“L’obbligo serviva sei mesi fa. Delta sopravvive a Omicron”

Massimo Antonelli, direttore del reparto di Rianimazione e terapia intensiva del policlinico Gemelli di Roma.

Con il tracciamento fuori controllo ormai l’unico dato attendibile è quello di ricoveri e terapie intensive. Come sta impattando Omicron sul suo ospedale e sul suo reparto?

Il tracciamento è difficoltoso perché il numero dei casi è alto. Dire in che modo Omicron stia impattando è difficile. C’è una serie di variabili da considerare. La prima è la contemporaneità di Omicron e Delta, che gira ancora e in modo pesante. Quindi o sequenziamo tutti i malati che arrivano positivi o non siamo in grado di rispondere. Il problema è che sequenziare in modo capillare in questo momento è complesso e costoso. Secondo elemento: la presenza sia di persone che hanno fatto solo le prime due dosi di vaccino e soprattutto, almeno nelle intensive, una larga prevalenza di non vaccinati.

Cos’è cambiato rispetto alla prima ondata?

Chi arriva in ospedale è in genere più giovane. Ma le caratteristiche sono simili, abbiamo soprattutto anziani e fragili. L’80% sono pazienti non vaccinati. Tra costoro ci sono anche ultra 70enni con patologie, quindi fragili. Da un punto di vista clinico per i non vaccinati il quadro è sovrapponibile a quello della prima ondata, per loro il virus resta aggressivo come allora. Per chi è arrivato alla seconda dose, il quadro è un po’ meno grave, ma con l’andare avanti nel tempo c’è un declinare della risposta immunitaria.

L’Iss ci dice che i ricoveri aumentano nella fascia 5-11 anni e nell’ultima settimana solo nei 15 ospedali pediatrici della rete Opi ce ne sono stati 132 nella fascia 0-5 anni. Al Gemelli com’è la situazione?

Anche da noi arrivano più bambini, in questo momento ne abbiamo 8. Nessuno in condizioni serie, però sono ricoverati. Questo accade perché il virus circola di più e ne porta di più in ospedale.

Qual è l’identikit del paziente del suo reparto?

Ne abbiamo di due categorie: i non vaccinati, con un’età che va dai 30 agli 80 e una media sui 60 anni. Tutti hanno fattori di rischio che abbiamo visto nella prima ondata come diabete, ipertensione, obesità. Alcuni hanno patologie che li rendono più fragili. Poi ci sono i vaccinati arrivati alla seconda dose. Hanno polipatologie, situazione di immunodepressione, quindi soggetti fragili. Alcuni di questi anche anziani.

La campagna vaccinale nel complesso ha funzionato, il Green pass meno: chi era convinto sta facendo la terza dose, chi era contrario non l’ha fatta.

Il fatto che si sia arrivati a una larga fascia di popolazione vaccinata ha evitato i ricoveri. In questo periodo nel 2021 avevo 67 pazienti Covid, oggi ne ho 50. È un bel numero, ma sono 20 di meno. A livello personale, forse l’obbligatorietà sarebbe stata una soluzione.

Invece è arrivata ma solo per gli over 50.

Sarebbe stato utile l’obbligo per tutti, prima. Magari a fine estate. Tecnicamente era possibile.

Cento euro di multa sono sufficienti? In Austria se ne possono comminare 600 fino a 8 volte in 2 anni.

Sono pochi. Se il vaccino diventa obbligatorio ci devono essere dei meccanismi per far rispettare le norme. Ma queste decisioni spettano alla politica.

Non tutte le Regioni sembrano aver imparato molto in questi due anni. Il Lazio lo ha fatto?

Qui la rete sta funzionando. C’è stato un aumento dei posti letto e un riordino delle attività assistenziali. A marzo 2020 eravamo in lockdown e le altre patologie era difficile trattarle. Oggi, grazie a i vaccini, la vita lavorativa è rientrata nella normalità. E noi lavoriamo su due binari: le patologie che necessitano di ricovero intensivo vengono accolte assieme al percorso dei Covid. Certo, restiamo sotto pressione.

Nel suo reparto avete aumentato i posti?

Sì, dall’inizio della ripresa pandemica abbiamo riportato i numeri ai livelli di un anno fa. Ora abbiamo 56 letti dedicati ai Covid, di cui 50 occupati. L’aumento è stato graduale e il numero tende a restare costante. L’impatto c’è e il personale è stanco, ma reggiamo.

C’è chi vede in Omicron il salto verso l’immunità di gregge e una malattia meno grave.

Per ora è un auspicio, non abbiamo dati sufficienti. In Camerun è stata individuata una nuova variante che è già arrivata in Inghilterra. Vedremo.

Test a scuola, la resa di Figliuolo: “Gli studenti vadano dai medici”

Oggi si torna in classe, in teoria. Nella pratica, stamattina, tra i banchi non ci saranno tutti gli studenti e nemmeno tutti i docenti e i collaboratori scolastici. Secondo le stime del presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, potrebbero mancare anche centomila dipendenti mentre gli alunni contagiati potrebbero essere trecentomila. A nulla è valso l’appello al premier Mario Draghi dei 2500 dirigenti che chiedevano di rinviare l’avvio in presenza di due settimane. Inascoltata anche la voce di molti Governatori tant’è che il presidente del Veneto Luca Zaia ha parlato di “una grande finta riapertura” e il collega della Puglia, Michele Emiliano ha promesso di sostenere le famiglie che vorranno impugnare davanti al Tar l’eventuale rifiuto di richiesta di didattica a distanza per i figli. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha tirato dritto fino alla fine. L’unico ad opporsi è stato il presidente della Campania, Vincenzo de Luca, che con un’ordinanza (impugnata dal governo) ha rimandato a fine mese le lezioni dal vivo. Con lui alcuni sindaci e la Regione Sicilia che riaprirà giovedì 13.

