L’ambivalenza di raffinato stampo diccì

Naturalmente, la “postilla” di Mario Draghi “non risponderò a domande sul Quirinale”, riguardo cioè all’argomento più atteso dai giornalisti convenuti in conferenza stampa, come tutti i silenzi programmatici rappresenta di per sé una risposta possibile, o forse anche tre.

1. Il muro innalzato su un possibile trasloco da Palazzo Chigi al Quirinale confermerebbe la controversa battuta sul “nonno” a disposizione delle istituzioni pronunciata nell’incontro con la stampa del 22 dicembre. Quindi, sì, Draghi si sente ancora in corsa e proprio per questo sposa la linea del mutismo per non accendere nuovi fuochi nella sua stessa maggioranza. Quieta non movere, gli avrebbe suggerito il suo insegnante di latino all’Istituto Massimo.

2. E invece no, perché Draghi ha ben compreso che dovrà restare a Palazzo Chigi e ha già accantonato nel suo intimo l’ipotesi Quirinale. Infatti, la somma dei problemi illustrati – dall’emergenza sanitaria alle conseguenze prevedibili e imprevedibili connesse alla riapertura delle scuole in presenza – è tale che perfino alludere a una sua nonnesca disponibilità avrebbe costituito dinamite pura per il governo di unità nazionale. Tanto più che la frase chiave è: “Se c’è voglia di lavorare insieme, il governo va avanti bene”. E dunque si andrà avanti.

3. In realtà, Draghi, a due settimane dalla corsa per il Colle vuole lasciarsi tutte le strade aperte. E trasferisce la patata bollente nella mani dei partiti. Spetta a loro decidere se e come giocare la carta Draghi e lo faranno non potendosi aggrappare a un no ma neppure a un sì del presidente del Consiglio. Una mossa ambivalente di raffinato stampo democristiano anche se il premier ha chiuso con una seconda postilla sicuramente non ascrivibile ad ammiccamenti e furbizie. È stato quando ha definito un “atto riparatorio” la conferenza stampa di ieri, convocata, ha ammesso, dopo le critiche sollevate per il suo pesante silenzio (le sera del Consiglio dei ministri dedicato all’obbligo vaccinale) che ha definito “sottovalutazione delle attese”. Non ricordiamo precedenti del genere.

Libertà e Giustizia: “B. condannato, indegno del Colle”

“Qualcuno che, come accaduto a Silvio Berlusconi, ha subìto una condanna penale definitiva e che per tale ragione è stato dichiarato decaduto dalla carica di senatore non è degno di essere candidato alla Presidenza della Repubblica”. Tramite una nota pubblicata sul proprio sito, Libertà e Giustizia, l’associazione di cultura politica italiana fondata nel 2002 da intellettuali come Enzo Biagi, Gae Aulenti e Umberto Eco, prende una posizione netta nei confronti della possibile elezione di Berlusconi alla più alta carica dello Stato. Libertà e Giustizia, attualmente presieduta dal filosofo Sergio Labate che ha raccolto il testimone dallo storico dell’arte Tomaso Montanari e dalla sociologa Nadia Urbinati, evidenzia come “nella Presidenza della Repubblica è rappresentato il Paese, di fronte agli altri e a se stesso”. Per questo, prosegue il comunicato, è indegna l’ipotesi di vedere Berlusconi eletto al Quirinale. “Una simile eventualità che trapela dai mezzi di informazione – si legge nella nota – disturba il senso etico dei cittadini. Le istituzioni della Repubblica, già pesantemente sfigurate dal referendum del 2020 che ha gravemente limitato il numero dei parlamentari e quindi la rappresentanza, potrebbero subire un ulteriore colpo se chi siede in Parlamento non avrà il senso civico e il coraggio politico di impedire che questo miserevole gioco abbia successo”. Gli unici che possono evitare questa possibilità sono i grandi elettori, a cui Libertà e Giustizia si rivolge, “affinché avvertano la responsabilità di ‘nobilitare’ l’elezione del Presidente. I cittadini vogliono una figura di cui essere orgogliosi, che rappresenti un modello civile e che parli al Paese con una voce sola, autorevole e indipendente. Vogliono, soprattutto, che rispetti la Costituzione e ne incarni i valori più profondi.”

