Ambiente, tasse e corruzione: il premier detta il programma

Si accorciano le distanze tra Pd e 5 Stelle sul programma di governo messo a punto dal premier incaricato Giuseppe Conte, specie su alcuni temi cardine cari a entrambi i potenziali azionisti del governo giallorosso. Nel fine settimana dopo le interlocuzioni con Conte, i grillini hanno avuto rassicurazioni a Palazzo Chigi sullo stop a nuovi inceneritori e ai permessi di trivellazione oltre che sulla revisione delle concessioni autostradali e il taglio dei parlamentari. Mentre i dem sono sembrati soddisfatti rispetto allo snodo del taglio del cuneo fiscale per i lavoratori e sulla svolta attesa in materia di immigrazione rispetto alle politiche di marca salviniana. Un lavoro che è alle limature finali: le delegazioni delle due forze politiche dovrebbero incontrarsi di nuovo questo pomeriggio, ma il più sembra fatto. E non a caso ieri lo stesso Conte ha voluto evidenziare la grande sintonia tra i due potenziali azionisti della maggioranza giallorossa in un appello via Facebook a poche ore alla consultazione sulla piattaforma Rousseau dove gli iscritti del Movimento saranno chiamati ad esprimersi sull’accordo con i dem.

Il programma illustrato per priorità da Conte fa perno sulle emergenze del tempo presente, ossia la manovra economica e la sterilizzazione degli aumenti dell’Iva ma soprattutto sulle sfide di più lungo respiro. Volte in entrambe i casi a garantire maggiore equità sociale e a disegnare un green new deal anche nell’ottica di un nuovo rapporto con gli alleati europei. Nelle parole di Conte riecheggiano quelle pronunciate a luglio da Ursula von der Leyen eletta nuova presidente della Commissione europea con il sostegno anche di Pd e 5 Stelle: prima di presentarsi al voto degli europarlamentari Von der Leyen aveva presentato il suo programma che ha tra le priorità una rivoluzione verde da sostenere – è questa la vera novità – con piani per investimenti europei a molti zeri e da varare nei primi 100 giorni.

Per Conte e la sua maggioranza le sfide più ravvicinate sono innanzitutto quelle legate alla stesura della manovra imposta dall’apertura della sessione di bilancio. Una legge che avrà al centro “le ragioni del lavoro, dello sviluppo sociale. Con obiettivi chiari: stop all’aumento dell’Iva, salario minimo orario, taglio del cuneo fiscale, maggiore potere di acquisto per i lavoratori, una Pubblica amministrazione più trasparente e più efficiente”. Ma anche il sostegno alle famiglie e quello alle persone con disabilità, interventi per l’emergenza abitativa. “Dovremo realizzare anche una seria riforma fiscale che porti a ridurre le tasse e a contrastare più efficacemente l’evasione fiscale. Vogliamo mettere al centro della nostra azione la protezione per l’ambiente, lo sviluppo sostenibile, una crescita solida, il rispetto delle istituzioni, della legalità, una giustizia più efficiente”. In Europa – ha detto il premier incaricato – “saremo in prima fila per contribuire ad adeguare il Patto di Stabilità e crescita al nuovo ciclo economico. In Europa non sono mai andato con tono dimesso: avvieremo un dialogo franco, ma critico e deciso, per superare le politiche di austerità e modificare le regole vigenti flettendole verso una crescita duratura e uno sviluppo sostenibile”.

Naturalmente Conte non ha trascurato la questione del contrasto all’immigrazione su cui ha già ricevuto ampie rassicurazione da Von der Leyen. “Dobbiamo riprendere e sviluppare i negoziati con la Ue per il superamento delle convenzioni di Dublino, perché si affermi una gestione finalmente europea del problema dell’immigrazione, continuando a contrastare i traffici illegali e l’immigrazione clandestina”. Ma anche altri sono i temi toccati nell’appello via social dal premier incaricato: la lotta contro la corruzione, il rafforzamento dell’azione di contrasto contro il malaffare “e le varie e molteplici mafie”, la lotta per l’eliminazione dei privilegi e il taglio dei parlamentari. Temi cari ai 5 Stelle come l’impegno sulla connettività, “per garantire a tutti l’accesso universale a “Internet e affermare la cittadinanza digitale”.

