Clinicamente all’estero viene definita “sindrome Fonzie”, quando il tenebroso della serie televisiva “Happy Days” non riusciva ad ammettere “ho sbagliato”, ma si fermava alle prime sillabe con l’istinto di rimettere a causa dello sforzo. In Italia tale patologia si declina in “sindrome Boldi” da “Fratelli d’Italia”: lui nel ruolo del milanese-anti-romano, talmente milanese-anti-romano da cantare “Ostia non fa la stupida stasera”, invece di Roma. Ecco, tale sindrome ieri ha colpito due testate giornalistiche a modo loro molto prestigiose: il sito di Repubblica e Tgcom24. I primi pur di non nominare la festa del Fatto quotidiano, durante la cronaca sull’intervento di Giuseppe Conte, hanno parlato del premier incaricato intervenuto al “Festival la Versiliana”; i secondi, più pratici ancora, nel loro resoconto politico hanno omesso il luogo delle dichiarazioni del presidente del Consiglio. Sappiamo che si può guarire o quantomeno tamponare la patologia, basta un po’ di calma, attenzione e affetto per i lettori, e infatti nel pomeriggio il sito di Repubblica ha migliorato l’informazione. Ce ne rallegriamo. La medicina fa sempre passi da gigante.
Il discorso del 3 giugno e la promessa di lealtà tradita da Salvini
Nel suo intervento alla Versiliana, il premier Conte è tornato anche sulla fine dell’alleanza con la Lega e la rottura con Salvini, lanciando un duro attacco all’ormai suo ex vicepremier: “Invito a riconsiderare la mia conferenza del 3 giugno, lì c’era tutto: è quella in cui ragionavo di lealtà e collaborazione e la declinavo facendo 5-6 esempi concreti.” Quel giorno, a una settimana di distanza dalle Europee da cui la Lega era uscita vincitrice dopo mesi di campagna elettorale permanente che avevano fortemente condizionato l’operato del governo, il premier parlò chiaro ai due partiti: ricordò l’importanza del contratto di governo che avrebbe dovuto essere l’unico strumento per dirimere le divergenze di opinione fra le due forze, chiese di chiudere la fase delle polemiche a mezzo stampa, invitò ciascun ministro a occuparsi delle sue materie senza continue invasioni di campo. Spiegando che in caso contrario avrebbe rimesso il mandato a Mattarella. Salvini subito gli rinnovò la fiducia, salvo tradirla dopo poche settimane. Conte è stato di parola.
La Fornero “benedice” Quota 100: “Deve restare, molti sono preoccupati”
“Non vi preoccupate, non sarò ministro. Ma se dovessi dire cosa farei su quota 100, la risposta è che una volta che le cose sono fatte devono rimanere”: a dirlo, ieri durante la Festa del Fatto Quotidiano alla Versiliana, è stata l’ex ministro del Lavoro e delle politiche sociali del governo Monti, Elsa Fornero (madre della contestata e omonima riforma che ha generato la categoria degli esodati, esteso a tutti il metodo contributivo e di fatto allungato i tempi per le pensioni).
“Ricevo molte mail di persone preoccupate che mi chiedono che cosa accadrà ora, che temono che si restringano i criteri della riforma Fornero. Io cerco di dire loro la verità. È inutile dire che ‘ora sarà peggio’ o che ‘saranno tutti più cattivi’. Quota 100 è stata pensata per tre anni? Allora resti. Certo, secondo me non era prioritario, però dico quello che dice Tridico: si può anche sopportare. Sono occasioni sprecate, però sono 25 anni che le sprechiamo”.
Altra parte del dibattito era il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che ha sottolineato la sostenibilità della misura: “Il legislatore aveva previsto 295 mila pensionamenti, ce ne sono stati 170 mila con una spesa inferiore di circa 1,5 miliardi rispetto a quanto inizialmente previsto”. In pratica era prevista una spesa di 3,9 miliardi, ci si è fermati a circa 2,2. “Per il prossimo anno – continua Tridico – con lo stesso livello di espansione, su una previsione di 7,9 miliardi avremo 4 miliardi di spesa. Lo stesso al terzo anno. Insomma, 10 miliardi su tre anni di risparmio per quota 100 cento: è una misura sostenibile.
