“Non credo nei partiti: al Quirinale vorrei chi fa politica nella società”

La voce si sente a scatti, colpa di una linea telefonica che va e viene. “Ora va meglio?”. Quando lo chiamiamo per chiedergli che idea si sia fatto della corsa al Quirinale, Paolo Cognetti sta passeggiando in montagna, quell’habitat che attraverso di lui (l’ultimo romanzo è La felicità del lupo, Einaudi, 2021) è ormai familiare pure ai suoi lettori. Si definisce “di formazione anarchica”, Cognetti, crede poco alla democrazia rappresentativa e perciò, per il Colle, vorrebbe che per una volta uscisse un nome estraneo alla carriera parlamentare: “Sogno che si scelga dalla società civile, non dai partiti”.

Paolo Cognetti, il suo è un richiamo all’antipolitica?

Tutt’altro. Io credo nella politica, ma ne ho una concezione diversa: per me si realizza nella partecipazione di ognuno di noi alla vita del posto dove lavora, dove abita e così via. Ho una formazione anarchica molto razionale e consapevole del significato di fare politica: per questo resto tiepido di fronte alle dinamiche del Parlamento e della politica rappresentativa.

Non la interessa?

Non ne ho grande fiducia. Non posso concepire la politica come una professione, per questo anche per il Quirinale mi piacerebbe che venisse fatta una scelta un po’ diversa questa volta.

Cosa intende?

Vorrei che fosse scelta una persona senza una lunga carriera politica alle spalle, qualcuno che non ha avuto bisogno di collezionare incarichi parlamentari. Qualcuno che ha lavorato tanti anni come medico, come giudice, nelle associazioni, insomma che abbia meriti sociali più che politici. L’importanza di stare sul campo. Lo dico senza avere in mente nomi particolari, ma ragionando su un profilo.

Allo stesso modo, c’è chi chiede di eleggere una donna, anche se in pochi si sbilanciano su un nome.

Piacerebbe anche a me, ferma restando la provenienza dalla società civile. Anche senza fare nomi, il tema resta: significherebbe per una volta che la politica compie un salto in avanti rispetto al Paese, contribuendo a superare la concezione retrograda sulle donne nei posti di potere.

Ha l’impressione che su questo sia indietro anche il Paese, oltreché la politica?

Sì, basta vedere quante donne hanno voce sulle prime pagine dei giornali o la percezione che si ha delle donne di potere nell’opinione pubblica, che tende sempre a sminuirle. E invece adesso sarebbe bello stimolare, sfidare questa concezione retrograda.

Perché accada, dovrà sperare che i partiti abbiano la stessa idea.

Infatti probabilmente resterà un sogno: so come funziona e che alla fine il nome verrà fuori dalle solite contrattazioni tra i partiti, che andranno a pescare qualcuno di loro. Sbagliando, perché poi non è un caso se i cittadini si allontanano dalla politica. Anzi, capisco benissimo chi ha poca fiducia nei suoi rappresentanti.

Da qui l’altissima astensione in tutte le ultime elezioni?

Certo, la gente ha poca fiducia nei partiti perché sembra sempre che qualunque decisione sia figlia di una partita a scacchi tra forze politiche estranee alla società. Quando poi le cose cambiano nel mondo reale – penso all’eutanasia, alle coppie di fatto eccetera – allora la politica rincorre per adeguarsi. Come dicevo, l’elezione per il presidente della Repubblica sarebbe l’occasione per anticipare i tempi, invece che inseguirli.

L’impressione è che valga anche per l’ambiente: nessuno ancora si fa carico con credibilità delle istanze verdi.

È incredibile che in Italia non ci sia ancora un partito ambientalista degno di questo nome, con tutto quel che abbiamo da difendere e coi tempi che corrono. È un tema di assoluta urgenza di cui nessuno si fa carico, aspetteremo quando sarà troppo tardi.

Egitto. Con l’Etiopia e il Sudan è lite anche sul calcio

Come scriveva il grande Osvaldo Soriano, una partita di calcio non è mai soltanto una partita di calcio. I tifosi egiziani sono arrabbiati con l’Al-Merrikh, una delle migliori squadre di calcio del Sudan, per aver chiesto di giocare la sua partita contro l’Al-Ahly – il più blasonato club egiziano – in una competizione continentale non in Sudan, ma in Etiopia, Paese con il quale le tensioni con l’Egitto stanno pericolosamente salendo. Calcio e politica si intrecciano in questa parte del mondo. Il calcio è persino utilizzato come strumento politico da alcuni governanti e governi della regione. Un sorteggio per gli ottavi di finale della Champions League della Confederazione del calcio africano (CAF) ha inserito le due squadre in un girone, insieme ad Al-Hilal, un’altra squadra sudanese, e ai sudafricani Mamelodi Sundowns. L’Al-Ahly dovrebbe affrontare Al-Merrikh l’11 febbraio in Sudan – peraltro scosso da mesi dalle proteste contro la Giunta militare – e Al-Hilal il 18 febbraio sempre in Sudan, secondo il calendario stilato dalla Caf. Il problema è che gli ispettori della Caf hanno squalificato lo stadio Blue Jewel di Khartoum – che di solito ospita le partite di entrambe le squadre sudanesi – giudicato inadatto alle partite internazionali. Questo è il motivo per cui Al-Merrikh ha chiesto di giocare la sua partita contro l’Al-Ahly l’11 febbraio in Etiopia, il paese più vicino al Sudan. I tifosi egiziani accusano la squadra sudanese di voler riaccendere le tensioni tra Egitto ed Etiopia. Nel profondo di queste tensioni c’è la crisi tra Egitto, Sudan ed Etiopia per la condivisione dell’acqua. Le tre nazioni del bacino del Nilo sono coinvolte in una disputa decennale sulla costruzione da parte dell’Etiopia di una gigantesca diga sul Nilo Azzurro, il principale affluente del fiume Nilo che fornisce all’Egitto la maggior parte del suo fabbisogno di acqua dolce. L’Egitto accusa l’Etiopia di volerlo ridurre alla sete con la Grande diga rinascimentale etiope (GERD). L’Egitto riceve quasi il 90% della sua acqua annuale dal fiume, e la semplice idea di una diga mette in pericolo la quota annuale dell’Egitto che ammonta a circa 55,5 miliardi di metri cubi.