Salvini s’appella ai gialloverdi per liberarsi di Berlusconi

Matteo Salvini è (anche) un prigioniero. Nel dettaglio, del Berlusconi che pretende il Colle e che venerdì a villa Grande lo ribadirà de visu al centrodestra tutto. Però il leghista vorrebbe qualcun altro – come Giorgia Meloni, d’altronde – e per uscire dal pantano prova a tendere la mano agli alleati che furono, i 5Stelle. Per questo, da giorni, il vicesegretario Lorenzo Fontana rievoca i tempi del governo gialloverde, mentre ieri il capo ha difeso Virginia Raggi per la foto su Repubblica che la ritraeva in fila per un tampone. Soprattutto, Salvini ha chiamato Giuseppe Conte e Luigi Di Maio più volte. E se è vero che in questi giorni “tutti sentono tutti” come ricordano da entrambe le parti, è altrettanto certo come Salvini cerchi una sponda nel M5S per trovare “un nome di alto profilo, gradito al centrodestra”. Come, dicono da via Bellerio, Letizia Moratti e Franco Frattini, ma per ora è pretattica.

Un approccio che non ha turbato il M5S. “È giusto sentire anche la Lega, anche se non in via preferenziale” riassume un contiano. Anche perché Conte dovrebbe pur sempre partire da un accordo con i giallorosa, cioè con Articolo Uno e con il Pd, con cui a breve farà un nuovo punto sul Colle (mentre ieri il leader è riapparso in Rai, a Report, ed è la fine del blocco alla tv pubblica). Ma un’intesa con Salvini la troverebbero volentieri, i 5S: nel nome del no a Berlusconi e possibilmente a Draghi, che per il M5S sarebbe una pillola per schivare guai peggiori. Più o meno come per la Lega: bisognosa di aiuto.

Se non va al Colle B. vuole il laticlavio di senatore a vita

Arriverà oggi a Roma con un duplice obiettivo: da una parte seguire da vicino “l’operazione scoiattolo”, cioè la caccia a uno a uno ai parlamentari che potrebbero eleggerlo al Colle; dall’altra, controllare i propri alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni che nelle ultime ore stanno facendo trapelare più di un dubbio sulla sua candidatura, in vista del vertice di villa Grande di venerdì. Silvio Berlusconi ha capito che la partita del Quirinale sta entrando nel vivo e vuole giocarsela nel pieno delle sue forze: alla riunione di venerdì ufficializzerà agli alleati la sua candidatura. Per questo ieri ha fatto trapelare una velina minacciosa nei confronti di Mario Draghi, l’unico vero ostacolo che il leader di Forza Italia vede tra lui e il Quirinale. Secondo Berlusconi, il premier “ha poche possibilità di essere eletto” perché “molti non sembrano intenzionati a votarlo perché la sua elezione si tradurrebbe inevitabilmente in elezioni anticipate”, ha detto ai suoi fedelissimi. Prima di minacciare l’uscita di Forza Italia dal governo: “FI non si sente vincolata a sostenere alcun governo senza Draghi a Palazzo Chigi e, nel caso, uscirebbe dalla maggioranza”. Stessa tesi di Antonio Tajani che usa il “fattore paura” per provare a convincere i peones che non saranno rieletti: “Se Draghi va al Colle, si va a votare” ha ripetuto ieri al Corriere.it. “Quelle di Berlusconi sono parole molto gravi” ha commentato ieri Enrico Letta definendolo “divisivo perché capopartito”.