Ieri il commissario per l’emergenza Covid Francesco Figliuolo a “Mezz’ora in più” (Rai3), intervistato da Lucia Annunziata ha detto: “Le scuole sono luoghi sicuri, con le mascherine, con il distanziamento, ed è importantissimo dal punto di vista sociale. È importante il tracciamento, il testing, noi ci siamo già attivati prima di Natale”. Peccato però che le mascherine Ffp2, ormai necessarie per combattere Delta e Omicron, stamattina non ci saranno per tutti perché il ministero ha deciso di darle solo ai maestri della scuola dell’infanzia e a quelli dove vi sono alunni esentati dai dispositivi.

E proprio dal fronte Figliuolo, arriva anche la resa sui tamponi: dopo gli annunci delle scorse settimane sull’arrivo dei militari a dare un mano alle Asl per i tamponi nelle scuole ora il generale ha deciso di affidarli ai medici di famiglia e ai pediatri che si sono ritrovati a subire la scelta. Alla prova del nove, la decisione che era stata presa da palazzo Chigi di far intervenire l’esercito per potenziare il lavoro dei distretti sanitari che si erano trovati a dover gestire i testing delle scuole non ha funzionato. La struttura commissariale si era presa l’impegno pur sapendo di non avere un plotone di medici e infermieri a disposizione. Risultato? I distretti sono in tilt e ora il generale ha pensato di coinvolgere altri operatori sanitari.

Sabato, infatti, in una nota ufficiale, Figliuolo ha scritto che “a seguito di accertata positività dell’alunno se frequenta la secondaria di primo o secondo grado, si deve provvedere a contattare immediatamente il pediatra di libera scelta o il medico di medicina generale che, ove ritenuto necessario, procederà ad effettuare immediatamente il tampone ovvero a rilasciare idonea prescrizione medica per ill test gratuito presso una farmacia”.

Un’ammissione del fallimento del piano annunciato i primi di dicembre con ampia eco sulla grande stampa. La Repubblica, per dire, scriveva: “La struttura di Figliuolo lavorerà per incrementare l’attività di verifica rapida di eventuali casi di infezione all’interno di classi/gruppi. Si useranno i militari messi a disposizione della Difesa e si impiegheranno gli 11 laboratori presenti in otto Regioni per processare tamponi molecolari effettuati a domicilio da team mobili militari”. Anche Il Foglio titolava “Draghi e Figliuolo metteranno in sicurezza la scuola in presenza”. Abbiamo visto com’è finita: in Emilia Romagna, ad esempio, la Regione ha chiesto 108 militari e ne sono stati mandati otto.Ora, il commissario si affida a medici di famiglia e pediatri, che non sono proprio contenti: “È un ulteriore carico – spiega Giacomo Caudo, presidente della Federazione dei medici di medicina generale – in un momento di estrema difficoltà. Non siamo certi di essere nelle condizioni di poter fare anche i tamponi”.

Ma mi faccia il piacere

Beati noi. “Macron: è una grande fortuna avere Draghi e Mattarella in Italia” (Corriere della sera, 8.1). Per chi sta in Francia.

Perdita dell’olfatto. “Pier Aldo Rovatti: ‘I No Vax sbagliano, non sento odore di stato d’eccezione’” (Huffington Post, 9.1). Non avrà mica il Covid?

Molestia a parte. “Sono orgoglioso di avere nel 2021 cambiato le sorti del Paese mandando a casa Conte e provocando l’arrivo di Draghi. Allo stesso modo sono orgoglioso di aver contribuito nel 2015 alla scelta di Mattarella” (Matteo Renzi, Messaggero, 2.1). E il ritorno di Salvini e Forza Italia al governo dove lo mettiamo? Su, dài, ancora uno sforzo per B. al Quirinale e anche il 2022 sarà un anno da favola.

Pistaaaa! “Il premier fa da apripista in Europa” (Repubblica, 6.1). “Draghi fa da apripista in Europa” (Stefano Bonaccini, Pd, presidente Emilia Romagna, Stampa, 7.1). Nel senso che tutta l’Europa fa l’opposto.

La parola giusta. “In questi primi undici mesi il nostro Paese ha fatto scuola in Europa sulla strategia di contrasto al Sars-Cov-2” (Corriere della sera, 5.1). Ha fatto scuola soprattutto sulla scuola.

Ingiustizie. “È ingiusto sottovalutare i meriti politici del tecnico Draghi” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 6.1). Se no?

Lo Statista. “Macron sui No vax ha le idee chiarissime: rompergli le palle” (Foglio, 6.1). Direbbe De Gaulle: “Vasto programma”.

Il logorio della vita moderna. “L’unità nazionale è ormai logorata” (Stefano Folli, Repubblica, 6.1). Oh no, e adesso come facciamo?

Fate la carità. “Incentivi all’elettrico o calerà la produzione” (Carlos Tavares, ad di Stellantis della holding Exor, intervista a Repubblica della holding Exor, 6.1). ‘Ste ciofeche di macchine non riuscite proprio a venderle, eh?

Terzo pollo/1. “Il patto centrista firmato Renzi-Toti: ‘Saremo il terzo polo’” (Repubblica, 6.1). Col 3% sono dietro FdI, Pd, Lega, 5Stelle, FI, Leu e Azione: il terzo polo ottavo.

