Quando rinunciai al concerto del “boss” per gli incontri di Iosa

È stato l’unico in vita mia capace di farmi saltare un concerto di Bruce Springsteen. Proprio lo storico concerto di Bruce a San Siro del 1985, biglietto già preso. Andò così. Quando Antonio Iosa mi telefonò chiedendomi di partecipare al convegno sul pentitismo promosso dal circolo Perini, di cui era lo storico presidente, chiesi quale fosse la data. Coincideva con Bruce. Maledissi la coincidenza ma non lui. Gli dissi di sì quasi per deferenza, anche se ero adulto e vaccinato. Chi fosse Iosa lo sapevo benissimo, anche se avrei imparato a conoscerlo sempre meglio dopo, nei decenni. Sapevo che era un democristiano di sinistra impegnato con gli immigrati e dedito all’obiettivo di portare la cultura in periferia, soprattutto nel suo quartiere, Quarto Oggiaro, ingenerosamente chiamato il Bronx di Milano. E sapevo ancor prima che era una delle quattro persone a cui i brigatisti, nel 1980, avevano sparato alle gambe in una sezione del loro partito, rivendicando poi di avere giustiziato “i servi di Cossiga”.

Il dibattito iniziò mentre nell’aria indaco giungevano da San Siro gli echi del concerto e di un pubblico in estasi davanti a un “boss” favoloso. Non altrettanto favoloso fu il dibattito. Che però era parte importante di un grande percorso umano. Quello di un immigrato pugliese che giunge a Milano nel dopoguerra e le dedica l’anima. Che porta in periferia Camilla Cederna, Giovanni Testori e il cardinal Martini, i sindaci di Milano, uno dopo l’altro, e quello di Palermo, Leoluca Orlando. Che affronta con dignità una ferita che gli starà addosso tutta la vita, più di 35 operazioni, e un modo di camminare sempre e purtroppo rivelatore. Contrariamente a quanto era scritto nel comunicato brigatista, certo fesso più che delirante, Iosa non era un servo del sistema, e tanto meno di Cossiga. A questi rimproverò anzi a lungo con rabbia mai soffocata di essersi messo a flirtare con gli ex della lotta armata, fino a far da testimone di nozze a uno di essi. E di avere dimenticato, al contrario, chi si portava sul corpo o nella vita le sofferenze degli anni di piombo. Una accusa di tradimento che spiegò anche perché Iosa, esemplare sempre più raro del cattolicesimo sociale in politica, decidesse di seguire Leoluca Orlando nella fuoriuscita dalla Dc e nella fondazione della Rete, dove divenne subito il beniamino dei nuovi giovanissimi militanti milanesi. Il percorso successivo di questo combattente moderato e radicale fu del tutto coerente con la prima parte della sua storia, rara avis nell’avvicendarsi vero o finto delle “repubbliche”. Il suo circolo anzitutto, il Perini, radicato nel futuro grazie alla sua trasformazione in fondazione. Il lavoro umile e autorevole nel suo quartiere, che egli molto contribuì a cambiare, con la dolorosa sorpresa di vedere, all’inizio di una manifestazione antimafia in una scuola, una decina di giovani in piedi sulla cattedra a ritmare “ma-fia, ma-fia”. Non si arrese nemmeno a quello. Convegni, mostre con le scuole elementari, ricerche sui quartieri della periferia milanese, e documenti e libri, anche, di rilievo. L’impegno per una sicurezza vera, nutrita di società partecipante, in cui arruolava, come un instancabile regista, tutte le personalità cittadine potenzialmente utili alla causa. E la lotta per la memoria, per le vittime di mafia e terrorismo, il lavoro con la “Casa della Memoria”, la recente mostra sulle stragi, la preoccupazione che quanto era accaduto potesse essere dimenticato o trasformato in materia di scherno. Da bravo cattolico non chiuse la porta alle pratiche di riconciliazione tra vittime e assassini, che ebbero in Milano l’epicentro. Ma non volle farne il modello di lettura della storia, che con le sue eccezioni, doveva restare di bene e di male. E che solo come tale poteva essere insegnata ai giovani. Con l’età crebbe la voglia di consegnare a un giovane la sua staffetta, la sua corsa. Non so se ci riuscì.

Gli ultimi tempi ne chiarirono l’usura del corpo. Sapemmo che era stato ricoverato in una struttura medica nelle valli bergamasche. Raggiunsi in un tramonto di luglio la voce affaticata, conscia di non essere all’altezza, e che a dispetto di questo restò fedele ai suoi compiti: “Fermateli, per carità fermateli. Distruggeranno la democrazia e la memoria, difendetele”, ripeteva con tono affannato e disperato. Il messaggio sulla linea si fece poi più flebile. Ma così resti scritto per tutti: il “servo di Cossiga” prese l’ultima strada invitandoci a difendere lo Stato e la democrazia.

Estate a Mykonos. Tra invidia, gommoni rosa e calici di Moët Chandon

Ciao Selvaggia, sono in vacanza, in un posto bellissimo in Grecia, un posto molto frequentato, fotografato, amato, instagrammato. Non mi va però di pubblicare foto o di fare un post in cui io ostenti sfarzo con serenità perché poi alla fine a me ‘sti quattro schizzi d’acqua e il lettino in prima fila sono costati parecchio. Facciamo 3000 euro. Serenità quindi, mica tanto. Non mi va neanche di fare un post in cui denigro le persone che campano coi soldi degli altri (qui ne vedo parecchie e molte attraenti e giovani, sì, spesso anche di sesso maschile) perché se avessi avuto la possibilità l’avrei fatto pure io, anche se probabilmente li avrei gestiti meglio.

