Il Papa chiuso in ascensore: 25 (santi) minuti di tregua

Per la storia sarà “L’Angelus dell’ascensore”, 1° settembre 2019, un po’ come se a Bonifacio VIII si fossero infortunati tutti i portantini e fosse rimasto bloccato.
Ehi! Chiamate qualcuno! Venticinque minuti di attesa, e poi tutto è bene quel che finisce bene: papa Francesco si è scusato con la folla, dalla sua finestra, e ha raccontato la sua avventura ascensoristica, il calo di tensione, gli interminabili minuti di angoscia.

E ha finito per ringraziare il Principale (quello sempre, dovere d’ufficio) e poi chiamato l’ovazione per i pompieri (“Facciamo un applauso ai vigili del fuoco”) in bello stile televisivo. Un apologo che ci dice questo: le vie del Signore saranno infinite, ma anche la manutenzione è importante.

Ovvio che ci sono cose che non sapremo mai.

La prima: tutto il resto che il papa avrà detto nell’Angelus a cui nessuno avrà fatto caso, perché la notizia è solo l’ascensore (Google: “papa ascensore”, un milione e 120.000 risultati già qualche ora dopo).

La seconda: da solo? Con qualcuno? Con chi ha diviso il Santo Padre quei minuti di forzata ristrettezza e intimità? Siccome gli vogliamo bene ci piacerebbe pensarlo bloccato con qualcuno di carino, simpatico, disponibile alla… ehm… consolazione, aperto al dialogo e… Insomma, impossibile non pensare all’irresistibile Stefania Sandrelli trentenne (al massimo della sua potenza, diciamo) che restò bloccata in ascensore con il Monsignor Alberto Sordi (Quelle strane occasioni, 1976, in regia la serie A di quando nessuno faceva la commedia come noi: Loy, Magni, Comencini, che firma l’episodio L’ascensore, appunto). Si perdoni l’accostamento osé (e non dico qui della Sandrelli, ma del marpionissimo albertosordismo del Maestro Sordi vestito e svestito da prelato), ma è probabile che il papa, anche se un papa alla mano, faccia una vita assai grama, densa di impegni, seccature, trame, nomine, viaggi faticosi, sveglie all’alba… Venticinque minuti di tregua e di grazia è quel che gli augureremmo per il suo bene.

Non sarà stato così, d’accordo, ma è bello pensarlo, come sarebbe bello e umanissimo figurarsi che il sorriso del Santo Padre, rilassato nonostante la dura prova, rivelasse proprio qualche minuto di piacere terreno. Invece niente. Rimarranno per anni (forse per secoli, trattandosi della Chiesa) le freddure e le barzellette sul povero Francesco bloccato in ascensore, senza, ahilui, la signorina Donatella del film. Peccato.

Restano solo amare considerazioni: per esempio che le disgrazie non vengono mai da sole e quindi ci aspettiamo adesso un nuovo mattone di Dan Brown (titolo: Gli ascensori del Vaticano). E poi, diciamolo, se si rompe l’ascensore del papa, hai voglia a lamentarsi per l’ascensore sociale che non va. Senza contare che nessuno di noi sarebbe uscito dopo 25 minuti di blocco, gli allarmi, i pompieri, con quel sorriso e quell’aria serafica: tutti avremmo tirato giù santi e madonne, oltre naturalmente alle minacce di brutta morte per l’amministratore del condominio, quelli della manutenzione, i vicini che non sentono le grida. Lui no, perché è meglio di tutti noi (non che ci voglia molto), e gliene va dato atto.

“Deforestazione made in Italy”: Amazzonia sfruttata anche da noi

Da un lato Bolsonaro e gli incendi amazzonici. Dall’altro noi, spettatori angosciati per la nostra sopravvivenza messa a rischio. Sembrerebbe non esserci nessun filo in comune, bene e male separati come nelle fiction. E invece no, perché quell’oceano che separa Brasile e Italia è solcato tutti i giorni da aerei e navi, un flusso inarrestabile e crescente di materie prime che servono per fare salumi e formaggi, anche quelli Dop e Igp, mobili di legno pregiato, pelle per l’alta moda. Molte di queste eccellenze italiane sono legate a doppio filo con la deforestazione tropicale, come racconta un documentario chiaro e toccante, Deforestazione Made in Italy, nato grazie a un crowdfunding e scritto da un giovane documentarista esperto di filiera agroalimentare, Francesco De Augustinis (si può vedere sul sito www.deforestazionemadeinitaly.it). “Credevo che l’Italia avesse un ruolo secondario nella deforestazione, invece ho scoperto numeri impressionanti”, spiega. Il legno, anzitutto: l’Italia è uno dei principali importatori al mondo con 21 milioni di tonnellate. Migliaia sono le aziende che comprano legno che arriva dal Brasile, parte del quale è tagliato illegalmente. Tracciare tutti i passaggi è difficile, spesso nelle segherie brasiliane legno legale e illegale si mischiano, ma anche le aziende italiane a volte chiudono un occhio, anche perché il controllo finale spetta proprio a chi acquista. Altro settore, altra eccellenza: la bresaola della Valtellina, anche quella Igp, raramente fatta con carni italiane. Gli animali arrivano infatti da Sudamerica e Europa. Una delle aziende citate, la “Rigamonti”, appartiene alla principale multinazionale brasiliana per produzione di carne, la Jbs, negli ultimi anni accusata ripetutamente di aver acquistato bestiame da aree deforestate dell’Amazzonia. Uno dei punti che il documentario sottolinea è proprio la difficoltà per i consumatori di sapere: ad esempio che quegli stessi bovini e suini che mangiamo sotto forma di bistecca o salumi sono allevati con soia brasiliana Ogm, nonostante l’Italia sia un paese Ogm free.