Terzo pollo/2. “La Meloni vuole votare perchè è in calo” (Matteo Renzi, senatore Iv, Corriere della sera, 6.1). Ha parlato Zerovirgola.

Sincero democratico. “La carta di Berlusconi: se vado io al Colle, non ci saranno elezioni” (Corriere della sera, 3.1). Mai più?

Dinasty. “La ricerca di un nuovo Mattarella” (Massimo Franco, Corriere della sera, 3.1). O la figlia o il terzo fratello.

Mistero buffo. “Il labirinto della burocrazia ha ucciso Angelo Burzi. Seguendo alla lettera la legge si scopre che è impossibile stabilire se lui l’abbia davvero violata” (Domani, 6.1). Infatti ha patteggiato 1 anno definitivo di reclusione perchè era innocente, ma non lo sapeva.

Er Mutanda. “Le ‘mutande verdi’ inventate per creare terremoti politici. Il simbolo della Rimborsopoli creato dai media… per gettare discredito su Cota e la destra” (Libero, 3.1), Infatti Cota, per le mutande verdi a spese della Regione, è stato condannato.

A posteriori. “Anch’io potevo finire come Burzi. La custodia cautelare preventiva ha un effetto violento” (Marcello Pittella, Pd, ex presidente Basilicata, Libero, 3.1). A parte il fatto che Pittella e Burzi non hanno mai visto il carcere neppure in cartolina, la custodia è “cautelare” quando è preventiva: però si può sempre provare con quella successiva.

Il Cortigiano Johnny. “Libertà di stampa, l’Italia migliora ma resta indietro. Da noi la minaccia di mafia e no vax” (Gianni Riotta, Stampa, 3.1). Ma soprattutto di Riotta.

Qualcosa di destra. “Spostarci a sinistra sarebbe un errore” (Andrea Marcucci, senatore Pd, Repubblica, 3.1). In effetti, sarebbe davvero bizzarro se un partito che si dice di sinistra andasse a sinistra. Comunque, Marcu’, magna tranquillo: non c’è pericolo.

M’hai detto un Prospero. “In Italia la sinistra c’è: si chiama SuperMario” (Michele Prospero, Riformista, 6.1). Uahahahahah.

Affamiamoli. “La multa di 100 euro ai non vaccinati rende l’obbligo una buffonata” (Roberto Burioni, 8.1). “Punizione inadeguata” (Walter Ricciardi, 8.1). “Quel favore ai No Vax” (Caterina Soffici, Stampa, 9.1). Giusto: almeno fustighiamoli.

Arrestiamoli. “Non vaccinarsi può diventare un reato, perché no?” (Umberto Galimberti, In Onda, La7, 2.1). Massì, ammazziamoli direttamente.

Senti chi parla. “Brindisi al Fatto per la petizione farlocca. 200 mila firme su Change.org contro il Cav.” (Foglio, 7.1). E niente, questi tapini non riescono proprio a immaginarselo, un giornale con dei lettori.

I titoli della settimana/1. “Il 2022 può andare meglio del previsto, ma anche molto peggio” (Franco Bruni, economista, Domani, 5.1). Così, comunque vada, hai azzeccato la previsione.

I titoli della settimana/2. “Lega e M5S alzano le barricate, ma il premier tira dritto” (Repubblica, 4.1). Poi, l’indomani, ha tirato storto.

I titoli della settimana/3. “Niente Colle per il Cav perché ama le donne? Che barba, Carofiglio” (Tiziana Maiolo, Riformista, 7.1). Ma ‘sto Carofiglio sarà mica frocio?

I leoni di Sicilia diventano serie tv. E Rupert Everett torna alla regia

Il best seller I leoni di Sicilia di Stefania Auci diventerà una serie tv destinata a Disney Plus / Star diretta da Paolo Genovese e realizzata da Lotus Production. In scena la saga della famiglia Florio, dinastia di armatori e imprenditori protagonista di un’epoca d’oro dello sviluppo economico della Sicilia dell’Ottocento, la cui ascesa commerciale e sociale si intreccia con tumultuose vicende private e pubbliche.

Kate Winslet sarà la protagonista di Lee, un biopic sulla modella di Vogue Lee Miller che, una volta diventata durante il secondo conflitto mondiale corrispondente e fotografa di guerra in Europa, fu tra i primi a svelare le atrocità perpetrate dai nazisti. Interpretato anche da Jude Law e Marion Cotillard e diretto da Ellen Kuras il film è tratto dalla biografia The Lives of Lee Miller di Anthony Penrose.

Rupert Everett sta per dirigere Lost and Found in Paris, il suo secondo lungometraggio di cui sarà anche uno degli interpreti accanto ai protagonisti John Malkovich, Kristin Scott Thomas e Kit Clarke. Il racconto autobiografico seguirà le vicende di un affascinante, goffo e ribelle 17enne inglese che nel 1977 viene mandato dagli esasperati genitori a vivere con una famiglia mondana parigina per imparare il francese e crescere e viene sedotto dal diffuso clima di edonismo dell’epoca prima di ritrovare finalmente se stesso.

Everybody Loves Diamonds è il titolo di una nuova serie tv di Gianluca Tavarelli con Kim Rossi Stuart e Anna Foglietta, realizzata da Wildiside per Amazon Prime Video e ispirata al celebre furto di diamanti del 2003 noto come “Il colpo di Anversa”. Uno squinternato gruppo di ladri riesce ad aggirare con un piano geniale il sistema di sicurezza all’avanguardia dell’Antwerp Diamond Centre e a rubare pietre preziose per milioni di dollari.

