Film politici: Polanski e Martone dettano legge

Che cosa tiene insieme Èmile Zola e Eduardo De Filippo? Che cosa lega la (supposta) spia Alfred Dreyfus e l’ufficiale George Piquart a Antonio Barracano e Rafiluccio Santaniello? Il regista Mario Martone, trasponendo al cinema Il sindaco del rione Sanità, torna all’architrave del testo teatrale eduardiano, “l’assunzione della responsabilità individuale”, e riflette: “In questo momento storico, c’è bisogno più che mai che ognuno si assuma le proprie responsabilità”. Difficile non pensare a un’altra epoca in Mostra a Venezia, in cui l’antisemitismo carburava la Soluzione Finale, difficile non estendere la lezione civile al J’accuse di Roman Polanski, che tornando all’affaire Dreyfus non si concentra sulla vittima, ma sul suo laico, ordinario salvatore. No, non Zola e il suo celeberrimo J’accuse, ma il meno famoso George Piquart, l’ufficiale preposto al controspionaggio, un hombre vertical al di qua dei Pirenei, che dopo essere finito in prigione diventerà ministro: gli concederà Dreyfus, ha “fatto il proprio dovere”, e solo quello.

Dunque, Piquart, che svela la menzogna sistemica e antisemita architettata ai danni del capitano di origine ebraica Dreyfus, ingiustamente condannato all’ergastolo sull’isola del Diavolo per aver passato informazioni agli esecrabili tedeschi; dunque, Antonio Barracano, che a Napoli salomoneggia da “uomo d’onore” per dirimere tra “gente per bene e gente carogna”, tra un figlio, Rafiluccio, che vuole uccidere il padre e un padre, don Antonio, che ha disconosciuto il sangue del suo sangue. Dreyfus alla sbarra nel 1894 solo nel 1906 otterrà la definitiva riabilitazione, stigmatizzando friabilità, fallibilità e corruttibilità della Legge; Barracano si fa egli stesso legge, stando al di sopra e comunque a latere di quella “uguale per tutti”.

Quel che è vecchio è ancora nuovo, basta adattarlo e, nel caso di Barracano, ringiovanirlo, dimezzandone i 75 anni: “Non aspettatevi le illusioni del vecchio nato nell’Ottocento, che ancora consentivano di tracciare dei confini morali: qui affiora un’umanità feroce, ambigua e dolente, nella quale il bene e il male si confrontano in ogni personaggio e le due città di cui sempre si parla a Napoli, quella legalitaria e quella criminale, si scontrano in una partita sorprendente”.

Martone guarda alla propria città, Polanski alla propria fedina penale, ovvero, alle accuse di cui è oggetto. Assente a Venezia, dove il produttore Luca Barbareschi dopo l’andata-ritorno della presidente di giuria Lucrecia Martel fa il pompiere: “Qualsiasi polemica è alle nostre spalle, questo non è un tribunale morale, ma una Mostra del Cinema”, l’ottantaseienne Roman dice la sua nel press-book e infilza il “maccartismo neofemminista” corrente, che già l’ha fatto escludere dall’Academy: “Nella storia, a volte trovo momenti che ho vissuto io stesso, posso vedere la stessa determinazione nel negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Il mio lavoro non è terapia, ma devo ammettere che ho familiarità con molti meccanismi dell’apparato di persecuzione mostrati nel film. Reagire? Per che cosa, è come combattere contro i mulini a vento”.

J’accuse, assistito dalle interpretazioni perfette di Jean Dujardin (Piquart) e Louis Garrel (Dreyfus), ci riconsegna un maestro del cinema, che riappoggiandosi dopo L’uomo nell’ombra allo scrittore Robert Harris (L’ufficiale e la spia) trova drammaturgia thriller e diapason politico: le alte cariche sono colpevoli quanto risibili, i soldati soldatini, il popolo chiamato in correità, la giustizia anche se non può si fa attendere. Polanski invece no, e il lascito ancorché personale è umanista: il suo J’accuse è un’altra lettera pubblica, non al presidente della Repubblica come per Zola, ma agli uomini responsabili.