 

“Cile, la rabbia resta: Boric stia attento alle rivolte”

Il suo volto figura in un murales a pochi passi dalla plaza de la Dignidad, che fu l’epicentro delle rivolte sociali del 2019 a Santiago: Gabriel Salazar, 85 anni, è uno dei più eminenti storici cileni, specialista della storia sociale del Paese. Militò nel Movimento della sinistra rivoluzionaria, il Mir, e fu fatto prigioniero nel 1975 sotto la dittatura di Pinochet. Lo incontriamo a La Reina, a nord-est di Santiago, pochi giorni dopo la vittoria di Gabriel Boric alle presidenziali dello scorso 19 dicembre. Anche se ha votato per il candidato della nuova sinistra cilena (eletto con il 56% dei voti), contro José Antonio Kast dell’estrema destra, Gabriel Salazar dubita della sua capacità di entrare nella storia.

Queste elezioni sono un’eccezione nella storia del Cile come lo furono quella del 1964, vinta dal democristiano Eduardo Frei, che condusse grandi riforme strutturali, e soprattutto quella del 1970, con la vittoria di Salvador Allende?

Il confronto è interessante. All’epoca si parlava molto di rivoluzione, Eduardo Frei parlava di “rivoluzione nella libertà”, e si moriva per farla, ma nessuno pensava di cambiare la Costituzione illegittima del 1925. Che contraddizione! Allende si suicidò per questo: perché il suo mandato era “costituzionale”. Quando gli operai, preoccupati per il tentato di colpo di Stato del giugno 1973, gli chiesero di governare appoggiandosi al potere del popolo, lui rifiutò. Oggi la rivoluzione non si fa dal governo, ma dalla strada. La rivolta dell’ottobre 2019, ed è questo che la rende bella, veniva dal popolo. E, ironia della sorte, il popolo oggi non parla più di rivoluzione, chiede invece di cambiare la Costituzione!

Perché è così scettico nei confronti dell’elezione di Gabriel Boric?

Che legittimità ha un presidente eletto secondo la Costituzione del 1980 che si sta modificando? La grande questione politica ed etica oggi è di sapere se l’attuale governo potrà o meno arrivare al termine del suo mandato dal momento che è in corso un processo costituente. Durante queste elezioni il processo costituente è stato totalmente ignorato. Nel suo discorso dopo il primo turno, Boric ha appena sfiorato l’argomento. Ne ha parlato brevemente anche la sera del ballottaggio. Ma cosa può fare un governo che nasce già condannato a morte? È la Convenzione costituzionale che dovrebbe governare. Boric non potrà mantenere tutte le sue promesse. Non può neanche contare sulla maggioranza in Parlamento.

Non gli si può almeno riconoscere la missione storica di garantire che il referendum per l’approvazione della nuova Costituzione vada a buon fine?

Sì, ed è molto positivo. Ma il problema di fondo resta: o Boric governa seguendo il suo programma personale, o governa facendo in modo che la Convenzione esprima la volontà del popolo. Ma nel suo discorso ha detto: “Sono il presidente di tutti i cileni”. Il che vuol dire che privilegerà una politica di dialogo tra partiti presumibilmente antagonisti, come fece Patricio Aylwin nel 1990, il primo presidente eletto dopo la dittatura di Pinochet. Ecco perché i giovani sono indignati. Boric rischia di perdere gran parte degli elettori che hanno votato per lui. Non ha un destino storico.

Eppure ha partecipato alla nascita di una nuova corrente di sinistra in Cile, conosciuta come “autonomista”…

La politica cilena, con la transizione dalla tirannia militare alla democrazia neoliberale, ha suscitato molte delusioni. Tra il 1990 e il 2000 la grande maggioranza dei giovani ha abbandonato i partiti politici: Pc e Ps, le formazioni del centrosinistra e persino il Mir, sono delusi dal sistema politico tradizionale e dalla democrazia rappresentativa elettorale. È così che nel 2006 è nata la generazione “pingüina”, con gli studenti che hanno manifestato per l’istruzione pubblica gratuita. Nel 2011 gli stessi giovani hanno partecipato al movimento studentesco. Questi giovani contestano i partiti politici e si impegnano in organizzazioni sociali e culturali, per lo più anarchiche. L’idea di rivoluzione, che fino al 1973 denotava un cambiamento profondo ottenuto attraverso un’organizzazione collettiva, è cambiata: a partire dagli anni 2000, la rivoluzione è diventata una sfida personale.

Che cosa pensa di questa generazione di trentenni che si prepara a governare?