Rousseau: appello di Conte. Di Maio fa il passo indietro

Ora manca solo Rousseau, con il domatore Giuseppe Conte che oggi metterà la bocca nella testa del leone a 5Stelle, la piattaforma web Rousseau a cui è appeso un governo. Manca solo quel sì, che proprio Conte, il presidente del Consiglio secondo cui “è inappropriato definirmi del Movimento”, invoca con un video che è una sfilza di bandiere del M5S che diventeranno, giura, provvedimenti. “Non lasciate idee e sogni nel cassetto” esorta alla vigilia della votazione di oggi.

Tutto il resto, o quasi, è già in tavola per l’unione tra gli sposi per forza, Pd e M5S. Perché Luigi Di Maio ha fatto il passo indietro, ha rinunciato al ruolo di vicepremier fingendo di credere che fosse solo una proposta dei dem e non la mediazione che voleva Conte, il presidente del Consiglio che dà le carte anche quando finge di non farlo. Ed era l’ultimo, grande ostacolo. Sui programmi dem e grillini stanno mettendosi d’accordo senza patemi, trovando diversi punti in comune e smussando (o ignorando) ciò che li farà litigare. Mentre sui nomi bisogna ancora darsi sulla voce per arrivare alla mappa finale. Ma sembrano dettagli. Ora conta il voto di oggi dalle 9 alle 18 su Rousseau, la decisione degli iscritti grillini. Ed è attorno a loro che ruota la giornata del premier e del capo politico, che da settimane sono lontani, talvolta avversari. Ma ora conta la politica, l’obiettivo. Così in giornata Di Maio scioglie la riserva, dicendo sì alla formula senza vicepremier.

Già domenica notte sembrava essersi convinto. E ieri mattina, nella riunione a Palazzo Chigi con ministri e sottosegretari, “mostra la tranquillità di chi il governo lo farà” come racconta un sottosegretario. Ha funzionato, l’offerta domenicale di Dario Franceschini, il big del Pd che aveva citato con un chiara malizia Beppe Grillo : “Ha ragione lui, via i due vicepremier”. Ma era il punto di caduta di Conte, che Di Maio non ha potuto rifiutare: non più, dopo i post di Grillo, i tavoli e le pressioni dei suoi. In giornata era già tutto proiettato sul lavoro di rifinitura del programma, da chiudere in fretta affinchè Cone possa limarne una versione finale da consegnare poi a Sergio Mattarella, assieme alla lista dei ministri. Ma prima ci sarà il voto su Rousseau. E allora Conte si mette in gioco, con un video pieno di presunti, buoni motivi per il sì. “Serve un governo forte, un governo stabile, e io sarò il primo responsabile di questa nuova esperienza” garantisce, come a dire che la garanzia sarà lui. Certo, “non servono super eroi, quelli che piacciono a mio figlio, ma persone determinate”. Serve lui, che nel finale tocca il cuore del problema: “Agli elettori del M5S chiamati al voto su Rousseau ricordo che il Movimento ha sempre detto, prima delle elezioni, che se non avesse avuto la maggioranza avrebbe realizzato il programma con le forze disponibili a farlo. Il M5S ha sempre posto in primo piano il programma per cambiare il Paese, senza farne una questione di schieramenti”. Poi Conte si rivolge agli elettori del Pd, da eterno “terzo”.

Ma la chiave è quella, convincere gli iscritti grillini che bisogna deglutire la pillola, e chi se ne importa se fino a un attimo fa Di Maio inveiva contro “il partito di Bibbiano”. Lo ha accettato anche il capo politico, che nel pomeriggio incontra Alessandro Di Battista nel centro di Roma. Qualcuno dice che Di Maio pensi di offrirgli il ministero agli Affari europei. Ma al Fatto risulta che, almeno fino a ieri sera, nessuno abbia proposto incarichi all’ex deputato. La certezza è la mossa del capo, che parla dopo Conte, sempre in video. E la miccia è la stessa, parlare alla gente del M5S. “Non svendiamo le nostre idee” promette. Non spinge per il sì, tanto (quasi) tutti i maggiorenti del M5S fanno proselitismo su Facebook. “Non esiste un voto giusto o un voto sbagliato, c’è la partecipazione”. Di Maio cerca toni da primo militante. Però ormai è anche lui per il sì: “Chiederemo di applicare a tutti i ministri le stesse regole del codice etico del M5S: no condannati, no indagati per reati gravi e solo incensurati”. Soprattutto, Di Maio giura che il suo tarlo non era l’incarico di vicepremier, anzi. “Essendo Conte un presidente super partes, i dem non potevano avere un vicepremier unico. Abbiamo saputo che il Pd ha fatto un passo indietro rinunciando al suo vicepremier, e quindi il problema non esiste più”.