Lo stesso fa Martone, anche lui adiuvato da un ottimo cast, in primis il Barracano Francesco Di Leva e gli altri interpreti della versione teatrale al Nest di San Giovanni a Teduccio, nonché Massimiliano Gallo e Roberto De Francesco: se la lotta di Polanski è di immagini, la sua è anche di immaginario, giacché rifare questo Eduardo oggi è rispondere con mezzi cine-teatrali alla serialità – e all’antropologia – di Gomorra. Martone ridà il potere alla parola sul gesto, al dialogo sull’azione, al miracolo della scena sul miracolo dell’osceno: “Tra Cassavetes e Mario Merola”, disarticola la spettacolarizzazione a mano armata, e serve la tregua. Dall’immaginario corrente, corrivo.

@fpontiggia1

Tiromancino alla banca: Zampaglione (Francesco) tenta una maldestra rapina

Ci ha provato a fare la rockstar ma qualcosa è andato storto con i Tiromancino, nonostante sia stato uno dei fondatori insieme al più celebre fratello Federico. Quattro anni fa Francesco decise di lasciare il gruppo e da quel momento di lui si persero le tracce. Almeno sino a oggi.

Complice magari la seduzione della serie La casa di carta Francesco si è deciso a trasformarsi in novello Lupin. Dimenticandosi che pure in questa “professione” è richiesto talento e concentrazione. E infatti il maldestro furfante ha intimato agli impiegati della Banca Intesa – in zona circonvallazione Gianicolense a Roma – di consegnare il denaro. Ma in quel momento in banca non c’erano contanti disponibili e in più è iniziata una colluttazione con l’impiegato allo sportello finita addirittura a morsi. Vista la brutta aria, l’ex Tiromancino se l’è filata a più non posso, cambiandosi anche la t-shirt per evitare di essere riconosciuto. Questo nonostante sia arcinoto che le banche hanno una serie di telecamere sempre accese in grado di riconoscere ogni volto che varca l’ingresso. Un cliente l’ha seguito e ha chiamato le forze dell’ordine e il resto è cronaca: raggiunto e fermato in via di Monte Verde e portato in carcere a Regina Coeli.

Il senso del ridicolo emerge nell’apprendere che Zampaglione era a volto scoperto e armato di una pistola giocattolo senza il bollino rosso. I primi a rimanere sorpresi e sconcertati sono stati i carabinieri. In fondo a Francesco è andata bene: per un episodio del genere l’ex calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, nel maldestro tentativo di rapinare per scherzo una gioielleria, fu ucciso.

Ballando con Roger sul Muro a pezzetti

Bari, luglio 1990. È sera. Finalmente un filo d’aria. Il binario. Binario 1. Guardo a destra: il treno arriva da destra, quindi Lecce è a destra. Milano – deduco – a questo punto dev’essere per forza a sinistra. Il biglietto: fammi controllare, ce l’ho? Non quello del treno, l’altro. Ce l’ho. Sigaretta. (Vorrei non aver mai iniziato, ma ancora non lo so). Ma dov’è Maurizio? Eccolo. Biglietto ce l’hai? Non quello del treno, l’altro. Ce l’hai. Rumori da destra. Sferragliamenti. Siamo in tanti. Troppi, direi. L’emigrazione: tornano a lavorare a sinistra dopo le vacanze a destra.