È una generazione divisa in due. Da un lato ci sono quelli che hanno fatto carriera politica. Sono i leader studenteschi che guidavano la Fech, la Federazione degli studenti dell’Università del Cile, e hanno approfittato della notorietà acquisita per diventare deputati: Camila Vallejo, Giorgio Jackson, Karol Cariola e lo stesso Gabriel Boric. Dall’altro ci sono quelli che al Parlamento hanno preferito la strada, che si sono impegnati in movimenti di protesta locali, che sostengono l’autonomia e boicottano le urne. La cultura della protesta di strada è ancora viva. Solo così si può capire la contestazione del 18 ottobre 2019. Ma il 19 dicembre 2021 la grande maggioranza di questi giovani sono andati a votare. Se Boric non si rende conto di aver vinto anche grazie alla generazione pingüina non politicizzata, non in senso istituzionale, le cose per lui sono destinate a andare male.

Si sente ottimista sul processo costituente?

Sì e no. Sì, perché le persone sono stanche della vecchia politica: il rigetto dei partiti è passato dal 57% nel 1990 a oltre il 90% tra il 2018 e il 2020. In Cile restano molti problemi storici irrisolti, tra cui la lotta della comunità mapuche per recuperare le terre occupate, che alimenta l’esasperazione. Tra due anni si farà un bilancio dell’azione della Convenzione e credo che la gente non sarà soddisfatta. La rabbia è profonda. Ci si può aspettare una nuova esplosione sociale e a quel punto Boric si troverà di fronte ad un dilemma: far scendere o no l’esercito nelle strade? Ma i militari non avevano obbedito a Piñera nel 2019, dubito che obbediranno a Boric.

Questo aspetto rientra nel lavoro della Convenzione?

Il grosso problema di questa Convenzione è l’esercito, semplicemente perché lo ignorano. Ma l’esercito è cambiato, oggi è composto da quadri che studiano in Usa o in Francia. Le donne ne rappresentano il 17%. Dobbiamo costruire una politica dell’esercito, concepito non come un’istituzione isolata, ma con il popolo. Se Boric fosse un vero statista, spingerebbe per dare alla Convenzione almeno altri sei mesi supplementari per consegnare il suo testo. Perché se la gente non sarà soddisfatta, scenderà di nuovo nelle strade e Boric dovrà decidere se schierarsi con gli altri politici o impegnarsi con il movimento rivoluzionario.

Lei è stato un militante del Mir negli anni ‘70. Che eredità resta?

Sfortunatamente la vera storia si conosce poco. Mi unii al movimento il giorno dopo la vittoria di Allende, il 5 settembre 1970. L’ho fatto perché era un “movimento”, l’idea era agire dall’interno. A lu È così che nel 2006 è nata la generazione “pingüina”, con gli studenti che hanno manifestato per l’istruzione pubblica gratuita. Nel 2011 gli stessi giovani hanno partecipato al movimento studentesco. Questi giovani contestano i partiti politici e si impegnano in organizzazioni sociali e culturali, per lo più anarchiche. L’idea di rivoluzione, che fino al 1973 denotava un cambiamento profondo ottenuto attrano solo alcuni eroi, come Carmen Castillo. Durante la dittatura, i dirigenti venivano formati a Cuba e tornavano clandestinamente in Cile per armare i guerriglieri. È stato un fallimento. Mi ero opposto. Avevo avvertito che sarebbero morti tutti. Ma la linea militare era maggioritaria. Il Mir è ricordato come l’unica organizzazione che non è caduta nel parlamentarismo, che portò invece alla morte di Allende e della vecchia sinistra. Ecco perché oggi esistono molti piccoli Mir. Ma per i giovani è spesso associato alla sola azione di rottura e violenta, e non a un’organizzazione che stava pianificando un processo rivoluzionario. E questo è un peccato. (Traduzione di Luana De Micco)

Guai a toccare il “solido partenariato”. Roma (come tutti) tace: va tutelata Eni

Un cambio di regime in Kazakistan potrebbe costare parecchio all’Italia. Soprattutto ad alcune aziende che da anni fanno affari nel più grande Paese dell’Asia Centrale, una superficie pari a quella dell’Europa occidentale, proprietario del 60 per cento delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica, quattordicesimo produttore di petrolio al mondo.

Lo ha ricordato indirettamente la Farnesina, commentando la rivolta contro il regime dittatoriale instaurato oltre 30 anni fa da Nursultan Nazarbaev. Nonostante le “dozzine di morti” già denunciate dalle Nazioni Unite e le dichiarazioni dell’attuale presidente della repubblica, Kassym-Jomart Tokayev (che ha promesso “l’eliminazione” dei manifestanti e autorizzato la polizia ad aprire il fuoco “senza avvertimento” su chi continuerà a protestare), il governo italiano si è limitato a due commenti sulle proteste in corso, fatti appunto attraverso il ministero degli Esteri. “L’Italia segue con grande preoccupazione i gravi eventi che stanno avendo luogo in Kazakistan, Paese al quale è legata da rapporti di amicizia e da un solido partenariato economico”, l’incipit della prima dichiarazione pubblicata dal dicastero di Luigi Di Maio, che si è limitato ad auspicare la fine “dell’uso della forza nel Paese” senza sottolineare per questo la responsabilità del regime locale.

In ballo ci sono affari che rischiano di andare in fumo, nel caso in cui la rivolta contro il governo dovesse avere successo. A guardare con più preoccupazione quanto sta avvenendo nelle steppe kazake è Eni, che nella zona del Mar Caspio estrae gas e petrolio dal 1992. Grazie a due enormi giacimenti, Kashagan e Karachaganak, il Kazakistan è il Paese del mondo in cui la multinazionale italiana è oggi più esposta. Un ottavo della produzione di greggio del gruppo dipende dal gigante dell’Asia Centrale. Più di tutto il Nord Africa messo insieme. E poi ci sono le riserve: 1 miliardo di barili equivalenti di petrolio. Dopo l’Egitto, non esiste altra nazione al mondo dove il gruppo guidato da Claudio Descalzi – e controllato dal ministero dell’Economia – ha così tanti idrocarburi ancora da estrarre.