Anche se il capo dalle mille cariche ora perderà influenza su Conte, e dovrà accontentarsi di un singolo ministero (il Lavoro è la prima scelta, ma il Pd lo “spinge” verso gli Esteri). Ma era il dazio per andare avanti. E Di Maio lo ha pagato: sperando che basti.

Perché Sì

Non avendo mai avuto tessere, non ho il problema del voto su Rousseau. Ma, se fossi iscritto, non avrei dubbi sul Sì al Conte-2.

1. I 5Stelle sono nati come coscienza critica del centrosinistra. Nel 2007, al V-Day, Grillo e Gianroberto Casaleggio sfidarono il Pd a opporsi davvero al berlusco-leghismo e a cambiare registro, cancellando le leggi-vergogna e sposando legalità e ambiente. Portarono le loro proposte a Prodi, non a B. e Bossi. E Grillo si iscrisse al Pd per candidarsi alle primarie, non a FI o alla Lega. Ora, 12 anni dopo, il Pd cambia idea e tende la mano. Grillo l’ha subito afferrata. Perché i 5Stelle dovrebbero respingerla?

2. Il programma del Conte-2 include le bandiere storiche M5S: alt a nuovi inceneritori e trivelle, revisione delle concessioni autostradali, infrastrutture eco-compatibili, investimenti in green economy, riforma Bonafede della giustizia, pene più alte agli evasori, salario minimo, taglia-parlamentari. Bandiere stracciate da Salvini e accettate dal Pd. Perché dire No a se stessi e alla propria storia?

3. Conte può restare premier solo con il governo M5S-centrosinistra. E merita di restarci.

4. Salvini e B. vedono il governo giallo-rosa come il fumo negli occhi: due ottime ragioni per farglielo trovare subito.

5. Zinga non voleva Conte premier nè Di Maio ministro e chiedeva un solo vicepremier Pd, poi ha ceduto su tutti e tre i punti. Di Maio ha rinunciato a Palazzo Chigi, ricompattando un movimento in rotta e a rischio di estinzione. E recuperando Grillo in prima linea. Se vincesse il No, i gruppi parlamentari si spaccherebbero, Conte andrebbe a casa e Salvini avrebbe ciò che vuole: voto, vittoria e “pieni poteri”.

6. Le due alternative al governo Conte-2 sono peggiori: elezioni, cioè governo Salvini-Meloni-B., che cancellerebbe Reddito, dl Dignità, Anticorruzione, blocca-prescrizione e reato di abuso d’ufficio e ripartirebbe con inceneritori e trivelle; nuovo Salvimaio, che coprirebbe i 5Stelle di ridicolo e servirebbe a Salvini per tradirli di nuovo e/o per finire di mangiarseli.

7. L’unica opzione migliore, per un iscritto, è un monocolore M5S. Mission impossible: dovrebbe superare il 40%. Questo Parlamento è grillino al 33%: il prossimo mi sa di no.

8. Un Pd così sbiadito e diviso, senza leader nè slogan forti, è un alleato meno insidioso e concorrenziale del monolite Salvini.

9. Le coalizioni tra diversi sono sempre rischiose. Ma forse, dopo la cura Salvini, il M5S ha comprato mutande di ghisa per non farsi fregare.

10.Fino a un mese fa Salvini era sempre tra i piedi e in prima pagina. Ora sfugge ai radar. Chi lo rivuole in copertina?

“The New Pope”, la grande bellezza del cinema che fu

“Non sono Cristo, tantomeno il Messia, anzi, è probabile che io sia l’Anticristo”. Tranquilli, non è – ancora – Paolo Sorrentino, ma Lenny Belardo alias Papa Pio XIII. Fuori Concorso alla 76esima Mostra di Venezia, due episodi, il secondo e il settimo, della serie The New Pope, targata Wildside, Sky, Hbo e Canal +, creata e diretta dal regista classe 1971.

