Scuola “in assenza”: mancano in 400mila (300mila studenti)

Alla ripresa delle lezioni, ieri mattina, “era assente, perché positivo, il 3,6% del personale docente mentre in quarantena, perché contatto stretto, il 2,4%. Tra gli studenti mancavano il 2,2% a casa ammalati e il 4,5% in quarantena”. Questi i dati ufficiali comunicati ieri dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, durante la conferenza stampa del premier Mario Draghi. Il numero uno di viale Trastevere ha anche riferito che “gli insegnanti sospesi, perché non hanno effettuato il vaccino, sono lo 0,72”. Numeri che, tuttavia, raccontano un’altra storia rispetto a quella che arriva dalle scuole. Non solo perché le percentuali fornite dal governo fanno riferimento a un sondaggio effettuato ieri dal ministero al quale hanno risposto solo il 63% delle scuole, ma soprattutto perché non vengono considerati i territori. “Ieri c’erano 100 mila docenti e collaboratori scolastici assenti (il 10% del totale) e circa 300 mila (10%) studenti a casa perché positivi o in quarantena”, ha infatti spiegato il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, confermando la previsione fatta da Tuttoscuola di 200 mila classi in didattica a distanza entro sette giorni. E se si guarda alle Regioni, i dati del governo vengono sconfessati.

Antonella Tozzo, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale dell’Abruzzo ha riferito “un 20% di assenze per gli studenti”. Mentre per docenti e Ata (personale amministrativo, tecnico e ausiliario) “il dato è intorno al 10-15%”. Numeri confermati nella maggior parte delle scuole d’Italia interpellate. All’“Einuadi” di Bassano del Grappa, la preside Laura Biancato ha riferito di aver “avuto il 10% (149) di studenti in Dad (positivi o in quarantena) e il 10% di assenze fisiologiche (131). Cinque classi hanno fatto lezione online perché non sono riusciti a sostituire tutti i professori. Più della metà delle classi sono in didattica mista”.

Per il personale, la preside ha aggiunto: “C’è stato il 15% di assenze tra docenti (19) e Ata (10)”.

Dati preoccupanti anche a Taranto. All’istituto “Vico de Carolis” erano assenti il 5% del personale e il 20% degli alunni che – a detta della preside Vania Lato – “è rimasto a casa per paura dei contagi”.

A Genova le assenze dei collaboratori scolastici e dei docenti hanno oscillato tra il 7% e il 16%. Da Venezia, il governatore Luca Zaia, intervistato a “Mattino 5” su Canale 5 ha lanciato l’allarme: “La situazione è preoccupante, il 25-30% tra studenti e insegnanti non c’è con defezioni dovute a malattia, quarantena o mancata vaccinazione”.

A Torino, all’istituto “Tommaseo”, ieri all’appello mancava un centinaio di studenti, in media due per classe. Al “Salvemini” di Bari era a casa il 15% di studenti, perché positivi o in quarantena (circa 50 su 1.100, 3-4 per ogni classe), mentre quasi tutti i prof erano presenti.

Intanto dalla Campania è arrivata la notizia che la Quinta sezione del Tar ha accolto l’istanza cautelare presentata dalla presidenza del Consiglio e dai ministeri dell’Istruzione e della Salute e, contestualmente sospeso, l’ordinanza con la quale la Regione ha disposto la didattica a distanza in tutte le scuole del territorio. La trattazione collegiale è stata fissata per l’8 febbraio prossimo. Non solo. Il presidente del Tar Campania, Maria Abbruzzese, nel decreto con il quale ha accolto il ricorso presentato da alcuni genitori sospendendo l’efficacia del provvedimento di De Luca ha scritto: “È palesemente contrastante rispetto alle scelte, politiche, operate a livello di legislazione primaria, peraltro incidente in maniera così evidentemente impattante sui livelli uniformi (a livello nazionale) di fruizione di servizi pubblici tra i quali quello scolastico”.

In Sicilia, invece, l’assessore all’Istruzione Roberto Lagalla sta ipotizzando di tenere chiuse le scuole 5 giorni anziché tre. Sullo sfondo la polemica sulla mancanza delle Ffp2 per tutti. Giannelli, nell’incontro avuto ieri con il ministro le ha chieste. Così come richiede la maggior parte dei presidi, tanto che il ministro Bianchi è stato costretto a spendere una promessa: “Porterò la questione in Consiglio dei ministri”.

I medici: “Decimata l’attività chirurgica, 2 anni passati invano”

Con più di 101 mila nuovi casi ieri i positivi al Covid-19 hanno sfondato il tetto dei due milioni. I ricoverati sono saliti a 16.340 (+693 il saldo), quelli nelle terapie intensive a 1.606 (+11 il saldo, 114 gli ingressi in 24 ore).

La pressione sugli ospedali comincia a essere di nuovo così forte da rallentare o paralizzare le attività chirurgiche non urgenti “con una riduzione degli interventi generali che arriva già in media al 50% con punte dell’80”, rivela la Società italiana di chirurgia. E il quadro sembra fosco col tasso di reinfezione di Omicron, secondo alcuni studi oltre cinque volte superiore alle altre varianti, tanto che in Spagna negli ultimi quindici giorni se ne contano più di quelle registrate da inizio pandemia.

