Ora Forza Italia richiama Salvini: “Da solo dove vai?”

Chissà se Matteo Salvini ha provato a tirare la corda o lo crede sul serio. Ma in Forza Italia le parole pronunciate l’altroieri dal “Capitano” leghista all’indirizzo di Silvio Berlusconi (“noi non abbiamo bisogno di nessuno. Non siamo usciti da un’alleanza che non ci faceva fare le cose per entrare in un’altra che non ci fa fare le cose”) è suonato come un campanello d’allarme: più che altro un avviso di divorzio che ha intorbidito il clima.

E tra i forzisti ora c’è chi vuole andare alla resa dei conti finali con il “Capitano”, chi chiede rispetto e chi invoca la calma. Specie ora che sono alle viste le elezioni regionali, a partire dall’Umbria a fine ottobre. “Noi non facciamo alleanze strane a livello territoriale. C’è la Lega, c’è il centrodestra, si può allargare a liste civiche, ma non andiamo a raccattare pezzi di sinistra”, ha detto ieri Salvini commentando il profilarsi all’orizzonte di alleanze regionali impensabili fino a pochi giorni fa tra Pd e grillini. Senza rassicurare fino in fondo gli alleati forzisti del centrodestra che fu. Che cercano di farlo ragionare. Maurizio Gasparri, per fare un esempio, si è messo ligio a elencare uno per uno i successi raggiunti grazie al centrodestra unito.

“1994, Berlusconi scende in campo e per la prima volta alle elezioni vince il centrodestra. 1996, alle elezioni partiti di centrodestra prendono più voti della sinistra, che vince con Prodi solo perché la Lega e altri vanno per conto loro. 2001 vince il centrodestra unito. 2006 al Senato il centrodestra unito prende più voti popolari, alla Camera si sospettano brogli, vicenda mai chiarita perché Prodi, come era giusto, cade prematuramente. 2008 vince il centrodestra unito. 2013, dopo congiure di ogni tipo e assalti selvaggi a Berlusconi, la sinistra non ottiene comunque la maggioranza nelle due Camere. 2018, cambia ancora la legge elettorale, ma la coalizione più votata è sempre quella di centrodestra. Questi i fatti e la recente storia politica. Non servono commenti, anatemi, urla da tifosi: i problemi politici si risolvono con proposte politiche. Dobbiamo dare un senso al gioco di squadra, anche se qualcuno si illude di giocare da solo”.

C’è chi a Salvini rimprovera l’ingratitudine, come fa Catia Polidori. “FI non è il nemico da abbattere, ma un alleato generoso e collaborativo sin dai tempi in cui la Lega era al 4%”. E che dire di Renata Polverini, che consiglia a Matteo Salvini di votarsi a San Giuseppe da Copertino, protettore degli studenti? “Se davvero pensa di andare al voto nazionale e locale da solo, ha urgente bisogno di ripetizioni di matematica oltreché di sintassi e grammatica politica”. Ma c’è pure chi affonda il colpo, e non una a caso. Maria Rosaria Rossi ci va giù duro e parla di un Salvini vittima di un delirio di onnipotenza: “Gli italiani meritano di essere governati da qualcuno che sa che si vota dopo 5 anni, non dopo 5 mojito”. Cin.

Il confessore: “Luigi è in confusione, si decida”

Don Giuseppe Gambardella è il padre spirituale di Luigi Di Maio. Parroco della chiesa di San Felice in Pincis a Pomigliano d’Arco (Napoli), sulle cronache locali lo definiscono “ex prete rosso”, oggi tendente al giallo pentastellato. Il giorno dell’approvazione del decreto Sicurezza bis ha scritto su Facebook: “La disumanità non può diventare legge”. Unendo i puntini esce il disegno di un sacerdote che non è affatto dispiaciuto della fine dell’alleanza tra il M5S e la Lega. Anzi. L’altroieri don Giuseppe sorrideva all’imminente via libera al governo Conte2 in salsa giallorosa, attribuendosene un pezzetto di moral suasion: “L’accordo col Pd è merito anche di Luigi, contento che abbia ascoltato il mio consiglio, gliel’ho detto varie volte”. Ma davvero? Poi ieri l’ingarbugliarsi delle trattative sugli ultimatum di Di Maio ne ha raffreddato gli entusiasmi. “Ora non mi è chiaro niente. La situazione non è chiara. Luigi non è chiaro. Cosa voleva dire?”.

Don Giuseppe, cosa sta succedendo?

Non mi è chiaro niente, non sono un politico, non saprei che cosa dire. Dovrei conoscere degli approfondimenti politici che non ho. Desidero per il bene della nostra Patria che sia un governo e da uomo della strada attendo, nella speranza che esca qualcosa di buono.

Lei all’agenzia di stampa Adnkronos ha dichiarato: “Se si è arrivati a un accordo col Pd credo sia anche grazie a Luigi. E quindi lo ringrazio davvero per avere intrapreso finalmente una strada che gli consigliavo da tanto tempo”. Per la verità, Di Maio si è irrigidito ed è tra i più riottosi a quest’intesa, non le pare?

La situazione attuale non è chiara, Luigi non è chiaro. Quelle dichiarazioni (o si fa il nostro programma o si torna al voto, ndr) sono di un linguaggio politico da interpretare. Luigi cosa voleva dire? Intanto stanno ancora a discutere, a fare chiarimenti. E noi di cosa parliamo?

Le parole di Di Maio non le sembrano controproducenti per il buon esito delle trattative?

Mi auguro di no, auspico che l’Italia abbia un governo stabile.