“Zappa”: vita, musica, lotte e disprezzo di un (vero) artista sempre controcorrente

Zappiani è un’etichetta dello spirito, un modo di vivere, di interpretare l’algebra musicale. Diverse generazioni si sono confrontate col “modello” originale quale fonte di ispirazione: il docu-film Zappa, visibile in streaming su Nexo+, diretto dal regista Alex Winter, rende omaggio all’artista più irriverente del rock, refrattario ai canoni ordinari e mago del non-sense, estremamente rigoroso nella partitura musicale. Artista capace di condurre la London Symphony Orchestra con la competenza di estrazione classica, trasformando ogni atto in epifania. Il film è stato realizzato attraverso l’accesso a tutti i materiali dell’archivio privato della famiglia Zappa: “È improntato su uno sguardo ampio e intimo sulla sua vita, utilizza solo ed esclusivamente le sue parole. È il documentario definitivo” suggella Ahmet, uno dei figli di Frank. E in effetti non a sola musica si assiste: con disarmante sincerità scopriamo le avventure a sfondo sessuale durante i tour, vissute come una necessità ineluttabile. O un momento di scazzo nella band (i Mothers of Invention) perché non sopportava chi facesse uso di droghe. E, soprattutto, la soddisfazione di essere chiamato dal presidente della Cecoslovacchia Vàclav Havel dopo la rivoluzione di velluto: un incarico a 360 gradi per creare un ponte con gli States anche se inviso ai politici americani. Le sue battaglie sono evidenziate nel film, in particolare la lotta alla censura contro le signore della alta borghesia bianca, le wasp che hanno introdotto il Parental Control. E il disprezzo per i telepredicatori e le case discografiche: quando Zappa voleva chiudere un rapporto portava i tre o quattro dischi rimanenti per contratto e spiazzava i colletti bianchi. Mitico il suo pallino per stampare album magari solo per se stesso o qualche amico a seconda dell’ispirazione del momento. La classifica di Billboard conta solo una hit in tutta la carriera. Il suo album più bizzarro e anche il più popolare resta Freak Out!, un doppio Lp in guerra aperta con gli stilemi del rock, un atto di coraggio e di incoscienza unico (“Scrivo brutta musica perché l’America è uno schifo”). Il principe della ricreazione, nato a Baltimora, racconta anche dei suoi primi exploit da ragazzino, con pochi soldi in tasca: la sua critica alla società americana nasce già da adolescente con profonde riflessioni e non lo abbandonerà mai. “A me e al produttore Glen Zipper sembrava incredibile che non ci fosse ancora un documentario definitivo e completo su Frank” spiega il regista Winter, “abbiamo deciso di realizzarlo: è la saga drammatica di un grande artista e pensatore; un film che desidera trasmettere la portata della prodigiosa produzione creativa di Zappa e l’ampiezza della straordinaria vita personale e politica”.

Cinema, è salvo solo il ragno. Gli altri cadono dalla “rete”

L’Uomo Ragno davanti, e dietro il vuoto. C’è un trionfatore assoluto al botteghino delle Feste, Spider-Man: No Way Home, che ha fin qui realizzato 21.465.095 euro. Il record non è solo italiano: con 635 milioni di dollari è l’ottavo incasso di sempre (non aggiornato con l’inflazione) negli Usa, con un miliardo e 394 milioni il dodicesimo nel mondo, e ancora deve essere distribuito in Cina. Il gigante asiatico è imprescindibile: per il secondo anno consecutivo – sì, la pandemia ha influito – è il mercato più importante a livello globale. Pechino vale 7,4 miliardi di dollari, quasi due terzi degli 11,3 accordati da Gower Street Analytics alla zona Asia-Pacifico, ovvero un terzo abbondante dei 21 miliardi e 400 milioni del box office mondiale nel 2021. +78% sul 2020, ma rispetto alla media di 41,3 miliardi del triennio 2017-2019 il theatrical s’è dimezzato. Che fare? (Ri)dimensionarci: il Nord America, Usa più Canada, vale 4,5 miliardi, Europa, Medio Oriente e Africa insieme 4,4. Da Trieste in giù, il successo, ovvero l’insuccesso, ha un codice binario: due o il primo multiplo. A quattro troviamo l’animazione Disney Encanto (4.574.552 euro) e il camp griffato House of Gucci (4.471.790 euro), a due un gruppetto di – si fa per dire – salvati: Diabolik, 2.452.728 euro gravati da un dispendioso P&A (copie e lancio); Chi ha incastrato Babbo Natale?, di e con Alessandro Siani, 2.041.383 euro; The French Dispatch di Wes Anderson, 2.108.601 euro; Freaks Out di Gabriele Mainetti, 2.671.563 euro, meno di un quarto del budget; Madres paralelas di Pedro Almodóvar, 2.359.946 euro. Due milioni e rotti quale asticella della riuscita dicono della miseria del comparto, e segnatamente della produzione nazionale: nella stagione corrente, avviata il 1° agosto 2021, nella Top10 figura il solo Me contro te – Il mistero della scuola incantata, sesto con poco più di cinque milioni. Che siano stati due youtuber, Lui e Sofì, a difendere il cinemino nostro dice di questi tempi matti e disperatissimi. In attesa della serie, i Me contro te non si stanno concedendo il bis: Persi nel tempo non va oltre 1.873.560 euro, a dimostrazione – l’analogo realizzo dell’animazione Sing 2 comprova – che più della voglia dei piccini ha potuto la paura del Covid dei grandi. Su uno e otto si barcamena Belli ciao di Pio e Amedeo, ripuliti da Gennaro Nunziante (e Lorenzo Mieli), e chissà quanto – Netflix non rende pubblici gli incassi, tre milioni? – avrà fatto È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, che nella notte tra domenica e lunedì secondo i bookmakers verrà battuto ai Golden Globes dal giapponese Drive My Car. Poi, gli spacciati. Non è un mistero che 7 donne e un mistero, “remake” di Alessandro Genovesi da François Ozon, sia un flop (871.370 euro). La Befana vien di notte II – Le origini di Paola Randi, firmato quale showrunner da Nicola Guaglianone, ha fatto 67mila euro il giorno della Befana, per 379mila totali: un disastro. Supereroi – titolo o genere, Freaks Out, che sia, dovremmo davvero astenerci e lasciar fare agli americani – di Paolo Genovese è fermo a 508mila euro, un altro disastro. Avrà scontato il tema romantico, di certo insieme alla Befana di Monica Bellucci e Fabio De Luigi illumina, con gli interpreti Jasmine Trinca e Alessandro Borghi, una questione sensibile e non differibile: al di fuori di Instagram, abbiamo uno star system, abbiamo qualcuno che richiami in sala un pubblico? Domanda retorica: tra il like e il biglietto c’è di mezzo un baratro.