Nel 2018 l’Italia ha importato 267mila tonnellate di soia dal Brasile e 114 mila dal Paraguay, destinata al 90 per cento al settore zootecnico, anche per produzioni Dop, sia di carne che di formaggi. Ma la soia arriva anche attraverso carne di maiale, utilizzata per produzioni Igp o non certificate, della Germania, una delle principali importatrici di soia brasiliana. E poi c’è la pelle, di cui siamo massimi importatori dal Brasile, utilizzata da marchi della moda italiana, molti dei quali, secondo il programma Global Canopy Program, che analizza il rapporto tra aziende e deforestazione, non hanno regolamentazioni adeguate per evitare di importare materie prime da zone a rischio. Insomma, mangiare carne, comprare una borsa di pelle o un mobile italiani può essere un atto che aggrava quella deforestazione del pianeta che ci atterrisce. Deforestazione Made In Italy, senza dare indicazioni prescrittive o giudizi, apre gli occhi su questo inquietante legame. Che aiuta a dirigere meglio l’indignazione, oltre a fare scelte più consapevoli.

Italiani formiche, schiacciati da banche e intermediari

Gli italianisono stati un popolo di formiche, capaci di accumulare collettivamente una ricchezza privata che sino a qualche anno fa non aveva eguali con gli altri Paesi, misurata in rapporto al reddito disponibile. Ora però sul fronte del risparmio l’Italia perde spinta. Uno dei fattori che ha innescato questa frenata è, come spiegato da un recente rapporto pubblicato da Banca Italia e Istat, il ristagno ventennale dei redditi delle famiglie. Ma c’è un’altra causa che spesso passa inosservata: la continua tosatura dei risparmiatori effettuata da banche, società finanziarie, assicurazioni. Un fenomeno individuato già decenni fa dall’economista, Federico Caffè, secondo il quale ۚ«la sovrastruttura finanziario-borsistica favorisce un gioco spregiudicato di tipo predatorio a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori».

Secondo gli ultimi dati, a fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane era di 9.743 miliardi di euro, pari a 8,4 volte il reddito disponibile, superiore a quella delle famiglie francesi, inglesi e canadesi. Ma il dato si sta riducendo dopo il massimo raggiunto nel 2013, mentre gli altri Paesi avanzano. Le case restano la principale forma di investimento e valgono 5.246 miliardi. Le attività finanziarie (liquidità, depositi bancari, azioni, obbligazioni, quote di fondi comuni, polizze assicurative) hanno raggiunto 4.374 miliardi, in crescita sul 2016. Il totale dei debiti (mutui e prestiti) era di 926 miliardi, un valore inferiore, in rapporto al reddito, rispetto ad altri Paesi.

Nel 2017 la crescita delle attività finanziarie delle famiglie è stata sostenuta più dall’aumento di valore dei titoli posseduti, pari a una crescita del 2,6%, che dall’accumulazione di nuove attività (+1,1%). Nei patrimoni delle famiglie crescono i depositi bancari (dal 10% al 13% del totale), calano le azioni (dal 12% al 10%) e le obbligazioni (dall’8% al 3%). Negli ultimi anni sono cresciuti il risparmio gestito (quote dei fondi comuni e gestioni patrimoniali) e le polizze finanziarie. Dietro questa trasformazione ci sono decisioni prese dalle banche, che in passato erano i principali emittenti di obbligazioni e che hanno ridotto la raccolta attraverso questi strumenti, poiché oggi gli conviene approvvigionarsi di denaro direttamente dalla Banca centrale europea. Ma ci sono anche i ricavi che banche, società di gestione del risparmio e assicurazioni realizzano sui prodotti venduti ai risparmiatori.