I giacimenti che Eni si è aggiudicata sotto il regime di Nazarbaev hanno attirato diverse altre aziende connazionali. Secondo i dati dell’ambasciata italiana a Nur-Sultan, la capitale rinominata meno di tre anni fa (prima si chiamava Astana) in onore di Nazarbaev, attualmente nel Paese sono attive circa 250 aziende italiane. Le più importanti sono quasi tutte legate alle attività petrolifera. Ci sono ad esempio Tenaris, Renco, Bonatti, Valvitalia, Rosetti Marino, Nuovo Pignone. Più o meno il solito plotone di aziende che si muove insieme ad Eni in giro per il mondo, cui si aggiungono gli interessi di chi fa affari con altre risorse minerarie di cui è ricco il Paese. Carbone, ferro, uranio. Senza dimenticare le terre rare, oggi più preziose che mai per costruire computer, cellulari, turbine eoliche e molto altro. Oggi il Kazakistan è il primo mercato di destinazione di merce italiana in Asia centrale e nel Caucaso, per un valore annuale di circa 1 miliardo di euro.

Oltre che da quanto riusciamo a vendere lì, l’importanza della stabilità della nazione dipende da quello che compriamo. Ancora una volta, soprattutto petrolio: da anni il Kazakistan è infatti tra i primi dieci Paesi al mondo da cui acquistiamo greggio.

Per tutto questo la posizione del governo guidata da Mario Draghi finora non è stata netta nel condannare la repressione delle proteste da parte del regime oggi guidato da Tokayev. D’altra parte lo stesso hanno fatto le altre cancellerie occidentali. Da quando le proteste sono iniziate, il 2 gennaio nella regione del Mangystau, nè gli Stati Uniti né l’Ue hanno fatto la voce grossa contro il governo kazako. È l’effetto della strategia impostata trent’anni fa da Nazarbaev e proseguita da Tokayev: un Kazakistan alleato politico della Russia – che infatti è intervenuta con i suoi militari sotto l’egida del Csto, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva – ma in ottimi rapporti d’affari con le principali aziende europee e americane. Un’assicurazione che per ora ha sempre salvato la vita al regime.

 

Kazakistan, calma insanguinata. Le vittime sono già quasi 200

L’ordine regna ad Almaty, ma il bilancio della repressione delle proteste inscenate, in settimana, nella città più popolosa del Kazakistan e nella capitale Nur-Sultan, la ex Astana, è drammatico: media locali, che citano fonti ufficiali, parlano di 164 vittime, 103 solo nei disordini ad Almaty; e il ministero dell’Interno comunica che 5.135 persone sono state arrestate e sono tuttora detenute.

Cifre che non possono essere verificate in modo indipendente, ma che sono molto superiori a quelle finora diffuse: le autorità avevano ammesso il decesso di 26 manifestanti e 16 membri delle forze di sicurezza.

Un’operazione anti-terrorismo è in corso “per ristabilire l’ordine nel Paese”, dice il ministro dell’Interno Erlan Tourgoumbaiev, nonostante la situazione sia ufficialmente “stabilizzata ovunque”. Giornalisti di media occidentali presenti ad Almaty riferiscono di colpi di arma da fuoco sparati in aria da agenti e militari che presidiano la piazza centrale e la mantengono deserta. Il governo calcola che i danni economici causati dalle proteste ammontano a 175 milioni d’euro, con oltre 100 filiali di banche saccheggiate e 400 veicoli distrutti. Ieri vari supermercati hanno riaperto, consentendo di fare la spesa dopo giorni di emergenza. Oggi sull’aeroporto di Almaty dovrebbe riprendere il traffico civile. Domani ci sarà una giornata di lutto per le vittime degli scontri.

In settimana, il presidente Kassym-Jomart Tokayev dovrebbe presentare un nuovo governo, dopo avere rimosso giorni fa quello guidato da Aksar Mamin. La composizione del nuovo esecutivo dovrebbe fare capire se l’eredità e l’influenza di Nursultan Nazarbayev, rimasto al potere per quasi trent’anni, fino al 2019, pesano ancora o se il regime ha imboccato una nuova strada.

Non è infatti chiaro che cosa sia veramente successo in questi giorni: manifestazioni inizialmente pacifiche contro il forte aumento dei prezzi dei prodotti energetici si sono improvvisamente trasformate in attacchi apparentemente ben organizzati contro i palazzi del potere ad Almaty. Non si esclude che, alle proteste di giovani e lavoratori stanchi di un sistema autocratico e corrotto, si siano intrecciate o sovrapposte frange mosse da motivazioni ben diverse, come l’estremismo islamico, o anche pezzi dello Stato intenzionati ad eliminare quel che resta del potere di Nazarbayev.

Accanto alla crisi ucraina, la situazione in Kazakistan potrebbe essere uno dei temi dell’incontro, oggi a Ginevra, tra Usa e Russia, anche se Mosca nega la disponibilità a farlo. Al Kazakistan ha ieri fatto cenno all’Angelus Papa Francesco, auspicando che “si ritrovi al più presto l’armonia sociale, ricercando il dialogo, la giustizia e il bene comune”.

La Farnesina sconsiglia “i viaggi non essenziali” in Kazakistan: “L’Italia rinnova l’appello perché cessi l’uso della forza nel Paese. L’Ambasciata d’Italia a Nur-Sultan “è in contatto con i cittadini italiani e le aziende presenti nel Paese per fornire ogni assistenza”.