Un dramma che si ripete a ormai due anni dall’inizio della pandemia, con le inevitabili conseguenze. “Nelle regioni – dice Marco Scatizzi, presidente di Acoi, Associazione dei chirurghi ospedalieri –, si stanno nuovamente chiudendo i reparti di chirurgia per riconvertirli in posti letto Covid, le sale operatorie sono decimate per destinare i chirurghi nei Pronto soccorso e nelle aree Covid, le liste d’attesa stanno nuovamente allungandosi: stiamo ritornando esattamente allo scenario delle altre ondate, come se questi due anni fossero passati invano”. E per Scatizzi “è allucinante scaricare il peso di questa nuova ondata sul sistema sanitario facendo crescere la pressione sugli ospedali senza intervenire su nuove restrizioni”. Condizione che si verifica dalla Lombardia – dove i ricoverati in area medica sono quasi tremila, quelli in terapia intensiva 246 – alla Sicilia, che conta 1.303 ricoveri, con 143 persone che necessitano di cure intensive. Si salvano per ora solo regioni come la Basilicata, il Molise, la Valle d’Aosta, dove i numeri sono molto più contenuti. “In questi ultimi giorni – continua Scatizzi – mi sto confrontando quotidianamente con i colleghi di tutte le regioni italiane: nel Veneto, nel Friuli, nel Trentino, in Piemonte abbiamo situazioni gravissime dove l’attività chirurgica si è quasi completamente fermata. Parliamo di migliaia di pazienti che rischiano di non essere curati o dove non è possibile diagnosticare malattie tempo-dipendenti come i tumori”. Problema aggravato dal fatto che in corsia mancano tanti operatori sanitari – medici, infermieri, oss – che hanno contratto il virus.

In Lombardia i malati che richiedono la terapia intensiva sono convogliati sugli ospedali hub. “Ma ci stiamo avvicinando al tetto – prosegue Magnone – superato il quale non possiamo più lasciare liberi gli ospedali periferici”. Situazione che si ripete in Piemonte, dove la Regione ha coinvolto le strutture sanitarie private per tentare di ridurre le liste d’attesa. “Ma siamo sempre in rincorsa – dice Roberto Testi, medico, dirigente all’Asl Città di Torino –. Dopo un anno abbiamo di nuovo sospeso gli interventi differibili”. Ora infatti vengono garantiti solo gli interventi chirurgici per le urgenze e per i tumori.

Draghi tutto scuse e non risposte: “Siamo primi, vinceremo la sfida”

La conferenza stampa in cui il governo ha deciso quali domande fossero “accettabili” e quali no è finita con le scuse. Nel congedarsi, Mario Draghi ha ricordato le “critiche che il governo e io in particolare abbiamo ricevuto per non aver fatto la conferenza stampa il giorno in cui il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto” e ha riconosciuto una certa “sottovalutazione delle attese che tutti avevano, per cui – ha detto – mi scuso e vi prego di considerare questo come un atto riparatorio”. Capirai, il governo il 5 gennaio, con il quinto decreto in sei settimane, ha solo imposto l’obbligo vaccinale contro il Covid-19 per chi ha compiuto i 50 anni, circa metà della popolazione tra cui 2,2 milioni di persone senza nemmeno una dose (ma non sappiamo quanti esentati per motivi di salute). È una misura senza precedenti nei Paesi con cui ci piace confrontarci. L’attesa di qualche spiegazione, in effetti, c’era.

Il presidente del Consiglio ha chiesto “unità” e ha spiegato di aver introdotto l’obbligo “sulla base dei dati, che dicono che chi ha più di 50 anni corre maggiori rischi”. Certo, chi ne ha più di 60 rischia ancora di più e infatti la Lega avrebbe preferito quel limite, mentre Draghi e il ministro della Salute Roberto Speranza, almeno dal 30 dicembre, preferivano imporre il green pass rafforzato (vaccino o guarigione e quindi un obbligo indiretto) a tutti i lavoratori anche under 50 che rischiano meno. Più che i mitici dati, è stata una mediazione politica. Sull’obbligo vaccinale non è neppure stato consultato il Comitato tecnico scientifico.

Ma soprattutto, l’obbligo non farà miracoli a breve. E invece i contagi e i ricoveri dovrebbero essere ridotti subito, se è vero che la Società italiana di chirurgia ieri ha reso noto che l’eccesso di malati di Covid nelle terapie intensive costringe a rinviare tra il 50 e l’80 per cento degli interventi, anche su pazienti oncologici, come del resto era previsto dalla Società degli anestesisti rianimatori (Siaarti) già alla fine di novembre. Secondo la Fondazione Gimbe lunedì prossimo potremmo passare dal 17 al 20 per cento di pazienti Covid nelle terapie intensive e dal 24 al 38 per cento nell’area medica. Avremmo voluto chiedere al presidente del Consiglio quali obiettivi abbia nell’immediato, ma anche stavolta non ci è stato permesso di fare domande.

“Possiamo essere tanto più liberi quanto più ridurremo i non vaccinati”, ha detto ancora Draghi. Se tutti si vaccinassero avremmo meno casi gravi, non c’è dubbio. Però la variante Omicron infetta molto anche i vaccinati – specie con due dosi non recenti – e i guariti: le reinfezioni, secondo il Financial Times, sono tra il 10 e il 15 per cento; l’Istituto superiore di sanità ha parlato di quintuplicazione del rischio. Di qui l’insistenza di Draghi e speranza sulle terze dosi.

“Non c’è stato alcun contrasto nel Cts e non si è mai posto il problema di essere inascoltati”, ha spiegato il professor Franco Locatelli, coordinatore del Comitato. Tuttavia il Cts non è stato interpellato sul decreto deciso il 5 gennaio: “C’è stata una riunione il 7 e nessuna voce dissonante si è levata”, assicura Locatelli. E nel decreto del 30 dicembre 2021, che ha eliminato la quarantena per i “contatti stretti” con tre dosi o due o guarigione recenti, il governo ha travolto i paletti suggeriti dal Cts.

Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha ricordato i 90 milioni di euro affidati al generale Francesco Paolo Figliuolo per pagare le farmacie che dovrebbero fare i tamponi gratuiti agli studenti. Ma dopo la Caporetto delle Asl e il bluff dei laboratori militari, il nuovo sistema ancora non decolla. E neppure sono arrivate a tutte le scuole le mascherine Ffp2, già obbligatorie in alcuni casi. “A differenza forse del passato, la nostra priorità è tenere la scuola aperta”, ha detto Draghi, sottolineando che l’anno scorso in Italia si sono persi 65 giorni di scuola contro i 27 di altri Paesi. “Ci sta maggiormente a cuore il benessere psico-fisico degli studenti”, ha ribadito Locatelli. Il Cts, in effetti, ha sempre chiesto scuole aperte. Uno però si domanda perché il governo abbia bocciato il bonus per lo psicologo e non si sia neppure preoccupato dei sistemi di aerazione nelle scuole. E ci sarà da capire se l’abolizione della quarantena per i doppivaccinati recenti si applicherà anche ai bambini che hanno contatti con positivi a scuola: la norma sulle scuole, infatti, non la richiama.