Come rilevato dai dati mensili di Assogestioni, l’associazione che raggruppa le società che vendono fondi comuni di investimento in Italia, al 30 giugno scorso il patrimonio investito nelle quote di questi strumenti è arrivato al record storico di 2.195 miliardi. Ma i risparmiatori spesso non sanno, o non messi in condizione di accorgersi del fatto, che le commissioni sui fondi comuni di investimento venduti in Italia sono superiori alla media europea e che questo maggiore onere finisce per “ammazzare” i rendimenti. Il dato emerge con forza dal primo rapporto annuale sul risparmio gestito in Europa pubblicato a gennaio dall’Esma, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati. Nel decennio 2008-2017, i fondi comuni di investimento azionari venduti ai risparmiatori italiani hanno avuto costi complessivi pari al 37% delle performance lorde, mentre la media europea era del 24%. Un primato condiviso solo con la Spagna e l’Austria. In Europa l’Italia è stata invece primatista incontrastata per i costi dei fondi obbligazionari (33,5% contro una media del 27%). L’Esma ha preso questi dati da analisi condotte dalla Banca d’Italia e dalla Consob, che dimostrano che la tosatura dei risparmiatori avviene attraverso commissioni create in modo da essere più “rapaci” che in altri Paesi e fatte per remunerare le reti di distribuzione. Ai promotori finanziari e alle società di gestione del risparmio va infatti il 70% dei costi considerati. Non solo le commissioni sui fondi comuni non si riducono né con il passare del tempo né con la dimensione dell’investimento del risparmiatore, ma altre analisi condotte dal Centro studi di Tosetti Value, tra i family office più importanti in Europa, dimostrano che la tosatura dei clienti da parte dei fondi comuni avviene esattamente nelle stesse dimensioni e con le stesse modalità sia nelle fasi di mercato rialzista, quando gli investitori guadagnano, sia nelle fasi ribassiste, quando i risparmiatori perdono.

C’è di più: una recente ricerca realizzata da MoneyFarm, società di investimenti online fondata nel 2011, in collaborazione con la Scuola di management del Politecnico di Milano e condotta sulle prime 20 società del settore ha dimostrato che in Italia tre banche su quattro non applicano appieno le regole di trasparenza previste dalla direttiva Mifid2. Si tratta di una norma europea entrata in vigore il 3 gennaio 2018, dopo uno slittamento di un anno, che prevede la tutela degli investitori chiedendo alle società del settore di fornire informazioni sui costi dei servizi di investimento e sui prodotti finanziari chiare e trasparenti, sia prima che dopo il collocamento dei loro prodotto. Ma in Italia queste informazioni sono fornite in modo incompleto e, guardacaso, senza indicare l’impatto dei costi sui rendimenti degli strumenti finanziari: la profezia di Caffè si dimostra ancora valida.

No di Trieste a D’Annunzio. Ecco perché non va santificato

“Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana …E cominciò a essere … la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento … Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione e infine il plauso universale”. Vale la pena di rileggerlo oggi – almeno per estratti e con qualche brivido – il Manifesto degli intellettuali del fascismo uscito il 21 aprile del 1925, scritto da Giovanni Gentile e firmato – tra gli altri – da Pirandello, Ungaretti, Corrado Ricci, Margherita Sarfatti. E naturalmente da Gabriele D’Annunzio. “Questi sono gli uomini di merda che rappresentano la cultura italiana sotto Mussolini”, commenterà più tardi Piero Calamandrei, che fu invece tra gli aderenti al Manifesto degli intellettuali antifascisti con cui Benedetto Croce rispose il 1° maggio dello stesso anno.

Ora, sarebbe puerile negare la grandezza letteraria di Pirandello o Ungaretti (quasi ossessivamente, e servilmente, legato a Mussolini), l’importanza di Ricci nella storia della tutela o quella della Sarfatti nell’organizzazione culturale, per non parlare dell’importanza di Filippo Tommaso Marinetti o di altri sostenitori della violenza squadristica di un fascismo che aveva già ucciso Giacomo Matteotti. Tutti costoro hanno diritto ad un posto nel cuore dei loro lettori e nei manuali di storia della letteratura: ed è anzi assai istruttivo imparare per tempo la discrasia che spesso separa qualità artistica e tenuta morale degli uomini.

Un altro discorso dovrebbe però valere per la celebrazione pubblica, quella civica: fatta di odonomastica (i nomi delle strade) e di monumenti nelle piazze. Riannodando i fili con l’antichissima tradizione dell’antica Roma repubblicana (e con qualche precedente greco: si pensi al gruppo in marmo che nell’Agorà di Atene celebrava i Tirannicidi, e dunque la difesa a oltranza della democrazia), le città italiane del Medioevo, del Rinascimento e poi del Risorgimento della Repubblica celebrano i loro uomini illustri. Bisogna dire che dopo la Costituzione fu assai pigra e compromissoria la revisione di questo variegato e contradditorio repertorio di esemplari virtù civili: basti pensare – per non fare che un esempio – alle strade ancora intitolate al fascistissimo Reginaldo Giuliani, cappellano delle camicie nere e degli arditi. Questa colpevole inerzia nel fare pulizia e voltare pagina è una delle tante manifestazioni della “bella teoria della continuità dello Stato. Un continuità che vuol dire immobilità, o peggio ritorno indietro. Che vuol poi dire semplicemente poter restare sempre seduti sulla medesima seggiola” (così, con parole che sembrano scritte per questa crisi di governo, il Carlo Levi dell’Orologio, scritto tra il 1947 e il ’49).

Ma se non riusciamo a riparare agli antichi errori, sarebbe almeno bene non farne di nuovi: come per esempio accade quando oggi viene dedicato a Firenze un piazzale alla violentemente razzista Oriana Fallaci. O come accade a Trieste, dove l’Amministrazione comunale (che include la Lega) vuole consacrare a D’Annunzio una statua: contestata da cittadini e associazioni che la ritengono, giustamente, uno sfregio alla storia aperta e inclusiva della città.