 

La sai l’ultima?

 

Nottingham Una ricerca scientifica dimostra che il fantacalcio fa male alla salute mentale

Il sospetto c’era già, osservando certi profili psicologici, ma ora lo dice anche la scienza: il fantacalcio fa male alla salute mentale. Per milioni di italiani è la cosa più importante al mondo dopo il calcio, per certi viene anche prima, ma bisogna andarci piano: secondo una ricerca dell’università di Nottingham il gioco agisce “sull’umore, sulle abitudini e sui rapporti sociali di chi vi partecipa trasformandosi, nei casi peggiori, in un vero tormento” (come riporta un articolo del Giornale). “Lo studio ha esaminato la salute mentale e il benessere di quasi duemila giocatori di 96 Paesi del mondo. Il 24,6% degli utenti ha affermato che il gioco ha causato un leggero peggioramento del loro umore, dato che quasi raddoppia (44%) tra coloro che si sentono più coinvolti dai risultati ottenuti. Il 34% degli intervistati ha affermato, invece, di provare un vero stato di ‘ansia’ mentre il 37% ha confessato come il gioco abbia causato quello che i ricercatori chiamano ‘deficit funzionale’”. Peggio di un matrimonio.

 

Amburgo La campagna tedesca a favore dei vaccini con 700 pecore e capre sistemate a forma di siringa

In Germania ritengono che per convincere un no-vax basti un esercito di ovini. Questo episodio è finito nel rullo delle agenzie di stampa grazie a un lancio di LaPresse: “Gustosi pezzetti di pane hanno permesso a circa 700 pecore e capre di unirsi alla campagna tedesca per incoraggiare più persone a vaccinarsi contro il Covid-19. A Schneverdingen, a sud di Amburgo, gli animali sono stati sistemati in modo tale da formare una siringa di circa 100 metri in un campo. Il pastore Wiebke Schmidt-Kochan ha trascorso diversi giorni a esercitarsi con i suoi animali. Ma alla fine ha detto che non è stato difficile trovare il modo: ha disposto pezzi di pane a forma di siringa, che le pecore e le capre hanno divorato quando sono state fatte uscire nel campo. L’organizzatore Hanspeter Etzold ha affermato che l’azione era rivolta alle persone che ancora esitano a farsi vaccinare. ‘Le pecore sono animali così simpatici, forse possono trasmettere meglio il messaggio’, ha aggiunto”.

 

California Il bimbo nudo sulla copertina di Nevermind dei Nirvana perde la causa per “pornografia infantile”

Un bimbo nudo che insegue una banconota all’amo dentro una piscina: è la foto della copertina di uno dei dischi più importanti della storia del rock, Nevermind dei Nirvana. Era l’anno 1991, quel bambino è cresciuto e ha fatto causa alla band del compianto Kurt Cobain perché quel ritratto nudo, a suo dire, era una forma di “pornografia infantile”. Qualcuno deve avergli consigliato che avrebbe potuto farci qualche soldino: un contrappasso perfetto per il protagonista di quella fotografia. La causa contro i Nirvana tentata da Spencer Elden però è andata a vuoto, la scorsa settimana un giudice della California gli ha dato torto. “Elden, che aveva quattro mesi quando fu fotografato senza veli per la copertina, aveva fatto causa a quel che resta della band affermando che la foto (…) gli aveva provocato, crescendo, ‘estremo e permanente stress emotivo”, scrive l’Ansa. “Il giudice Fernando Olguin ha accolto adesso la richiesta dei legali dei Nirvana di non luogo a procedere”.

 

Nuova Zelanda Nonna Nancy è la surfista più anziana del mondo: ha 92 anni e nessuna intenzione di smettere

La surfista più anziana del mondo è una signora neozelandese di 92 anni. Le immagini di nonna Nancy raggiante tra le onde, in muta termica, appoggiata alla sua tavola, hanno fatto il giro dei siti di mezzo mondo. “I giovani che galleggiano nell’acqua di Scarborough Beach – scrive il Messaggero – conoscono bene questa signora dal fisico asciutto e i capelli bianchi che si affianca a loro ogni volta che il mare si increspa in modo promettente”. Non pare avere alcuna intenzione di appendere il surf al chiodo: “Continuerò fino a quando il fisico me lo concederà, non mi sento vecchia”, dice. “Al club dei surfisti di Sumner, la cittadina nella Nuova Zelanda del sud-est dove Nancy vive, ammettono che la loro anziana collega ‘è una fonte di ispirazione per ognuno di noi, ma ha anche alzato l’asticella per tutti’”. L’elisir di nonna Nancy non è nemmeno tanto miracoloso: “Ho evitato fin da quando ero giovane lo zucchero”.

 

Battaglie politiche La campagna della Difesa Animali: “Basta bestemmiare i cani, rispetto per gli amici dell’uomo”

Un po’ di rispettoper il cane, diamine. In una società sempre più insensibile alle ingiustizie ma sempre più sensibile alle questioni di forma, non poteva mancare l’accorato appello dell’associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente per smetterla di bestemmiare i poveri cani. “Porco cane, Figlio di Cane, Mondo cane, Cane Bastardo, sono gli epiteti (escludendo le note bestemmie) che ogni giorno sentiamo ed usiamo in cui utilizziamo senza alcun riferimento linguistico o storico la parola ‘cane’. È una vergognosa appropriazione e un offesa del migliore amico dell’uomo il cui nome (cane appunto) viene impropriamente utilizzato per epiteti ed insulti”. La questione è delicata. “Non vogliamo qui fare del facile moralismo ma cosi come avviene con ad esempio con le favole dove si presenta sempre, sbagliando, il lupo come un animale cattivo occorre che qualcuno si prenda la briga di iniziare a modificare questo linguaggio che trasforma il migliore amico dell’uomo in un aggettivo insultante”. Mai più.