Bonafè-Morra, prove d’intesa giallo-rosa
Per la prima volta sono sul palco non da nemici, ma da promessi sposi. Ieri, l’europarlamentare del Pd Simona Bonafè e il senatore Cinque Stelle Nicola Morra hanno “trasferito” sul palco della festa del Fatto il tavolo di confronto sulla nascita del governo giallorosso.
Le differenze restano, e il nutrito pubblico della Versiliana non ha mancato di farle notare. Così come resta distante il bilancio sull’esperienza gialloverde, a cominciare dalla questione immigrazione. È quello il nodo ancora difficile da sbrogliare, perché i dem – spiega la Bonafè – chiedono che “si cambi registro” e che non si vada più avanti a gestire il tema dei migranti “a colpi di tweet sui porti chiusi”. “Anche perché – aggiunge la deputata a Strasburgo – l’Europa non ci è venuta incontro perché in questi mesi l’Italia ha fatto la partita di Orban, non quella dei Paesi che ci potevano aiutare”. Una analisi che Morra – che non rinnega la gestione dei migranti dell’era Salvini – sembra condividere fino a un certo punto: “Entro il 2050 si muoveranno tra i 50 e i 60 milioni di esseri umani. Non può essere solo l’Europa a occuparsene: serve anche il coinvolgimento dell’Unione Africana e dell’Onu”.
Ma, dicevamo, è il bilancio sul passato l’elemento che divide. Perchè mentre Morra invoca investimenti in “conoscenza, istruzione, cultura, altrimenti le persone vanno appresso al dj del Papeete”, la Bonafé gli ricorda che sono stati i voti dei Cinque Stelle a consentire l’approvazione dei decreti sicurezza che hanno inferto un colpo mortale al processo di integrazione dei migranti nel nostro Paese e che “se non fosse stato per Renzi che ha sparigliato le carte” il dj del Papeete sarebbe ancora lì.
Quella che hanno di fronte, ammette l’esponente democratica, è una operazione “ad altissimo rischio”. L’abbraccio con gli ex nemici dei Cinque Stelle impone “discontinuità” perché “le stagioni nuove si aprono con protagonisti nuovi, vale anche per il Pd”. Si riferisce ovviamente al ruolo che avrà Luigi Di Maio nel prossimo governo. Morra non si sbilancia sul tema, liquida il video di Beppe Grillo di sabato sera (quello in si è detto “esausto” di sentir parlare di poltrone) come semplice “ironia” e dice che per lui discontinuità è “dire basta con il rigore inflessibile” delle leggi dell’economia. Anche qui, le idee viaggiano in parallelo. E se Bonafè batte il tasto della “crescita”, Morra chiede di recuperare risorse dell’evasione fiscale, perché così “un terzo della finanziaria è già fatto”. Sul nome di Conte invece c’è sintonia: anche la Bonafè – nonostante dica che “quello degli ultimi 14 mesi non è stato un buon presidente del Consiglio” – crede che dopo il discorso in Senato contro Salvini abbia “dimostrato una certa tempra”.
Infine, una postilla su questioni interne ai Cinque Stelle. Morra, che è presidente dell’Antimafia, se l’è presa con la decisione del Movimento di aprire alle alleanze con le liste civiche a livello locale: “Non sia mai! Le civiche sono il modo con cui si presentano i partiti quando si vergognano”.
Non ci saranno vice Nasce il programma: subito il blocco Iva
Giuseppe Conte che, un giorno dopo l’altro, cerca di accreditarsi come premier “terzo”, la rinuncia di Dario Franceschini al ruolo di vice, che è la conferma che il governo giallo rosso non ne avrà neanche uno, con buona pace di Luigi Di Maio, Ma soprattutto l’insistenza delle due delegazioni a parlare di “vera convergenza” sul programma (per dirla con il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio).