Non c’è da stupirsi: come ha scritto Piero Gobetti, “la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica, e senza rimedio”. Più bizzarro è forse che il maggiore intellettuale triestino, Claudio Magris, si sia detto favorevole al monumento, a causa dell’innegabile grandezza letteraria di D’Annunzio. Ma il punto non è quest’ultima (che, almeno a tratti, è reale), bensì l’opportunità di ricordarlo con un tributo che da secoli implica anche un riconoscimento delle virtù civili: una sorta di santificazione laica e repubblicana.

Ora, chi ha sottoscritto – calpestando idealmente il corpo di Matteotti e di molti altri – le orribili parole con cui si apre questo articolo meriterebbe di essere espulso anche dall’onomastica stradale delle città italiane. Che poi D’Annunzio disprezzasse il fascismo di governo, e si acconciasse a una silenziosa complicità ripagata da Musssolini con la Villa del Vittoriale e altre prebende, non fa che aggravare la situazione, rappresentando nel modo peggiore il tradimento dell’intellettuale.

Sarà per questo che gli è stata dedicata perfino un’università: luogo supremo, ahimé, del conformismo e del servilismo intellettuali.

Salasso da clima impazzito: ci costerà ben 230 miliardi

L’Artico si scioglie e ogni metro quadro di ghiaccio che diventa acqua e inondazioni ci costerà denaro. Lo dice uno studio dell’Ue, finora passato inosservato, ma che ora acquisisce drammatica attualità.

Quest’anno la calotta della Groenlandia registrerà uno scioglimento record, battendo quello del 2012. “La conferma arriverà nei prossimi giorni”, annuncia Xavier Fettweis, ricercatore al Dipartimento di Geografia dell’Università belga di Liegi, uno dei massimi esperti di modellistica meteorologica dell’Artico. Ma ormai ci scommettono quasi tutti gli scienziati, primo tra tutti Jason Box, professore di glaciologia alla Commissione geologica danese-groenlandese, che l’aveva predetto già in primavera con la sua rete di monitoraggio Promice. “Le scarse nevicate dello scorso inverno hanno lasciato scoperto il ghiaccio piu scuro che ha un basso livello di rifrazione e assorbe maggiori quantitativi di energia solare, innescando la fusione degli strati sottostanti e innalzando il livello dei mari di circa 2mm in piu”, spiega Box.

L’eccezionale ondata di calore che, partendo dall’Europa, ha colpito l’estremo Nord ha accelerato il processo di scioglimento. E il suo effetto boomerang sul lungo periodo contribuirá a infliggere danni astronomici ai paesi costieri del Vecchio Continente. A quantificarli ci ha pensato il Centro Comune di Ricerca, un’agenzia specializzata della Commissione europea.

Nel peggiore degli scenari ipotizzati nell’analisi, entro la fine del secolo il rigonfiamento dei mari arriverà a costare 2.545 miliardi all’Europa. Dopo Regno Unito, Francia e Norvegia, l’Italia sarà il terzo paese piu danneggiato. Potremmo sborsare circa 440 milioni di euro solo nel 2020, quasi 10 miliardi nel 2050 e oltre 236 miliardi nel 2100. E il conto salato dell’innalzamento del Mediterraneo che, secondo l’ultimo studio dell’Enea (vedi tabella con km di costa interessata e area a rischio), salirà di un metro entro il 2100, esponendo all’allagamento un’area estesa quanto la Liguria.

Nei tre stessi periodi, inglesi francesi e norvegesi perderanno rispettivamente fino a 1,8, 30, 594 miliardi, 0,8, 20, 485 miliardi e 0,2, 15, 244 miliardi di euro. I paesi che se la caveranno meglio sono Malta, Olanda e Bulgaria che, tutte insieme, nel 2100 arriveranno a pagare complessivamente poco piu di 2 miliardi di euro.

“Nel breve termine, l’innalzamento del livello dei mari sarà causato principalmente dall’espansione della massa delle acque, dovuta all’aumento globale delle temperature. Dal 2050 il contributo dello scioglimento dei ghiacci (polari e montani) diventerà relativamente più significativo”, spiega Michalis Vousdoukas, uno degli autori dello studio . “La relazione di causa-effetto tra lo scioglimento dei ghiacci e le conseguenze finanziarie è indubbia ma non è lineare: un lieve aumento del livello delle acque potrebbe non avere un grande impatto, ma il suo progressivo accumulo avrà gravi conseguenze, combinandosi alle alte maree e alle avversità meteorologiche (uragani e tempeste) che diverranno sempre più frequenti”.