L’intenzione di Berlusconi è scendere in campo alla vigilia del quarto scrutinio, quando la soglia per essere eletto è di 505 grandi elettori. Ma se capisse che i numeri per salire al Colle non ci fossero, il “piano B” del leader azzurro sarebbe quello di intestarsi un presidente che però gli dia una garanzia precisa: la nomina a senatore a vita. Un’ipotesi di cui ad Arcore si parla già da qualche settimana – e un sostenitore di questa soluzione è quel Gianni Letta che ha provato più volte a convincere il capo a non candidarsi in prima persona – e che sta prendendo sempre più piede tra i suoi fedelissimi. Un riconoscimento alla sua carriera politica e un gesto di “conciliazione” e “pacificazione” dopo quelli che Berlusconi ritiene siano stati “trent’anni di ingiustizie” nei suoi confronti. E per questo il leader di FI pensa anche, come ha proposto Giovanni Toti, che il prossimo capo dello Stato non dovrebbe nominare solo lui come senatore a vita ma anche Romano Prodi che, nel 1996 e nel 2006, è stato l’unico leader di centrosinistra a sconfiggerlo nelle urne. Il Professore, peraltro, a settembre ha difeso Berlusconi definendo una “follia” la richiesta di perizia psichiatrica avanzata dal Tribunale di Milano nell’ambito del processo Ruby Ter. Chi, una volta eletto al Colle, potrebbe nominare Prodi e Berlusconi senatori a vita è Giuliano Amato, già candidato del patto del Nazareno del 2015 prima che Matteo Renzi virasse su Sergio Mattarella rompendo l’asse con Berlusconi. L’unico ostacolo è costituzionale: la nuova riforma del taglio dei parlamentari del 2020 prevede che i senatori a vita non potranno essere più di 5 (escludendo gli ex presidenti della Repubblica, in questo caso Giorgio Napolitano e tra pochi giorni Sergio Mattarella). Quindi Prodi e Berlusconi, per diventare senatori a vita, dovranno sostituire due dei cinque in carica.

Nel frattempo, però, Berlusconi continua a coltivare il piano A, cioè quello dell’elezione al Colle, anche a costo di promettere una presidenza “a tempo” (due anni). Per farlo arriverà oggi a Roma e continuerà da villa Grande a telefonare ai parlamentari indecisi a cui promette “un futuro radioso in Forza Italia”. Berlusconi ritiene di avere almeno “50 voti in più” tra i parlamentari del Misto e degli ex M5S ma allo stesso tempo nelle prossime ore proverà l’offensiva con Matteo Renzi che può contare su un pacchetto di 43 voti. Dovrà però guardarsi bene dagli alleati che hanno le mani legate perché bloccati su ogni altra trattativa (“Berlusconi ci sta ricattando” sussurra un leghista di peso), a partire dai 31 parlamentari di Coraggio Italia che mercoledì dovrebbero ufficializzare la federazione con i renziani e il sostegno a Mario Draghi. Il candidato che Berlusconi teme di più.

Tele-Silvio: il candidato si fa lo spot (da casa sua)

Berlusconi mette fine alla Guerra fredda. Berlusconi fa sposare l’Occidente alla Russia. Berlusconi vanta importanti riconoscimenti internazionali. E Berlusconi, perché no? fa convergere su di sé tutti i partiti.

Il bestiario dei telegiornali Mediaset nei giorni della corsa al Quirinale del grande capo restituisce il meglio di trent’anni di culto della persona: servizi su quanto B. sia amato all’estero, revisionismo sui processi, frequenti immagini dal passato per mostrarlo in forma e nel fiore degli anni (purché non si vada troppo in là, a prima dei trapianti e trattamenti vari).

 

Tg5, 4.1

L’annuncio: è fatta!

Già a inizio anno il Tg5 dà soltanto certezze: “La coalizione di centrodestra è compatta e punta su Berlusconi”. Come potrebbe essere altrimenti? “Berlusconi può vantare importanti riconoscimenti internazionali, dall’accoglienza riservatagli dal Congresso americano e dal Parlamento israeliano, la Knesset, e al ruolo svolto nel 2002 nel vertice internazionale a Pratica di Mare per scongelare i rapporti tra Occidente e Russia di Putin”. Il tutto corredato da relative immagini, comprese quelle in un Congresso di Washington che diversi senatori descrissero “pieno di stagisti e comparse”. Non è finita: “Infine, il suo tentativo di riconciliazione nazionale il 25 aprile 2009 a Onna, dove ha voluto avvicinare due Italie ancora divise”. Silvio eroe dei due mondi e delle due Italie.