Però ragazze mie, ve lo devo dire: mi fate un po’ vomitare quando vi vedo pelle, ossa e protesi mammarie su quelle barchette strette strette che affittate a giornate a Mykonos per dimostrare che oltre alle corone d’alloro guadagnate in qualche prestigiosa università costata a papi un occhio della testa, siete anche delle gran fighe.

Siete le stesse che faranno la guerra ai mariti per gli alimenti e avranno il mal d’India con la crisi di mezza età. Mi pare già di vedervi a quarant’anni a flirtare con il benzinaio perché l’avvocato civilista che vi siete scelte alla lunga vi annoia.

Solo per dire che quei costumi interi bucati sulla pancia, quei gne gne di voci stridule e quei gommoni rosa fenicottero che intrappolate nelle vostre tristi foto in piscina possono suscitare giusto un po’ di ilarità. Se invece è invidia, quella che volete suscitare, chiedetevi come mai è così importante il parere di noi figlie di padri, non di papà, e ricordatevi che dietro quei telefoni ci sono magari i vostri fratelli minori e le vostre sorelle minori che forse, guardandovi, pensano che la vita sia una cena con selfie assieme a quattro sceme come voi con scritto sotto “Reunion”.

Questa esasperazione della vittoria, forgiata dal diniego alle debolezze (che rifuggite come fossero il demonio), ha creato terra bruciata delle personalità. Siete pelle ossa. Niente anima.

Nessuno ha una vita perfetta, per carità, ma qualcuno ve lo dovrà pur dire che sicuramente non è bere Moët Chandon per guardare dal privè chi beve spumante.

E che cazzo.
F.

 

Fortuna che ti hanno lasciata indifferente, ‘ste tizie. Viene da chiedersi cosa avresti scritto se fossero riuscite a suscitare la tua invidia. Il Mein Kampf, probabilmente.

 

“Siamo tutti stati Salvini nella vita. Basta saper guarire”

Tre anni fa circa ho conosciuto un tizio che all’inizio non mi piaceva, poi ho capito che il tizio aveva delle qualità, che io ero solo da troppo tempo, che avevo desiderio di realizzarmi in coppia e pensavo che lui mi avrebbe reso la vita facile. Era un ragazzo di buon carattere, generoso, quasi servile. Ricco. Stravedeva per me. È stato subito chiaro che io ero la parte dominante della coppia, che lui era un burattino nelle mie mani. I genitori e il fratello infatti mi detestavano, lo mettevano in guardia, gli dicevano continuamente che io stavo con lui per interesse, per sistemarmi, per prendermi l’azienda di famiglia, un giorno. Lui però li ignorava, assecondava ogni mio capriccio, mi lasciava prendere decisioni sul futuro dell’azienda (che lui riferiva a padre e fratello), progettava un matrimonio. Poi un giorno è accaduto che il padre ha deciso di spostare gli uffici in una zona più periferica, io ho protestato col mio compagno, lui per la prima volta mi ha dato torto. “Stai al posto tuo per una volta, amore”, mi ha detto. Morale: io ho capito che il mio ruolo dominante stava scricchiolando e ho fatto i bagagli in una notte, contando sul fatto che lui sarebbe impazzito all’idea di perdermi e mi avrebbe concesso ancora di più. Invece sai cosa è successo? Che lui ha vissuto il mio abbandono come un tradimento. Come una rinuncia a un progetto che per lui era solido e duraturo. L’ho deluso e l’ho perso. Quando l’ho capito ho fatto di tutto per riprendermelo, mi sono perfino umiliata come mai mi era accaduto, ho perfino chiamato il padre ammettendo le mie ingerenze, ma lui ormai non mi voleva più. Mi parlava come ad una estranea, freddo e risoluto nel non amarmi come mi aveva amata. E dopo sei mesi è andato a convivere con un’altra. Raccontarti questo mi viene facile dopo un anno di costose sedute dallo psicologo, cara Selvaggia, ma all’epoca ero così tronfia, ambiziosa e piena di me che davvero ero certa di avere davanti un luminoso futuro di burattinaia in una coppia destinata all’infelicità.

Tutto questo per dire che forse, e dico forse, siamo stati tutti Matteo Salvini una volta nella vita. L’importante è guarire.
Laura

 

O Luigi Di Maio. L’importante è darsi una svegliata.