 

I PARERI

Fragile

Tra emergenza e intimidazioni l’uomo solo al comando non c’è più

Le intimidazioni della destra (“guai a te se provi a lasciare il governo, il Quirinale spetta a noi”), le ammaccature dovute alla litigiosità fra partiti antitetici, l’autocritica sulle mancate comunicazioni a un paese assai turbato dall’ondata dei contagi, umanizzano la figura del supertecnico Draghi, non più solo al comando. Si è come ritratto, gli piacerebbe poter dire “qui non si parla di politica”. Attacca duro su due temi popolari: scuole aperte e costringiamo alla resa i no-vax. Mentre sorvola sui punti deboli (caos tamponi e mascherine, sanzioni per chi viola l’obbligo vaccinale) e sulle incognite che rimettono in forse la ripresa economica. Il suo insistito richiamo all’unità, cioè al prolungamento dell’innaturale esperienza del governo degli opposti, sapendo che la destra è tentata di rovesciarlo, finisce per incastrare Draghi in una posizione scomoda. Da dominus di una politica commissariata, rischia di trovarsene ostaggio. Senza l’aureola dell’invincibile, dovrà parare colpi duri.

Gad Lerner

 

Priorità

Si lascia correre il virus per salvare economia e didattica

L’incontro di ieri ha esplicitato la strategia: lasciar correre il virus per preservare economia e didattica perché a morire e a finire in terapia intensiva sono in prevalenza i no-vax. Per il resto, visto che le domande vere sono state tre al massimo, abbiamo solo capito che Draghi pensa ancora di abbandonare in piena tempesta la nave per andare al Colle. Non sappiamo invece perché la multa per i no-vax sia di soli 100 euro; non sappiamo perché le mascherine Ffp2 siano obbligatorie per partecipare ai punti stampa del premier e non per andare a scuola; non sappiamo cosa deve fare uno studente che si negativizza, ma non riceve il certificato di guarigione (e non lo sa nemmeno il ministro Bianchi che ha detto “rifletteremo”). E infine non abbiamo capito cosa intenda fare il governo per velocizzare le terze dosi indispensabili per rendere meno numerosi i contagi tra 16 milioni di bi-vaccinati che se positivi nelle prossime settimane non andranno al lavoro. Nessuno però lo ha chiesto. E nessuno lo ha spiegato.

Peter Gomez

 

Retromarcia

Il premier (in ritardo) spiega soltanto ciò che vuole lui

Con un ritardo di appena 5 giorni, Draghi si concede alla stampa per conferire con essa. Non credeva di dover rispondere del decreto (si scusa signorilmente per l’assenza, è che questa democrazia è piena di formalità e seccature). Si sceglie gli argomenti (niente Quirinale: come se l’avessimo fatto noi, l’autoendorsement con lezioncina sulla maggioranza) e risponde solo alle “parti accettabili” delle domande. Alla faccia dell’accountability. Il discorso è striminzito (forse per evitare di dire cose come “Il Green pass dà la garanzia di essere tra persone non contagiose”). Ribadisce la linea: stanare i novax erodendo la loro vita sociale, e scuola in presenza (Figliuolo ha detto che nelle scuole ci sono distanziamento e Ffp2: non è vero). Non parla di trasporti, smartworking, tracciamento, tamponi, cure, perché si è deciso di non fare più niente a riguardo. L’economia è a più 6%. Così si spiegano le quarantene ridotte e il rischio non ragionato.

Daniela Ranieri

Delitto di tampone

Sempre premesso che chi scrive è trivaccinato, da vent’anni si fa pure l’antinfluenzale e si sottoporrà – ove prescritto dalle Autorità – anche all’eventuale settantatreesima dose, si spera sia consentita una domanda: ma di che dovrebbe rispondere Virginia Raggi, sorpresa da Repubblica nientemeno che a fare la coda per il tampone in farmacia? La presunta notizia viene diramata dalla libera stampa con toni scandalizzati mai usati per politici di qualunque partito (esclusi i 5Stelle) beccati a frodare il fisco per 368 milioni di dollari, o a rubare 49 milioni di euro allo Stato, o a farsi stipendiare da un assassino saudita, o a farsi rimborsare mutande verdi e cene private dai contribuenti. Fare la fila per il tampone, esercizio peraltro richiesto dallo Stato in una serie di casi, dovrebbe essere lodevole: sia perché, se nessuno lo facesse, non sapremmo nulla dei contagi; sia perché di politici in coda se ne vedono pochini.