“Peppino l’ho conosciuto e parlava male di Eduardo Fellini? Genio divertente”

Attenzione: ottenere risposte secche, dirette, da Sergio Rubini è quasi impossibile. A dispetto dell’apparenza un po’ dinoccolata, a volte fumettistica, con i tratti del volto che sembrano usciti dalla matita di Andrea Pazienza; a dispetto di una certa fama di scavezzacollo delle emozioni (proprio sul Fatto Valeria Golino l’ha definito, con affetto, “un uomo pericoloso”) e di un’esistenza artistica giocata su tutte le gradazioni vocali e fisiche del catalogo cinematografico e teatrale (dalla commedia al dramma), lui è proprio serio. Serissimo. Ogni atto, gesto e scelta sono ponderati in partenza o almeno trattati con una forte stratificazione di analisi psicologica nel post atto, gesto e scelta. Non si rifugia mai in superlativi assoluti o in metafore. È più un bibliotecario della sua arte. E da bibliotecario è preoccupato della polvere sui manoscritti, tanto da prendere un panno, toglierla e portare prima al cinema e poi in televisione la storia de I fratelli De Filippo. Con grazia, amore e una dedizione che lo hanno reso un successo (“Ci ho lavorato sette anni”).

L’input…

È un racconto popolare, tipicamente italiano, che andava realizzato; un racconto che è nel Dna del nostro Paese.

Aveva mai ricevuto così tanti complimenti?

No, anche perché a causa della pandemia il film si è scostato dalla routine: questa volta è passato dalla sala alla televisione con tempi brevi. Ed è il più visto su RaiPlay; (pausa) è una storia che racconta la parte sana del nostro Paese, quella parte svantaggiata in partenza ma in grado di uscire fuori con talento, tenacia, sangue, sudore e lacrime.

Gli ostacoli spesso servono a capire cosa uno veramente vuole.

Gli artisti hanno la fortuna di poter tradurre i problemi in ispirazione, opere, progetti; però non bisogna esagerare e in qualche modo Scarpetta (il padre dei De Filippo) era andato un po’ oltre: i suoi tre figli li ha feriti e umiliati, neanche potevano prendere l’ascensore per salire a casa del padre.

Per i De Filippo ha utilizzato tre attori sconosciuti.

La giovinezza non è riproducibile, se avessi coinvolto dei volti noti magari non avrebbero avuto l’età giusta e magari non sarebbero stati napoletani.

L’hanno soddisfatta?

Sono entusiasta: Napoli produce artisti quasi inconsapevolmente, la recitazione fa parte della loro lingua.

I De Filippo li ha mai visti a teatro?

Da ragazzino sono entrato nel camerino di Peppino.

E come è andata?

Incontro pazzesco; allora vivevo ancora in Puglia e la domenica pomeriggio raggiungevo Bari per gli spettacoli teatrali: ero un “loggionista”. Quando sono stato davanti a Peppino, insieme ai miei amici, gli ho raccontato di aver portato in scena Natale in casa Cupiello, opera del fratello. E lui iniziò a spiegarci che molte battute le aveva scritte lui.

I due De Filippo non si amavano.

Appunto, lo stupore era questo: un monumento, oramai un uomo anziano, che perdeva del tempo con degli adolescenti per parlare male del fratello.

Ed Eduardo?

L’ho visto recitare più volte, anche testi di Pirandello: lo guardavo e la sua sola presenza sul palco riempiva lo spazio; (torna a prima) comunque sono felice dei complimenti di chi con Eduardo ha lavorato.

Tra gli interpreti del film c’è uno stupefacente Biagio Izzo.

Lui conferma un dato: gli attori comici possono essere straordinari in assoluto; (pausa) non lo conoscevo e non ci avevo mai lavorato, ma in un ambiente ristretto di professionisti circola da sempre la voce di quanto sia bravo; poi l’ho visto in un ruolo drammatico in un film di Capuano: stupendo; (pausa) sono felice che il pubblico lo abbia scoperto sotto questa nuova luce, ed è la bellezza del cinema: quella di recuperare e poi di scoprire le sfaccettature inaspettate di un attore.

La sua storia in cosa coincide con quella dei De Filippo?

Per fortuna non ho avuto una famiglia difficile, però sono un artista arrivato dalla provincia, senza alcun appoggio economico alle spalle: quello che ho realizzato è stato grazie alle mie gambe e alle persone incontrate; (pausa) anche la mia storia narra di quanto conta la voglia di raccontare e di lottare.