D’altra parte, come vanno ribadendo da tempo Goffredo Bettini e Massimiliano Smeriglio, l’“esperimento” dell’esecutivo nascente, dalle parti del Nazareno, comincia a essere vissuto come un modo per cambiare del tutto il quadro politico ed eliminare gli “steccati” tra le due forze, a partire da un’alleanza tra Dem e Cinque Stelle alle Regionali.
Per adesso, il lavoro sul programma è ancora in fase iniziale. Più titoli che sostanza. Però dei punti di convergenza che mettono insieme le priorità delle due parti in causa ci sono. “Con riferimento alla legge di bilancio per il 2020 sono prioritari: la neutralizzazione dell’aumento dell’IVA, il sostegno alle famiglie e ai disabili, il perseguimento di politiche per l’emergenza abitativa, la sburocratizzazione, il rafforzamento
degli incentivi per gli investimenti privati, nonché l’aumento della dotazione delle risorse per scuola, università e welfare”, si legge nelle linee d’indirizzo.
Su alcune questioni, però, si è andati più avanti. Prima di tutto il blocco dell’aumento dell’Iva: si dovrebbe ripartire dal piano di Tria rimasto al ministero, per non far scattare le clausole di salvaguardia (ma la ricerca delle coperture non è banale come problematica). Il cuneo fiscale, ovvero l’abbattimento delle tasse sul lavoro. La riforma costituzionale con il taglio dei parlamentari: il percorso prevede non di ricominciare da capo, ma di partire da quella Fraccaro (il cui iter è quasi concluso) aggiungendo un giro; ovvero, ci saranno una serie di modifiche alla Camera e poi altre due votazioni (una a Palazzo Madama e una a Montecitorio); tutto questo verrà accompagnato dalla riforma dei Regolamenti della Camere e dal varo di una nuova legge elettorale proporzionale. Pacchetto che da solo potrebbe durare per i 3 anni e mezzo della legislatura. E ancora, la revisione del decreto sicurezza, con il ritorno al testo originario depositato da Conte, senza le modifiche di Matteo Salvini, tenendo conto dei rilievi di Sergio Mattarella.
Tra gli argomenti “spinosi” il completamento delle infrastrutture, a partire dalla Tav. Mentre su inceneritori e trivelle si pensa a un gruppo di lavoro tecnico che stabilisca in quale orizzonte si può eventualmente rinunciare.
I modi in cui tutto questo verrà realizzato chiariranno la vera natura politica dell’operazione.
Nel frattempo, va registrata la convergenza Grillo-Franceschini: “Per una volta Beppe Grillo è stato convincente. Per riuscire ad andare avanti cominciamo a eliminare entrambi i posti da vicepremier”, twitta l’ex ministro dem, in pole position proprio per quella poltrona. Plaudono tutti, da Zingaretti alla Boschi. “Il Pd ha scelto la linea Grillo sulle poltrone, speriamo che DiMaio faccia lo stesso”, è il commento dal Nazareno.
Ieri si fa registrare uno dei primi (e di certo non ultimi) atti di disturbo di Matteo Renzi. Dice al Sole24ore: “L’Italia rischia grosso. La Brexit di Boris Johnson sarà un disastro sia per il Regno Unito sia per l’Europa. La frenata tedesca rallenterà la crescita anche nel nostro Nord Est. E in casa nostra il Pil oscilla tra lo zero e il negativo. È un passaggio delicato”. E, ancora, rivolto al mondo produttivo: “Non avete nulla da temere da un governo che nasce per evitare l’aumento dell’Iva e che abbassa lo spread. Ma se qualcuno vi volesse far male, sappiate che non avrà i numeri in Parlamento”. Sotto a queste dichiarazioni belligeranti c’è una richiesta: l’ex premier vuole il Commissario europeo. Il candidato numero uno, in questo momento, per lui è Pier Carlo Padoan (suo ex ministro dell’Economia, ma originariamente in quota Napolitano). Buone chance di riuscita per lui. Nella rosa, Renzi mette pure Graziano Delrio e Roberto Gualtieri (che però è molto più vicino alla maggioranza zingarettiana).