Vagone. Sei posti per scompartimento. Sedili in similpelle allungabili. Finestrino giù. Sigarette qui e là. Fumo ovunque. Scarpe sotto il sedile. L’odore di 12 piedi si confonde in un’unica fragranza comune. Valigie in similpelle sui porta valigie di ferro sulle nostre teste. Sonno. Inquietudine. Esco nel corridoio. Sonno. Il corridoio è un carnaio. M’arrampico sulla cappelliera. Mi stendo. Dormo. Milano. Sveglia. Caffè. Binario. Treno. Monaco: binario, luce dalle vetrate, tante vetrate. Treno. Berlino. Metro. Eingang. Ausgang. Il biglietto? Ce l’ho. Ho visto gente fare colazione con la birra. Andiamo a Est. Una Trabant! Ma chi le colora ’ste trabant! Ma che ruote ha la trabant! Ma che suono fa la trabant! Torniamo a ovest. Le bancarelle: quanto costa questo? How much it cost? Ne voglio quattro. I want four. Quattro pezzetti di muro colorati. C’è il certificato: è proprio quel muro lì. Maurizio apri la borsa. Mettici dentro il muro. È ora. È buio. Siamo in 350 mila. È andata: sono sotto il palco. Maurizio dove vai? Non puoi andare in bagno adesso! Le luci. Urlo. Il mondo sta cambiando. Ma io non lo so. E non m’interessa. Ho 22 anni. Ho già tutto quello che voglio: cantare con Roger Waters is just another brick in the wall.

“Leggere è l’unico vero antidoto contro la solitudine”

“I politici di oggi dovrebbero leggere L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, per capire quali sono i limiti di ciascuno di noi, e com’è necessario ascoltare gli altri e non essere fanatici”. Di questo l’illustre studiosa Lina Bolzoni, docente di letteratura italiana alla Normale di Pisa e accademica dei Lincei, è fermamente convinta. E commenta così gli ultimi richiami a Cicerone proclamati con poco senso dell’a proposito giorni fa in Parlamento: “Cicerone, come tutti i classici, andrebbe letto davvero e non svilito in una citazione senza contesto che spesso è solo un’esibizione, fatta non conoscendo il testo”.

Con il suo Una meravigliosa solitudine – un luminoso e appassionante saggio-indagine sulla scoperta all’altezza del Rinascimento del piacere della lettura –, Bolzoni intercetta quegli autori che avvertirono, per primi, l’esigenza di ricuperare un dialogo con i modelli del passato come un faro sulla vita moderna: tutto inizia con Petrarca, che fa tornare a splendere il mito del classicismo; per poi passare a Machiavelli, secondo cui leggere è una “spinta all’azione” e a Montaigne, secondo cui con un libro in mano il nostro io da singolo diventa molteplice. “Sono tutti concordi”, spiega la studiosa, “a individuare nella lettura dei classici, ma più in generale nella lettura, l’idea di un dialogo che vince la morte e il tempo, cosa che oggi si è persa”.

Se dunque c’è stato un tempo in cui la lettura è stato un vivace argomento dello spazio noetico, oggi tale vivacità è svanita. “Nel Rinascimento”, prosegue, “si leggeva per ricuperare modelli di bellezza, cosa oggi impensabile. Siamo abituati alla fretta, al consumo in tempi rapidi. La tradizione della lettura punta alla lentezza, a quella solitudine in cui si ha il tempo del dialogo, lo stesso in cui si incontra se stesso, ospitando l’altro”.

È questo il punto di mira che Bolzoni vorrebbe fosse chiaro: la lettura è un atto di coraggio, di ospitalità (termine quanto mai oggi attuale): “Quando leggiamo ci facciamo compenetrare, abitare dall’altro. Il pensiero moderno ha molto riflettuto su questo. Jacques Derrida, per esempio, parte dalla contiguità tra hospes (ospite) e hostis (nemico). E ciò perché nel momento in cui accogliamo l’altro, esso può diventare un nemico ma anche un’occasione di arricchimento straordinario. Dipende da noi”. Soprattutto alle nuove generazioni, per le quali ha le idee chiare su come attirarle verso l’apertura ad altri mondi possibili, verso l’occasione di libertà che è leggere: “La lettura è viva, io sono fiduciosa”, commenta l’accademica, “solo stiamo vivendo una trasformazione del mondo del libro. Ma non è certo la prima. Si pensi al passaggio dall’oralità alla scrittura, o dal manoscritto al libro stampato. Ogni volta che vi è una trasformazione, vi è una difficoltà.”