Gran parte delle aree costiere europee, che si estendono per più di 100mila km, sono densamente popolate e ricche di infrastrutture di alto valore, e perciò finanziariamente molto vulnerabili alle alluvioni. Sulla base dell’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sui Cambiamenti climatici (IPCC) l’Agenzia ambientale europea per ha stimato che l’innalzamento dei mari in Europa sarà simile alla media mondiale. Entro la fine del 21esimo secolo l’aumento sarà probabilmente di 0,28-0,61 o 0,52-0,98 metri rispetto al periodo 1986-2005, considerando rispettivamente un livello basso o alto di emissioni di CO2 (o gas a effetto serra) prodotte dall’uomo che contribuiscono al riscaldamento globale. Queste previsioni saranno riviste alla fine del 2019, in linea con il apporto speciale su clima, oceani e variazione dei ghiacci che l’IPCC presenterà a fine settembre.

Gli esperti del Centro di ricerca Ue sono riusciti a convertire le previsioni scientifiche sullo scioglimento dei ghiacci e l’aumento del livello dei mari in proiezioni economiche. In assenza di ulteriori investimenti nella protezione delle coste, si calcula che le perdite annuali, che oggi non superano i 1,25 miliardi di euro, aumenteranno fino a una soglia compresa tra i 93 e i 961 miliardi di euro. Questo margine di variabilità dipende da diversi scenari socioeconomici in cui l’uso dei combustibili fossili (che rilasciano CO2) si manterrà stabile o si ridurrà, in maniera piu o meno uniforme, a livello planetario.

In funzione di questi stessi scenari, entro il 2050 e il 2100 le devastazioni eroderanno rispettivamente lo 0,06-0,09 e lo 0,29-0,86 per cento del Pil europeo, rispetto all’attuale livello medio, attestato a circa lo 0,01 per cento.

Il numero annuo di persone afflitte dalle inondazioni costiere aumenterà dalle attuali 102mila a 1,52-3,65 milioni entro fine secolo (anche in questo caso in assenza di ulteriori misure di adattamento e a seconda delle differenti tendenze socioeconomiche).

Tutte queste cifre sono destinate ad impennarsi ulteriormente qualora sí avverasse il peggiore degli scenari delineati dai ricercatori.

La Groenlandia svolge un ruolo centrale in tale crisi eco-finanziaria. Lo scioglimento del suo manto gelato è il terzo maggior responsabile dell’innalzamento globale dei mari, posizionandosi dopo l’espansione delle acque termali e ai ghiacciai montani.

La sua perdita di massa è cresciuta di sei volte dagli anni ’80, incrementando il livello dei mari di 13,7 mm dal 1972, di cui la metà solo negli ultimi 8 anni. Se tutto ii ghiaccio della Groenlandia si sciogliesse, i mari crescerebbero di 7 metri. Tuttavia, ciò richiederebbe millenni, anche con un aumento delle temperature di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali. Questa è la soglia critica che i governi si sono impegnati a non superare con la firma degli Accordi di Parigi del 2016 che, a fronte dell’apocalisse groenlandese, sembra già carta straccia.

Ciclo: il mega business delle app per le donne

Le cose, lo zio dall’America o dall’Argentina, il barone o il marchese, quei giorni (rigorosamente rossi) o i giorni della rugiada. Addirittura le malefiche o i parenti in visita. Ce ne sono a iosa di nomignoli a loro dedicate, da sempre immerse in una sorta di pudore che le rende innominabili, da nascondere. E così nessuno le chiama con il loro nome: le mestruazioni. Stigma che le donne si portano addosso per gran parte della vita. Eppure, anche se il ciclo continua a essere considerato un argomento tabù, da un pezzo – complice la tecnologia – c’è chi ha capito che si tratta di un affare milionario. Ma poco c’entra la battaglia che si sta portando avanti nella maggior parte dei Paesi del mondo, Italia compresa, contro la tassazione sugli assorbenti equiparata a quella dei beni di lusso. Da noi, ad esempio, l’Iva applicata è al 22%.

Ora a fare gola sono i risvolti della cosiddetta female technology, vale a dire la tecnologia a servizio della salute femminile, il cui termine è stato coniato nel 2013 dall’ideatrice danese di “Clue”, una delle app più utilizzate per tracciare il ciclo mestruale. Usare un’app femtech significa monitorare quante volte si esce, si beve alcol, si fuma, si prendono medicine, si fa sesso, si ha il ciclo o si è in ovulazione e come è la qualità del sonno di una donna.

Quello, però, di cui forse si parla di meno è l’investimento che aziende collaterali, che a prima vista poco c’entrano con ormoni, gravidanze e salute in generale, stanno facendo di queste app. “Il rischio più concreto quando si parla di contraccezione digitale e femtech è quello della cosiddetta sorveglianza mestruale”, ha lanciato l’allarme pochi giorni fa il Guardian che in un’inchiesta ha ricostruito come dati biometrici, strettamente personali, raccolti da app e device anticoncezionali o sfruttati comunque per la cura della salute femminile siano finiti nelle mani di altri soggetti e vengano utilizzati per scopi diversi da quelli per cui sono raccolti. Insomma, la notizia è di quelle pesanti: in base alla fase del ciclo, le utenti – a loro insaputa – vengono invogliate a fare acquisti mirati: cosmetici o biancheria intima se stanno producendo estrogeni presenti in percentuale maggiore nella fase follicolare del ciclo mestruale o prodotti per la casa o per la maternità se stanno producendo progesterone presente soprattutto dopo la fase di ovulazione. Insomma, associare scienza e marketing ti fa ricco e ancora non perseguibile penalmente, visto che dell’utilizzo di questi dati se ne sa ancora molto poco e nessuno indaga. E intanto le aziende, denuncia il Guardian, continuano a utilizzare queste informazioni per proporre acquisti mirati sfruttando le variazioni ormonali.