Con l’happy end…

Quando ero ragazzino giudicavo il “lieto fine” con del sospetto; oggi lo ritengo un atto di coraggio, perché sottintende anche l’indicazione di una strada, mentre il finale sospeso o in negativo nasconde una vigliaccheria; abbiamo bisogno di gente visionaria che sia in grado di immaginare un futuro possibile; (pausa) nel piccolo questo film ti dice che puoi essere figlio di nessuno, ma se ti rimbocchi le maniche, hai le palle, puoi ribaltare il destino.

Quando ha creduto di avere le palle?

Mai. Perché nel momento in cui te lo dici poi vai al mare e smetti di lavorare.

Quindi?

La condanna di chi fa il mio mestiere è quello di operare sulla fragilità, sul pericolo, sulla precarietà.

Ha mai pensato di mollare?

Ci sono stati momenti di scoramento, anche da adulto, ma in definitiva non ho mai avuto l’istinto di lasciare; (sorride) in realtà non saprei di cosa occuparmi, non ho un hobby, non ho una passione o un’attitudine.

Neanche un hobby?

È il mio lavoro.

Neppure da ragazzo?

Allora pensavo di diventare un tastierista rock e mi ero attrezzato con tanto di capelli ossigenati, mentre il teatro mi sembrava roba da vecchi, una rottura di scatole, soprattutto perché era la passione di mio padre ferroviere con tanto di compagnia amatoriale filodrammatica.

Che fine ha fatto la carriera rock?

Sono entrato in un locale e ho visto la mia band impegnata con un altro tastierista. Da lì ho accettato l’invito di mio padre a far parte della compagnia e, quando a 15 anni sono salito sul palco, ho percepito il rapporto con il pubblico e ho capito.

Secondo Alessandro D’Alatri l’applauso è la droga più potente del mondo.

È vero e per il comico l’altra droga è la risata, il boato; (cambia tono) il teatro cura l’io: è una gratificazione immediata che ti sostiene.

È anche un’esposizione dell’io.

Devi essere strutturato; quando sento parlare della “valigia dell’attore” credo sia un enorme fraintendimento.

Traduciamo.

Spesso la intendono come una serie di abiti, di maschere, di personaggi che l’attore metaforicamente si porta dietro; mentre l’artista si deve spogliare, deve mettere in scena la sua nudità.

È il suo amico Haber a cantare “La valigia dell’attore”.

Eppure lui mette in scena la sua nudità e in maniera splendida; (pausa) quando l’artista ha il coraggio e la forza di apparire nudo davanti al pubblico, poi è lo stesso pubblico a capirlo e a far partire l’applauso.

Suo padre, quello di Gennaro Nunziante e di Marisa Laurito sono tutti ferrovieri.

Non lo sapevo; anche Domenico Starnone è figlio di un ferroviere-pittore, proprio come mio padre; quando con Domenico abbiamo vissuto insieme, abbiamo parlato di questi uomini con un doppio lavoro, una doppia vita e le inevitabili frustrazioni: persone con dentro un animo artistico ma costrette a portare a casa uno stipendio.

In carriera chi le ha mai detto “sei un cane”?

Più frequentemente? Io.

E…

Quello dell’attore è un mestiere che espone e poter mettere d’accordo tutti è un obiettivo illusorio e non centrale.

Cioè?

Si fa veramente centro quando si è un po’ divisivi, quando si crea una dialettica.

Questa volta le è andata male: non ci sono molte critiche ai De Filippo…

(sorride) In qualche modo è vero.

Eduardo ha la fama di artista rigoroso in teatro. Lei lo è?

Molto e non rispondo con il sottotesto “quanto sono bravo”, perché nella capacità spregiudicata di non esserlo si può nascondere la naturalezza, mentre nel rigore ci può essere l’insicurezza.

Il suo amico Depardieu non è rigoroso…

Ho recitato in un film dove c’erano lui e Polanski (Una pura formalità) e Roman era perfetto dal trentesimo ciak in poi, mentre con Gérard erano buone le prime due: è stato fantastico assistere a due approcci così differenti al lavoro.

Come cambia il suo approccio al set da attore o da regista?

Il mestiere dell’attore ha a che fare con la giovinezza: qualcuno la mattina ti viene a prendere, ti porta sul posto, ti dicono quello che devi fare, poi la sera ti portano a casa e quando va bene ti consegnano pure un assegno.

Quindi?

È un mestiere legato alla irresponsabilità e tutto ciò ha un prezzo perché si lavora al buio, ci si affida agli altri; per me è come andare al mare, in vacanza, per questo cerco di non gravare mai sui registi.

Si rischia di non crescere.

E di diventare un attore fantastico ma con una vita terribile; è un lavoro usurante, è necessario scavare dentro se stessi, empatizzare, non giudicare mai il proprio personaggio, vivere mille vite fino a subire problemi d’identità; (pausa) allo stesso tempo si affronta questa esistenza proprio per compensare la propria identità.

Mentre da regista.

È pura responsabilità.

Secondo Mimmo Calopresti confrontarsi con lei non è semplice.

(Sorride) Io spero lo sia.

Quello di Calopresti è un complimento.

Sì, ma quando ero ragazzo il mio doppio binario, attore e regista, temevo mi creasse dei problemi con i film degli altri, temevo non mi chiamassero nel timore che potessi rompere le scatole sulla regia.

Giovanni Veronesi sostiene che lei è perfetto di profilo e non va mai inquadrato frontalmente.

(Ride) Perché sono spigoloso ed è probabile che ha ragione, mentre Salvatores mi ha reso bene pure davanti.

Golino la definisce pericoloso.