Ma nel caso Raggi il tampone è un grave indizio di colpevolezza: l’ex sindaca, solo per essere contraria all’obbligo vaccinale (inesistente in quasi tutto il mondo), sarebbe “No vax” o “Ni vax”. Come se il tampone se lo facessero solo i non vaccinati e i vaccinati non si infettassero e non contagiassero (ma a queste fesserie non crede più nessuno: salvo il premier). E come se non vaccinarsi fosse vietato a tutti. Dal 1º febbraio sarà multato, anzi tassato, chi ha più di 50 anni e non si vaccina: purtroppo la Raggi ha 43 anni, dunque se non si vaccina non viola alcuna legge. E allora di che la chiamano a “rispondere” l’assessore D’Amato, il garrulo Calenda e i soliti piazzisti di Big Pharma? Vogliono sapere se è vaccinata? Ma lo sanno che la legge la stanno violando loro perché la Privacy vieta di diffondere notizie sulla salute e i trattamenti sanitari delle persone? Chi vuole divulgarle in proprio può farlo, ma nessuno può pretenderlo o farlo al suo posto. Invece da mesi, nel sonno del Garante, giornali, siti e tv spiattellano nomi, cognomi, diagnosi e terapie di privati cittadini malati di Covid (purché No vax) e ne annunciano la morte col compiaciuto sottotesto “Ben gli sta, tiè”. In tv si interrogano gli ospiti sulla loro salute e vaccinazione, costringendoli a rispondere per evitare cacce all’untore tipo Raggi. O tipo Djokovic, dipinto in mondovisione come un furbastro fuorilegge e costretto a “confessare” di aver preso il Covid a dicembre. Poi naturalmente tutti a fare i garantisti della privacy nell’unico caso in cui non c’entra: quello di un vecchio premier satiriaco il cui stato di salute (si fa per dire) da premier comprometteva l’immagine e la sovranità del suo Paese e ora lo rende incompatibile con il Tribunale, ma non con il Quirinale. È solo un’impressione, o stiamo diventando tutti matti?

“Sono ancora Scialoja? Anche Clooney è E.R.”

Marco Bocci, la sua opera seconda, La caccia, com’è?

Radicalmente diversa dal mio esordio alla regia del 2016, A Tor Bella Monaca non piove mai, e a stupirsene sono stati per primi gli attori. Il titolo è provvisorio, quello definitivo forse sarà L’amore al contrario. Ma la caccia ha un senso, è una metafora: andare a caccia, portarsi a casa una sorta di bottino, l’umanità del prossimo.

Tre fratelli, Filippo Nigro, Paolo Pierobon e Pietro Sermonti, e una sorella, Laura Chiatti, riuniti alla morte del padre.

Si amano follemente, però non si frequentano, non riescono a guardarsi negli occhi. Costretti a vivere in modo troppo rigido da bambini, non ne sono usciti formati come voleva il padre, bensì distrutti psicologicamente: mal comune mezzo gaudio, si ritrovano, ma non sanno stare insieme.

Allegoria, anzi, allegria…

È una storia complicata, volevo raccontare l’anima delle persone, nella maniera più cruda, più violenta. Dolore, piacere, possibilità, e una sorta di salvezza: rincorrere, come facciamo tutti quanti, una maniera sana di vivere e viversi.

L’ispirazione?

Una riflessione, amara: siamo ormai condannati a una vita non più fatta di rispetto per l’altro, condivisione e comunione, bensì di autorealizzazione, economica, professionale e sentimentale, di noi stessi. A questo ho aggiunto il sangue, la fatica e i paraocchi della famiglia, dove l’amore se c’è è difficile da manifestare. Dunque, l’individualismo cosmico in una società complessa e la caccia, di cui pur non essendo cacciatore da umbro conosco sin dall’infanzia linguaggio e meccanismi.

Per Wikipedia rimane “un attore italiano, noto per il ruolo del commissario Scialoja nella serie tv Romanzo Criminale e del vicequestore Calcaterra in Squadra antimafia.

Wikipedia sta indietro, ma non dice il falso: sono “noto per” quello, non mi illudo. Parti importanti, in virtù delle quali i più mi ricorderanno sempre, ed è giusto così: prima dell’uscita di Romanzo criminale a Roma prendevo bus e metro, una settimana dopo era impossibile. Pure George Clooney…

George Clooney?

È ricordato ancora per E.R., non so come spiegarmi.

In Italia, almeno dal triangolo Anna Magnani, Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, amore e set si sono sempre incrociati: ne La caccia lei dirige sua moglie, Laura Chiatti.

Noi abbiamo fatto il percorso opposto: prima coppia, poi il corteggiamento, mio, per lavorare insieme. Laura non pensava fosse una buona scelta, e nemmeno io ero del tutto convinto, ma siamo stati felicemente smentiti.

Che cosa invidia a Laura?

Schiettezza, naturalezza, la capacità di non farsi mille paranoie: per lei il mestiere è solo divertimento, io mi ci arrovello.

L’invidia degli altri la sente?

Sono un disastro, non ci faccio caso. Ragiono sempre per buona fede, non vedo mai il male, per cui prendo tante inculate: nemmeno me ne accorgo, me le raccontano dopo.

È nato a Marsciano, venti chilometri da Perugia, il suo secondo romanzo s’intitola In provincia si sogna sbagliato. Davvero?

Una provocazione, non esistono sogni sbagliati, al contrario, volevo stigmatizzare un mondo che si vuole limitato ai confini del paese, un ambiente povero non di risorse, ma di mentalità. Un’attitudine spicciola, ignorante, scarsa, questo è sbagliato.

I suoi di sogni?

Teatro, prima dialettale, poi in piazza, le tournée, il conservatorio, quindi Ronconi, il sacrificio, e l’amore. Sono ventiquattro anni che faccio questo mestiere, e la logica dell’apparire non l’ho mai avuta, mai avrei pensato di fare serie tv e cinema: il mio pensiero era piccolo, di provincia, fantasticavo coi piedi per terra, sognavo dietro l’angolo.

E Romanzo criminale?

Mi ha frastornato, sebbene non mi sia lasciato prendere dal panico. I problemi sono arrivati dopo: l’ho digerito male, sentivo il pregiudizio verso colui che ha avuto tanto successo. Per rompere questo stigma mi son messo a scrivere, racconti, sceneggiature, ma non lo facevo più come prima, per sfogo, per liberazione, ma appunto per cercare di far vedere che…

Prima la storia con Emma Marrone, poi il matrimonio con Laura Chiatti: il gossip non ha aiutato.

Sono riservato, mi son trovato a vivere in maniera molto esposta, e non ero in grado di gestirlo: ho patito, sofferto, mi ritrovavo sbattuto in virgolettati di cui non mi fregava un cavolo. Ma quella sovraesposizione ha richiamato un surplus di isolamento e una spinta interna: ho buttato fuori cose che avevo bisogno di buttare fuori.