La stampa non gli dà troppo credito: la prima proiezione in sala Darsena – in contemporanea passava il peraltro non esaltante The Laundromat di Steven Soderbergh domiciliato Netflix – è semivuota. Si sbaglia la stampa. Perché raccontando l’ascesa al soglio pontificio dell’aristocratico inglese Sir John Brannox (John Malkovich) e la parallela elevazione alla santità del comatoso Belardo (il ritrovato Jude Law di The Young Pope), se rispolvera a proprie spese il memento di Jep Gambardella ne La grande bellezza, “è così triste essere bravi: si rischia di diventare abili”, nondimeno in un Lido 2019 medio per qualità e mediano per respiro Sorrentino avoca a sé una signora certezza: c’è più cinema, ossia più immagine, immaginario e immaginazione, in questa serie che nei film passati finora in Concorso.

Dopo la topica di Loro, ritrova nella serialità più tempo per non far accadere le cose, che non è necessariamente una pecca, anzi: diciamo la verità, puoi anche postulare attacchi terroristici a San Pietro, pontificati fulminanti à la Giovanni Paolo I e resurrezioni papaline – suvvia, non spoileriamo – ma rispetto a un papa Francesco bloccato in ascensore, e proprio mentre a Venezia passava The New Pope, non è fatica sprecata, inventiva frustrata? Meglio cincischiare, diluire, cesellare, al più, attendere il momento giusto, come il redivivo Belardo per ritornare all’Urbe.

Sicché Sorrentino, i suoi formidabili attori – Jude Law è superbo, Silvio Orlando recita sul velluto, di Cécile de France non si può dire – e impareggiabili collaboratori – su tutti, il direttore della fotografia Luca Bigazzi: piuttosto, continueranno a lavorare insieme? – si rifugiano nell’ebanisteria d’autore: qui e là i dialoghi e le situazioni sono al contempo iperbolici e a tirar via, ma quando le cose vanno, vanno davvero. Bigazzi illumina una desolata e invernale Venezia e la sensazione romantica è del grande cinema che non facciamo più, Sorrentino sguinzaglia un cane a San Pietro e sovvengono fenicotteri e giraffe, Law/Belardo chiede alla suora una cherry coke, a Cristo un miracolo e convince sempre.

Certo, guardando allo sviluppo di questa seconda serie verrebbe da parafrasare Pontifices non sunt multiplicanda praeter necessitatem, ma non è già successo per davvero? “The New Pope – dice il regista – esplora l’ambizione di due grandi Papi: essere dimenticati. Veri servi di Dio, hanno bisogno di sbiadire, per lasciar fiorire e brillare il nitore della fede e della pace. L’utopia della purezza”. Che sarà pure “prematurata con doppio scappellamento a destra”, ma è sempre un gran bel vedere.

 

Oro, ma quale buon investimento. È solo una convinzione infondata

L’oro è salito molto. Da inizio giugno del 18%, rispetto a un anno fa del 33%, sempre in euro. E comunque del 27% in dollari. Ciò ha fornito il destro per innumerevoli articoli, dichiarazioni e consigli. Di regola aria fritta. Andiamo al cuore della questione, smontando l’affermazione “L’oro è un investimento sicuro”, sulla quale molti frettolosamente tenderebbero a concordare.

Come regola assoluta è una baggianata. La convinzione che vi sta dietro mantiene una qualche validità, solo se fortemente relativizzata. Manca una definizione codificata di investimento sicuro, ma indiscutibilmente sarà tale solo un impiego del risparmio con cui non capiti di perdere; o almeno di perdere tanto.

Prendiamo allora un risparmiatore italiano che abbia investito in oro nel 1980 pagandolo sulle 17-18 mila lire al grammo. Messi i lingotti in cassetta e senza considerarne i costi, dopo 18 anni il valore del suo tesoretto era sceso dal 70 al 75 per cento in potere d’acquisto. Peggio ancora per chi aveva comprato sterline: nello stesso periodo subì una perdita sull’80% in termini reali d’oro. Il loro prezzo nel 1980 presentava infatti un aggio, cioè una maggiorazione, nell’ordine del 50% rispetto al metallo nobile in esse contenuto. Aggio poi azzeratosi.