(Balbetta e prende tempo) Mi lascio molto cavalcare dalle passioni e in queste cavalcate cerco di coinvolgere le persone.

Nella capsula del tempo cosa ci mette per raccontare Sergio Rubini?

Tutti i miei lavori.

Così non è più una capsula ma un Tir.

Allora ci inserisco i ricordi, la famiglia, la mia compagna e le persone che mi hanno formato.

Chi?

Fellini, Salvatores e Depardieu; maestri che sono entrati nella mia vita con l’atteggiamento del compagno di banco a scuola; (pausa) Fellini era un genio con la voglia di giocare.

Che succede a Depardieu?

Torniamo al concetto di un mestiere difficile, poi Gérard negli ultimi anni ha perso il figlio…

Lei chi è?

Più o meno quello che faccio; non ho figli, scrivo con la mia compagna e sono il prodotto di tanti incontri, ambizioni, sogni e frustrazioni. Sono uno che crede di doversi ancora impegnare molto perché il meglio deve ancora arrivare.

 

Il sindaco nomina parenti e amici come suoi vice

“La leadership dovrebbe sempre avere una buona dose di spavalderia. Questo è quello che è mancato a New York in questi anni”. Eric Adams che da neo-sindaco di New York (è entrato in carica il 1° gennaio) appare sempre più personaggio di un film di Tarantino, prende a morsi la Grande Mela, con risposte aggressive contro chi lo accusa di gestire le poltrone della City Hall come “un affare di famiglia”. L’ex capo della polizia, scelto dai newyorchesi per il suo piglio securitario dopo il “bonaccione” italoamericano Bill De Blasio non fa sgarbi al corpo d’appartenenza e si circonda di colleghi anche nel suo nuovo ruolo. Proprio una grande famiglia, di cui lui si sente padre protettore: il fratello lo nomina vice-capo del corpo (stipendio 242 mila dollari: circa 210 mila euro, ndr), dopo aver messo la prima commissaria donna – naturalmente afroamericana – al posto più alto. Poi senza curarsi delle critiche di arroganza e spacconeria, promuove a vice sindaco il suo più grande amico, ex poliziotto come lui, ma costretto anni fa a lasciare la divisa perché coinvolto in un caso di corruzione.

“Quando un sindaco si mostra spavaldo, la città mostra spavalderia”, è la motivazione del sindaco-sceriffo nero. Il fratello Bernard cerca di stemperare l’ingombrante regalo – benché la nomina, a differenza delle altre, sia avvenuta in sordina, quasi a confermare scelte quanto meno controverse e che sollevano legittimi dubbi sul fronte del conflitto di interessi – sostenendo che “con Eric siamo separati alla nascita”. L’amico Philip Banks, con la delega per la pubblica sicurezza affiancherà gli altri cinque vice sindaco-donna (tra cui c’è la compagna del fratello di Banks Sheena Wright). Nell’amministrazione municipale è infatti sistemato anche il fratello di Banks, David, come assessore alla scuola. Per Adams il passo da Goodfella (bravo ragazzo) a Godfather (padrino) è breve.

Quel pasticciaccio brutto sulla Shalabayeva

Le proteste in Kazakistan e la durissima repressione in corso per l’Italia hanno un valore aggiunto. Il Corriere e Repubblica hanno intervistato l’ex banchiere kazako Muhtar Ablyazov che da Parigi (dove risiede come rifugiato politico) sostiene di capeggiare l’opposizione al regime di Tokayev – “sono il capo della rivolta” – e si autocandida a guidare il Paese. Non sappiamo in quale misura Ablyazov rappresenti, in queste ore, l’opposizione al presidente Tokayev. Ma quel che accade ora non deve essere mischiato a quel che accadde in Italia nel 2013. Altrimenti verrebbe meno la certezza del diritto in un importante processo: quello che (dal 17 gennaio) vede imputati a Perugia, in appello, Renato Cortese (il poliziotto noto per aver arrestato Bernardo Provenzano), Maurizio Improta (ex direttore dell’Ufficio immigrazione) e altri 3 funzionari di polizia condannati a 5 anni (in primo grado) con l’accusa di aver sequestrato la moglie di Ablyazov, Alma Shalabayeva, e sua figlia Alua, che nel 2013 furono espulse e rimpatriate in Kazakistan (salvo rientrare grazie all’intervento dell’allora ministro degli esteri Emma Bonino).

I fatti del 2013 nascono da un mandato d’arresto internazionale dell’Interpol: gli agenti guidati da Cortese si presentarono nell’abitazione romana di Ablyazov, che però era già fuggito, e vi trovarono sua moglie Alma Shalabyeva e sua figlia.

Il fulcro dell’accusa (semplifichiamo per esigenze di spazio) è il seguente: Shalabayeva, in quanto moglie di Ablyazov, non poteva essere espulsa poiché lo status di rifugiato si estendeva anche a lei (la figlia era all’epoca peraltro minorenne). Quel che conta, in sostanza, è dimostrare che a Cortese, Improta e gli altri imputati, in quelle ore del 2013 fosse noto che Ablyazov fosse un rifugiato e che, quindi, l’espulsione e il rimpatrio di sua moglie e sua figlia fossero illegali. Il giudice di primo grado ha stabilito che avrebbero agevolmente potuto scoprirlo cercando su Google.