Il comportamento e le abitudini femminili cambiano durante il mese principalmente in base agli ormoni che controllano le funzioni cellulari del corpo e sono in grado di influenzare la propensione allo shopping verso alcuni prodotti piuttosto che altri, senza rendersene conto. Così nessuna donna che usa queste app per monitorare il ciclo dovrebbe più sorprendersi se nei giorni di maggior fertilità troverà tra le pubblicità sui social network o lampeggiare nei banner che campeggiano sui siti Internet delle fotografie di completini per neonato o culle che, guarda caso, sono facilmente acquistabili sui portali di e-commerce più diffusi.

Insomma, quando si tratta di quattrini ogni tabù sparisce e i corpi delle donne si trasformano in strumenti più che mai particolarmente lucrativi. A fare i conti è la società di consulenza Frost & Sullivan, secondo cui quello delle femtech è un settore che entro il 2025 potrebbe valere fino a 50 miliardi di dollari. Basta pensare che in prodotti venduti tramite app vengono già spesi, ogni anno, svariati centinaia di milioni di dollari. Accanto a versioni gratuite che offrono un calendario della fertilità per aiutare a individuare i giorni dell’ovulazione per restare o meno incinta, ci sono infatti app che al costo medio di 19,99 dollari al mese promettono di prendersi cura della donna a 360 gradi: dalla dieta alle ore di sonno dormite, dall’abbinamento dei vestiti nel guardaroba ai regali da fare alle amiche.

Non sarebbe questo, del resto, il primo caso di dati elaborati e venduti a terzi per altri scopi. Lo scorso aprile un’indagine del Washington Post ha lanciato uno sconvolgente allarme sulla privacy mettendo sotto accusa l’app Ovia che negli Stati Uniti, con 11 milioni di utenti, è diventata un potente strumento di monitoraggio per i datori di lavoro che, sotto la bandiera del benessere aziendale, hanno iniziato a raccogliere più dati sulla vita delle lavoratrici. In poche parole, i dati dell’app sono stati trasferiti alle aziende per scoprire se quella dipendente è in grado di reggere a un maggiore stress lavorativo, se sta pensando di rimanere incinta, come la neo mamma pianifica di tornare al lavoro o se i figli sono cagionevoli di salute (con la conseguenza che la donna possa prendersi un maggior numero di ferie o di malattia).

E meno male che nessuno le chiama mestruazioni.

Un algoritmo per “vedere” il futuro: ecco l’Oracolo

Alla fine dei conti, tutto si condensa in un concetto: tentare di controllare i sistemi complessi, comprenderli e utilizzarli per fare previsioni. Il cervello gli ecosistemi, il clima, i sistemi sociali sono tutti esempi di complessità. È possibile ridurli in schemi, rintracciare elementi predicibili, riordinare anche il disordine? Sì. “Se possiamo prevedere i gusti e le tendenze musicali, letterarie e cinematografiche degli individui, la prossima pandemia o la reazione sociale a un evento catastrofico – scrive il fisico Alessandro Vespignani nel suo libro L’algoritmo e l’oracolo (edizioni il Saggiatore) – è perché siamo in grado di imprigionare in equazioni l’essere umano, di farlo diventare una sorta di atomo sociale”. È l’algoritmo che, nell’internet delle cose, nell’era del digitale, nello sviluppo tecnologico, prova a farsi oracolo e ad assumere su di sè la stessa autorevolezza che aveva Delfi. “La scienza della complessità crea le basi matematiche per una comprensione dei fenomeni sociali che abbandona l’interpretazione legata alla ‘grandezza’ e alla ‘eccezionalità’ – scrive ancora Vespignani -. I nostri comportamenti collettivi sono spesso determinati da processi che possono essere descritti in modo matematico. E attraverso modelli matematici o computazionali possiamo cominciare a scrutare nel futuro”. il pilastro è la scienza della complessità.

Uno dei puntidi origine può essere la fisica statistica, la comprensione di come una serie di comportamenti apparentemente casuali (ad esempio quelli degli atomi in un fluido) possano dare vita a effetti sistematici. Di base potrebbe sembrare impossibile applicare lo stesso principio ad altre categorie, soprattutto laddove intervengono volontà e raziocinio assenti invece alle molecole. A ben vedere, non è però proprio così. Stormi e sciami, ad esempio, si muovono in base a regole ben precise e determinate da elementi specifici (allineamento, coesione e separazione) e così, secondo il fisico tedesco Dirk Helbing, sembrano fare i pedoni: “Le regole del modello di Helbing sono molto semplici. La prima è che ogni essere umano ha una destinazione e una sua velocità di marcia preferita”.