Che affidabilità può dare un impiego che ha preservato solo il 20-25 per cento della somma investita? Solo dopo una trentina d’anni il valore reale in euro dell’oro è tornato ai livelli del 1980. Campa cavallo!

Per giunta non abbiamo tenuto conto del margine dell’intermediario né per l’acquisto né per la vendita, che complessivamente poteva essere e tuttora è nell’ordine del 10 per cento per monete o mini-lingottini.

Cosa si salva allora della proverbiale sicurezza offerta dall’oro? Una certa fondatezza della convinzione che il valore dell’oro posseduto, in lingotti o monete non numismatiche, non verrà coinvolto e travolto da vari possibili disastri finanziari. Cioè da fallimenti di banche e assicurazioni, default pubblici, crolli borsistici, revoca della validità delle banconote, frodi informatiche. Si può inoltre escludere un azzeramento del suo valore, possibilissimo invece per il Bitcoin, ma non perdite anche pesanti in potere d’acquisto, come abbiamo visto.

Certo che con l’oro si può pure guadagnare, col che siamo però fuori dalla ricerca della sicurezza. Inoltre chi punta alle plusvalenze, non comprerà lingotti né tanto meno monete, bensì contratti derivati (future) o, se li trova troppo complicati, prodotti finanziari opportunamente indicizzati.

 

In Svizzera invalidità anche per i tossici

Trasferiamoci Oltralpe, nella vicina Svizzera, che spesso prendiamo come punto di riferimento per le libertà personali. Ebbene, per ricordarci che essere liberali non significa essere anche solidali c’è una notizia che ha spiazzato i nostri cugini svizzeri e che lascia meno stupiti noi italiani e forse anche più orgogliosi di esserlo. Il Tribunale federale con sede a Losanna con una sentenza pubblicata il 5 agosto ha finalmente decretato che anche la tossicodipendenza è una malattia equiparabile a una qualsiasi altra patologia mentale, e quindi chi ha una tossicomania e non è in grado di svolgere un’attività lavorativa ha diritto a una rendita dell’assicurazione. Quello che da noi si chiama “assegno di invalidità” e “pensione di invalidità”, da sempre erogati – ci conferma l’Inps – anche a chi è lavorativamente disabile per dipendenza patologica da droga o alcol. Perché ciò di cui si tiene in considerazione è la ripercussione funzionale non i motivi che l’hanno scatenata. Altrimenti non si aiuterebbe più nessuno. Un ragionamento ovvio nei sistemi di welfare pubblico come il nostro. Non in quelli basati sulle assicurazione private.

Banche, addio alla chiavetta. Ma la sicurezza è una chimera

Meglio se negli scorsi mesi non si è gettata – senza averla letta – una lettera che hanno inviato le banche ai clienti che hanno il conto corrente online. Il contenuto è di quelli rilevanti: tra due settimane per operare con l’home banking non si potranno più utilizzare i vecchi sistemi di autenticazione, quelli che generano i codici usa e getta (Otp, one time password) attraverso i token o che usano le tessere simil-battaglia navale. Per accedere al proprio conto corrente e consultare i saldi o eseguire bonifici servirà, infatti, obbligatoriamente un token digitale che genera codici usa e getta generati solo sullo smartphone del cliente. La svolta è imposta dalle normative europea sui pagamenti digitali contenute nella nuova direttiva sulle banche, la Psd2, e tutte le banche dovranno adeguarsi entro il prossimo 14 settembre.

Archiviare il token si è reso necessario perché il vecchio strumento genera una password sì dinamica, che cambia ogni 15-20 secondi, ma che non è in grado di associare il codice a un’unica operazione. Così, per continuare a operare sul proprio conto ci sarà bisogno sempre di una Pin di accesso iniziale che non cambia mai (a meno che non lo voglio modificare il correntista). Ma per le operazioni dispositive servirà un altro codice, le cui modalità cambieranno a seconda delle banche: si andrà dal doppio codice via sms ai sistemi di autenticazione biometrica integrati negli smartphone (sensore per le impronte digitali o riconoscimento del volto).