Modelli ne ha trovati?

Per La caccia potrei dirle Thomas Vinterberg, Lars von Trier, Yorgos Lanthimos o – è folle solo confessarlo – la nostra Lina Wertmüller. Ma…

Dica, Marco Bocci.

Metto in scena solo le dinamiche che conosco. I miei figli sono più importanti di Fellini.

Uffizi, monarchia assoluta del sovrano Eike Schmidt

Secondo lo Statuto, il Comitato scientifico degli Uffizi è riunito dal direttore del museo con “cadenza almeno semestrale”. Ma in tutto il 2021 il Comitato non è stato convocato nemmeno una volta: così che per l’anno appena finito non esiste “la relazione annuale di valutazione annuale delle Gallerie”, e nessuno ha verificato e approvato “le politiche di prestito e di pianificazione delle mostre”: alcuni dei compiti che spettano al Comitato stesso.

Lo so per certo: perché sono uno dei quattro membri di quel comitato, designato dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali. E perché non ti dimetti, invece che raccontarlo su un giornale, direte voi? Semplice, perché ci ho già provato. L’ho fatto nel febbraio 2020, insieme a tutto il comitato: perché già allora il nostro lavoro era completamente vanificato dal solipsismo arrogante del direttore. Scrivemmo al ministro Franceschini: “Pensiamo che le dimissioni collettive del Comitato del più importante museo italiano renda ineludibile un ripensamento e una ridefinizione del ruolo dei Comitati Scientifici nel governo dei musei autonomi”. La risposta arrivò molti mesi dopo, nel luglio del 2020: il capo di gabinetto di Franceschini, Lorenzo Casini, ci scrisse una lettera “d’ordine del ministro”, in cui scriveva che “tenuto anche conto della importante fase di ripresa che aspettano il Paese, il Ministero e naturalmente le Gallerie degli Uffizi, sarebbe importante per questa amministrazione poter continuare a fare affidamento sulle vostre competenze. Vi chiederei, dunque, di riconsiderare la decisione da voi presa a febbraio, con l’auspicio che possiate proseguire a offrire il vostro contributo come membri del comitato scientifico delle Gallerie”. Dopo assicurazioni verbali che il Ministero avrebbe garantito l’applicazione dello Statuto, accettammo di riprovarci: evidentemente sbagliando. A rendere la cosa grottesca, nell’ottobre 2021 il Comitato è stato confermato per altri cinque anni: cinque anni di esistenza solo sulla carta.

Se ci fossero stati dubbi sul fatto che i musei come sono stati ridisegnati dalla riforma Franceschini non sono enti di ricerca e conoscenza, ma uffici propaganda della politica con uomini soli al comando, questa vicenda clamorosa serve a fugarli del tutto.

Il massimo museo italiano vive da un anno senza direzione scientifica, e il suo direttore opera senza essere valutato né consigliato: e a nessuno sembra non dico grave, ma nemmeno interessante.

Sono davvero tante le cose di cui avrei voluto parlare in quel comitato. A partire dall’idea stessa di museo che gli Uffizi stanno imponendo.

Pochi giorni fa un sito certo non sospettabile di leninismo né di pauperismo francescano (We Wealth!) ha commentato la notizia che “la Galleria degli Uffizi ha fatto riprodurre in nove copie digitali ‘Nft’ il dipinto di Michelangelo Buonarroti Tondo Doni. La prima di queste ‘copie’ è stata venduta per 240mila euro”, mettendola in relazione “alla visione del direttore della Galleria, Eike Schmidt, secondo cui il museo è un’azienda, [per cui] gli Uffizi ripeteranno il redditizio esperimento con altre opere”. E osservando: “Dal punto vista legale, non esistono impedimenti. Da quello dell’arte, che pure accetta la novità di buon grado, non sottolineare le differenze tra opera materica e digitale è un errore”. Ecco una questione di cui avremmo dovuto discutere: una tra mille.

Ne cito solo un’altra: capitale. L’iniziativa degli Uffizi diffusi. In pratica l’idea di esporre in sessanta sedi sparse per la Toscana (“ma io ne vorrei cento”, dice il direttore) opere degli Uffizi, portando ovunque il marchio del celeberrimo museo. Insomma, il franchising: gli Uffizi come Benetton. Un progetto amatissimo dagli amministratori locali, che vedono sbarcare nel loro territorio la gallina fiorentina dalle uova d’ora della bigliettazione. Ma anche un progetto che riesce a fare strame insieme della storia di una galleria principesca e della ricchissima geografia storica e artistica della Toscana.

È un singolare paradosso: la nascita dei musei autonomi è avvenuta a spese della tutela del patrimonio diffuso sul territorio e dei musei minori. E ora che le Soprintendenze sono moribonde e le Direzioni museali delle regioni soccombono per inedia economica, ecco che i super-musei partono alla conquista del territorio, colonizzandolo con il loro marchio. Intendiamoci: moltissime opere entrate agli Uffizi dopo la fine del collezionismo mediceo potrebbero benissimo essere restituite alle loro sedi originali (quando esistano ancora e non si producano falsi storici), ma allora non sarebbero gli strombazzati “Uffizi diffusi”, bensì la paziente ricucitura di quei territori.

Sfide appassionanti, sirene pericolose, sfrenate ambizioni personali: un groviglio che si poteva, e doveva, dipanare in una discussione scientifica. Proprio quella che non si vuole: forse perché in fondo di scientifico non c’è davvero più nulla, in questo circo.