 

Tg4, 7.1

il pendolino

Il Tg4 affida il pendolino del Colle alla firma del Giornale Paolo Guzzanti, ex parlamentare FI: “In un Paese a maggioranza di centrodestra e dove il centrodestra non becca il Quirinale da un sacco di anni, il centrodestra esprime un candidato e su quello dovrebbero convergere gli altri”. Tutti. Al primo scrutinio. “Per motivi vari e sani come quello delle inchieste della magistratura, che hanno intorbidato la scena politica e messo fuori dal Parlamento Berlusconi con una sentenza che la Corte di Strasburgo trova incredibile”. Il teorema è chiaro: la condanna di B. – lungi dall’essere motivo di impresentabilità – è un vanto da esibire per convincere tutti i partiti a votarlo al Quirinale.

 

Tg4, 9.1

il grande giorno

Il medesimo Paolo Guzzanti sul Giornale intervista Antonio Lopez, segretario del Partito popolare europeo. Il quale dice l’ovvio, e cioè che spera nell’elezione di B. al Colle. A Mediaset si stappano le bottiglie buone. Al Tg4 torna Guzzanti, profeta in tutte le patrie sue e di Silvio: “Tutti lo abbiamo visto lavorare all’estero, avere quell’atteggiamento cordiale (le corna nelle foto ufficiali, il mitra mimato alla cronista russa, “Mister Obamaaaa”, ndr) che resta nei rapporti personali che poi possono risolvere cose tremende. Berlusconi al Quirinale e Draghi premier sarebbe un risultato in cui vincono tutti”. Il conduttore Giuseppe Brindisi lancia una clip del 2002. È il già citato vertice di Pratica di Mare: “Guardate questa stretta di mano tra Bush e Putin, si disse che finì la Guerra fredda. Sentiamo Berlusconi”. Il Silvio d’annata festeggia: “La federazione russa sposa l’Occidente”.

 

Studio Aperto, 9.1

Matrioska

Le parole di Lopez esaltano anche Studio Aperto: “Berlusconi al Colle è una vittoria per l’Italia e per l’Europa. A dirlo è Antonio Lopez, storico segretario del Ppe. Il politico spagnolo, intervistato dal Giornale, riflette sull’ipotesi di Berlusconi al Colle sottolineando la grande esperienza internazionale dell’ex premier”. Il telegiornale di Silvio riprende l’endorsement del partito di Silvio a Silvio, sul giornale di Silvio.

 

Tg4, 10.1

Dream Team

Nel day after delle parole del leader spagnolo, al Tg4 c’è ancora da smaltire l’euforia. Ma si sa, quando si muove uno come Lopez mica si può restare indifferenti: “Crescono le quotazioni del leader di Forza Italia, a maggior ragione dopo l’endorsement del segretario del Ppe Antonio Lopez. Il coordinatore azzurro Antonio Tajani parla di dream team Italia con Berlusconi al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi”.

 

Tg5, 10.1

Senza età

Anche al Tg5 ci sono ancora i festoni appesi: “L’ipotesi Silvio Berlusconi appare rafforzata dall’endorsement di Antonio Lopez. Per Lopez, Berlusconi ha due qualità naturali: la competenza nei dossier e quella di sviluppare i rapporti umani. Ricordiamo quel che accadde a Pratica di Mare tra Bush padre e Putin, che sancì la fine della Guerra fredda”. Scorrono le migliori immagini d’archivio. Silvio appare edenico, sorridente e senza età. Pronto per l’agognata didascalia: “Presidente della Repubblica”.

“Il presidente se n’è andato poco prima di impazzire”

Ornella Vanoni, chi le piacerebbe come nuovo inquilino del Colle?

(Ci pensa) È difficile…

Senza dubbio.

Ci vorrebbe una persona intelligente, calma, dotata di forte lealtà e soprattutto non attaccata al successo; senza brame di apparire.

Le sarebbe piaciuto il bis di Mattarella?

Se n’è andato poco prima di impazzire.

Cioè?

Non ne poteva più, non reggeva questa situazione. Per questo ha rinunciato.

Draghi?

È uno forte, ha le palle. Però ora deve restare premier, perché mi sembra uno attivo.

Mentre il presidente della Repubblica…

Lo sappiamo: non ha pieni poteri; chi sale al Colle, ora, deve lottare per tenere unita l’Europa, per non mollare un passo rispetto a certe dinamiche internazionali.