Che allo stato dell’arte può nascere solo col Pd, vista la fine dell’alleanza gialloverde. A proposito: è vero che lei è contento che Matteo Salvini andrà all’opposizione?

Contento? Felice!

Secondo lei Di Maio dovrebbe continuare a fare il capo politico dei pentastellati, rinunciando a incarichi di governo?

Io cerco di non entrare sulle scelte di ordine politico, mi fermo sul piano di ispirazione. Gli direi di tenere un tono e un comportamento alti, che mostri all’Italia che lui non è legato alla poltrona e che vuole fare solo il bene del movimento di cui è capo e soprattutto lavorare per il bene del Paese. È chiamato a dare il suo contributo per il bene comune. Mi piace dunque immaginare la sua figura come guida per il movimento e che – a chi guarda a lui in questo momento – dia l’impressione di cercare disinteressatamente il bene del Paese.

“Io, candidato 5 Stelle-Pd lancio l’asse per le Regionali”

L’intesa 5 Stelle-Pd non riguarda solo il governo. Sullo sfondo delle trattative per l’esecutivo c’è infatti la partita delle Regionali, fondamentali per arginare anche sui territori lo strapotere del centrodestra. E così in Umbria, dove si voterà il 27 ottobre (poi, tra quest’anno e il 2020, toccherà a Calabria, Emilia Romagna e Toscana), una possibile convergenza esiste già. Si tratta di Andrea Fora, presidente di Confcooperative finora estraneo alla carriera politica, che in queste ore ha annunciato la propria candidatura. Aperta al centrosinistra, area politica a cui fa riferimento, ma anche ai 5 Stelle.

Andrea Fora, lei è il primo esempio di patto locale tra 5 Stelle e Pd?

So che questa mattina (ieri, ndr) il Pd umbro si è riunito e ha espresso la volontà di aderire al progetto che è partito da esperienze civiche qualche mese fa. Con i 5 Stelle invece non ho avuto contatti.

Però lei è la figura giusta per sintetizzare le posizioni.

I tempi per un accordo sono stretti e di certo non dobbiamo fare una cosa pasticciata e funzionale solo alla convenienza delle forze politiche, ma una convergenza è auspicabile.

Parliamo di forze che si sono insultate fino a ieri.

Me ne rendo totalmente conto e sento la responsabilità di gestire un dialogo difficile. Però sento con convinzione che è finita l’epoca in cui i partiti si relazionavano sulla base di schemi molto rigidi, spesso ideologici. L’Umbria può essere un cantiere che sia di ispirazione per costruire una storia nuova.

A livello nazionale e in altre Regioni? Presto si vota in Emilia e in Toscana.

Me lo auguro. Ma non dev’essere un’imposizione calata dall’alto, come conseguenza o come parte dell’accordo di governo tra 5 Stelle e Pd. Vorrei non ci fosse alcun vincolo automatico, ma che sulla base dei contenuti si provasse a costruire un percorso comune.

Anche perché il rischio di un cappotto leghista sui territori è concreto.

Noi faremo una campagna elettorale a favore dei cittadini, non contro la Lega, pur avendo ovviamente idee antitetiche a loro.

Sembrano le parole di Giuseppe Conte dell’altro giorno.

Lo dico da tempo, i cittadini non ne possono più dell’odio e della percezione dell’odio verso gli avversari. Vogliono sentir parlare di temi.

Ma lei è più vicino al Pd o ai 5 Stelle?

Mi riconosco dentro a valori di centrosinistra, come l’uguaglianza sociale, i diritti, l’inclusione, l’accoglienza. Con la consapevolezza però che quest’area deve essere ripensata. Tanto è vero che molti dicono che il mio programma sia grillino, perché ho messo al primo posto il lavoro e l’ambiente.

Va bene i programmi, ma il civismo è anche un modo per togliersi di dosso l’ombra della giunta Marini, coinvolta nello scandalo Sanità?

Lo scandalo è frutto di un quadro ben più ampio e preoccupante, che testimonia che per anni la politica ha dormito su temi come i giovani, lo sviluppo e l’innovazione. Certamente quest’impegno civico, fiorito in un momento di disaffezione dalla politica, fa ben sperare. Partendo da energie nuove e da una forte discontinuità col passato.

Il commissario del Pd umbro Walter Verini si è espresso a favore della sua candidatura, leggendola anche in chiave nazionale. Ha sentito altri big del partito?

Senza far nomi, ma posso dire che in queste ore esponenti nazionali di primi livello di partiti di centrosinistra ci stanno incoraggiando a andare avanti in questa direzione.

L’ultimatum di Di Maio

Proprio quando le trattative tra M5S e Pd sembravano essere ormai definite, ci ha pensato due giorni fa Luigi Di Maio a mescolare le carte. Uscendo dalle consultazioni ha usato toni forti per dettare le condizioni ai dem: o si converge sui 20 punti programmatici esposti dal Movimento – inizialmente erano 10 – o si torna al voto. Il vero nodo, più che i temi, sono però le cariche e in particolare il ruolo del leader grillino. Il Pd considera Conte un premier riferibile ai 5 Stelle, seppur non iscritto, e pretende dunque che non venga riproposto lo schema gialloverde dei due vicepremier, di cui uno sarebbe Di Maio. Il Movimento punta invece a riconoscere Conte come presidente terzo, potendo così rivendicare una delle caselle dei “vice”. L’azzardo imprevisto di Di Maio, però, ha complicato le trattative. Abbiamo chiesto a sei tra giornalisti, accademici e opinionisti il loro parere riguardo alla mossa del grillino.