 

Inghilterra L’asinello, rifiutato dalla madre da cucciolo, cresce assieme ai cani e si comporta proprio come loro

A proposito di quadrupedi, gli amici de LaZampa.it raccontano la struggente storia dell’asinello Kye, rinnegato dalla madre e convinto di essere un cagnolino. Rifiutato dalla mamma a tre mesi, il ciuccio è stato cresciuto in una fattoria del Lincolnshire piena di cani. E come in un cartone Disney, ora si comporta esattamente come loro: “Gli piace andare in passeggiata al passo con l’uomo, gioca a palla e risponde persino ai fischi di richiamo per i cani”. La Zampa non risparmia particolari di “colore”: “Sono andato al negozio di animali e ho comprato i pannolini per cani grandi perché non volevo avere la cacca d’asino in tutta la casa – racconta il signor John, proprietario dell’asino – . Lo lasciavamo anche uscire, ma lo riportavo dentro la sera perché lui aveva bisogno del contatto umano”. Dopo lo svezzamento canino, l’asinello Kye è stato trasferito in un recinto inseme ai suoi simili. Bisognerà chiedere alla Difesa Animali se è troppo offensivo dagli dell’asino.

 

Stati Uniti Giovane americano impara il francese per fare colpo su una ragazza, ma lei era tedesca

Ah l’amour. Un giovane americano ferocemente invaghito ha imparato da zero la lingua della fanciulla amata per cancellare le barriere comunicative e riuscire a conquistarla. Con spirito ammirevole si è messo a studiare francese per settimane e settimane. Si è presentato, forte di una nuova lingua e rinnovate certezze, e ha scoperto che lei era francese. Lo racconta Today: “L’innamorato volenteroso aveva deciso di fare colpo chiedendole di uscire nella sua lingua di origine e si era messo a prendere lezioni di francese, anche spendendo soldi sull’app Babel per una sessione di conversazione con un francese madrelingua (…). Dopo aver imparato il francese, lui è andato da lei, e le ha rivolto un impeccabile: ‘Bonjour, je m’appelle Michael, veux-tu sortir avec moi?’. Lei gli ha risposto sì in francese, ma dicendogli: ‘C’est gentil de ta part Michael, mais tu sais que je suis allemande, non?’, cioè ‘È gentile da parte tua Michael, ma sai che sono tedesca vero?”. Dopo di che il garcon, invece di incassare l’appuntamento, è scappato via imbarazzato. Peccato.

Oltre ai morti del virus, ci sono quelli causati dalla sanità non più universale

V i ricordate quando appena scoppiato il Covid, durante la straziante quotidiana conta, ci insegnarono la differenza fra i morti di Covid e con Covid? Io ricordo che in quel periodo si provavano strani e penosi sollievi quando si veniva a sapere che un intubato o un defunto con Covid aveva altre patologie. Si era arrivati a sentire “ah sì, è morto, ma era vecchio”, “ah sì, ma aveva la glicemia alta”, oppure “sì, ma era in evidente sovrappeso e beveva troppo”. Senza accorgercene, stavamo arrivando al concetto della razza pura: sostanzialmente, se eri forte bello aitante pensavi di non finire all’ospedale. Ho anche temuto di sentire “ah sì, ma era gay”. Poi, abbiamo appreso che in ospedale ci finiva chiunque, con maggiori rischi per chi aveva pregresse patologie.

A distanza di due anni la stragrande maggioranza dei cittadini credo abbia imparato tante cose, e sono convinta che quei cinici respiri di sollievo che portavano a malati e morti di serie A e di serie B non vengano più provati. Peccato che la divisone per classi di malati e morti stia invece avvenendo a livello di sanità, nei fatti. Ogni giorno da sempre muoiono persone per gravi malattie. Di tutti i tipi. E si ammalano persone che sono costrette a cure pesantissime. Pensiamo ai malati oncologici, a chi deve fare la dialisi ogni giorno, alle malattie neurologiche gravi. Da due anni i riflettori sono accesi su un conteggio puramente ed esclusivamente Covid. Ora, di fronte a una pandemia che ha bloccato il mondo, è naturale che l’attenzione sia massima, ma a volte mi chiedo come si possa sentire una persona che sta affrontando una malattia grave, magari anche la fine della sua vita, a vedere tutti gli sforzi concentrati solo sul Covid. La cosa più grave è che, dopo due anni, il nostro sistema sanitario è ancora in crisi: i medici, gli infermieri e tutti gli operatori sanitari sono di nuovo sfiniti, e le tantissime persone che non hanno il Covid ma necessitano di cure all’altezza delle loro patologie risentono di questo sfacelo. Conosciamo i meravigliosi piani di investimento per il futuro e per la medicina del territorio. In due anni però non si è fatto nulla di particolarmente tangibile che abbia migliorato il sistema sanitario. Abbiamo spesso inneggiato al meraviglioso modello sanitario italiano che cura tutti. Ma come? La medicina del territorio è ancora un sogno. In alcune regioni va un po’ meglio, ma in altre manca completamente, o è persino peggiorata. I pronto soccorso non si dovrebbero intasare, ma come si fa se l’assistenza intermedia è fatta solo di ricette mediche o diagnosi telefoniche? Servirebbero diagnostica per immagini e cure a domicilio, servirebbe dedizione, anche psicologica. Tutte cose per le quali ricorriamo spesso, se ce lo possiamo permettere, ai privati, pagando; non in modo molto diverso dagli Stati Uniti.