Signora Vanoni, è informata.

La politica l’ho sempre seguita.

A questo punto si sbilanci: un nome.

Mio padre: aveva tutte le qualità elencate prima, peccato che è morto.

E Casini?

(Ride) Chi?

L’ex presidente della Camera.

Rispetto a come si sta muovendo è uno possibile.

E come si sta muovendo?

In silenzio, resta zitto, al massimo manda qualcuno avanti. E in queste occasioni è fondamentale. (pausa)

A cosa pensa?

La questione centrale resta l’ambizione.

Quali sono i punti nevralgici della politica?

Pandemia esclusa?

Va bene.

Siamo tar-tas-sa-ti (lo scandisce molto bene e lo ripete pure) e soprattutto non abbiamo alcuna indipendenza energetica. (Pausa). Certo Mattarella…

Ancora?

Guardi che la sua uscita racconta molto della nostra politica: questi non si mettono d’accordo su nulla e lui li ha mollati.

Presidente donna?

Sarebbe bello…

Ma?

Dovrebbe avere la forza della Merkel e una così non si trova facilmente; (pausa) e comunque all’estero sono presidenti reali, con dei poteri.

Berlusconi?

Oddio.

Lui ci crede.

Oddio.

Lui non scherza.

È talmente ricco, ha belle case: si godesse la vita e stesse un po’ più tranquillo.

Lo sta pensionando…

E torno a prima: a una certa età l’ambizione bisogna abbandonarla, altrimenti ti confonde. E molto.

Per gli artisti non è così…

Non è vero: questo vale anche per noi, anche per i registi; (pausa) quanti anni ha?

85 compiuti a settembre.

(Silenzio) Vabbè…

La fidanzata ne ha 32.

Meglio lasciar perdere. Spero.

 

Renzi, Letta sr, Di Maio e Silvio: Casellati aspira e offre cene “elettorali”

Chi la conosce bene racconta che Maria Elisabetta Alberti Casellati – soprannominata ironicamente da molti senatori “Queen Elizabeth” – abbia una particolare fissazione con il Colle più alto di Roma. Tanto da aver aver obbligato i suoi collaboratori più stretti e i sette portavoce che ha cambiato in tre anni da presidente del Senato a tenere un’agenda quirinalizia. Una contro-agenda di Mattarella. Se c’è da celebrare una ricorrenza, inaugurare un anno accademico, fare un sopralluogo o tagliare un nastro, lei c’è. Solo nell’ultimo mese Casellati ha presenziato all’anteprima dei Fratelli De Filippo al Teatro San Carlo di Napoli, alla prima della Scala, al seminario su Carlo Bo al Palazzo Ducale di Urbino, alla giornata delle Marche, al sopralluogo per i terremotati di Visso, alla cerimonia dello “Scaldino”, alla conferenza per i diritti delle donne all’ambasciata britannica, al seminario per la giornata dello Spazio, all’inaugurazione dell’anno accademico a Palermo e al saluto alle alte cariche dello Stato. In quell’occasione, poco prima di Natale, è stato sfiorato l’incidente diplomatico proprio con Mattarella: Casellati ha parlato per 16 minuti, sfiorando i 17 del presidente della Repubblica. Lui poi ha fatto il suo ultimo discorso di fine anno il 31 dicembre. Lei poteva essere da meno? Certo che no: Casellati ha replicato 24 ore dopo, a Capodanno, in piedi e con un grande albero di Natale alle spalle, con un videomessaggio istituzionale “agli italiani” per augurare loro un buon 2022: “Grazie a tutti i cittadini­ che con il loro senso di responsabilità, il loro coraggio e i loro talenti hanno permesso all’Italia di rialzare la testa e far volare in alto il tricolore”. Un messaggio presidenziale.