 

Marco Revelli

Meglio non rischiare il suicidio per un ruolo che non vale nulla

Fin dall’inizio di agosto ho avuto l’impressione che tutti i protagonisti della crisi fossero inadeguati, con le dovute eccezioni di Mattarella e Conte. Ovviamente lo era Salvini, ma poi anche Zingaretti che voleva andare di corsa al voto in maniera imbarazzante. Ascoltando Di Maio nei giorni scorsi mi sono cadute le braccia. Può darsi che abbia fatto quello che per i manuali si chiama “alzare il prezzo”, far finta di voler buttare tutto in aria per cercare di concludere l’accordo, ma in ogni caso è una mossa fatta male, assomigliava più a una crisi di nervi personale più che a una tattica. Anche perché non è scritto da nessuna parte che sia un vantaggio avere la vicepresidenza, bisogna “utilizzarla” bene. Nello scorso governo, Di Maio era vicepremier eppure Salvini se lo è mangiato nei consensi. Motivo per cui consiglierei al capo politico dei 5 Stelle di non dare troppa importanza a queste cose: non rischierei il suicidio politico per una carica inutile.

 

Andrea Scanzi
La smetta di puntare i piedi: non merita di essere il “vice”

Detta con un eufemismo, Luigi Di Maio sta davvero fracassando le gonadi. Se ha denotato talento e umiltà nell’imporre Conte premier, ora deve smetterla di puntare i piedi come un bambino bizzoso. È stato un buon ministro del Lavoro e merita forse la riconferma (io preferirei un governo di soli “competenti” come ha ipotizzato Grillo), ma non merita il ruolo di vicepremier. Da Salvini si è fatto turlupinare come un bischero, come leader ne ha sbagliate troppe e la sua uscita di venerdì (“O si fa così o si va al voto”) è scellerata per tempi e modi. Di Renzi non occorre fidarsi mai e di Zingaretti boh, ma è Conte che deve pensare a questo. E la sensazione è che Di Maio, di Conte, sia sempre più geloso. Di Maio e i 5 Stelle sono stati salvati da Salvini, che col suo suicidio li ha rimessi al centro della scena (regalandogli 7 punti in un mese). Se però Di Maio continua a voler far saltare il banco, ridarà forza all’ex amico Salvini. E avrà – come il Pd – colpe storiche non redimibili e mai perdonabili, perché consegnerà il Paese al peggiore centrodestra d’Europa.

 

Daniela Ranieri
Messaggio ai militanti: sono come voi, non so fare politica

Chissà perché Di Maio ha sabotato la chiusura dell’accordo di governo aggiungendo ulteriori condizioni, tra le quali, pare, la sua vicepremiership. Un endocrinologo direbbe che quando si hanno in circolo livelli alti di cortisolo è meglio non mettersi a comporre governi. La storia è questa: Di Maio era riuscito a imporre Conte; aveva proposto 10 punti ragionevoli, contro i 5 vaghissimi del Pd; aveva relegato Salvini alla psichiatria politica. Poi se ne esce: non più 10, ma 20 punti (perché non 88? Chissà se segue la progressione geometrica o la successione di Fibonacci), tra cui il no alla patrimoniale (che non si pensi che diventiamo di sinistra per osmosi col Pd!); e no alla modifica dei decreti sicurezza (Salvini ha fatto anche cose buone). Forse sta giocando con le caselle del governo per farsi un sondaggio gratis e/o tenersi aperta una porta sul voto; forse vuole dare un segnale agli utenti di Rousseau, come a dire: sono ancora uno di voi, non mi piego ai giochi di palazzo. Il risultato, temiamo, è stato dare un’immagine poco solida di sé, come a dire: sono ancora uno di voi, non so fare politica.

 

Lucia Annunziata
Sa che ora Conte è il leader e ha provato a parlare ai suoi

Le dichiarazioni di Di Maio non erano un messaggio al Pd, ma ai suoi. L’ho lette come un tentativo di contare di più, di rivendicare un peso che non ha più. Mi ha colpito il tono di voce insicuro, in un discorso peraltro molto irrituale: di solito si va lì quasi con parole standard, invece lui ha personalizzato molto il messaggio, denotando fragilità. Ritengo che Di Maio sia molto abile, ma questa volta ha sbattuto contro un muro. E il muro sono proprio i 5 Stelle, perché è con i 5 Stelle che è rimasto fregato. Di Maio ha preso atto che Conte è il nuovo leader del Movimento. Da quando è partita l’operazione politica interna per rendere Conte il capo dei 5 Stelle, era preventivata la fine di Di Maio. Di questo si è reso conto, tanto che sa benissimo che se si fosse andati a elezioni anticipate sarebbe stato l’avvocato il candidato premier del Movimento e non lui. Per questo ha reagito in maniera scomposta, perché ha capito che comunque, nel nuovo governo, non potrà avere la centralità, anche nelle cariche, che aveva prima.

 

Nadia Urbinati
La strategia è pessima, a meno che non voglia tornare a votare

Non è semplice capire cosa abbia in testa Di Maio in questa fase, ma di sicuro quello mostrato ultimamente è un pessimo atteggiamento, una strategia perdente in un momento di trattative delicate. I 10 punti sono diventati 20, che significa? Che si ricomincia daccapo la discussione? E poi insistere così tanto su di sé significa forse che non vuole fino in fondo che la trattativa vada in porto. Il compromesso è base fondamentale di un governo di coalizione, bisogna dire qualche No e fare delle rinunce, come anche non si può pretendere tutto. Vuole andare a elezioni anticipate? Probabile, a questo punto, magari raccontando agli elettori di averci provato, puntando sull’acquisire consensi per merito del muso duro nei confronti del Pd. Chi, come me, guarda questa crisi da fuori ha però l’impressione che se queste sono le premesse il governo nasca già male: se nascerà dovrà essere efficace, altrimenti diventerà un boomerang che favorirà Salvini. Ma se si inizia già ad avere la stessa litigiosità che avevano i gialloverdi, che senso ha?