Poi, resta ancora impossibile stare accanto ai nostri parenti ricoverati non di Covid, nonostante gli ospedali non riescano spesso ad assisterli degnamente, per un evidente sottodimensionamento del personale. Anche questo ha da finire. Non stiamo andando avanti, anzi. La nostra sanità sta diventando la panacea del privato, e ai morti di Covid sommerei i morti causa sistema sanitario deficitario.

Giusto spingere i No Vax a vaccinarsi, affinché evitino di intasare gli ospedali (anzi, ai No Vax ricorderei che c’è chi per sopravvivere si inietta ben di peggio dei vaccini). Proporrei però anche alla politica di abbassare le tasse, così ci facciamo l’assicurazione sanitaria come in America. Forse conviene.

 

Un altro anno di processi a distanza: avvocati furiosi

Collegamenti da remoto durante le indagini preliminari, i detenuti che seguono le udienze dei loro processi in videoconferenza, camere di consiglio fuori dalle mura dei tribunali. Le norme per i processi decise dal governo Conte durante la prima ondata di contagi Covid saranno valide per tutto il 2022. È quanto stabilito nel milleproroghe firmato da Mario Draghi alla fine dello scorso anno. Con tanto di irritazione da parte della categoria degli avvocati che gridano alla violazione della sacralità del processo e dei diritti dei loro assistiti.

Le disposizioni in materia di giustizia civile, penale, amministrativa e tributaria sono elencate all’articolo 16 del milleproroghe. Se per molti magistrati la misura è adeguata, per tanti altri avvocati un termine così lungo non è pensabile: “Si poteva procedere con una proroga fino al 31 marzo, come fatto per il processo tributario. E poi in caso rinnovare”, spiega Antonino Galletti, presidente dell’ordine degli avvocati di Roma. Perché il punto è anche questo: la stretta per i processi civili e penali è prevista fino al 31 dicembre 2022, mentre per il processo tributario per ora solo fino al 31 marzo 2022. “Non riconosco alcuna logica in questa scelta del governo. I giudici e gli avvocati amministrativi si infettano meno dei penalisti?”, aggiunge Galletti.

Le norme al centro della questione prevedono diverse modalità nella trattazione dei procedimenti. Per citarne alcune: nel corso delle indagini preliminari pm e polizia giudiziaria possono avvalersi di collegamenti da remoto per quegli atti che richiedono la partecipazione dell’indagato, della persona offesa, di un consulente o di avvocato, “salvo che il difensore… si opponga, quando l’atto richiede la sua presenza”. I detenuti potranno partecipare alle udienze tramite videocollegamento. E ancora: da remoto saranno anche le decisioni collegiali dei processi civili e penali: “Il luogo da cui si collegano i magistrati – dice il decreto legge al quale fa riferimento il milleproroghe – è considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge”. Norme contestate da più di un avvocato. Per Cesare Placanica, responsabile dell’osservatorio “Unione Camere Penali sul giusto processo”, “questa proroga danneggia la sacralità del processo, e con esso anche i diritti di indagati e detenuti. Come si può pretendere che avvocati, indagati, pm e giudici, ognuno da una parte diversa perché collegati da remoto, riescano a confrontarsi in modo corretto? Il giudice inoltre non ha sottomano tutte le carte processuali. In camera di consiglio il fascicolo è sul tavolo, cosa che non avviene nelle udienze da remoto. La mancanza di fisicità del fascicolo evita che vi sia una reale collegialità delle decisioni”.

Sulla stessa linea l’avvocato Galletti. “Le disposizioni sui processi – spiega – sono state prolungate non si capisce in base a quale calcolo statistico, senza nessuna previsione, fino al 31 dicembre: è un termine sicuramente eccessivo soprattutto in alcuni settori come il penale dove l’oralità ha un ruolo importante”. Per aggirare l’ostacolo in alcuni distretti sono stati creati dei protocolli d’intesa: “Come è avvenuto a Roma – prosegue Galletti – dove per le sentente è previsto che i magistrati si riuniscano fisicamente in Corte d’appello. Invece questo provvedimento consente al collegio di riunirsi da remoto, ognuno da casa propria. Nessuno si sente tranquillo a farsi giudicare da tre magistrati di cui uno in ciabatte a casa, l’altro al mare e un altro ancora a Cortina…”.

Sono posizioni non condivise dalla categoria dei magistrati. Per Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, “questa normativa di emergenza è l’unico modo che consente alla giustizia di andare avanti. In passato, durante il primo lockdown, vi è stato di certo un rallentamento della macchina della giustizia dovuta a quella iniziale sospensione. L’udienza per sua natura è un assembramento, per questo la misura a mio parere resta adeguata rispetto al periodo che stiamo vivendo”.

E non rileva un rallentamento dell’attività Elisabetta Garzo, presidente del tribunale di Napoli. “È vero — spiega —, è sorta un po’ di incertezza da parte degli avvocati che si sono meravigliati del fatto che non ci fosse stata una proroga al 31 marzo, ma al 31 dicembre. Però non è che influisce particolarmente: non è vero che da remoto i giudizi civili vanno a rilento. Posso dire che, dati alla mano, non vi è stata una diminuzione dei giudizi trattati, anzi abbiamo mantenuto i carichi esigibili e il numero dei procedimenti definiti nel passato. Quindi da questo punto di vista la trattazione dei procedimenti da remoto in sede civile è stata abbastanza vincente a mio giudizio”.