Spiagge. La riforma (obbligata) delle concessioni è “partecipata”, ma solo dai lobbisti dei balneari

Qual è il confine tra interesse pubblico e privato quando va scritta una normativa? Praticamente nullo quando si ha a che fare con i balneari che, dopo aver dimostrato la potenza della loro lobby – fin qui mai un partito è riuscito ad aprire il settore alle regole della concorrenza – ora sono arrivati direttamente a partecipare alla sua riforma. Oggi, infatti, le associazioni degli imprenditori balneari dovranno trasmettere al governo un documento con le loro proposte per il rinnovo delle concessioni demaniali marittime e fornire i nomi dei tecnici da loro incaricati. La modalità di lavoro, denunciata su Twitter dal vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini (“Che si proceda in segreto e coinvolgendo solo i balneari è gravissimo”), è stata decisa martedì scorso al termine dell’incontro dei balneari con il ministro del Turismo Massimo Garavaglia e quello dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, oltre ai tecnici del ministero degli Affari regionali. Ma sono diversi i vertici che ci sono stati tra il governo e le associazioni di categoria dacché, a novembre, il Consiglio di Stato ha imposto la proroga delle concessioni solo fino al 2023, anziché fino al 2033. Una condizione anomala che va avanti da 16 anni. Un rapido riassunto.

È del 2006 la direttiva europea Bolkestein che prevede di mettere a gara la gestione delle spiagge (e non solo), senza però che sia mai stata recepita dall’Italia. Di proroga in proroga, l’ultimo slittamento delle concessioni, fino al 2033, è stato inserito nella legge di Bilancio del 2018 su spinta della Lega: era la stagione di Matteo Salvini di casa al Papeete Beach di proprietà dell’europarlamentare leghista Massimo Casanova. Contro quella decisione sono però arrivati i ricorsi al Tar, alcune sentenze contrastanti e, infine, la decisione del Consiglio di Stato che prevede dal primo gennaio 2024 l’apertura alle regole della concorrenza, con “tutte le concessioni demaniali che dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente se vi sia o meno un soggetto subentrante nella concessione”. Pure perché l’Italia, dopo una prima procedura d’infrazione (2009) e una bocciatura alla corte del Lussemburgo (2012) ora ne rischia un’altra e ha già ricevuto una lettera di messa in mora da Bruxelles. Gli attuali concessionari potranno comunque partecipare alle gare che saranno bandite.

Chi sono? Il settore è formato da circa 15 mila imprese, per lo più a conduzione familiare, che per decenni hanno investito per costruire e mantenere chioschi, gazebi, cabine, bar, ristoranti che però si trovano sulla spiaggia, un bene demaniale, per il quale pagano un canone spesso irrisorio. Così, quella che dovrebbe essere una gigantesca risorsa economica, si traduce in un misero introito per lo Stato: le concessioni portano all’Erario appena 105 milioni di euro, a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma in 15 miliardi di euro annui. E per questo le concessioni, secondo le indicazioni europee, vanno messe a bando. Il governo ha però scelto, durante la fase di scrittura della riforma, di parlare solo con gli operatori del settore.

 

Ecco come il salario minimo può eliminare lo sfruttamento

L’approvazione del salario minimo legale in Italia è ormai sempre più urgente. Sul tema giace in Senato un progetto di legge (a prima firma Nunzia Catalfo, M5s) che, se approvato, costituirebbe una riforma di grande portata. Il motivo è semplice: oltre a stabilire un “pavimento” retributivo, ossia un minimo salariale orario (9 euro lordi) valido per tutti i settori produttivi e per tutti i lavoratori, rende generale (o, come si dice, erga omnes) l’efficacia dei contratti collettivi e recepisce in legge le regole in tema di rappresentanza sindacale stabilite dall’accordo interconfederale del gennaio 2014.

L’obiezione che viene sempre presentata contro l’introduzione del salario minimo è che potrebbe comportare una “fuga” dei datori di lavoro dalla contrattazione collettiva, visto che questa, da noi, non ha di per sé efficacia generale (erga omnes) per la mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione. Questa obiezione, però, è infondata perché la legge ordinaria, sviluppando la garanzia costituzionale della retribuzione adeguata (articolo 36 della Carta) può senz’altro stabilire che i lavoratori abbiano comunque diritto a un trattamento economico-normativo “non inferiore” a quello previsto dai contratti collettivi di settore.

Adesso, però, sta per essere approvata la direttiva europea sul salario minimo legale ed è quindi arrivato il momento di spiegare perché quel progetto, divenendo legge, costituirebbe una rivoluzione economico-sociale e una rottura definitiva, nella pratica e non solo in teoria, con lo sfruttamento e il sotto-salario. Per comprenderlo adeguatamente occorre, però, percorrere un breve cammino giuridico. Bisogna partire dalla constatazione che, in tema di retribuzione, il nostro ordinamento presenta una debolezza e una forza contrapposte. La debolezza è costituita dalla circostanza che la contrattazione collettiva, benché sviluppata e articolata in tutti i settori produttivi, non ha mai, di per sé, efficacia generale, nel senso che i datori di lavoro sono legalmente tenuti ad applicarla solo se iscritti alle organizzazioni datoriali stipulanti (Confindustria, Confcommercio). Ma c’è, per converso, anche un elemento di forza costituito dalla peculiarità, tutta italiana, della presenza dell’articolo 36 della Costituzione, norma per la quale ogni lavoratore può rivolgersi al giudice del lavoro lamentando l’inadeguatezza del salario e chiedendogli di stabilire, con sentenza, un livello più alto e il pagamento degli arretrati. Il giudice, normalmente, fa riferimento al trattamento economico previsto dai contratti collettivi ai fini di accogliere o respingere la richiesta, ma solo “normalmente”, perché il giudice può anche “andare sotto” alle tariffe collettive, valendosi della sua discrezionalità di giudizio.