 

Moni Ovadia
Non è una gara di celodurismo Ha ottenuto tanto, si accontenti

Mi sembra una gara di “celodurismo”, per usare un termine tanto caro ai leghisti. Ritengo che Di Maio abbia usato quei toni duri soprattutto per mandare un segnale ai propri militanti, come a dire: “Non ci stiamo svendendo, siamo noi a dettare le condizioni”. Credo e mi auguro che non sia abbastanza per far saltare il banco, ma che sia soltanto una pantomima buona al massimo per ottenere qualcosa in più: se fallissero le trattative sarebbe una batosta per i 5 Stelle. Così invece, anche in vista di un eventuale voto sulla piattaforma Rousseau, il Movimento si presenterebbe agli eletti rivendicando non solo Conte premier, ma anche aver resistito su Di Maio. Se dovessi però dare un consiglio al capo politico dei 5 Stelle, gli direi di lasciar perdere: ha già ottenuto molto e adesso non ha senso muovere rivendicazioni personalistiche quando si ha la possibilità di formare un governo e salvare il Paese da un governo a trazione leghista.

 

Il Pd ora chiede lo stesso numero di ministri dei 5S

Contare più di quanto la Lega contasse nel governo giallo-verde. Tradotto: significa la parità del numero dei ministri con i Cinque Stelle, ma anche che quei dicasteri siano di peso, cioè quelli che nel Conte 1 erano di fatto “in quota Mattarella”. La trattativa il Pd punta a chiuderla così. Visto dal Nazareno dovrebbe essere questo l’accordo finale, che prevede nessun vicepremier. Fino a martedì sera o mercoledì mattina, quando il premier incaricato dovrebbe portare la squadra al Colle, c’è tempo per far vacillare anche le certezze più granitiche (e questa non lo è). Ma i dem raccontano di avere sul punto un’apertura da parte del M5S: in cambio della rinuncia al vicepremier unico (che era la loro richiesta originaria), uno o due ministri in più.

“Se alla fine Di Maio dovesse spuntarla ed essere vice, si capirà che non è Conte che comanda, ma lui”, dicono dal Nazareno in serata. La tensione resta alta. La giornata era iniziata con la salita al Colle di Giuseppe Conte ieri mattina. Motivo? Visto dal Pd, prima di tutto trovare un modo per gestire la “faccenda” Di Maio. Va detto che a Nicola Zingaretti, in questi ultimi giorni, è sembrato che il premier incaricato non fosse in grado di far capire a “Luigi” che deve smetterla di impuntarsi per evitare di far saltare tutto.

Dal Nazareno, il successivo incontro a Palazzo Chigi tra le delegazioni Pd e M5S, sui contenuti, lo raccontano come un successo. Dice Graziano Delrio: “Abbiamo fatto ulteriori passi avanti sul programma: la convergenza è forte”.

La trattativa vera è tutta sui ministeri e sui nomi. “Abbiamo ceduto sul presidente del Consiglio. Adesso è chiaro che Conte e Mattarella valuteranno i profili soprattutto per il Viminale e l’Economia, ma quei ministeri spettano al Pd”, è il ragionamento che va facendo la cabina di regia dem.

Dall’inizio, i democratici hanno chiesto Interni, Esteri, Economia e Commissario Ue. Ora, visto che il premier e il sottosegretario di Palazzo Chigi dovrebbero essere in quota M5S, le richieste si allargano: si punta a contare – numericamente – come i grillini.

Resta il fatto che Conte ha chiarito di voler dare la propria impronta al governo. Nel Pd, la traduzione è di Andrea Marcucci, capogruppo in Senato, ma anche l’uomo di Renzi per la trattativa: “Ora Conte deve portare al Colle una squadra di governo che sia realmente di qualità anche nei nomi scelti”. Lettura di due livelli. Il primo, riguarda la gestione del rapporto tra le due forze di quasi governo: starà a Conte vedersela (insieme a Mattarella) con rose di nomi proposte dal Pd e da M5S. Il secondo: lo stesso premier incaricato dovrà trovare il modo di mettere d’accordo le varie correnti del Pd, come al solito in guerra fratricida (ma raccontano più fonti che Matteo Renzi con Conte si senta personalmente): potrebbe finire con l’indicazione di nomi d’area Pd. Per la casella dell’Economia, prima di tutto, uno dei nomi su cui si lavora è quello di Dario Scannapieco, graditissimo a Francoforte. Controindicazione: è il vice presidente della Bei, lascerebbe un posto del genere? Resta in pole position pure Lucrezia Reichlin. Per il Viminale la ratio potrebbe essere la stessa: Luciana Lamorgese, molto gradita a Mattarella. Quel posto lo vogliono però sia Andrea Orlando che Dario Franceschini, anche se quest’ultimo pare puntare davvero sugli Esteri.

Per restare alle battaglie di primo livello, c’è quella del Commissario europeo: i 5 Stelle di Bruxelles la rivendicano per loro, ma la casella – che dovrebbe essere quella della Concorrenza – resta saldamente destinata ai Dem. In cambio, i nuovi equilibri italiani dovrebbero aiutare i Cinque Stelle (ad ora senza gruppo nell’Europarlamento) a entrare in una famiglia europea (i Verdi o Renew Europe).

Chi rischia di rimanere fuori da questo gioco di incastri è LeU, che infatti protesta: per loro il Pd chiedeva il ministero della Giustizia, che però resterà al Movimento.