Che la seconda carica dello Stato aspiri a succedere a Mattarella, infatti, non è più un segreto. Le sue mosse sono state notate tra i corridoi tappezzati di Palazzo Madama: la sua è stata chiamata, anche qui beffardamente, “la diplomazia della cena”. Casellati infatti si è convinta che il miglior modo per conquistare i suoi grandi elettori sia quello di invitarli a cena a palazzo Giustiniani. Una volta seduti al desco li elogia, si informa sulle loro strategie e, anche se mai esplicitamente, fa capire loro di essere in partita per il prossimo presidente della Repubblica. “Se fosse una donna – va dicendo ai suoi interlocutori – sarebbe un grande passo in avanti per il Paese”. Sta parlando di sé, ovviamente. Negli ultimi mesi ha incontrato a cena Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Gianni Letta e da ultimo Silvio Berlusconi. Il 22 dicembre Casellati ha invitato il leader di Forza Italia per capire quanto fossero reali le sue intenzioni per il Colle: un modo per studiare le mosse del suo primo competitor. Berlusconi però l’ha gelata: le ha confermato di volersi candidare perché “ce la posso fare” e, da quel che è trapelato, la presidente del Senato gli ha garantito il suo appoggio. Eppure chi la conosce bene sa che la corsa di Berlusconi­è quasi impossibile perché è “ divisivo”. Mentre lei, si intuisce, non lo è. Lui, che ha capito le aspirazioni di Casellati, la ricambia con la stessa moneta: “È un’ingrata”.

La presidente del Senato però ha il problema di chi potrebbe votarla. Tra i senatori in pochi le vogliono bene. Per il suo carattere da “zarina” e per la sua gestione “di parte” dei lavori del Senato, basti pensare al ddl Zan impallinato nel voto segreto dall’asse centrodestra più Renzi. Ed è proprio da questa maggioranza che Casellati vorrebbe partire per essere eletta: nella Lega ha ottimi rapporti con Roberto Calderoli (ma non con Salvini), si confronta con Renzi e spera nel voto della destra. A sinistra la amano molto meno, ma lei è convinta che il M5S non farebbe le barricate visto che nel 2018 “mi hanno già votata una volta” per la presidenza del Senato e al Pd farebbe gola la sua poltrona per darla a Luigi Zanda. E poi Casellati, che dal 4 febbraio assumerebbe la reggenza del Quirinale se non venisse eletto un successore di Mattarella, punta sulla paralisi istituzionale. Un nuovo 1992 quando lo stallo delle Camere (e l’omicidio di Falcone) portò all’elezione del presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, al sedicesimo scrutinio. Stavolta il rischio è che la paralisi sia provocata da un Parlamento impazzito e dall’emergenza Omicron che potrebbe falcidiare molti grandi elettori se le votazioni si protraessero a lungo. “La crisi potrebbe portare a me” sussurra Casellati. Anche per mancanza di avversari: il presidente della Camera Roberto Fico ha meno di 50 anni.

Colle: silenzio-assenso di Draghi. Ma il Mattarella bis prende quota

Non risponde alle domande sul Quirinale, Mario Draghi. E neanche a quelle sulla sua permanenza al governo. La conferenza stampa, convocata per spiegare il decreto che introduce l’obbligo vaccinale per gli over 50, la definisce un “atto riparatorio”, mentre si scusa per non averla fatta la sera del Consiglio dei ministri. Ma assomiglia più che altro a un percorso sui carboni ardenti, nel tentativo di non contraddire l’autocandidatura del 22 dicembre, ma anche nella consapevolezza che non può ribadirla. Perché la sua autodefinizione di “nonno al servizio delle istituzioni” ha provocato nei partiti ostilità e alzata di scudi. Perché il pressing nei confronti di Sergio Mattarella per il bis va avanti sotto traccia e il premier non può certo mettersi nella condizione di essere lui l’ostacolo. Perché Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione – almeno per ora – di ritirarsi dalla corsa a suo favore: il rischio caos avanza.

E allora è un premier sulla difensiva, in palese difficoltà, il Draghi di ieri. Lo dice subito, che non risponderà alle domande sul Colle (anzi, i giornalisti erano stati vivamente pregati di evitarle). Al Corriere della Sera precisa di rispondere solo alla parte “accettabile” di una domanda. Alla Stampa dice che non intende rispondere se guiderà ancora il governo. Le scuse formali sono anche un evidente tentativo di cambiare i toni e anche un’operazione di immagine. È opinione diffusa nei Palazzi che – paradossalmente – un premier indebolito sia più accettabile come capo dello Stato dai partiti.