Prima mossa di Conte: “Sarà cambiato il Patto di Stabilità”
Il premier incaricato che non va mai in giro senza fazzoletto nel taschino, stavolta si presenta senza cravatta. C’è da stare comodi, che il programma del governo giallorosso è ancora da chiudere e lui ha promesso al presidente Sergio Mattarella che martedì sera, al massimo mercoledì si presenterà al Quirinale con i compiti fatti. Si concede una ventina di minuti di pausa e si collega in video dal suo studio con la festa del Fatto, che si è chiusa ieri alla Versiliana. “Sto lavorando per dare una visione di Paese, una prospettiva di governo”, racconta. Ma ci sono da mettere insieme “due forze che hanno vissuto un po’ da antagonisti” e quindi hanno dovuto rendersi “disponibili ad accantonare il passato e a concentrarsi su questo importante progetto”. Dice che tutti si stanno impegnando e ci stanno mettendo “entusiasmo”, anche quel Luigi Di Maio che è il principale azionista del governo e vuole a tutti i costi restare vice a palazzo Chigi. È la grana più grossa, per il presidente del Consiglio in pectore, e preferisce non far filtrare nulla della decisione che dovrà prendere tra pochissime ore.
Giura che lui, Di Maio e il segretario del Pd Nicola Zingaretti non si sono ancora seduti a un tavolo per discutere di nomi. Dal primo giorno Conte rivendica autonomia, come a ribadire che la vera discontinuità di questo esecutivo rispetto agli esordi di quello gialloverde, sarà che lui non si comporterà da semplice notaio. Vuole “scegliere la migliore squadra”, ha detto ieri, e per farlo invita i partiti a dare indicazioni “non secche”: tradotto, vuole una rosa di nomi per ogni dicastero che verrà assegnato al Pd o ai Cinque Stelle, poi sceglierà lui.
Per adesso però s’è parlato solo di “temi”. E al Fatto annuncia che uno dei pilastri della “stagione riformatrice” che vorrebbe tornare a guidare riguarda le politiche di bilancio: “Cercherò di sfruttare al massimo il clima di grande apertura” che si è manifestato in Europa “per ottenere dei risultati concreti: mi piacerebbe molto che l’Italia potesse dare un contributo critico per adeguare il Patto di Stabilità al nuovo ciclo economico”. Significa, in estrema sintesi, rivedere quel tetto del 3 % al rapporto deficit/Pil imposto dai trattati Ue che è diventato una gabbia assai stretta per le politiche economiche, non solo del nostro Paese. Quando parla di “clima di grande apertura”, si riferisce ai diffusi attestati di stima per il suo lavoro che sono arrivati dalle cancellerie europee e da Bruxelles, a cominciare dalla promessa di “ricompensa” che il falco tedesco della commissione, Gunther Oettinger, ha fatto arrivare senza troppi misteri.
Non vuole parlare di Matteo Salvini perché “lo costringe a guardare indietro” mentre lui è “rivolto al futuro”. Ma in pratica dice che il j’accuse pronunciato in Senato il 20 agosto ha cominciato a maturare nella sua testa subito dopo le elezioni europee. E non si pente di averlo pronunciato. Al contrario, dice, “ho dimostrato con i fatti che non sono un premier per tutte le stagioni: quando la mozione di sfiducia nei miei confronti è stata ritirata, mi è stato offerto di aprire una nuova stagione. E io ho rifiutato”. Anche prima di dire sì ai giallorossi, ci ha pensato su fino al ritorno dal G7 di Biarritz. E aveva meditato di farsi da parte, perché non voleva che il suo nome fosse di ostacolo alla trattativa. Lo ha sostanzialmente confermato, il premier, rispondendo alla domanda di Marco Travaglio, che lo ha intervistato insieme a Antonio Padellaro e Peter Gomez: “Non mi faccia entrare nei dettagli”. Sono ore tanto febbrili quanto delicate: Conte non può, né vuole, caricare lo scontro. Così affronta con “dati oggettivi” la querelle sulla sua collocazione a palazzo Chigi: se lui è un Cinque Stelle, il Pd ha diritto a rivendicare un vicepremier dem, se invece Conte è terzo, allora si può replicare lo schema dei due vice già sperimentato con Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Ecco, Conte la spiega provando a non scontentare nessuno, ma pure convinto del fatto che dargli del grillino sia una “formula inappropriata”: “Non sono iscritto al Movimento, non partecipo alle riunioni del gruppo dirigente, non ho mai incontrato i gruppi parlamentari”. Poi però mette le mani avanti: “Resta il fatto che con i Cinque Stelle c’è una vicinanza, ci lavoro da tempo ed è Di Maio che mi ha designato premier”. Tra poco più di ventiquattr’ore scioglierà la riserva. Comunque vada, sulla storia dei vice, qualcuno soffrirà.