Rousseau, la terza via della base delusa: astensione

È il frutto della rassegnazione, del malcontento, della voglia di tenersi la coscienza pulita: non tradire il capo, ma nemmeno tradire se stessi. Per questo nella base – quella che probabilmente già domani sarà chiamata a votare il “progetto di governo” – cresce l’ipotesi della terza via: astenersi. Vista la china che ha preso la trattativa, visto che tornare indietro ormai è una missione considerata impossibile anche dai più acerrimi nemici dei giallorossi, tanto vale che se lo facciano da soli.

Una rivendicazione di appartenenza a un Movimento che non esiste più e che si era già manifestata nel voto sul cosiddetto “mandato zero”, la possibilità di ricandidarsi anche per chi è già stato due volte consigliere comunale: degli oltre 115 mila aventi diritto della piattaforma Rousseau, dissero la loro solo in 25 mila, meno di uno su quattro. Tra i votanti, il Sì passò con il 68 per cento: non proprio un plebiscito, se confrontato agli standard della democrazia diretta dei 5 Stelle.

È lo scenario che si profila anche stavolta e che in parte rassicura i vertici M5S, letteralmente “terrorizzati” dalla prossima consultazione web: i contrari ci saranno, certo, ma il corpaccione dei disillusi alla fine potrebbe anche tirarsi indietro.

Ieri lo ha detto in chiaro anche un’attivista particolare, Giovanna Melodia, che è consigliere comunale per i 5 Stelle ad Alcamo, ma pure ex fidanzata del capo politico: “Per rispetto della nostra Costituzione, dei nostri Padri Costituenti, del Presidente della Repubblica, del Presidente del consiglio incaricato, delle Istituzioni e degli italiani non parteciperò alla prossima votazione online su Rousseau: la consultazione andava fatta prima di sedersi al tavolo con il Pd. Ieri era già troppo tardi!”

La faccenda del voto on line, come noto, è una variabile non da poco nella formazione del nuovo governo, che ha molto preoccupato il Quirinale. Luigi Di Maio e Giuseppe Conte hanno rassicurato il presidente della Repubblica che il loro appoggio al nascente esecutivo è “incondizionato”. Ma l’altro ieri Davide Casaleggio ha tenuto il punto, spiegando agli eletti che “Rousseau conta” e che dovranno necessariamente attenersi ai voleri della base: tanto più, ha voluto chiarire ieri l’erede di Gianroberto, che tutte le cose che si dicono a proposito della piattaforma – “è gestita da privati”, “non è sicura”, “può essere manipolata”, eccetera – sono fake news.

Ma l’interventopiù di peso della giornata di ieri è quello di Beppe Grillo, tra i principali sostenitori dell’alleanza con i dem: “Sono esausto! – ha sbottato a tarda sera in un video – Questa pena che vedo, questa mancanza di ironia. Dovete sedervi a un tavolo ed essere euforici: abbiamo da progettare il mondo, invece ci abbrutiamo, e le scalette e il posto lo do a chi e i dieci punti, i venti punti, basta!”. Vuole che si sbrighino, i suoi e gli altri. E di certo gli elettori del web ne terranno conto.

D’altronde, ieri, era stato letto come un timido segnale di distensione anche un post di Alessandro Di Battista. L’ex deputato, che dalla base è considerato un veterano “puro”, al contrario di Grillo è uno dei maggiori avversari della trattativa: così ieri ha difeso la linea dura tenuta da Di Maio, ma ha fatto pure un cenno alla “occasione per portare a casa risultati attesi dai cittadini italiani da 20 anni”, che non è passato inosservato. Una prova di lealtà al capo politico che, in sostanza, aumenta le probabilità che gli attivisti digeriscano anche questa.

È a loro che ha parlato venerdì Di Maio, mettendo a rischio l’accordo con il Pd. Ed è a loro che tornerà a parlare illustrando il “progetto” del secondo governo Conte: gli iscritti voteranno sul programma – la sintesi la metterà per iscritto oggi lo stesso premier incaricato – e avranno rassicurazioni sui temi più cari al Movimento, a cominciare dalle trivelle passando per gli inceneritori, fino ad arrivare alla giustizia.

Si è discusso anche di questo, ieri, nell’incontro convocato dal capo politico in un appartamento nel centro di Roma. Una riunione ristretta con volti storici dei Cinque Stelle come Riccardo Fraccaro e Nicola Morra, oltre ai capigruppo Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli. Un “caminetto” che si è riunito di frequente negli ultimi giorni e che una parte del Movimento spinge per “istituzionalizzare”: una sorta di “cabina di regia” per condividere le decisioni da prendere al governo. Perché i ministri Cinque Stelle, questo è l’auspicio per il futuro, dovranno rispondere a Giuseppe Conte, e non più solo a Luigi Di Maio.

Il Colle ha fretta e Conte mette all’angolo Di Maio

Spaventarne uno, Luigi Di Maio, per educarne grosso modo cento, cioè i vari generali dem. Di sabato mattina, Giuseppe Conte decide che per evitare il precipizio non probabile ma possibile serve un segnale evidente. Così fa slittare a mezzogiorno il previsto incontro a Palazzo Chigi con le delegazioni di M5S e Pd e prima va in visita al Quirinale. Doveva essere un incontro riservato, soffieranno poi da lassù. Ma al presidente del Consiglio serve darne notizia e non fa nulla per arrestare le voci che subito urlano di rottura a un passo, di Conte pronto a mollare.