 

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Meglio preparare i ragazzini a un mondo che non accoglie

Non deve essere stato facile essere genitori negli anni Trenta: mano mano che la marea nera saliva, proteggere i bambini dalle notizie era sempre più difficile. E soprattutto, prima o poi madri e padri si saranno interrogati sulla legittimità del nascondere quello che stava accadendo. Anche perché, a un certo punto, la fuga, le bombe, le partenze dei soldati sarebbero state reali. Con le dovute distinzioni, anche oggi il dilemma non è poi così diverso. Fino a quanto spegnere i tg, ma soprattutto – magari i tg dessero tutte le notizie – fino a quando evitare di parlare in loro presenza, lasciarli in quello spazio di felice inconsapevolezza, di naturale egoismo e radicamento nel presente caratteristici dell’infanzia? Sette, nove, dieci anni? Perché il mondo, là fuori, si è complicato parecchio, tra disoccupazione cronica, terrorismo globale, nazionalismi ciechi e soprattutto devastazione ambientale. E allora, se è vero che un bambino non può crescere con l’ansia che non vedrà il futuro, né che sarà un sicuro disoccupato o esposto alla cieca violenza fondamentalista, lasciare che scopra come stanno le cose da adolescente e all’improvviso potrebbe non essere la soluzione migliore, anche perché carattere e capacità di fronteggiare gli ostacoli si formano crescendo. Forse, meglio spiegargli piano piano che no, il mondo non è pronto ad accoglierlo a braccia aperte, che per trovare un lavoro dovrà faticare duramente, che l’acqua non è infinita, il cibo neanche e soprattutto la natura non è per sempre ma dipende dalle nostre scelte. Il tutto unito a uno stile di vita più spartano, senza fronzoli e soprattutto con meno consumi. È probabile che il ragazzino si ribellerà, soffrirà, ma alla fine, se non proprio grato, quanto meno non rischierà di affacciarsi al mondo e cedere al primo futile ostacolo. Vale la pena provarci.

Lasciamo i bambini senza i nostri spauracchi

Quando ero piccola insieme ai miei amichetti giocavamo alla catastrofe. Immaginavamo che stesse per arrivare qualcosa di terribile – un’invasione aliena, un uragano, un attacco di lupi cattivi – e che noi dovessimo organizzarci, trovare un rifugio, organizzare le scorte e le difese, stare di vedetta. Il gioco poteva durare interi pomeriggi e non annoiava mai, anche se sapevamo benissimo che non sarebbero arrivati né gli alieni, né gli uragani né i lupi. Il divertimento era nella deliziosa adrenalina che dava l’attesa di qualcosa di ineluttabile e di pericoloso. Quello della catastrofe dev’essere un gioco che dà dipendenza, perché da grandi non abbiamo smesso: le apocalissi annunciate ci fanno stare bene, dànno una sferzata alla nostra vita, a volte ci dànno la forza per trasformarla. Ma, per favore, giochiamoci fra noi. I bambini sanno benissimo giocare alla paura da soli, senza bisogno dei nostri spauracchi, o meglio, di quelli che ci propongono i media di cui ci fidiamo, a seconda delle nostre convinzioni: sostituzione etnica e intrighi di Soros, catastrofe ambientale e climatica, terrorismo, fascismo, precarietà a vita, morte dello stato sociale – altro che quattro cavalieri, ormai siamo al Settimo Cavalleggeri dell’Apocalisse. Inutile spedire i pargoli negli scout per prepararli a un futuro da sopravvissuti in cui dovranno accendersi fuochi strofinando pietre e costruirsi capanne di sterpi; in una prospettiva così pessimistica, allora meglio leggergli il Signore delle mosche al posto delle fiabe della buonanotte. Che poi, se daranno retta ai loro genitori come noi abbiamo dato retta ai nostri, reagiranno alla pedagogia catastrofista diventando per dispetto ultra-positivi, fiduciosi nel prossimo e pronti a vivere da protagonisti la loro vita in un mondo surriscaldato, ma dove almeno non ci saremo più noi a rompergli i coglioni.

La lieta novella del vescovo di Avellino, che perdona il suo attentatore “folle”

Tra i suoi fedeli qualcuno ha evocato la “santità” di don Tonino Bello, un gigante della pace e della testimonianza del Vangelo. E nel segno della misericordia sono state anche le altre reazioni alla lettera di monsignor Arturo Aiello, vescovo di Avellino (nella foto, ndr), vergata lo scorso 24 agosto.

Appena un giorno prima, un pregiudicato locale di mezza età aveva fatto esplodere tre lattine di gas davanti al portone del vescovado. L’uomo ce l’aveva con il direttore della Caritas Carlo Mele, disabile, “colpevole” di averlo allontanato dal centro dopo un violento litigio, in cui il pregiudicato aveva chiesto soldi e lavoro. Di qui la riflessione di don Arturo, intitolata “Gli invisibili”. Ecco uno dei passi più belli: “Il gesto dell’incauto artificiere è isolato, non rientra in alcuna trama eversiva e va letto come ‘urlo’ di un popolo di ‘invisibili’ che abita la città e i paesi della nostra provincia elemosinando pane, lavoro e, forse, attenzione come i gatti randagi. Sono invisibili perché non considerati, esclusi o autoemarginati, vaganti come ombre e cani sciolti, senza fissa dimora, spesso sul limite sempre incerto della follia o di un disturbato senso della realtà. Chi fa caso a questa folla di ombre vaganti?”. Gli “invisibili” provano spesso rabbia, nell’atavica e dolorosa competizione tra poveri, e “può anche accadere che siano esigenti, arroganti, reclamanti diritti come nei confronti di un datore di lavoro che non corrisponda il dovuto”.