Visti da lontano/2
L’ho scritto l’altro giorno e lo ripeto: seguire gli ultimi giorni della crisi di governo dalla festa dei 10 anni del Fatto quotidiano anziché da Roma è stato un privilegio. Così come seguire i primi dalle non-vacanze. La redazione era tutta qui, a Marina di Pietrasanta, trapiantata alla Versiliana, immersa nella folla della nostra comunità, fra gente vera che ci ha aiutati come sempre a capire dove vanno gli umori del Paese. A cogliere lo spirito del tempo, che cambia rapidamente e sta ancora cambiando. È un’esperienza elettrizzante che suggeriamo a chi fa politica: mai perdere il contatto con le persone. Salvini, che pure ne è sempre apparentemente circondato, ha commesso proprio lui questo errore: a un certo punto, ubriaco di voti inutili (quelli delle Europee), di sondaggi, di like e di yesman, ha iniziato ad ascoltare soltanto se stesso, e si è dannato. Ha aperto una crisi in pieno agosto che nessuno ha capito, nemmeno tra i suoi, anche perchè lui non l’ha mai spiegata. Ed è finito come la rana della fiaba antica, quella che si gonfia, si gonfia, si gonfia fino a scoppiare da sola.
Renzi, di cui siamo tutti fuorchè dei fan, è stato il più lesto a drizzare le antenne e a tradurre il nuovo senso comune in una proposta che, grazie al ricatto sui gruppi parlamentari di sua stretta fiducia (anzi, nomina), ha spostato il Pd dall’opzione elezioni all’opzione governo giallo-rosa. E Grillo, che da 12 anni tentava di aprire un dialogo anche sgangherato con il centrosinistra e ne veniva regolarmente respinto, ha riscoperto la voglia di fare politica, accompagnando per mano la sua Armata Brancaleone, sbalestrata da mesi di buone leggi e cattive performance elettorali, verso quell’appuntamento che era scritto nel destino. Di Maio, il tanto bistrattato Di Maio, che pure ha commesso molti errori, soprattutto negli ultimi giorni, ha comunque fatto la scelta giusta, anche se comportava il sacrificio di se stesso: dopo il discorso di Conte in Parlamento, ha “sentito” che un governo così strano e inatteso come quello con i concorrenti di sempre poteva nascere soltanto sotto la guida di “Giuseppi”. E l’ha imposto. A quel punto anche Zingaretti ha colto nell’aria che il polo opposto a quello salviniano si riconosceva attorno a Conte. E ha ceduto. Il resto sono scosse di assestamento, resistenze dettate dalla paura di cambiare, risentimenti personali frutto di troppi anni di insulti, veleni e tossine. Così la crisi più pazza del mondo si sta chiudendo con un esito degno di lei: quello che Antonio Padellaro ha ribattezzato il Governo dei Malavoglia.