La seconda che ognuno tende a mantenere la propria direzione e velocità a ameno che non sia costretto a rallentare o deviare per evitare una collisione”. Queste semplici regole algoritmiche non contengono assunzioni sulla psicologia dei singoli individui o sulle capacità cognitive particolari del genere umano. Eppure Helbing scoprì che erano in grado di produrre comportamenti di gruppo straordinariamente realistici come ad esempio la tendenza a definire delle corsie di marcia in senso opposto ma ben allineate all’interno dei centri commerciali anche se non ci sono cartelli con le indicazioni su cosa fare o vigili con la paletta alzata. Tecnologia e sviluppo del digitale hanno poi generato moli di dati e informazioni e studiare, elaborare e prevedere è diventato più efficiente. Prima di tutto c’è stata la targhetizzazione per il marketing (la storia del dipendente di una catena di supermercati americana che fu capace di scoprire a che mese di gravidanza fossero le clienti sulla base dei loro acquisiti, sapendo di una adolescente prima di suo padre identifica quasi l’archetipo), poi lo sviluppo di algoritmi di ogni tipo “È un po’ come se si fosse in cucina – spiega Vespignani – a seconda delle materie prime e degli ingredienti che abbiamo cerchiamo la giusta ricetta che ci porterà al miglior risultato”. Il fisico racconta così di essere riuscito, con i suoi colleghi ricercatori, a indovinare vincitori e scartati di American Idol in base alle informazioni sui social network già nel 2012 e spiega come mai, negli ultimi due decenni, il Totocalcio abbia ad esempio perso il suo fascino “Lo scenario è cambiato per due novità: la prima è che ormai il calcio non regala più molte sorprese e i montepremi del Totocalcio si sono bruscamente ridotti”.

Per comprendere la seconda, invece, Vespignani consiglia di bussare a un ufficio del laboratorio di Knowledge discovery and data mining del dipartimento di Informatica dell’università di Pisa e del Cnr, là dove “un computer sta dando voti a un calciatore come farebbe un giornalista, un altro è persino più obiettivo e un terzo sta simulando gli incontri del campionato di serie A per stabilire, con mesi d’anticipo, chi trionferà”. Dietro, ci sono due giovani informatici, Luca Pappalardo e Paolo Cintia, partiti nel 2014 con una intuizione: la squadra che riesce a fare più passaggi ha maggiore probabilità di vittoria. I risultati sono stati notevoli: predetto lo scudetto alla Juventus, l’esito del campionato tedesco, e quasi centro sul Real Madrid. Con gli anni, la tecnica si è affinata: sono stati introdotti indici di efficienza (come il “Pezzali score” in omaggio alla canzone “Dura legge del gol” dell’omonimo cantautore che indicava la capacità di una squadra di sfruttare le debolezze degli avversari) e le previsioni sono diventate sempre più precise. Dal calcio all’elaborazione di modelli sull’evoluzione dell’epidemia di Zika in America Latina tra il 2016 e il 2018, basati su interazione uomo – zanzara, poi sulla popolazione umana e sulla sua mobilità aerea e terrestre, insieme infine all’estrazione sociale il passo è stato breve: “I risultati – spiega Vespignani – sono stati usati dalle agenzie internazionali per identificare i siti maggiormente a rischio e per valutare l’efficacia di un vaccino contro il virus”.

Paragone difende il leader: “Dev’essere centrale a Chigi”

Il ruolo che dovrà avere Luigi Di Maio, vicepremier o semplice ministro, nel prossimo sempre più probabile governo giallo-rosa continua a far discutere. Anche all’interno dello stesso Movimento, come dimostra anche l’ultimo intervento del garante Beppe Grillo sul Fatto. Se da una parte aumenta il pressing della fronda che nelle chat di gruppo riservate ai parlamentari chiede al capo politico di accantonare le proprie ambizioni personali, dall’altra c’è chi lo difende. Come Gianluigi Paragone, uno dei più ostili all’alleanza coi dem: “Luigi Di Maio non piace al Pd perché sta difendendo quello che di buono avevamo fatto nel precedente governo. Luigi deve rimanere centrale. Anche a Chigi!”, scrive il senatore su Facebook. Facendo riferimento anche a Renzi e Franceschini: “Il primo fa capire chi comand, il secondo vuole far fuori Di Maio da Palazzo Chigi”. Un messaggio con l’obiettivo di rilanciare la posta con la controparte ma forse ancor di più di regolare i conti con la fronda interna, e che sicuramente avrà fatto piacere ai fedelissimi del leader.

Ora uniamo le nostre storie. L’uno vale uno è un rischio

Beppe Grillo chiede di non perdere la straordinaria ed irripetibile occasione che si presenta alla sinistra italiana.

Sì, uso il termine “sinistra” per riferirmi all’ultimo comunicato del blog di Beppe Grillo di poche ore fa, anche se l’uso del termine può prestarsi a tante diverse interpretazioni o può essere persino rigettato dall’interlocutore.

Le sue parole richiamano a quel senso di utopia e ad un contatto radicale con la società che è ben presente nel profondo delle corde della sinistra e che da molto tempo facciamo fatica a scovare.