Ma è alla fine che il vescovo di Avellino riporta alla luce, come oro puro, il messaggio cristiano: “ E a te, artificiere improvvisato, a nome della Chiesa che indegnamente rappresento, rivolgo il mio pensiero, non ti tolgo il passaporto per la Mensa o il Dormitorio, assicuro che non sei entrato nella lista nera (esiste solo per i benpensanti!). Augurandoti che i sacerdoti della legalità ti riconoscano le attenuanti della disperazione (…), ti assicuro che troverai ancora aperto il portone dove c’è un piatto caldo e l’accoglienza che sempre, come diritto e dovere, dobbiamo riconoscerci come esseri umani”.

Giusto la settimana scorsa Giuseppe Conte ha parlato di “nuovo umanesimo” in questi tempi di odio. Da Avellino ne arriva una testimonianza concreta, dal sapore antico (ed eterno).

Arbitri lasciati in mutande. All’assalto della monarchia

Var o non Var, sono tempi duri per le (ex) giacchette (ex) nere. Tradotto letteralmente: “L’Aia ha cambiato lo sponsor tecnico, alla Diadora è subentrata la Legea. Gli arbitri di un certo livello avranno sempre a disposizione quattro divise di altrettanti colori, la massa no: una sola divisa, gialla e a maniche lunghe, da utilizzare in estate e in inverno. Se ‘sbatte’ con quella di una delle due squadre si ricorre ad una casacca, è già successo, che rende complicato perfino estrarre i cartellini, oltre paradossalmente a coprire il logo dello sponsor”.

Due fave con un piccione, insomma, un sottosopra del senso comune. “Esatto. Calcoli che, nelle categorie minori, capita di essere impegnati il sabato e la domenica. Nella mail spedita dall’Aia agli associati, ci sono consigli sul lavaggio e sull’asciugamento veloce della divisa. La soluzione è lasciata alla buona volontà di ogni arbitro che, tirando fuori 80 euro, può sempre acquistare un altro completo”.

Chi parla è Luca Fiorucci, ex arbitro e per anni presidente del comitato regionale umbro, estromesso da una sentenza della commissione disciplinare dell’Aia (ci sono ricorsi in ballo, intanto gli è stata chiesta indietro la tessera). Vuol sfidare Marcello Nicchi alle elezioni del prossimo anno con “Movimentoarbitri2020”: “Sono stato un suo elettore, ma anche negli Usa dopo due mandati torni a casa e lo ha fatto capire lo stesso presidente della Figc, Gravina, in una recente intervista. Marcello ora è al terzo con deroga e sogna – e rischia – il quarto. Mi sembra esagerato”.

Una monarchia elettiva che l’interessato, Nicchi, giustifica così: se una cosa o un dirigente funziona, perché cambiare? Fiorucci scuote la testa: “Nel mondo arbitrale c’è un malessere diffuso che non può rimanere inascoltato”.

Gli arbitri in Italia sono 33 mila, una piramide con in cima i pochi che dirigono in serie A, B e C (lo 0,1%), mentre la base è fatta da quelli che vanno sui campetti delle più sperdute periferie d’Italia, i più a rischio. “E i più dimenticati”, aggiunge Fiorucci.

“Occorre intanto più trasparenza. Ognuno deve poter parlare liberamente, nel dopogara, nelle assemblee, nei social, senza paure. I messaggi di sostegno in privato da parte di associati, che non se la sentono di intervenire pubblicamente, mi fanno male. Il sistema di controllo è oliato, mettere un semplice like su Facebook diventa sospetto. Nel 2019”.

Che l’Aia sia una specie di spectre, onestamente, è difficile da credere. “Ma se qualcuno teme ritorsioni, di per sé non è bello. Trasparenza significa anche rendere pubblici i bilanci dell’associazione, i compensi dei dirigenti. Lei sa quanto prende di rimborso Nicchi?” In un’intervista disse che, da pensionato e volontario, si accontentava di un rimborso di poche centinaia euro al mese, 5-600 all’incirca. “Beh, nessuno lo sa. Fosse quella la cifra sarebbe già grave, per difetto, visto che l’impegno è gravoso e la cifra dovrebbe essere proporzionata, ma perché non renderla pubblica? Per non parlare della trasparenza nelle valutazioni. Il caso Gavillucci insegna. Ogni arbitro, a fine gara, riceve negli spogliatoi la visita dell’osservatore che fa un’analisi della gara. Ma poi l’osservatore se ne va senza comunicare il voto – come invece vorremmo noi – e la segretezza delle valutazioni alimenta una discrezionalità che non giova a nessuno, in vista degli sviluppi di una carriera di un ragazzo piuttosto che di un altro. Così come bisognerebbe mettere fine ai doppi incarichi – fonte di una possibile gestione clientelare – e arrivare finalmente ad una scuola di formazione per dirigenti arbitrali”.

Che ogginon esiste, basta il campo e il solo bagaglio dell’esperienza. Fiorucci: “Vale il discorso calciatori-allenatori, non sempre uno strepitoso arbitro in campo lo è anche dietro la scrivania. Rizzoli e Collina, bravissimi in entrambi i casi, sono eccezioni. Solo a pensare a queste cose si rischia l’accusa di eresia, ma si può? Il sistema arbitrale va aperto a maggiore democrazia, cominciando dal sistema elettorale”.