Un governo che tutti sembrano subire loro malgrado, senza entusiasmi né sorrisi. L’ha notato Grillo, l’altra sera, in quel messaggio torrenziale come i suoi spettacoli, dove si appella non solo ai suoi che dovranno votare su Rousseau, ma anche alla base dei giovani del Pd, e dice a tutti: “dobbiamo cambiare tutto”, “vi voglio euforici” e “sono esausto”. E oggi, nel suo intervento sul Fatto, chiede più ironia (e autoironia da “Elevato”), più curiosità, e persino più risate. Lo chiede a Di Maio, che qualcuno vorrebbe punire o ridimensionare non si sa bene perchè, e lo chiede anche al centrosinistra. Noi, qui alla Festa del Fatto, ne abbiamo incontrati a migliaia, di volti curiosi e sorridenti. Anche quando parlavano ospiti più distanti da loro, e da noi, come Carlo Calenda ed Elsa Fornero, che non tentavano di arruffianarsi l’uditorio e facevano emergere le contraddizioni del governo che sta nascendo dibattendo rispettivamente con Pierluigi Bersani e col presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Hanno empatizzato con l’amarezza di Nino Di Matteo per gli scandali della magistratura. Con la sete di verità e giustizia di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo. E ieri con la stanchezza e l’ottimismo di Giuseppe Conte, collegato dal suo ufficio a Palazzo Chigi, al cui posto nessuno vorrebbe essere nella ricerca della difficilissima quadratura del cerchio. Hanno ascoltato lo scrittore Maurizio De Giovanni che raccontava del suo Sud in giallo. E poi la magnifica lezione di Piero Angela e dei suoi meravigliosi 90 anni sui doveri dei governanti e sul bisogno di scienza e tecnologia nella cultura e nella politica.
Vista da qui, l’Italia sembra avere smaltito la sbornia salvinista. Ma è solo un’illusione. Guai se i giallo-rosa si illudessero di avere convinto tutti, di rappresentare l’Italia dei buoni e dei giusti. E dimenticassero che c’è un’altra Italia, di dimensioni perlomeno equivalenti, maggioritaria soprattutto nel Nord e nel Centro dell’Italia, che vive il nuovo governo come una violenza, una furbata, un espediente, un’usurpazione, uno scippo del proprio voto. E quell’Italia non va ignorata, nè derisa, né demonizzata: va convinta, con ministri seri e programmi molto precisi, per evitare che l’ambiguità e la fretta preparino la strada alle solite risse. La sfida dello strano governo giallo-rosa non finisce il giorno del giuramento: comincia lì.
Marco Travaglio
Tragedia in F2: morto Hubert, stop alla gara
Un lungo rettilineo a cui si arriva sparati, in leggera discesa, dopo una mezza curva dove nessuno vuole alzare il piede e tutti pensano al prossimo sorpasso. Una macchina che perde il controllo e sbatte contro le protezioni laterali, rimbalzando a centro pista. Un’altra che arriva da dietro a tutta velocità e la centra in pieno. Lo schianto, mille pezzi che volano: un pilota, il francese Anthoine Hubert, muore.
È uno degli incidenti più drammatici della storia dell’automobilismo, nel tempio delle monoposto, il circuito di Spa-Francorchamps , in Belgio. È successo ieri pomeriggio, durante la 17esima prova del calendario di Formula 2, categoria subito sotto la F1, dove i giovani talentuosi si fanno le ossa in vista del grande salto. Come Hubert, classe ‘96, 23 anni da compiere il prossimo 22 settembre: questa era la sua stagione d’esordio nella categoria, con il team Arden, dopo essersi laureato campione in Gp3 l’anno scorso. Già due gare vinte, tanti complimenti, la speranza di una carriera luminosa davanti. Fino a ieri, fino al giro 25 della gara di Spa.
Le immagini non chiariscono completamente la dinamica dell’accaduto. Dai pochi filmati disponibili (gli organizzatori hanno vietato alle tv di trasmetterli) si vede solo la macchina di Hubert sbandare ed essere colpita ad una velocità di quasi 250 chilometri all’ora da un’altra monoposto, finendo letteralmente tagliata in due. La gara è stata subito sospesa e poi annullata, per favorire i soccorsi. Inutili. Ci penseranno le indagini avviate dalla Fia a dire cosa è successo. Conta poco. Quel che importa era già contenuto nello stringato comunicato che a metà pomeriggio ha confermato il tragico presentimento venuto a tutti dopo lo scontro: Hubert non ce l’ha fatta, è deceduto neanche un’ora e mezzo dopo l’incidente. Juan-Manuel Correa, alla guida dell’auto che l’ha travolto, ha riportato una frattura alla gambe ma è in condizioni stabili all’ospedale di Liegi. Miracolosamente illeso Sato, nipote dell’ex pilota di F1 Takuma, che ieri faceva il suo esordio. Nell’incidente coinvolto anche Juliano Alesi, figlio del grande Jean ex pilota Ferrari, senza conseguenze.