Non si può non riconoscere a Grillo ed al “grillismo” di aver introdotto nel dibattito pubblico una scossa profonda e di aver costretto la sinistra italiana a confrontarsi con le sue pigrizie, con una pratica del riformismo a volte stanca.

Il “grillismo” (che non va identificato con il Movimento Cinque Stelle, che ne è una diramazione politica e organizzativa) è stato una delle forme più recenti attraverso le quali l’onda lunga del ’68, per stratificazioni successive ha preso le distanze dalla politica dei partiti, dall’idea leninista del partito come guida superiore dei movimenti sociali, fino a porsi a pari grado o in competizione con la forma partito.

Bisogna dire che l’ultimo tentativo della sinistra italiana di collegarsi e contaminarsi con questa rivendicazione di autonomia della società civile dalla guida assoluta della politica vi fu con la nascita del Pd che però poi ha perso negli anni la capacità di rendersi permeabile e di dialogare, selezionare, criticare, scambiare col moto ondoso reale presente nella società.

A Grillo, in particolare, va riconosciuta senza alterigia la capacità di aver fatto irrompere temi cruciali nel dibattito pubblico sul modello di sviluppo, sui diritti di cittadinanza al cospetto della potenza delle grandi lobby finanziarie, sulla democrazia diretta.

Su molte cose restano distanze grandi; restano distanze sul tema del gradualismo dei mutamenti invocati che per passare dalla enunciazione messianica ai fatti debbono necessariamente transitare nel giogo terribile ma necessario delle “compatibilità” dei mezzi e del tempi; ma è anche vero quanto sosteneva Max Weber che “il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si tentasse sempre l’impossibile”.

Ma c’è un punto sul quale vale la pena sollevare un interrogativo a Beppe Grillo ed è il tema della democrazia diretta e del delicato equilibrio che deve esistere, in un mondo che tenda verso una maggiore e sostanziale giustizia sociale, tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa.

Caro Grillo il criterio dell’uno vale uno non basta per cambiare il mondo e sconfiggere le gerarchie del sapere, della moneta, dello Stato.

Non basta garantire ad ognuno un canale diretto per esprimere il proprio punto di vista.

Si impone ad un certo momento la ricerca (difficile e sempre a rischio) di un punto di equilibrio tra il diritto insopprimibile della espressione diretta della voce del singolo e del suo peso nell’agorà e la organizzazione dei singoli in forma collettiva.

Il punto è la permeabilità di quella delega, la verificabilità del mandato, la corrispondenza delle ragioni generali con quelle dello specifico farsi dell’azione. Ed è su questo che debbono incontrarsi e permearsi la democrazia diretta e quella rappresentativa.

Se vuoi cambiare il mondo e renderlo più giusto devi costruire la forza degli ultimi e molti di noi, caro Grillo, continuano a ritenere che questa forza sta nel collettivo, nella organizzazione di partiti o di movimenti capaci di coniugare gerarchie e democrazia, rappresentanza e selezione.

Adesso, come hai detto giustamente, si apre una nuova storia.

Mi ricorda il primo centro sinistra dei primi anni ’60 tra Moro e Nenni.

L’esperimento partì tra tante diffidenze ed ostacoli reciproci, ci furono scissioni, contestazioni, resistenze, complotti e persino un tentativo di colpo di Stato.

L’avvio fu prosaico, non esaltante; tante riforme furono più timide del previsto ma l’Italia cambiò, il Paese sentiva la necessità di una nuova fase e fu la storia, come sempre, a scegliere il cammino da percorrere. Sarà così anche adesso? Non possiamo saperlo ora ma possiamo provarci, “compattando i pensieri” e rispettando reciprocamente l’onore delle nostre storie migliori.

 

Ipnologia dell’Elevato: Zinga, Luigi e le tre teste

Pur dal suo ottusismo, Zinga rispondeva a una delle tre teste che parlavano nel messaggio: “Mai dire mai, Beppe”. Tre teste, sì.

Una rivolta a Luigi, incazzata e ancora stupefatta per l’incapacità di cogliere il bello intrinseco nel poter cambiare le cose. Con i punti che raddoppiano come alla Standa.

L’altra testa era rivolta a tutto il mondo, che sa soltanto spettegolare malignamente, trattenuto della serra mediatica. Che l’Elevato trafora elevandosi a contenere tutti gli umori presenti, su su fino alla stratosfera della mente collettiva.

Una terza mente incorporava la stanchezza di Conte, ma perché Conte è stanco? È l’unico che ha una casa dove andare, che possiede un filo conduttore interiore. Una persona eccezionale perché capace di rimanere normale: non sono tantissimi.

In un mondo così inquinato da vedere il nulla dove c’è impegno e ragionevolezza, l’Elevato incorpora dentro a sè, per mondarli, gli spiriti più maligni: depressione, incapacità di cogliere con ironia quello che ti capita e brama di potere. Il suo messaggio rimbalza di continuo come la pallina di un flipper 3D che neppure il flipper stesso riesce a contenere.

I media, a cui non è rivolto alcun messaggio, non resistono e riecheggiano l’urlo dell’Elevato: non resterà altro da fare che inseguirlo. Esercitare la leadership facendosi inseguire, anche, ridendo.