Quel che è chiaro è che il premier resta palesemente in campo, nonostante i rumors della vigilia. Questa, intanto, è la settimana dei vertici politici. Gli occhi sono puntati sull’ultimo in ordine di tempo, quello del centrodestra, venerdì. Berlusconi ieri fa trapelare che FI è pronta a uscire dal governo se non ci sarà più l’ex Bce. Raccontano che Silvio non abbia alcuna intenzione di ritirarsi, né di fare il kingmaker del premier, ma neanche di permettere ad un altro di centrodestra di salire al Colle. La riunione di venerdì servirà anche a chiedergli quanti voti pensa di avere. Matteo Salvini non è contrario alla carta Draghi, al di là delle dichiarazioni. Ma non è detto che vada davvero in quella direzione. Nella difficoltà di trovare un nome alternativo (potrebbe suggerire Gianni Letta al fu Caimano), per lui, come per Berlusconi, sarebbe Mattarella la scelta più indolore.

Il caos nel centrodestra lo evidenzia la riunione di ieri di Coraggio Italia: “fonti” fanno filtrare che il gruppo è pronto ad appoggiare l’elezione del premier. In serata, però, arriva la smentita ufficiale. I tempi non sono maturi, anche se loro sono per Draghi. Prevalgono i doppi e tripli giochi. In primis, quelli di Renzi (con il quale i centristi attendono la federazione) che ha promesso i suoi voti a tutti.

Nel frattempo, al bis di Mattarella c’è chi ci lavora innanzitutto insistendo con lui: è il caso del segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti. E poi, il 24 gennaio ci sarà il picco della pandemia, con i grandi elettori a rischio decimazione. Uno scenario che favorisce per molti il bis. Chi ci spera, nel centrodestra, punta ad andarglielo a chiedere compattamente, con tutti, tranne Giorgia Meloni. Per ora ancora su Draghi. E nell’incontro di Conte con i suoi vice e i suoi ministri, si è discusso del fatto che c’è una forte spinta dei parlamentari per il bis. Già oggi il leader dei Cinque Stelle potrebbe avere un incontro con Enrico Letta e Roberto Speranza. Giovedì si riunisce la direzione del Pd. Il segretario si farà dare un mandato. Con due punti: no a Berlusconi, no alle elezioni anticipate. È pronto a lanciare il premier (ieri lo ha definito “molto convincente”), il resto del Pd molto meno. Con una parte del partito, da Matteo Orfini a Stefano Ceccanti, in prima fila per il presidente. Lo stesso Letta chiarisce: quando Mattarella lascerà il Quirinale “sarò molto triste”. Tanto per capire quanto poco è contrario.

Difficile anche trovare un accordo su un governo alternativo. Allo stato, salgono le quotazioni per un tecnico: unico modo per consentire alla Lega di non uscire, con i giallorossi che premono perché lo faccia. Ma i tecnici in campo (Cartabia, Colao, Franco) sono diversamente sgraditi. Rompicapi rischiosi in tempi di Covid.

Super pass al via sui trasporti: l’1,9% beccato senza sui treni

Multe, allontanamenti e un certo grado di tolleranza, a seconda delle situazioni. In media, il 2% degli utenti del trasporto pubblico in Italia ieri è stato pizzicato senza il super green pass, la certificazione che segue il rispetto delle tempistiche del ciclo vaccinale e che da ieri è richiesto sui mezzi del tpl e nei bar per le consumazioni al banco. Il ministro dei Trasporti, Enrico Giovannini, nel pomeriggio ha fornito i dati dei controlli alle 14: 10 mila persone controllate, 197 sprovviste della certificazione. I controlli riguardano in particolare i treni, non solo le frecce ma anche i regionali.

