Corriere.it, 22.9). Noi non abbiamo nulla da insegnare (ieri ci è sfuggito un “I mie primi 60 anni” in prima pagina). Ma Montalbano non era di Vigata?

L’assedio. “Siamo circondati da email, sms, disponibilità per dare una mano. Che bello l’entusiasmo che respiriamo. Grazie” (Renzi, Facebook, 17.9). Tranquillo, poi passa.

I babbioni di Bibbiano/1. “Il giallo della donna sul palco a Pontida: ‘Simulatrice che inventava minacce’. La polemica sui bimbi maltrattati. Il controverso passato di Maricetta Tirrito, esibita da Salvini” (il Giornale, 18.9). Ma non si capisce la polemica: per il Cazzaro, era perfetta.

I babbioni di Bibbiano/2. “Il sindaco di Bibbiano: ‘Basta insulti’. Anche Di Maio tra i 147 querelati” (Repubblica, 20.9). “Dall’interrogatorio di Andrea Carletti emerge ‘la volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo di azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante’. Lo si legge in un passaggio dell’ordinanza del tribunale della Libertà di Bologna che ha sostituito gli arresti domiciliari con l’obbligo di dimora per il primo cittadino coinvolto nell’inchiesta sugli affidi illeciti, accusato di abuso di ufficio e falso. Per il collegio di giudici ‘sussiste tuttora il pericolo di reiterazione di reati dello stesso tipo’” (Corriere di Bologna, 20.9). Non gli resta che querelare il Tribunale.

I ragazzi dello zoo di Salvini. “Bufera per il selfie di Matteo Salvini col figlio del boss di Scafati Franchino ‘la Belva’. Il figlio di Francesco Matrone, boss di Scafati (Salerno) noto come Franchino ‘a belva, ha pubblicato sul profilo Facebook un selfie con l’ex ministro dell’Interno. Ad accompagnare lo scatto, la didascalia: ‘Un caffè insieme al mio caro amico Matteo’” (Fanpage, 11.9). Che sarà mai: dev’essersi confuso tra la Bestia e la Belva.

Classe dirigente. “Stasera Carola dal compagno Formigli dice che lei si occupa solo di clima. Cosa c’entrano i migranti col clima??? Vai a salvare gli orsi al Polo Nord invece che rompere le scatole nel Mediterraneo!” (Susanna Ceccardi, eurodeputata Lega, Twitter, 20.9). La poveretta non sa che, secondo la Banca Mondiale, i cambiamenti climatici hanno già provocato la fuga dalla propria terra di 24 milioni di persone e nei prossimi 30 anni ne faranno spostare altri 140 milioni, di cui 86 milioni dall’Africa, 40 milioni dall’Asia del Sud, 17 milioni dall’America Latina. Dove s’informa: su Tiramolla?

Il titolo della settimana/1. “Grillo sembra più saggio di Renzi” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 22.9).Povero Beppe, non meritava.

Il titolo della settimana/2. “Costa al summit dell’Onu di New York sui cambiamenti climatici. Il ministro verde elogia i gretini, ma vola in aereo” (Libero, 22.9). Giusto, doveva volare a nuoto.