Tutto il mondo dell’automobilismo è in lutto. Non è la prima volta: nel 2014 in Giappone morì il Jules Bianchi, qui 19 anni fa perse la vita il tedesco Stefan Bellof durante una gara di prototipi. Ma oggi (salvo indicazioni contrarie che alla tarda serata di ieri non erano arrivate) si corre comunque: alle 15 scatta il Gp di Formula 1, sulla stessa pista fatale a Hubert nemmeno 24 ore prima. In pole la Ferrari di Leclerc, Hamilton è solo terzo: nelle libere del mattino era finito fuori pista e aveva sbattuto violentemente contro le protezioni. È stato più fortunato.
“Chiunque tocchi Putin si brucia. Come Salvini”: al Lido parla il “Citizen K”
Attenzione al “Citizen K”: potrebbe rivelare cose che voi (italiani) non vorreste sentire. Eccone una, esemplare: “Chi ha rapporti troppo vicini con il Cremlino si espone a rischi che neanche può immaginare. Il vostro ex vicepremier Salvini, ad esempio: avete visto che fine ha fatto!?”. Parole di Michail Borisovic Khodorkovskij, a corredo del documentario a lui dedicato, Citizen K, appunto, scritto e diretto da Alex Gibney, un Oscar (Taxi to the Dark Side) e talento da vendere. Il film è fuori concorso alla Mostra veneziana e il regista ha voluto presentarlo insieme al suo protagonista, che può circolare ovunque tranne che in madrepatria, dove è esiliato dal 2013 quando fu scarcerato. L’ex oligarca nonché fra gli uomini più ricchi di Russia è un perseguitato, una delle tante vittime di Putin, ma soprattutto è il suo peggior nemico: zar Vladimir lo ha affrontato, impoverito, minacciato, arrestato (ovviamente per frode fiscale) e infine spedito in Siberia per 10 anni. Lì, l’astuto ingegnere chimico è diventato filosofo, guru e attivista fondatore di Open Russia.
Citizen K è narrato come una spy story ma è anche una grande radiografia della Russia putiniana ab origine. Lontano dall’essere un santo, il signor K. ha sempre avuto l’intelligenza di cadere in piedi: da qualche anno residente a Londra – e non è un caso che nella capitale britannica si siano verificati diverse “morti incidentali” di expat russi – l’imprenditore usa la parola quale unica sua arma contro il nemico numero e a favore dei valori democratici. “La Russia non è solo uno stato autoritario ma è un Paese governato dalla mafia che controlla con la corruzione giri d’affari inimmaginabili: chi si pone di traverso ha il destino segnato. Bisogna essere prudenti, basta poco per essere arrestati, anche se l’omicidio di Stato per aver diffamato Putin o denunce sul suo operato ancora sono rari, temono i martiri come Anna Politkovskaja. Però la prigionia in Siberia si ottiene facilmente, basta partecipare a una manifestazione pacifica di dissenso al governo”. Il cittadino Khodorkovskij conosce la materia e non si risparmia. “Putin ha statalizzato ogni media, sa perfettamente controllare l’opinione pubblica anche se su Internet ci sono margini di libertà: probabilmente il dittatore e il suo staff non sanno come arginare totalmente il flusso della rete o non vogliono farlo. Il punto è che per fermare il regime attuale di repressione della libertà individuale è necessario che il mondo si faccia sentire: le istituzioni russe sono sensibili alle pressioni internazionali per non compromettere la reputazione”. E non c’è dubbio che la diffusione di questo splendido documentario dai tratti di una cautionary tale (fiaba che mette in allerta, ndr) potrà asservire la nobile causa.