Un’operazione che al momento non prevede costi per i correntisti, ma non è escluso che ben presto le banche possano ritoccare all’insù il canone annuale, o inserire un nuovo balzello sul conto corrente per rifarsi del notevole esborso che hanno sostenuto per adeguarsi a questa nuova tecnologia. Anche sul fronte delle responsabilità in caso di attacchi informatici non cambierà nulla. Sarà, infatti, la banca a cercare di fare tutto il possibile per tutelare il correntista da ogni attacco informatico. Le norme sono sempre le stesse e fanno ricadere sull’istituto la responsabilità “di garantire un ambiente informatico sicuro”. Nel caso in cui, invece, si dovesse perdere lo smartphone, non solo lo si potrà bloccare a distanza, ma si potrà anche chiedere alla propria filiale di bloccare la generazione digitale degli Otp.

È evidente che la nuova normativa serve per porre un argine al fenomeno del phishing, la madre di tutte le truffe informatiche che si replica in decine di versioni sfruttando la buona fede dell’utente per rubargli dati e informazioni. Basti pensare che solo nel 2018, secondo lo studio di Abi Lab (il centro di ricerche e innovazione delle banche italiane), il sistema ha investito 300 milioni di euro contro le frodi online per garantire alla clientela delle operazioni digitali sicure. Ma circa la metà delle banche aderenti ha previsto un aumento medio (tra il 5 e il 15%) o rilevante (superiore al 15%) della spesa per i prossimi 12 mesi.

Con i pirati informatici che mirano a sottrarre denaro agli utenti in maniera fraudolenta, quella della protezione dei dati è diventata una delle principali sfide che le banche stanno affrontando. Infatti, secondo Gartner (società leader nella consulenza strategica), il settore bancario è quello che a livello mondiale spende di più per la sicurezza informatica: l’ammontare totale degli investimenti supererà i 7 miliardi di dollari entro il 2023. Ma non sarà mai abbastanza. Sulla base delle cifre in gioco a livello globale, gli esperti del Clusit (l’associazione italiana per la sicurezza informatica) stimano che l’Italia nel 2016 abbia subito danni per quasi 10 miliardi di euro per attività di cybercrimine. Dati più recenti non ce ne sono e non interessa neanche sapere se la cifra attuale è tanto più alta. “Il punto è che il crimine resta sempre cinque passi in avanti visto che sfrutta tecnologie e investimenti decisamente maggiori rispetto a quelli che risultano dalle ricerche dell’Osservatorio Sicurezza & Privacy del Politecnico di Milano”, sottolinea il Clusit.

Tutt’altro che una semplice dichiarazione, tanto che – secondo la ricerca condotta da ImmuniWeb – quasi tutte le banche del mondo sono a serio rischio. Numeri alla mano, il 97% dei più grandi istituti di credito sono a rischio di furto di dati online e il 20% delle app di mobile banking contiene almeno una vulnerabilità di sicurezza ad alto rischio. Inoltre di 100 banche esaminate (di cui 39 sono europee), 85 app di web banking non superano il test di conformità al Gdpr (il regolamento europeo per la protezione dei dati personali ), 25 non sono protette da firewall e 7 contengono vulnerabilità note e sfruttabili dagli hacker. Lacune che andrebbero sanzionate: secondo il Regolamento Ue è prevista una sanzione fino a 10 milioni di euro o, nei casi più gravi, fino al 2% del fatturato globale annuo delle imprese.

Fortuna cieca e culo scemo

La fortuna. Che sia ottusa o bendata o lo strumento della grazia degli dei non mi è dato sapere, in questo periodo però è un’idea fissa. Quello che so è che mi è stata sempre alla larga. L’unica volta che ho vinto in vita mia è stato un ambo a tombola, il Natale del 78, quando ero bambina, 50 lire, e mi sono sentita straricca. Ancora ne parlano nel condominio! In verità non l’ho tentata spesso la fortuna, la schedina del totocalcio mi costringe a ragionare sul calcio e non ne ho tanta voglia. La Lotteria Italia mi rovina la mia festa preferita, la Befana e soprattutto l’ultima puntata di Fantastico, altro evento fondamentale per me. Il Lotto mi ricorda quella bellissima commedia di Eduardo Non ti pago, che ho appena visto al Giulio Cesare recitata da suo figlio Luca. Una vita di perdite alimenta la speranza, ma una sola vincita ti può far perdere la vita. I protagonisti Ferdinando Quagliuolo e Mario Bartolini sono come me e Manolita. Manolita è un monumento al culo, al quadrato, al cubo, al culo universale. Lei è la quintessenza del culo. Gioca e vince, sempre. È brava, sa quando è il momento di tentare la sorte, ce l’ha d’istinto. Non stressa la fortuna, non insiste, la maggior parte delle volte si astiene, poi come per un sesto senso tac un grattino, tac un bigliettino, tac un superenalotto. Non che vinca cifre esagerate, l’equivalente di un viaggio, d’un cambio d’auto, d’un gioiello. Una volta abbiamo provato a comprare insieme un biglietto della lotteria. Lei se la sentiva la fortuna, le prudevano i polpastrelli, era sicura. Aveva voluto che il biglietto lo scegliessi io. Noo, errorissimo! Perché se con lei la dea talvolta si sbenda, con me non c’è verso. Forse ha ragione Enrico Vaime, la fortuna è cieca, ma il culo è scemo.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