Già sentita, questa. Vuole anche lei tornare al proporzionale? Fiorucci sorride: “Magari. Mi spiego. Nell’elezione del presidente dell’Aia, i singoli arbitri non hanno alcun potere di voto, votano solo i presidenti di sezione che però non hanno vincolo di mandato. Se la sezione di Campobasso o Trieste si esprime a larga maggioranza a favore di Fiorucci, il presidente di sezione e delegato all’assemblea elettiva, può scegliere liberamente, che so, Nicchi. E per capirci meglio: i presidenti di sezioni sono “nominati” dal presidente nazionale e restano in carica un anno. Le sembra sensato?”

Alla Figc, l’intero sistema arbitrale, costa 54 milioni all’anno. La torta è troppo piccola o troppo grande? “Parliamo dei rami bassi. Finché si rimane nella propria regione un arbitro ha un forfait dai 30 agli 80 euro (noi proponiamo di alzarlo almeno a 50 per tutti), chi va fuori ha una fissa di 47 euro e un rimborso chilometrico, che è pari alla metà delle tabelle Aci: 0,21 centesimi a chilometro. Ridistribuire i rimborsi in maniera equa, sarebbe cosa buona e giusta”.

Van Dijk, il nuovo astro del calcio

Un difensore che vince il Pallone d’Oro è un po’ come la cometa di Halley: lo si vede a intervalli di decine di anni e ogni volta il senso di stupore è forte. Succede a ogni morte di Papa: e proprio per questo c’è grande attesa per la proclamazione del Pallone d’Oro 2019 specie dopo che giovedì scorso, a Montecarlo, la Uefa ha nominato miglior giocatore dell’anno Virgil Van Dijk, 28enne difensore olandese del Liverpool, che in sala se ne stava seduto, timido e defilato, a fianco di Leo Messi e Cristiano Ronaldo, vincitori di 10 degli ultimi 11 Palloni d’Oro. Van Dijk, che al loro confronto è nessuno, li ha battuti lasciando sbigottiti gli astanti. E insomma, vuoi vedere che la nuova cometa di Halley del pianeta calcio avrà il suo volto e il suo codino?

Il primo avvistamento, sul gradino più alto del Pallone d’Oro, avvenne nel 1963 quando Lev Jascin, portiere della Dinamo Mosca, vinse a 34 anni il premio ideato da France Football (si era all’8^ edizione) lasciandosi alle spalle il 20enne Gianni Rivera, astro nascente del Milan, e Jimmy Greaves, 23enne attaccante del Tottenham (lui pure con un passato al Milan). Per avvistare il secondo, anche se per lui la definizione di difensore è quantomeno riduttiva, fu necessario aspettare un decennio: quando il mondo sbalordì all’apparizione di Franz Beckenbauer, fuoriclasse del Bayern, che da regista trasformato in libero conquistò il Pallone d’Oro ’72 davanti ai connazionali Gerd Muller e Gunter Netzer e bissò il trionfo quattro anni più tardi stavolta davanti a un olandese, Rensenbrink, e a un cecoslovacco, Viktor. Centrocampista reinventato in libero era anche Mathias Sammer, tedesco di Dresda, una stagione all’Inter di Bagnoli 92-93, che vent’anni dopo Beckenbauer vinse il Pallone d’Oro ’96 precedendo di un voto nientemeno che il 20enne Ronaldo del Barcellona: roba da passare il resto della vita a darsi pizzicotti per essere certi di non avere sognato. Altri dieci anni ed ecco che nel 2006 la cometa di Halley riappare luminosa e ci regala il faccione rubizzo di Fabio Cannavaro: che monetizza il trionfo mondiale dell’Italia a Berlino e diventa il 5° e ultimo difensore della storia a conquistare il premio addirittura davanti a un altro difensore, Gigi Buffon, finito 2° davanti a Henry dell’Arsenal.

Cinque difensori premiati in 63 edizioni: la media è di una vittoria di ogni 12,6 anni e anche per questo a tifare per Virgil Van Dijk Pallone d’Oro 2019 sono in molti. A cominciare dai nove colleghi di reparto andati a un passo dal trionfo e finiti secondi (in ordine cronologico: Facchetti, Moore, Zoff, due volte Beckenbauer, Breitner, Franco Baresi, Roberto Carlos e Buffon) e soprattutto da alcuni super eroi delle difese cui solo la miopia dei giurati ha negato il giusto riconoscimento: a cominciare da Paolo Maldini, presente sei volte tra i primi dieci, dal 93 al 2005; per proseguire con Franco Baresi (3 volte nei 10), Gigi Buffon (4 volte), Casillas (4 volte), Roberto Carlos (3 volte), Dino Zoff (3 volte). Per dire quanto il ruolo penalizzi i difensori rispetto agli attaccanti: dal 2006, anno del trionfo di Cannavaro, sono trascorse dodici stagioni e un solo difensore è finito sul podio del Pallone d’Oro: Manuel Neuer, portiere del Bayern, finito 3° nel 2014 alle spalle di CR7 e Messi. Ma adesso si cambia. Perchè Dio perdona, Van Dijk no.