Dunque si può dire che, concettualmente, un salario minimo legale in Italia già esiste, ma può essere preteso e quantificato come diritto certo solo attraverso l’opera del giudice. Ed è questo il motivo per cui, se il suo datore di lavoro non è iscritto ad associazioni datoriali, il lavoratore che percepisca, poniamo, 4 euro di salario orario non può ottenere dall’Ispettorato del lavoro che esso, attraverso un procedimento di ingiunzione (detto “diffida accertativa”) recuperi la differenza rispetto a un valore superiore (ad esempio 12 euro). E non può, appunto, perché non esiste, prima della pronunzia di un giudice, un suo credito retributivo differenziale certo e quantificato, di cui vi è necessità per poter emettere una “diffida accertativa”. Con l’approvazione del progetto di legge Catalfo cambierebbe tutto, a partire da questo punto essenziale, perché i minimi previsti dal contratto collettivo (o il minimo legale di 9 euro) diverrebbero cogenti e predeterminati e il lavoratore potrebbe ottenere dall’Ispettorato, tramite diffide accertative, il loro rispetto, con il pagamento degli arretrati.

Sembra una sottigliezza “da avvocati” e invece sarebbe una rivoluzionaria novità: la lotta al sotto-salario potrebbe essere condotta energicamente in via amministrativa e non più solo in via giudiziaria. Non occorrerebbe più ai lavoratori intentare una causa in Tribunale, ma basterebbe loro rivolgersi a degli uffici specializzati nel recupero. Sorgerebbero allora come funghi distaccamenti sindacali, enti di patronato, sportelli di associazioni di vario tipo, uffici di “avvocati di strada” pronti a tutelare il lavoratore dal sotto-salario e ad accompagnarlo all’Ispettorato del lavoro (dove operano anche nuclei di Carabinieri) perché questo recuperi rapidamente e senza spese le differenze retributive. La palude enorme e mefitica del sotto-salario verrebbe in breve tempo bonificata, con immenso vantaggio materiale ma anche morale.

Volendo si può: la Spagna dice che la precarietà è “fuorilegge”

La Spagna, col Real Decreto-ley 32 del 28 dicembre, ha operato una riforma rilevante delle regole del lavoro sinora vigenti. Nel ventennio trascorso, sia i governi della destra sia quelli socialisti, avevano più o meno largamente ceduto alla spinta verso la flessibilità e, in sostanza, avevano squilibrato il mercato del lavoro a vantaggio dei datori di lavoro, come d’altronde è avvenuto anche in Italia nello stesso periodo (in forma estrema nel 2015 con il Jobs Act di Matteo Renzi).

La riforma è stata preceduta da una lunga trattativa con le parti sociali, che – contro le previsioni più diffuse – ha portato a un accordo non solo con le due grandi organizzazioni sindacali spagnole – la UGT socialista e le CC.OO. di tradizione comunista – ma anche con le due organizzazioni datoriali, CEOE (con qualche importante dissenso interno) e CEPYME. Non sono ovviamente mancati momenti di seria tensione all’interno del governo, in particolare tra la ministra del Lavoro comunista Yolanda Diaz e l’ala dei socialisti più legata all’impostazione precedente, impersonata dalla vice-presidente Nadia Calviño.

I contenuti essenziali del decreto – che come vedremo ora deve passare da una non semplice approvazione parlamentare – sono:

1) Restrizione del ricorso ai contratti a termine, che in Spagna – prima della crisi pandemica – toccavano la quota del 22,3% del totale contro una media dell’Unione Europea del 12,8% e italiana del 13,4% (dati 2019 della Commissione Europea: Employment and Social Development in Europe, 2020)

2) Adeguamento delle regole del contratto collettivo, che in Spagna è densamente regolato per legge

3) Garanzie per chi lavora in appalto e in subappalto

4) Predisposizione di un meccanismo permanente idoneo a evitare che le crisi si tramutino immediatamente in licenziamenti: qualcosa di paragonabile alla Cassa integrazione guadagni italiana.

Per il primo aspetto, cui Yolanda Diaz ha dato particolare rilievo, occorre ricordare che la Direttiva europea 70/1999 prevede tre possibilità per evitare l’abuso dei contratti a termine:

a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti (lasciando, secondo l’interpretazione prevalsa, libertà di stipulazione per il primo contratto precario)

b) fissazione di una durata massima totale dei vari contratti successivi

c) limitazione del numero dei contratti

Ebbene in Spagna, con il decreto di cui si parla, il contratto di lavoro si presume a tempo indeterminato e potrà avere un termine solo per circostanze produttive o sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Il contratto a termine, poi, non può durare più di sei mesi (o un anno se previsto dal contratto collettivo): se si superano i 18 mesi di lavoro su 24, anche con contratti diversi, il lavoratore passa a tempo indeterminato.

Si prevede, fra l’altro, l’incremento della contribuzione per i datori che assumano con contratti a termine più brevi di trenta giorni: in evidente difformità dal postulato idiota, condiviso in Italia da organizzazioni datoriali e forze politiche di maggioranza, secondo cui in nessun caso bisogna aumentare il costo del lavoro (ma sarebbe discorso lungo).

In Italia, invece, la richiesta di una giustificazione del contratto a termine è stata prima eliminata per il primo contratto dalla legge Fornero del 2012, poi del tutto dagli interventi legislativi del 2014 e del 2015 del governo Renzi, poi reintrodotta, ma solo se il contratto o i suoi rinnovi superassero i dodici mesi, dal cosiddetto “decreto dignità” del 2019 (governo Conte 1).

I dati ci indicano come da noi nei primi nove mesi del 2021 siano aumentate pochissimo rispetto allo stesso periodo del 2020 le assunzioni a tempo indeterminato (+8%) e molto di più le varie forme precarie, che hanno costituito quasi il 70% delle assunzioni dei primi nove mesi del 2021 (fonte: Inps, Osservatorio sul precariato). È mia personale convinzione che, se fossero ancora in carica il governo Conte 2 e la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, si sarebbe pensato a un intervento legislativo di restrizione ben più incisivo del “decreto dignità”, per evitare che tutto il lavoro che si recupera con la parziale ripresa economica in corso si traduca in lavoro precario. Si deve prendere atto che invece il governo attuale e il ministro Andrea Orlando non abbiano preso alcuna iniziativa come quella spagnola e che probabilmente non la prenderanno, malgrado le sollecitazioni in tal senso provenute da Cgil e Uil in occasione dello sciopero generale del 16 dicembre.