Il ghigno di Joker copre il pianto greco di Costa-Gavras
La bocca rossa che s’apre come una ferita, gli occhi che tradiscono dolore e stupore, le scarpe grosse e la risata che Joaquin Phoenix s’è strappato di dentro: “Non volevo fosse ridicola”. Il pagliaccio ride, ma non fa ridere: è una frequenza disturbante, uno squarcio nell’indifferenza, un urlo di Munch a fauci orizzontali, entra e ti agghiaccia. Non ripensi a Jack Nicholson, nemmeno a Heath Ledger, nello stand-alone di Todd Phillips c’è un nuovo Joker, e lo smagrito, allucinato e schizzato Phoenix è il suo profeta: il film no, lui sì, l’Oscar l’ha già in tasca, e dopo tre nomination non trasformate è davvero l’ora.
La madre svanita gli ha dato “uno scopo: portare risate e gioia nel mondo”, e Arthur Fleck, freak per estrazione, clown per professione, farà di tutto per accontentarla: farmaci come pasticche, appeso al collo un cartellone pubblicitario, “Fuori tutto”, che è diagnosi, il reietto, emarginato, vessato semplicemente non esiste, non lo vedono. Finché non incarna il mal di sopravvivere di una città, la Gotham a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, invasa dai ratti, tracimante spazzatura e grondante sperequazione: c’è chi, il magnate Thomas Wayne, ha tutto, e chi, Arthur, può nulla.
Ma nel loro folle anche i pagliacci s’incazzano, e se stendi tre yuppies, be’, la solidarietà la trovi: Arthur diventa Joker, il suo volto listato a follia si fa maschera, la (V per) vendetta privata diventa sommossa e saccheggio. Phillips rigetta l’adesione politica, “l’obiettivo non è far vedere il mondo che brucia, bensì una ricerca personale di accettazione”, ma quella del Joker ha gli stigmi della lotta di classe, della sollevazione degli umiliati e offesi contro chi, Wayne, equipara poveri a pagliacci.
Dopo un lavoro “sul tema della perdita, e infatti ho perso anche molto peso”, Phoenix è salito sul ring, ha preso il testimone da Robert De Niro, conduttore tv e novello re per una notte, e ha accettato la sfida più ostica, dare un’anima, un refolo di umanità, un appiglio per la nostra empatia al clown: “A me piaceva la luce di Arthur, non solo il suo tormento. La lotta interiore per trovare una connessione con la società, la sua ricerca di calore”. Il personaggio della Dc Comics trova in Joaquin residenza mesmerizzante, mentre il film a tratti sembra subirlo, quantomeno assecondarne senza freno il piglio totalizzante e totalitario: le iterazioni e qualche stracca si fanno sentire, lo stato allucinatorio non ha una demarcazione stilistica, la regia è solida ma poco inventiva. Ci sta, in fondo, questa sottomissione: primus inter pares nel Concorso di Venezia 76, Joker è un one freak show, e non fa prigionieri.
E nemmeno l’Unione europea, almeno a dar retta a Costantin Costa-Gavras, che trasla al cinema il memoir Adults in the Room dell’economista greco Yanis Varoufakis e spara a zero: “L’Europa è diventata una specie di impero illiberale, perché negli ultimi 15 anni è stata mal governata. Avevo riposto una qualche speranza in Barroso e poi in Juncker, ma mi sbagliavo”. Fuori Concorso al Lido, il film è una puntuale, serrata e intenzionalmente non imparziale cronaca dell’“imposizione dell’austerità” alla Grecia da parte dell’Eurogruppo nel 2015: “Un cattivo servizio” reso all’intera Ue, giacché le politiche restrittive hanno armato “i populismi che ci fanno tornare indietro di decenni, con conseguenze catastrofiche, a partire dai rigurgiti di razzismo”. Nel cast, Francesco Acquaroli è Mario Draghi, Valeria Golino la consorte di Varoufakis, Danae Stratou: “Per Costa-Gavras, avrei lavorato anche un solo giorno. Tante cose mi sfuggivano di questa tragedia greca legata all’Europa, girare è stata l’occasione per capire meglio cosa fosse successo veramente”.