Cortese e Improta obiettano (continuiamo a semplificare) che Google non possiede alcun crisma di ufficialità e spiegano: non potevano sapere che Ablyazov fosse un rifugiato perché proprio l’esistenza di un mandato di cattura internazionale (secondo le norme) escludeva in radice che lo fosse. Esibiscono un documento ufficiale, firmato dal segretario generale dell’Interpol Ronald K. Noble, nel quale sostiene che nessun Paese, interpellando il segretariato generale, avrebbe potuto sapere che Ablyazov fosse un rifugiato. La difesa aggiunge che Shalabayeva esibisce dei documenti di copertura (con un altro nome) e non il permesso di soggiorno: da qui l’espulsione e l’espatrio. Ora, che all’epoca vi furono pressioni dei kazaki sul governo italiano pare fuori dubbio, ma il tribunale di Perugia certifica: non v’è alcuna prova di interventi ai piani alti della politica. Gli imputati avrebbero quindi fatto tutto da soli “per compiacere i kazaki”. Se siano innocenti o colpevoli dovrà stabilirlo il tribunale. In base ai fatti. Che – a meno di non farsi influenzare dalle cronache recenti – restano però soltanto e comunque i fatti del 2013.

Resa dei conti tra oligarchi: capo degli 007 in manette

La violenta insurrezione popolare innescata dall’aumento dei costi dell’energia pare sotto controllo, con l’ordine impartito dal presidente Tokayev di sparare contro i manifestanti e con l’arrivo di 2500-3000 soldati russi e dei Paesi dell’ex Urss alleati; ma emergono elementi che fanno pensare a uno scontro ai vertici del regime. Lo pensa anche Moscow Times, che titola così un punto della situazione: “Conflitti nell’élite”. L’ex capo dell’intelligence del Kazakistan Karim Masimov, un ex primo ministro, da sempre vicino alleato dell’ex leader kazako Nursultan Nazarbayev, è stato arrestato con l’accusa di alto tradimento. È il primo provvedimento coercitivo preso contro un alto funzionario dell’ex repubblica sovietica dell’Asia centrale nella crisi in atto. Tuttavia, il presidente Kassym-Jomart Tokayev lo aveva già rimosso dall’incarico, dopo l’inizio delle proteste, come aveva rimosso Nazarbayev da presidente del Consiglio di Sicurezza nazionale. Il presidente, pur designato alla successione dallo stesso Nazarbayev, sembra dunque cogliere l’occasione delle proteste per smarcarsi dal suo predecessore, una cui statua è stata abbattuta all’avvio della rivolta dai manifestanti ad Almaty.

L’arresto di Masimov è avvenuto giovedì scorso, ma se ne è avuta conferma solo ieri. Le proteste e l’intervento delle forze dell’ordine hanno finora fatto un numero di vittime imprecisato: decine quelle ufficialmente riconosciute, fra cui 18 agenti o militari. Un corrispondente dell’Afp da Almaty segnala che la città sabato era tranquilla, anche se l’atmosfera restava tesa, con colpi d’avvertimento sparati dalle forze di sicurezza quando qualcuno s’avvicinava alla piazza centrale. È però di segno opposto la notizia che l’ex presidente Nazarbayev, per 29 anni e fino al 2019 l’indiscusso uomo forte kazako, è tuttora nella capitale, appoggia la repressione del governo e chiede alla popolazione di sostenerla. Nei giorni scorsi, s’era detto che Nazarbayev e la sua famiglia avevano raggiunto una loro residenza nel Golfo. Secondo il suo portavoce Aidos Ukibay, Nazarbayev, 81 anni, mai visto in pubblico nella settimana, è in “contatto diretto” con il presidente Tokayev. Forse l’ex leader, considerata la mala parata – era lui il bersaglio della rabbia popolare –, s’è rassegnato ad allinearsi dietro il suo successore, nell’intento di contribuire “a superare la crisi e a preservare l’unità del Paese”. In contatto diretto con Tokayev c’è di sicuro il presidente russo Vladimir Putin, che ieri ha avuto un altro “lungo colloquio” con il suo omologo kazako: i due condividono l’obiettivo di “ristabilire l’ordine” nel Paese dopo le violenze senza precedenti degli ultimi giorni, anche per evitare il rischio di contagi delle proteste in Russia. I presidenti – si legge in una nota del Cremlino – intendono rimanere in contatto “costante”: Tokayev e Putin paiono intendersela, ma il russo aveva sempre avuto buoni rapporti con Nazarbayev e Masimov. Per gli analisti occidentali, la Russia di Putin sta cogliendo al balzo la vicenda kazaka per “mostrare i muscoli” come potenza in grado di proteggere i suoi alleati nella sua regione geo-politica: lo scrive Andrew Higgins sul New York Times. Mentre il Financial Times, in un articolo a più mani, ipotizza che Mosca stia consolidando la propria posizione, sui fronti ucraino e kazako, in vista del prossimo vertice Usa-Russia a Ginevra a metà mese.

Si può leggere in tal senso la polemica del ministero degli Esteri russo con il segretario di Stato Usa Antony Blinken, che avrebbe “tentato di fare lo spiritoso sui tragici fatti” kazaki e avrebbe schernito “la legittima risposta” militare data da alcuni Paesi ex Urss legati da un trattato di difesa collettiva. L’annuncio dell’invio di truppe, ufficialmente con funzioni di peacekeeping, cioè di stabilizzazione e mantenimento del- l’ordine, era stato fatto da Nikol Pashinyan, premier dell’Armenia, presidente di turno dell’alleanza. Blinken aveva detto che “una lezione della storia è che una volta che i russi sono a casa tua è molto difficile convincerli ad andarsene”. Il ministero degli Esteri russo gli ha così fatto il verso: “Quando gli americani sono a casa tua, è difficile rimanere vivi, non essere derubati o stuprati”, citando come esempi, tra gli altri, nativi americani, coreani, vietnamiti e siriani.