Dati ancora parziali in arrivo dalle città. La polizia locale di Roma Capitale ieri ha eseguito circa 5 mila controlli, trovando in difetto appena 10 persone, cui è stata elevata sanzione. In particolare, i controllori Atac hanno verificato appena 750 super green pass segnalando ai vigili una sola persona, mentre sui Cotral (i bus extraurbani) sono stati allontanati in 63 su 2369 (il 2,65%). Sulla Circumvesuviana di Napoli, invece, sono stati effettuati 1.472 controlli, di cui 21 (1,42%) respinti senza Green pass e 44 (2,98%) respinti senza mascherina Ffp2. Nessun problema invece sui traghetti tra Calabria e Sicilia. Va meglio – ma anche qui il dato è parziale – al nord: a Milano la Prefettura spiega che “i dati verranno forniti domani (oggi, ndr)”, ma si dice che “non ci sono state criticità”. A Verona solo due “abusivi” su 1.200 certificazioni vagliate, mentre i veneziani sembrano essere stati i più bravi di tutti: nemmeno una multa tra i passeggeri dei vaporetti.

Lavoro agile, Brunetta riesce a smentirsi con il suo “studio”

Il ministro della Funzione Pubblica deve aver ascoltato le suppliche di chi gli chiedeva lumi, magari numeri alla mano e non per “percezione”, sulla decisione di non prevedere, mentre si cerca di tutelare le scuole, lo smart working in emergenza nella Pubblica amministrazione per ridurre la circolazione delle persone e del virus: venerdì ha così pubblicato un working paper di nove pagine nel quale, per lo più spiega, come co-autore, quale sia il nuovo piano d’azione per una “rinnovata” amministrazione pubblica e quali siano gli errori da non ripetere sullo smart working. Ci tiene però a precisare che “sin qui” (si deve presumere fino alla stesura del suo studio) “è mancata un’analisi indipendente, condotta su basi scientifiche e con metodologie trasparenti” delle misure prese sul lavoro agile. Bene, ora che c’è vediamo cosa dice.

Di fatto lo studio pare disconoscere il monitoraggio già presente sul sito del ministero e che ha riguardato il periodo marzo-ottobre del 2020 per ringraziare e attingere a piene mani dalla recente rilevazione dell’Istat dal titolo “Censimento permanente delle Istituzioni pubbliche: risultati preliminari 2020, l’anno dello smart working”. Lo studio brunettiano mette in risalto prima l’ovvio, cioè che “la misura del lavoro agile è stata adottata in forma puramente emergenziale e senza adeguata preparazione”, poi si duole del fatto che il monitoraggio sia parziale e che non ricopra tutta la Pa. Questo non lo frena però dall’attingervi per ciò che gli interessa, dimenticando il resto. Registra i dati sulla produttività e l’efficienza dei servizi al cittadino, monitorati solo da una amministrazione su tre in termini quantitativi e da una su cinque in termini qualitativi. Definisce “normale” (nel senso di “ovvio”) che l’80% dei lavoratori abbia espresso un alto grado di soddisfazione per il miglioramento della qualità di vita e di prestazione e poi però ritiene “non soddisfacente” che solo nel 44,8 dei casi si sia avuto un effetto positivo sulla produttività. Si dirà: evidentemente il 55 per cento avrà registrato un calo di produttività? Il paper non lo dice. Ma se si vanno a guardare i numeri del rapporto Istat si vede che la percentuale ch e segnala il miglioramento della produttività raggiunge il 75% nelle città metropolitane “senza alcuna segnalazione di impatto negativo, dichiarato invece dal 7,8% del totale delle istituzioni pubbliche”. E continua (sempre l’Istat, non Brunetta): “In merito ai servizi erogati a cittadini e imprese, le istituzioni dichiarano a larga maggioranza (53,6%) che lo SW non ha avuto alcun impatto. L’11,8% delle istituzioni ha asserito che vi sono stati effetti negativi e poco più di un terzo (34,6%) effetti positivi”. Insomma, nella maggior parte dei casi l’efficienza è rimasta la stessa. L’Istat conclude dicendo che l’effetto positivo sui servizi prestati ai cittadini è comunque inferiore a quella di enti che segnalano un incremento del benessere dei lavoratori o della produttività e che questo “sembra indicare che la soddisfazione dell’utenza è un ambito non solo più difficile da valutare ma con forti margini di miglioramento”. D’altronde, quando a settembre gli si chiedeva quanto fosse scesa la produttività della Pa in lavoro agile, il ministro era stato molto scientifico: “La percezione degli italiani è disastrosa”.