Che cosa tiene insieme Èmile Zola e Eduardo De Filippo? Che cosa lega la (supposta) spia Alfred Dreyfus e l’ufficiale George Piquart a Antonio Barracano e Rafiluccio Santaniello? Il regista Mario Martone, trasponendo al cinema Il sindaco del rione Sanità, torna all’architrave del testo teatrale eduardiano, “l’assunzione della responsabilità individuale”, e riflette: “In questo momento storico, c’è bisogno più che mai che ognuno si assuma le proprie responsabilità”. Difficile non pensare a un’altra epoca in Mostra a Venezia, in cui l’antisemitismo carburava la Soluzione Finale, difficile non estendere la lezione civile al J’accuse di Roman Polanski, che tornando all’affaire Dreyfus non si concentra sulla vittima, ma sul suo laico, ordinario salvatore. No, non Zola e il suo celeberrimo J’accuse, ma il meno famoso George Piquart, l’ufficiale preposto al controspionaggio, un hombre vertical al di qua dei Pirenei, che dopo essere finito in prigione diventerà ministro: gli concederà Dreyfus, ha “fatto il proprio dovere”, e solo quello.
Dunque, Piquart, che svela la menzogna sistemica e antisemita architettata ai danni del capitano di origine ebraica Dreyfus, ingiustamente condannato all’ergastolo sull’isola del Diavolo per aver passato informazioni agli esecrabili tedeschi; dunque, Antonio Barracano, che a Napoli salomoneggia da “uomo d’onore” per dirimere tra “gente per bene e gente carogna”, tra un figlio, Rafiluccio, che vuole uccidere il padre e un padre, don Antonio, che ha disconosciuto il sangue del suo sangue. Dreyfus alla sbarra nel 1894 solo nel 1906 otterrà la definitiva riabilitazione, stigmatizzando friabilità, fallibilità e corruttibilità della Legge; Barracano si fa egli stesso legge, stando al di sopra e comunque a latere di quella “uguale per tutti”.
Quel che è vecchio è ancora nuovo, basta adattarlo e, nel caso di Barracano, ringiovanirlo, dimezzandone i 75 anni: “Non aspettatevi le illusioni del vecchio nato nell’Ottocento, che ancora consentivano di tracciare dei confini morali: qui affiora un’umanità feroce, ambigua e dolente, nella quale il bene e il male si confrontano in ogni personaggio e le due città di cui sempre si parla a Napoli, quella legalitaria e quella criminale, si scontrano in una partita sorprendente”.
Martone guarda alla propria città, Polanski alla propria fedina penale, ovvero, alle accuse di cui è oggetto. Assente a Venezia, dove il produttore Luca Barbareschi dopo l’andata-ritorno della presidente di giuria Lucrecia Martel fa il pompiere: “Qualsiasi polemica è alle nostre spalle, questo non è un tribunale morale, ma una Mostra del Cinema”, l’ottantaseienne Roman dice la sua nel press-book e infilza il “maccartismo neofemminista” corrente, che già l’ha fatto escludere dall’Academy: “Nella storia, a volte trovo momenti che ho vissuto io stesso, posso vedere la stessa determinazione nel negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Il mio lavoro non è terapia, ma devo ammettere che ho familiarità con molti meccanismi dell’apparato di persecuzione mostrati nel film. Reagire? Per che cosa, è come combattere contro i mulini a vento”.
J’accuse, assistito dalle interpretazioni perfette di Jean Dujardin (Piquart) e Louis Garrel (Dreyfus), ci riconsegna un maestro del cinema, che riappoggiandosi dopo L’uomo nell’ombra allo scrittore Robert Harris (L’ufficiale e la spia) trova drammaturgia thriller e diapason politico: le alte cariche sono colpevoli quanto risibili, i soldati soldatini, il popolo chiamato in correità, la giustizia anche se non può si fa attendere. Polanski invece no, e il lascito ancorché personale è umanista: il suo J’accuse è un’altra lettera pubblica, non al presidente della Repubblica come per Zola, ma agli uomini responsabili.
Lo stesso fa Martone, anche lui adiuvato da un ottimo cast, in primis il Barracano Francesco Di Leva e gli altri interpreti della versione teatrale al Nest di San Giovanni a Teduccio, nonché Massimiliano Gallo e Roberto De Francesco: se la lotta di Polanski è di immagini, la sua è anche di immaginario, giacché rifare questo Eduardo oggi è rispondere con mezzi cine-teatrali alla serialità – e all’antropologia – di Gomorra. Martone ridà il potere alla parola sul gesto, al dialogo sull’azione, al miracolo della scena sul miracolo dell’osceno: “Tra Cassavetes e Mario Merola”, disarticola la spettacolarizzazione a mano armata, e serve la tregua. Dall’immaginario corrente, corrivo.
@fpontiggia1