G7, per Macron un flop travestito da successo

Dopo la catastrofica estate del 2018, il rientro dalle vacanze per Emmanuel Macron quest’anno è stato segnato dal G7 che ha proiettato il presidente francese al centro dello scacchiere politico internazionale. Tutta la stampa francese ha elogiato la gestione del summit di Biarritz e ha parlato unanime di “successo”. In sostanza, però, a guardar bene, non è cambiato niente. Eppure i titoli dei giornali francesi non lasciano adito a dubbi: Emmanuel Macron ha saputo gestire la sua rentrée (il rientro politico dopo le vacanze estive, ndt) svolgendo un ruolo da protagonista sul piano internazionale. Dall’incontro con il presidente russo Vladimir Putin al forte di Brégançon, sulla Costa Azzurra, lo scorso 19 agosto, a quello con il primo ministro britannico Boris Johnson, pochi giorni dopo all’Eliseo, fino al G7 di Biarritz, nel paese basco, durato tre giorni, secondo molti commentatori, il presidente ha fatto un percorso senza errori. Alcuni hanno scritto che Macron ha riaffermato “la forza di iniziativa della Francia”. Altri che si è meritato il “brevetto di uomo di stato”.

Il diretto interessato non ha nascosto la sua soddisfazione: “Questo summit è stato un formidabile successo per la Francia”, ha detto Macron lunedì 26 agosto al tg delle 20 di France 2. Il ministro dell’Economia e delle finanze, Bruno Le Maire, ha indicato a sua volta alla televisione Lci che questo G7 è stato “utile e efficace” perché ha permesso “di fare grandi passi avanti sui temi importanti”.

Il vertice è stato di sicuro un successo almeno sul piano della comunicazione. L’arrivo “a sorpresa” a Biarritz del ministro iraniano degli Esteri è piaciuto molto agli editorialisti di BFM-TV i quali, come sottolinea Samuel Gontier nel suo blog sul sito di Télérama, hanno parlato di “colpo di scena”, di “diplomazia creativa” o ancora di “colpo grosso” (la lista delle espressioni utilizzate è lunga). Il presidente, che è stato più volte deriso da Donald Trump, ha fatto in modo di comparire al fianco dell’ospite americano lungo tutti e tre i giorni del summit. Ancora una volta, tutta questione d’immagine. Il braccio di ferro con il presidente brasiliano Jair Bolsonaro sull’emergenza ambientale in Amazzonia, con gli scambi di battute poco diplomatici su Twitter, ha permesso a sua volta a Emmanuel Macron di lustrare la sua immagine. La sua opposizione all’accordo con il Mercosur “così come è oggi”, è stata applaudita persino da Nicolas Hulot, il popolare ex ministro francese dell’Ecologia che un anno fa ha sbattuto la porta del governo. A tutto ciò si aggiunge anche l’intervista rilasciata a Konbini in cui Macron ha ripetuto ancora una volta di mettere in atto una “rivoluzione ecologica”.

Le mani in avanti in tv del capo dell’Eliseo

Al di là della messa in scena, il bilancio del G7 è molto più magro di quanto sembri. Prima del summit il presidente si era d’altronde impegnato a frenare gli entusiasmi: “Un cosa è certa, non riusciremo a ottenere tutti i risultati che ci siamo prefissati. Non me ne vogliate troppo”, aveva detto in un discorso tv pronunciato poco prima dell’inizio del vertice. Macron aveva anche avvertito che non ci sarebbe stato nessun comunicato finale perché, aveva spiegato, “nessuno legge” questo tipo di documenti. Quando non si promette nulla, anche il più piccolo passo avanti diventa una vittoria. E l’esecutivo intende insistere proprio su questa vittoria, di fatto più d’immagine che di sostanza, prima di affrontare la spinosa riforma delle pensioni.