Per quanto riguarda invece le regole del contratto collettivo, la Spagna ha deciso di restringere la priorità del contratto aziendale su quello nazionale – che era stata introdotta dalla destra nel 2012, ma neppure apprezzata specie dalle piccole e medie imprese – alle sole materie orario e turni, straordinari, adattamento dell’inquadramento professionale, conciliazione vita-lavoro. In Italia invece l’articolo 8 del decreto 138/2011 (mai abrogato) prevede addirittura – con previsione tanto confusa quanto probabilmente incostituzionale, e di scarso uso pratico – la prevalenza del contratto aziendale addirittura sulla legge, nella speranza dell’allora governo Berlusconi di distruggere il diritto del lavoro sostituendolo con una contrattazione aziendale dominata dal ricatto padronale. Infine, tornando in Spagna, per quanto riguarda gli appalti si rafforza la responsabilità solidale dell’impresa appaltante per il pagamento dei contributi (per tre anni) e del salario (per un anno).

Non sarà però facile l’approvazione parlamentare, perché le destre menano scandalo che si sia invertita la tendenza alla restrizione dei diritti di chi lavora, mentre i partiti indipendentisti e regionalisti da cui dipende la maggioranza parlamentare, preoccupati della popolarità della ministra Diaz, hanno dichiarato che la riforma è insufficiente. Certamente il decreto spagnolo non ha cancellato le regole sul licenziamento illegittimo, che era stato reso più facile ed economico dalla destra, ma è – malgrado i suoi limiti – un’inversione di tendenza contro la precarietà, che meriterebbe di essere seguita anche in Italia. Quel che però s’era intravisto col precedente governo, con Draghi è scomparso, sostituito dalla restaurazione delle politiche contro il lavoro già fallite nel ventennio precedente.

 

Più pozzi contro il caro bollette: ecco perché non potrà funzionare

La costruzione è perfetta nella sua coerenza interna: le bollette diventano più salate perché il gas è più costoso e viene centellinato perché dobbiamo comprarlo da fornitori esterni che allargano e stringono la cinghia all’occorrenza del proprio vantaggio. La soluzione, secondo certa parte dell’intellighenzia industriale e anche secondo il ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani non è accelerare ancora di più sulle rinnovabili ma spremere al massimo i giacimenti e le concessioni per il gas già rilasciate in Italia. “Nei prossimi 12-18 mesi dobbiamo muoverci anche in altre direzioni. Come quella di aumentare la produzione di gas nazionale con giacimenti già aperti”, ha detto Cingolani mentre i petrolieri chiedono finanche di derogare alle regole e alle leggi che in Italia bloccano nuovi permessi di ricerca, prospezione e coltivazione, pure dentro le 12 miglia in mare. Obiettivo: raddoppiare la produzione.

Eppure i numeri, le stime e la storia recenti raccontano l’insensatezza di rilasciare nuovi permessi e l’usanza delle aziende di fare sempre e solo ciò che più gli conviene, anche lamentarsi al- l’occorrenza. I dati che arrivano dal ministero sono contenuti nel Pitesai, il Piano che stabilisce dove sia possibile trivellare e dove no e che è stato recentemente approvato dalle Regioni e firmato dallo stesso Cingolani. Rilevano che gran parte della produzione complessiva di gas nazionale registrata nel 2020 è ascrivibile a sole 17 concessioni che hanno realizzato complessivamente 3,5 miliardi di metri cubi di gas, pari all’81% della produzione nazionale. “Quanto fin qui rappresentato – si legge – evidenzia come la produzione di gas nazionale sia concentrata solo in una ridotta percentuale delle concessioni attive: il 9% fornisce oltre l’80% della produzione”. Lo stesso vale per il petrolio. “La produzione complessiva di olio greggio dell’anno 2020 è principalmente ascrivibile alle 4 concessioni più produttive (circa il 2% delle concessioni vigenti) che hanno realizzato complessivamente 4,9 miliardi di tonnellate, pari a oltre il 90% della produzione nazionale”.

Con i pozzi, in pratica, i petrolieri fanno ciò che gli pare: ci sono quelli esauriti che andrebbero dismessi ma restano in un lungo limbo per ritardare il più possibile le spese del decommissioning o attendere eventualmente l’opportunità per utilizzarle in altro modo. Ci sono poi quelli per i quali l’estrazione è più costosa e quindi si preferisce tenerli a bagnomaria in attesa di condizioni di mercato vantaggiose, altri che hanno la Valutazione di impatto ambientale in scadenza e dunque sono fermi a un passo dall’esaurimento per evitare di trovarsi poi un pozzo da dismettere.

Ad ogni modo, secondo i calcoli degli esperti diffusi la scorsa settimana da Legambiente, Wwf e Greenpeace, con un fabbisogno italiano di 72 miliardi di Sm3 (metri cubi standard) di gas all’anno ai ritmi di estrazione attuali – circa 4,5 miliardi di metri cubi all’anno – esauriremo le riserve certe in 10 anni e a patto di mantenere intatta anche la fornitura estera che, invece, si vorrebbe limitar. Se pure si esplorassero meglio le riserve cosiddette ‘probabili’ (cioè che potranno essere recuperate con una probabilità maggiore del 50%) e ‘possibili’ (probabilità minore del 50%), non cambierebbe molto. Immaginando di puntare all’autonomia, di estrarre tutto e finanche di rilasciare tutti i permessi fattibili si potrebbe contare su 45 miliardi di metri cubi di riserve certe, (forse) 45 di probabili e (forse) 28 di possibili: evaporerebbero in pratica nel giro di massimo 18 mesi. Le sole riserve certe si esaurirebbero invece in sette mesi. Poi, saremmo punto e a capo, caro bollette incluso, ma con un danno ambientale senza ritorno.