La nostra Costituzione è stata fatta dai partigiani

Giuseppe Filippetta ha scritto un libro (“L’estate che imparammo a sparare”, Feltrinelli) che ha un sottotitolo rivoluzionario (“Storia partigiana della Costituzione”) e mantiene la promessa. Sostiene che la Costituzione italiana, così come essa è e come molti italiani cercano di difenderla, viene prima, non dopo il formarsi e i discutere dell’Assemblea costituente. Dice che prima di ogni giurista e politico fra coloro che hanno dato all’Italia la sua legge fondamentale, la regola di condotta morale, giuridica, politica del Paese, vengono i partigiani. Sono le loro persone,le loro vite, a cominciare da quelle perdute nei combattimenti, nei rastrellamenti, nella prigionia, nelle torture,nelle deportazioni, sono le persone, i corpi, il dolore, la fatica, il rischio, il coraggio contro la paura, la decisione di combattere contro quella di scomparire nel vuoto che la fuga delle classi dirigenti aveva indicato, che hanno composto gli argomenti, il senso, il testo della Costituzione antifascista che l’Italia di è data. In questa parola, “ antifascista ”, è il senso nuovo e straordinario del documento storico che è il libro di Filippetta. Infatti questo testo non è un percorrere date ed eventi per ricordare ancora una volta ( con una forza narrativa pari al rigore saggistico ) che la Resistenza ha salvato l’Italia dalla vergogna di essere stata per 20 anni un Paese fascista fondato sulla persecuzione, e legato fino alla fine al regime delinquenziale della Germania Nazista.

L’operazione dello storico e costituzionalista Filippetta si basa su tre punti: chi ha combattuto ha costruito, anche materialmente, il futuro della Repubblica. Chi ha combattuto lo ha fatto per sempre. Dunque i tentativi continui di ferire, mutilare, ignorare o respingere la Costituzione sono tentativi di riaprire quella guerra e pretendere di ignorare la definitiva sconfitta e cancellazione del fascismo. Ma, sopratutto, questo libro da’ all’antifascismo un senso, uno spazio, un peso, un valore ben più grande della celebrazione (quando ancora accada che vi sia una celebrazione) sia dei caduti, sia delle vittime. L’antifascismo non è simmetrico e contrario a un suo nemico (il fascismo) in una sequenza storicamente reversibile (bravi ragazzi gli uni e gli altri perchè ogni valore è stimabile). L’antifascismo è il mondo di civiltà e libertà che uomini e donne si sono dati nel corso di secoli, progressivamente meno barbari, meno oppressivi, fondati sempre più sul rispetto e i diritti di ciascun essere umano, sulla negazione del razzismo, sull’impedire l’esercizio fanatico del potere senza limiti. L’antifascismo – a cominciare dal coraggio personale e individuale di coloro che, nel saggio – racconto di Filippetta, “impararono a sparare”, perchè era necessario, è immensamente più grande degli avversari che deve fronteggiare anche oggi, sopratutto in difesa di coloro che vengono dopo e che hanno diritto di essere difesi come l’Italia abbandonata del 1943 è stata difesa dal coraggio dei partigiani. Il fascismo è un dettaglio di un crollo di umanità, una misera resurrezione che divampa dovunque può confrontarsi con i deboli (vedi la lugubre cerimonia degli sgomberi dei rom e delle case occupate, che ogni tanto viene celebrato, solitamente di notte, per ostentare il disprezzo dei deboli e provocare il terrore dei bambini) dovunque ci sia contagio del virus di sovranismo e populismo, fra campi di filo spinato e porti illegalmente e anticostituzionalmente chiusi. Ma queste ragioni non sono che un imperfetto sommario di un libro che aggiunge molto alla cultura italiana dei prossimi anni e alla consapevolezza di adesso.