Tutti i temi rimasti lettera morta

Cosa emerge dalle poche righe pubblicate dai leader del G7 per “evidenziare la buona intesa e lo spirito positivo dei dibattiti”? Innanzitutto che un tema, quello della lotta alle disuguaglianze, che era stato presentato come uno dei temi centrali del vertice, è stato completamente assente dalle discussioni. Sull’Iran, i leader del G7 hanno scritto nero su bianco due obiettivi – “evitare in ogni modo che l’Iran si doti dell’arma nucleare” e “promuovere la pace e la stabilità nella regione” – che condividevano già da molto tempo. Ma il nodo centrale, cioè che l’Europa non è in grado di eludere le sanzioni statunitensi, non è stato sciolto. Inoltre, se Donald Trump si è detto pronto a incontrare il presidente iraniano Rohani, quest’ultimo ha subito risposto che aspetterà che Washington “faccia il primo passo, revocando le sanzioni”. Ritorno dunque al punto di partenza. Sull’Iran, così come su tutti gli altri temi, solo “il tempo dirà se il G7 è stato una riuscita completa”, ha riconosciuto Macron, martedì 27 agosto, di fronte agli ambasciatori riuniti all’Eliseo. Su Ucraina, Libia e Hong Kong, tre dei cinque punti della dichiarazione congiunta dei leader del G7, non risulta nulla di nuovo. Lo stesso vale per la questione del commercio, che rappresenta la prima voce del comunicato: i capi di Stato e di governo non hanno svelato nulla di nuovo e ribadiscono senza sorprese il loro sostegno al principio di “un commercio mondiale aperto ed equo”, e non chiuso e iniquo, proprio nel momento in cui invece la Cina si sta preparando al peggio. Non ci sono novità neanche sull’impegno del G7 “a raggiungere un accordo entro il 2020 per semplificare le barriere normative e per modernizzare la fiscalità internazionale nell’ambito dell’OCSE”. Questa decisione era stata presa a Osaka, l’8 e il 9 giugno, durante un G20 al quale avevano partecipato tutti i presenti al tavolo di Biarritz. Per quanto riguarda la tassa sul digitale, che interessava solo la Francia e gli Stati Uniti, ma su cui il governo continua a sgolarsi pur di mostrare l’utilità del summit, in realtà si tratta di un mezzo successo. Mentre l’Amazzonia era ancora in fiamme, i paesi del G7 hanno proposto al Brasile un aiuto d’urgenza di 20 milioni di dollari (17,9 milioni di euro) per inviare bombardieri d’acqua nelle regioni devastate e cercare di lottare contro gli incendi che distruggono la foresta. Immediatamente Jair Bolsonaro ha rifiutato la proposta, pretendendo che Macron “ritirasse gli insulti proferiti contro di lui” prima di avviare una qualsiasi discussione sull’argomento. Poco prima, Donald Trump aveva dato su Twitter il suo appoggio al presidente brasiliano: “Ho avuto modo di conoscere bene il presidente Bolsonaro. Sta lavorando duramente per gli incendi in Amazzonia e sta facendo un ottimo lavoro per il popolo brasiliano. Non è facile. Lui e il suo paese hanno il pieno sostegno degli Stati Uniti!”, ha twittato il presidente americano, intaccando l’immagine di unità che il presidente francese si era sforzato di affermare durante il summit.

Il punto di vista diverso della stampa straniera

La stampa straniera, che non ha subito cantato vittoria sul vertice di Biarritz come ha fatto la stampa francese, non si è sbagliata. “Le grandi speranze sollevate dalla decisione di Macron di mettere il tema dell’Amazzonia all’ordine del giorno del summit sono lungi dall’essere soddisfatte”, ha scritto il quotidiano tedesco Die Welt (alla fine, mercoledì scorso 28 agosto, le autorità brasiliane, placando i toni, hanno deciso di accettare il finanziamento internazionale, ma ponendo un’altra condizione: poter controllare la gestione dei fondi, ndt).

Anche su altre questioni il bilancio del G7 ha convinto poco. Il magazine britannico The Economist ha scritto che Emmanuel Macron “si sta affermando sempre di più come un leader europeo che, pur col rischio di prendere abbagli, si avvale del sistema multilaterale per allentare le tensioni e difendere l’ordine liberale”. Tuttavia, continua il giornale: “Non è che il presidente francese sta esagerando? La sua strategia con Donald Trump è già fallita in passato e il suo bilancio da mediatore è a dir poco modesto”. L’americano Washington Post osserva a sua volta che “il vertice con il presidente Trump e gli altri leader si è concluso senza progressi significativi sui problemi mondiali più urgenti”.

(traduzione Luana De Micco)

Politica, profitto e oppioidi: l’overdose dell’Occidente

Dopo aver annunciato i nuovi dazi su prodotti cinesi importati negli Stati Uniti, su Twitter il presidente Donald Trump ha ordinato ai corrieri di FedEx e Ups, ad Amazon e agli uffici postali di “cercare e respingere tutti i derivati di Fentanyl dalla Cina (o da qualunque altra parte”. Come se l’epidemia di overdose da farmaci oppioidi fosse colpa di qualche agente straniero. Secondo il Center for Behavioral Health Statistics and Quality, 1,7 milioni di americani sono dipendenti da oppioidi legali e illegali, dal fentanyl all’eroina, nel 2017 i morti sono stati 47.000. Un dramma simile a quello dell’Aids negli anni Novanta. Trump lo ha dichiarato una “emergenza nazionale”. Ma con una abile strategia di comunicazione presenta questa crisi come una delle tante declinazioni del traffico di droga internazionale, che passa dai confini troppo porosi del Messico e dagli anfratti piu oscuri della rete. Più comodo che riconoscere la verità: proprio quell’elettorato bianco, arrabbiato e depresso che vota Trump è stato sacrificato per garantire profitti alle grandi aziende farmaceutiche, con la benedizione dei politici di ogni colore a Washington.

La sentenza che ha condannato Johnson & Johnson a risarcire 572 milioni di dollari allo Stato dell’Oklahoma ricostruisce cosa è successo. Per tutti gli anni Ottanta la Johnson & Johnson produceva farmaci a base di oppiodi, anche per altri marchi: morfina, codeina, fentanyl, naloxone. Ma non c’era alcuna epidemia di oppiodi. A metà anni Novanta le cose cambiano: dopo il successo dell’OxyContin prodotto da Purdue per malattie croniche non tumorali, Johnson & Johnson rilancia il Duragesic (disponibile anche in Italia), a base di fentanyl, sostanza cinquanta volte più potente simile della morfina. C’e’ un potenziale enorme, ma bisogna creare il mercato. E così la Johnson & Johnson comincia a fare pressione su medici e pazienti potenziali, paga convegni, finanzia ricerca accademica, crea siti di assistenza ai consumatori che fingono di essere indipendenti, schiera un esercito di venditori porta a porta. E riesce a fare passare il suo messaggio: il “dolore cronico” degli americani non viene curato abbastanza, i medici sottovalutano un malessere diffuso che infligge sofferenze non necessarie a onesti lavoratori o mamme già oberate dalle fatiche quotidiane. Milioni di dollari passano dalla Johnson & Johnson a organizzazioni che fanno lobbying per conto dei pazienti e premono sulla politica perchè permetta agli americani oppressi dalla fatica di vivere di curarsi come meritano.