In realtà di lasciare l’avvocato non ha alcuna voglia, ma deve ricordare a tutti, e innanzitutto al Di Maio che venerdì aveva minacciato il voto anticipato, come il palco della crisi sia una lastra di ghiaccio: così fragile che basterebbe un sospiro del premier per romperlo e le schegge farebbero malissimo al capo del Movimento. Ma Di Maio non si schioda dal suo puntiglio, continua a pretendere di fare il vicepremier.

Però Conte è già stufo. E lo è ancora di più Sergio Mattarella, l’arbitro. Perché è vero, incontri al Colle tra premier e presidente della Repubblica durante la formazione di un governo sono prassi. Però il Quirinale è molto arrabbiato per il trambusto di venerdì e in generale per lo stallo sui nomi. Ed è anche per quello che il premier va a riferire a Mattarella. Assieme parlano di programmi e squadra di governo, su cui Conte vuole la massima libertà di azione. Lo aveva detto anche venerdì sera nell’agitata riunione a Palazzo Chigi con i rappresentanti di Pd e M5S: sui ministeri l’ultima parola deve essere del premier. E su due caselle in particolare il premier rivendica il diritto di scelta: il ministero dell’Economia e il commissario europeo alla Concorrenza. Una linea che ha suscitato mal di pancia nei democratici.

Però Conte vuole andare dritto. “Il presidente ha una diretta interlocuzione con la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen” ricordano non a caso da Palazzo Chigi. Nell’attesa Conte ascolta le raccomandazioni di Mattarella, che sollecita tempi stretti. Poi in tarda mattinata incontra i capigruppo dei due partiti per fare il punto dei programmi, e la riunione di circa tre ore fila via liscia. Pd e 5 Stelle entrano nel dettaglio e trovano l’intesa più o meno su tutte le rispettive bandiere: dal blocco a inceneritori e trivelle alla riforma della giustizia, punti chiave per il Movimento, a “una nuova legge sull’immigrazione e allo sblocco delle infrastrutture” per il Pd. Sui temi si chiuderà facilmente e oggi lo stesso Conte si metterà al lavoro per stilare un programma condiviso.

Deve correre, perché vuole salire al Colle entro martedì sera con la lista dei temi e quella dei ministri. E da qui si torna al vero nodo, quello dei posti. Perché Di Maio non arretra dalla richiesta, il ruolo di vicepremier con annesso un ministero di peso (la Difesa). Però il premier non vuole e non può impiccarsi a una casella. “Risolverò questo problema per ultimo” ha spiegato nelle conversazioni a margine dei tavoli, dove il tema dei vicepremier non è mai stato toccato, come un pericoloso tabù.

Ma il punto di caduta di Conte è già chiaro: eliminare i vicepremier, anche per segnare una discontinuità rispetto alla formula del governo gialloverde. E dai dem è già arrivato il sì, pur di aggirare l’ostacolo, con tanto di via libera a un ministero “pesante” (ma non Interni e Tesoro) per il capo dei 5Stelle. “Il Pd questo governo vuole farlo davvero” riconoscono diversi big del Movimento. Ed è un dato che emerge plasticamente anche nella riunione pomeridiana di Di Maio con i capigruppo e i veterani del M5S nella casa romana di Pietro Dettori, suo stretto collaboratore.

Il capo politico è stato silente per tutto il giorno ed è la conferma che il venerdì dell’ultimatum ha lasciato scorie. Ma ha bisogno di mostrare un Movimento compatto, così ecco la cabina di regia. “Sui programmi siamo messi bene”, è la considerazione diffusa. Però restano alcune spine. E la prima è che, come riassume uno dei presenti, “non potremmo reggere facilmente un governo fatto di vecchie facce del Pd”. Tradotto, Di Maio ha chiesto e chiederà ai democratici nomi più “freschi” per la squadra di governo. Nel frattempo, fa trapelare una condizione per il Pd: niente condannati o indagati per fatti gravi in squadra.

Invece con i “suoi” big fa il punto dei ministeri indispensabili al Movimento: in cima alla lista ci sono Giustizia e Ambiente, dove rimarranno Alfonso Bonafede e Sergio Costa, e l’Istruzione, fino a oggi della Lega.

Non si parla del nodo vicepremier. Ma è un convitato di pietra nella riunione. “Luigi è convinto che senza quella poltrona perderà il Movimento”, riassume un 5 Stelle di peso. Ma Conte deve chiudere la sua tela. E dell’ostacolo principale sulla strada del governo parlerà con Di Maio e Nicola Zingaretti nell’incontro che dovrebbe avvenire oggi, a occhio decisivo. Perché il tempo a disposizione per i giallorossi è sempre di meno.

Ma che volete di più?

Il sondaggio Ipsos-Corriere dovrebbe far riflettere chi, nel M5S, continua a tentennare fra il governo Conte-2 e le elezioni a ottobre (o, peggio, il ritorno tra le fauci di Salvini). Fino al 7 agosto i 5Stelle erano in picchiata e soprattutto in trappola. Se rompevano con la Lega, regalavano a Salvini le elezioni dei “pieni poteri”; se restavano, quello completava la cannibalizzazione. Li ha salvati il Cazzaro, facendosi esplodere da solo. E spingendo prima Renzi poi tutto il Pd a compiere un passo rinviato da 10 anni. Di Maio all’inizio se l’è giocata bene: o Conte o voto. Zingaretti aveva posto il veto su quello che tutti vedono come l’anti-Salvini, poi ha dovuto rimangiarselo. Così Conte, prima visto come figura istituzionale autonoma, appare ora un premier 5Stelle. E l’“effetto Conte” porta il M5S oltre il 24%, di nuovo davanti al Pd (che pure cresce), e i giallo-rosa insieme al 45%: per la prima volta dopo mesi, alla pari del centrodestra. Ora, preso atto che il Conte-2 dimagrisce la Lega e ingrassa il centrosinistra, ma soprattutto il 5S, che altro va cercando Di Maio?