Come va in Ue

 

Francia Disastro contagi: dopo tre giorni è già boom di positivi

In Francia i bambini sono tornati sui banchi sin dal 3 gennaio: tre giorni dopo, 47.453 studenti e 5.631 insegnanti sono stati testati positivi e 9.202 classi (su 527.000) hanno dovuto chiudere per Covid. Prima di Natale era stata avanzata l’ipotesi di prolungare di qualche giorno le vacanze scolastiche. Ma Parigi, che aveva mandato tutti gli studenti in dad durante il primo lockdown e non vuole più ripetere l’esperienza, si inorgoglisce da tempo di essere tra i Paesi europei ad aver garantito il più alto numero di ore di lezione in presenza. Ora i professori minacciano di fare sciopero giovedì 13, denunciando una situazione di “caos indescrivibile”. I sindacati chiedono mascherine Ffp2 più protettive, mentre il governo ha promesso di distribuire le chirurgiche, e di attrezzare le scuole di misuratori di CO2. Per lo studente positivo è prevista la dad con una quarantena di 7 giorni, ridotta a 5 con tampone negativo, mentre per i compagni negativi le lezioni proseguono in presenza.

Luana De Micco

 

Germania Test a tappeto per evitare la dad, nonostante i casi in aumento

Nei länder cattolici del sud della Germania le scuole riaprono stamattina. In tutto il resto del Paese le lezioni sono riprese già il 3 gennaio. I contagi sono in aumento e il cancelliere Olaf Scholz ha detto che la curva si alzerà molto nei prossimi giorni. Da settimane l’opinione pubblica fa pressione sul governo federale perché gli studenti non perdano altri giorni di scuola. Uno degli argomenti più utilizzati è l’aumento dei suicidi tra bambini e adolescenti: 500 casi lo scorso anno, tre volte il numero del 2019. La strategia federale è quella di test a tappeto e mascherine Ffp2 consigliate per tutti. A Berlino i bambini sono stati testati tutti i giorni la prima settimana di rientro dalle vacanze, tre volte le settimane successive. Diverse regioni hanno seguito l’esempio e aggiunto l’obbligo di mascherina. Le quarantene per contatto con un positivo in classe sono state dimezzate: 5 giorni con test molecolare negativo. Le indicazioni federali lasciano libertà per iniziative singole.

Cosimo Caridi

 

Inghilterra Tutti in aula: nessuna imposizione, solo raccomandazioni

Le linee guida del governo inglese per le scuole sono state aggiornate il 5 gennaio. Si tratta di misure sempre facoltative. Per gli allievi delle secondarie, dagli 11 ai 18 anni, la novità è la raccomandazione di indossare le mascherine negli spazi comuni e in classe. L’incoraggiamento a sottoporsi a tamponi due volte alla settimana era già in vigore ma ora mancano i test. Alle elementari la misura protettiva in aula è raccomandata per lo staff ma non per i bambini. In caso di contatto con un positivo le lezioni procedono ma si consigliano tamponi quotidiani. Il governo ha promesso 7.000 unità di ventilazione. Nessuna categoria professionale ha obbligo di Green pass e l’immunizzazione sotto gli 11 anni è raccomandata solo per i soggetti vulnerabili. Quanto ai docenti, il tasso di assenza per Covid è intorno al 10%; si prevede possa salire al 25%.

Sabrina Provenzani

Altri 717 ricoveri e 155mila casi. Oltre 2 milioni di italiani positivi

Tutto come previsto. La variante Omicron oggi prevalente ha un impatto minore sull’organismo, ma è più contagiosa della Delta e, colpendo un maggior numero di persone, fa salire la pressione sugli ospedali. Ieri il ministero della Salute ha registrato 717 nuovi ricoveri, oltre il doppio di sabato (+339) e ai livelli di venerdì (+764), per un totale di 15.647 persone in ospedale. In aumento anche i posti occupati nelle terapie intensive: 38 in più (sabato erano stati 58 in più) con 142 ingressi del giorno e un totale di 1.595.

Ieri il SarsCov2 ha fatto registrare altri 155.659 casi. Meno dei 197.552 di sabato, ma con 200mila tamponi in meno: 993.201 tra molecolari e antigenici contro 1.220.266. Di conseguenza il tasso di positività è sceso dal 16,2 al 15,7%. Quasi due milioni (1.943.979) gli attualmente positivi, di cui 1.926.737 in isolamento domiciliare. Il numero di persone che da febbraio 2020 hanno contratto il virusa è salito a 7.436.956, compresi guariti e morti. Quelli comunicati ieri sono 157 contro i 184 di sabato, per un totale di 139.038 vittime.

La campagna di vaccinazione prosegue. Secondo il “report vaccini” le dosi somministrate in totale sono oltre 115 milioni. Le persone con almeno una dose superano i 48 milioni, quelle che hanno completato il ciclo 46.614.891, mentre il totale dose addizionale/richiamo era di 22.846.936 (il 73,70% della popolazione potenzialmente oggetto). Ieri il commissario straordinario Francesco Paolo Figliuolo si diceva soddisfatto perché venerdì 15.239 over 50 – ne mancano all’appello ancora 2,1 milioni – si sono fatti inoculare la prima dose: “Il dato rappresenta il triplo di quello medio registrato nei 7 giorni precedenti, pari a 5.500 prime somministrazioni al giorno”. Ma di questo passo per raggiungere tutti i renitenti serviranno 140 giorni. Si arriverà, quindi, a inizio maggio, quando l’ondata di Omicron sarà auspicabilmente già superata.