Il piano funziona. Fin troppo. Anche se per anni i medici hanno assicurato che fentanyl e oxycodone non danno dipedenza, chi comincia non riesce a più a smettere. E se il governo cerca di ridurre il numero di medicine legali in circolazione, i nuovi tossici da oppioidi si rivolgono a quello illegale, cercano l’eroina da inettarsi, il fentanyl sintetico di contrabbando che pare mandi in overdose perfino i poliziotti che ne inalano un frammento mentre assistono i drogati.

La storica Donna Mourch, sulla Boston Review, osserva che la deregolamentazione del mercato farmaceutico decisiva per l’ascesa degli oppiodi inizia a fine anni Ottanta, proprio mentre in tutto il Paese si combatte la “war on drugs”, la guerra contro la droga. Che, in realtà, è stata la guerra contro la droga dei neri (il crack), mentre il consumo della cocaina, costosa e quindi più diffusa tra i bianchi ricchi, viene sanzionato molto meno. I bianchi dell’America rurale sono i primi a tifare per la linea dura contro i tossici afroamericani. Il clima di ansia e la richiesta di sicurezza vengono appagate: da pene esemplari, certo, ma anche dalle prescrizioni di oppioidi che permettono anche ai bianchi più poveri e con meno difese di drogarsi come i neri metropolitani. Ma senza rischiare la galera, anzi, con l’approvazione del loro medico.

Johnson & Johnson ora dovrà pagare 572 milioni all’Oklahoma. Meno del 4 per cento del fatturato di un solo anno. Un sacrificio accettabile. Se la passa peggio al Purdue, produttrice dell’Oxycodone che in passato e’ stata difesa da Rudolph Giuliani, il sindaco di New York in guerra contro la droga (dei neri) e oggi consigliere fidato di Trump. La Purdue, sommersa da oltre 2.000 cause civili, per somme tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, sta cercando di sfruttare la bancarotta controllata modello Chapter 11 per trasformarsi in un ente non-profit e aiutare le vittime di quelle overdose che ha contribuito ad alimentare. Redenzione o uno spregiudicato tentativo di garantirsi l’impunità?

Intanto Johnson & Johnson continua a spendere milioni di dollari (136 nel 2018) per condizionare la politica di Washington, anche nel modo in cui reagire all’emergenza oppioidi. Per ora non ci sono rischi penali per i manager. I danni arrivano dalle cause civili, per pratiche commerciali scorrette e menzogne sui rischi dei farmaci a base di oppioidi. Dalla prospettiva europea tutto questo sembra assurdo, ma è la prova di quanto le aziende farmaceutiche abbiano condizionato la regolazione del settore: si possono vendere anche farmaci pericolosi come gli oppioidi quasi senza limiti purché si dica la verità sui rischi che comportano. Ma sedotte da facili profitti, Johnson & Johnson e i suoi concorrenti sono riuscite a violare perfino le leggi che avevano dettato a politici amici.

Tre nuovi evacuati dalla Mare Jonio: a bordo restano ancora 31 naufraghi

Al quarto giorno di isolamento forzato sulla Mare Jonio (della ong Mediterranea) al largo di Lampedusa, sono stati evacuati d’urgenza – a causa delle loro gravi condizioni di salute segnalate dai sanitari a bordo – tre dei 34 naufraghi rimasti sulla nave, trasportati sulla terraferma da una motovedetta della Guardia costiera: si tratta di un diciannovenne con possibili lesioni renali, di un diciottenne che accusa forti dolori intestinali e di una trentenne in grave stato confusionale e con difficoltà di deambulazione. Dei 98 migranti recuperati in mare mercoledì scorso al largo di Misurata ne restano a bordo ancora 31, in condizioni psicofisiche precarie e col maltempo in arrivo. “Ci sono persone – ha denunciato la ong Mediterranea – che hanno patito torture e sofferenze inimmaginabili. Istituzioni italiane, europee, ascoltate il cuore. Fateli sbarcare… O devono scendere tutti in barella? A che punto volete arrivare?”.

Nelle stesse ore, la Alan Kurdi – che viaggia con 13 migranti salvati sabato in acque Sar maltesi – è stata costretta a lasciare le acque territoriali italiane e a dirigersi verso Malta: il divieto di ingresso del ministro dell’Interno Matteo Salvini è stato, infatti, firmato anche dai ministri della Difesa e dei Trasporti Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli. La nave della ong tedesca Sea Eye è ripartita perciò nel tardo pomeriggio verso Malta.

Ma gli arrivi continuano, non tutti sotto i riflettori dei media: nonostante gli sbandierati “porti chiusi”, 21 tunisini sono stati rintracciati la scorsa notte a Lampedusa, sopravvissuti all’ennesimo sbarco fantasma.