L’ultimatum di venerdì, che ha creato inutili tensioni, è incomprensibile: persino sui dl Sicurezza il Pd aveva accettato di ripartire dalle critiche di Mattarella, anziché da un’abrogazione integrale che conviene solo a Salvini. Certo, bisogna mostrare i muscoli agl’iscritti titubanti di Rousseau. Certo, è sempre meglio vampirizzare che essere vampirizzati. Ma se Di Maio spera di recuperare peso e voti travestendosi da Salvini dei giallo-rosa, sbaglia di grosso. Le gare di rutti sono roba da Salvini. E alla lunga stancano. Ora, per reazione, la gente vuole ministri seri che parlino coi fatti. Se proprio vogliono litigare, i 5Stelle lo facciano su certi nomi che girano nella galassia dem. Tipo Giuliano Pisapia alla Giustizia. Brava persona, per carità. Ma, a parte la “discontinuità” di uno che è in politica da 45 anni, dall’ultrasinistra a Rifondazione, dal Pd (e De Benedetti) al Parlamento, dal Comune di Milano a Bruxelles, Pisapia ha già fatto abbastanza danni. Decarceratore impenitente, da capo della commissione Giustizia (1996-’98) continuò a difendere imputati mentre depenalizzava o riformava i loro reati, in pieno conflitto d’interessi. Nel 2006 fu tra i padri dell’indulto Mastella e confessò pure il movente: “Ci vuole un condono di 2-3 anni che faccia accedere Previti ai servizi sociali”. Poi, astenendosi con tutta RC, fece passare la legge-vergogna di B. contro Caselli alla Procura nazionale antimafia. E annunciò l’abolizione dell’ergastolo anche per le stragi, costringendo lo stesso Mastella a dissociarsi. Ecco: Pisapia no grazie, magari un’altra volta.

La meglio gioventù è invecchiata: torna ai Mondiali, serve l’impresa

Il 2019 è un anno speciale per il basket italiano. Cade il 20° anniversario del trionfo a Euro ‘99, che tre generazioni diverse ricordano ancora con una lacrimuccia. Ma segna anche il ritorno della nazionale ai Mondiali, dopo 13, infiniti anni di assenza. Quella che vinse in Francia, battendo fuoriclasse del calibro di Divac e Sabonis, era davvero una delle selezioni azzurre più forti di sempre, che non a caso 5 anni dopo un po’ rinnovata sarebbe arrivata fino all’argento olimpico di Atene 2004, come aveva fatto negli anni 80 a tornei invertiti la squadra della leggenda Dino Meneghin.

Questa che da oggi sarà impegnata in Cina, invece, è la versione più rattoppata e dimessa di un gruppo a cui è stata a lungo appiccicata l’etichetta di “nazionale migliore di sempre”. Belinelli, Gallinari, Datome, si è ritirato Bargnani: mai nella storia l’Italia ha avuto così tanti giocatori Nba. Era lecito sperare che in azzurro potessero vincere qualcosa. Invece hanno perso tutte le partite della vita che potevano perdere. Il buco di Euro 2009, gli Europei 2013 buttati via con tre sconfitte di fila quando bastava una vittoria per il pass iridato. La più dolorosa, la finale del preolimpico 2016, organizzato in casa a suon di milioni per conquistare i Giochi, incredibilmente svaniti ai supplementari con la Croazia.

Sembrava l’ultimo treno perso dalla generazione d’oro, che non lascia grandi eredi. Invece complice una nuova formula (non più attraverso gli Europei, come in passato, ma con appositi gironi), è arrivata questa insperata partecipazione ai Mondiali 2019. Meglio tardi che mai. Certo, il tempo è stato sprecato: le stelle sono ancora le stesse, ma un po’ imbolsite (come Belinelli), acciaccate (Gallinari e Datome), addirittura disoccupate (Gentile). In panchina dopo il flop delle star Pianigiani e Messina, la federazione ha ripiegato su Meo Sacchetti, onesto lavoratore senza grilli per la testa o velleità da guru, che non si è fatto scrupoli a lasciare a casa il figlio Bryan.

Questa nazionale ridimensionata è lo specchio di un movimento depresso, con un campionato devastato dalla crisi e politiche federali incapaci di confermare i buoni risultati giovanili. Tutto sommato, però, l’Italia di Sacchetti, tutta umiltà e difesa, non è dispiaciuta, anzi ha centrato un traguardo che mancava da anni e ora si gioca le Olimpiadi, vero obiettivo della spedizione (manca da Atene 2004).

In Cina, però, si fa sul serio. Si gioca contro i migliori del pianeta, dagli Usa (che per una volta potrebbero non essere così imbattibili: mancano tutti i big), a Serbia, Grecia, Spagna. Le grandi saranno un po’ meno grandi per l’assenza di star Nba, ma comunque più grandi di noi. Al netto degli slogan sull’unità del gruppo, i problemi azzurri son sempre gli stessi, acuiti dal minor talento e dal forfait di Melli, unico “lungo” internazionale. In attacco dipendiamo troppo da Belinelli, Hackett e Gentile. Roster leggero, c’è un solo vero centro pescato addirittura in A2 (Serie B del basket). I limiti fisici sono atavici e si son visti tutti nelle amichevoli estive.