L’Italia dei record! Si pubblicano 200 libri al giorno: non si sa per chi

Della Penosa situazione del libro in Italia parla Alessio Trabucco in un articolo tutto di contenuti e di polemica pubblicato sul sito Intellettuale dissidente e già sembra di rivivere l’invettiva di un Giovanni Papini. Tale e quale quel Gianfalco, infatti – lo pseudonimo con cui Papini, dalle pagine del Leonardo – la rivista di palazzo Davanzati a Firenze rompe la lunga notte delle accademie – Trabucco redige questa nota in cerca di un mattino d’ingegno nella desolazione dell’editoria.

Ed è un affrontare la questione della crisi del libro malgrado i numeri di produzione industriale siano quelli dello sproposito. Sono 70 mila, infatti, le novità editoriali l’anno solo in Italia: “Togliendo domeniche e festivi, fa più di 200 nuovi libri al giorno”. Pochissimi se ne stampavano al tempo in cui Papini bramava dettare infine un bollettino vittorioso che cancelli la “grigia e impaziente attesa” della letteratura.

L’incontentabile Papini generava polemiche in un’Italia dove pure, nel suo incendio novecentesco, aveva modo d’ubriacarsi di pura poesia con un Dino Campana, di elaborare un costrutto critico con un Giuseppe Prezzolini e quindi – ebbene sì – poteva mettere mano all’arte per tramite delle avanguardie artistiche nel palcoscenico dell’intero mondo, altro che Festival di Mantova o Premio Strega…

L’esagerazione, in ogni modo, cade proprio a proposito: “Lì dove i lettori sono pochi”, scrive appunto Trabucco, “solo il 40% degli italiani legge almeno un libro l’anno e chi legge frequentemente è solo un pugno di persone, si pubblicano 200 titoli al giorno”.

Non c’è posto in assoluto più ostile, per chi ama i libri – s’è già detto – delle librerie. Basta appunto guardare quanta porcheria trabocchi dalle vetrine, nelle trasmissioni autoreferenziali della nomenclatura radical o nelle kermesse acculturate delle presentazioni per scapparsene con il libro di Giulia De Lellis sottobraccio. Almeno lei, star tivù, già autrice senza neppure essere scrittrice, orgogliosamente dichiara di non averne mai letto uno in vita sua e compie il miracolo di farsi comprare da chi non ha mai messo il naso tra le pagine di un volume.

Trabucco nel suo intervento segnala che il titolo di De Lellis – influencer tra le più cliccate – è il più venduto su Amazon nelle ultime settimane, uscirà a settembre ed è comunque “in cima alle classifiche ancora prima di essere pubblicato”. Il titolo è Le corna stanno bene su tutto, lo pubblica Mondadori e Trabucco – senza stracciarsi le vesti, giustamente – trae una rispetto al successo di De Lellis trae una sola conseguenza, e cioè che pubblicare fa status: “Come un mezzo sigaro o un cavalierato”.

De Lellis doppia, dunque, qualunque illustre vate (qualora ce ne fossero ancora nel mercato) e non è appunto lei, così partecipe dello Zeitgeist, a rendere penosa la situazione del libro in Italia piuttosto sono i lettori a mancare se vale – altroché se non vale – il teorema di Roberto Cotroneo mutuato da una battuta del film JFK quando ci si chiede se un avvocato abbia letto Shakespeare. Ovvio che sì, come per un francese Flaubert, Stendhal o Zola; per un tedesco Goethe, Holderlin o Mann; “mentre per un italiano, chissà perché, aver letto Dante, Galileo, Leopardi o Manzoni è casualità più unica che rara”. In Italia ci si mette anche la scuola a far danni, figurarsi che aiuto può dare l’industria editoriale dove se ne pubblicano tanti di libri da non avere il tempo di leggerli …e neppure scriverli!