Il cammino di avvicinamento al Mondiale è stato a dir poco inquietante. Contro la fortissima Serbia (che ritroveremo nel girone) abbiamo preso 30 punti senza toccar palla, come bimbi contro adulti sotto canestro. Abbiamo perso anche contro Russia, Grecia, Francia, persino Turchia e Nuova Zelanda. Per fortuna in un gruppo a quattro dove ne passano due, basta battere Angola e Filippine (non proprio corazzate). L’esordio di oggi (ore 13.30) contro gli asiatici è già una finale. Poi si vedrà. Una medaglia sarebbe un miracolo, la qualificazione ai Giochi (serve arrivare tra le prime due europee, quindi verosimilmente in semifinale) pare comunque un’impresa. Inutile dire che mancare la quarta Olimpiade di fila (c’è un altro torneo di spareggio) significherebbe fallimento totale. Ma in fondo dalla peggiore “miglior nazionale di sempre” nessuno si aspetta più nulla. Magari proprio per questo l’Italia stupirà in Cina.

“Attenti ai social: prima danno, poi tolgono. Capito Salvini?”

“La mia prima canzone? La scrissi da ragazzino. Si intitolava 41 anni fa. Era l’83, omaggiavo la Roma che vinceva il secondo scudetto. Vi piazzai un paio di versi non male, dove Falcao faceva rima con Ingrao. Cercavo già il modo di far coesistere due passioni apparentemente distanti”.

Non ha mai smesso di farlo, caro Daniele Silvestri. Nel recente album La terra sotto i piedi c’è un pezzo ad alto tasso emotivo come La vita splendida del Capitano: Totti nell’Olimpico in lacrime.

Mi colpì che piangesse anche chi non era romanista. Non è un brano sulla mitologia di Totti, volevo descrivere un sentimento universale: la criticità del momento in cui ognuno di noi deve diventare grande e accettare che le cose cambiano. Quel pezzo, concepito per restare fuori dal disco, poi occupò il numero 10 della lista, spodestando la canzone più politica.

Come si intitolava?

La quinta stella. Mi piaceva l’idea, ma non trovai la quadra tra musica e parole. Il tema è sublimato in chiave poetico-astronomica. Ho seguito con passione la grande avventura del Movimento, soprattutto all’inizio, e continuo a vederci cose entusiasmanti. Canto di un’ultima stella che finisce in un pericoloso sistema binario, dove l’astro collegato si rivela un buco nero che finisce per mangiare tutto…

Mi ricorda un altro Capitano. Quello impantanatosi sulle spiagge del mojito.

Ma sarebbe un errore considerarlo finito, vista anche la complessità di queste ore. Nei giorni della crisi, mi sono chiesto se Salvini fosse un genio o un pazzo. Di certo, l’innesco della sua strategia era chiamarsi fuori dal compito più impopolare di un governo: una manovra lacrime e sangue, con cui avrebbe perso molti consensi. Quel che non mi torna è il suo comportamento dopo: la proposta a Di Maio di fare il premier, per dire.

Sussurrano che Francesca Verdini abbia lasciato Salvini per un corteggiatore di Temptation Island.

La vita del leader leghista è insidiosamente ostentata in chiave mediatica. I social danno, i social tolgono. Io ho visto in questa estate un’Italia diversa. Avevo registrato l’album a Favignana, un’isola che non immagino come un cancello sul mare. E ovunque io abbia suonato, ho incontrato persone mosse da speranze, curiosità, certezze. Se parlo sul palco, anche il pubblico casuale sembra partecipe. Come quando introduco Le navi, un pezzo di due album fa che allora pareva politicamente eversivo, e oggi è cronaca. In pochi anni ci hanno sparato addosso mitragliate di luoghi comuni, disegnando un mondo grottesco.

Domani sera chiuderà la festa del Fatto in Versiliana.

Sarà la chiusura anche del mio tour stagionale, nato per caso, prima di quello autunnale incentrato sul nuovo disco.

La ripartenza sarà la data zero del 19 ottobre a Roseto degli Abruzzi, prima del debutto a Roma. Una tournée nei palazzetti: per lei è la prima volta.

Non è però la pretesa di alzare l’asticella del consenso: La terra sotto i piedi è un album che calza a meraviglia per occupare spazi vuoti e tristi. Quando sperimenti l’intimità con il pubblico come in un piccolo club la sensazione è impagabile. E credo che avrò amici ospiti sul palco. Incrocio le dita.

È in controtendenza, il settore dei live scricchiola.

Correremo il rischio. Il problema dei flop negli stadi è dato dalla necessità di stupire con allestimenti che mettono in difficoltà gli artisti.

Che dire di certe nuove star al Circo Massimo?

Sono d’accordo. Senza fare nomi, di fiamme che si sono accese e spente con rapidità ne abbiamo viste molte.

E i dischi non si vendono.

Il tempo delle vacche grasse è finito. Anch’io ho avuto la tentazione di non farne più, ma sono stato un precursore nel pensare progetti più diluiti. Ho pubblicato singoli in vinile, e intanto maturava dentro di me la forma dell’album. Non possiamo evitare di confrontarci con la nuova realtà digitale. I supporti fisici sono morti. Oggi il fruitore non possiede più le canzoni, se le gode in streaming, una per volta.

Lei ha 50 anni. Come vive il ruolo di genitore di fronte ai millennial?

Con difficoltà. Noi padri siamo alle prese con una crisi di credibilità e autorevolezza. Siamo più in contatto con i figli di quanto non accadesse nel ’68 e nel ’77. Ora più che lo scontro generazionale c’è la ricerca di un linguaggio comune da parte di noi vecchi analogici, spiazzati dalla forma mentis virtuale degli adolescenti. E a forza di inseguire i giovanissimi a volte rischiamo il ridicolo, come certi rapper miei coetanei che parlano di cose che dopo i vent’anni anche no, grazie.