Del resto, oggi la multimedialità ha reso vetuste le biblioteche, che hanno perso la loro effigie di avamposto della cultura, e assistiamo al passaggio a una biblioteca virtuale, quindi infinita. “La trasmissione, e non il mero insegnamento, del piacere della lettura deve passare attraverso la multimedialità e il racconto laterale”. È questa la ricetta per Bolzoni, a cui non piacciono tanto i gialli anche se ne comprende i benefici catartici sul lettore, che con gli allievi della Normale ha lavorato a una mostra in tal senso sull’Ariosto: raccontare un classico letterario congiungendovi immagini e musica. “Molto utili”, conclude, “sono anche le graphic novel che reinterpretano i classici. Se di qualità, instillano la curiosità di andare a scoprire l’originale. Ecco, bisogna ricorrere a questo circolo virtuoso con le nuove arti”.

“Il comunismo è morto quel giorno in piazza Tienanmen”

Pubblichiamo l’intervista di Antonio Padellaro ad Achille Occhetto uscita sul “Corriere della Sera” il 6 giugno 1989, tre giorni dopo la strage di Piazza Tienanmen.

Il massacro della piazza Tienanmen è stato eseguito su ordine del Partito comunista cinese. Comunista si chiama anche il partito di cui è segretario generale Achille Occhetto. Questo è il nocciolo dell’intervista che si svolge al secondo piano del palazzo delle Botteghe Oscure. Con il comunismo che, quasi dappertutto dove è al potere, o tenta di annacquarsi in timide forme di democrazia o esplode in bagni di sangue, che senso ha dichiararsi ancora comunisti? Il leader del Pci è in campagna elettorale e sa che gli avvenimenti di Pechino possono ripercuotersi negativamente su un partito già in crisi di consensi. E quindi non può sfuggire a questo interrogativo di fondo.

Dopo aver saputo dell’eccidio, lei onorevole Occhetto ha detto: “Non c’è niente in comune fra noi e chi si rende responsabile di questi crimini”. Vuole dire che Deng non può essere considerato un comunista? O che non lo siete più voi?

Prima di tutto noi non siamo parte di un movimento comunista internazionale. Noi di quel campo non facciamo più parte. Giudichiamo i Paesi comunisti così come li giudicano tutti gli altri partiti della sinistra europea, sulla base degli atti, dei programmi e delle iniziative. Quanto a Deng, ho sempre avuto verso di lui un senso di diffidenza perché partecipai a quello che è stato l’ultimo incontro da cui derivò la rottura con i cinesi nel 1965, e sono sempre rimasto impressionato dalla durezza e perfino da un certo fanatismo del personaggio. Questa modernizzazione autoritaria in atto in Cina – come dimostrano i fatti drammatici di questi giorni – non ha niente a che vedere con le idealità socialiste.

Mi scusi onorevole, ma questa risposta del “non abbiamo niente a che vedere”, storicamente, è sempre stata data dal Pci dopo che una tragedia del comunismo si era consumata, mai prima. È o non è il comunismo come sistema ad aver fallito?

Alla base di tutto questo, certo, c’è un sistema che non sopporta, per principio, che la partecipazione popolare metta in discussione la continuità e i fondamenti del potere. Ma i comunisti italiani la loro scelta l’hanno fatta già da tempo e all’ultimo congresso vi sono stati ulteriori sviluppi e novità. Infatti ponendo al centro la democrazia – e non la democrazia come supporto strumentale del socialismo, ma la democrazia come finalità e come valore – è del tutto chiaro che il Pci rifiuta qualsiasi solidarietà nei confronti di qualsiasi potere che, usurpando il nome, si dichiari socialista e non accetti due principi fondamentali: quello della conflittualità democratica e quello della libera espressione dell’opposizione. Noi questi regimi non li riconosciamo più come socialisti. Quanto alla denuncia preventiva, questa volta è una critica che non può esserci mossa. Appena tornato dal viaggio negli Stati Uniti feci consegnare alle autorità cinesi un documento molto duro che fu pubblicato, e questo mi fece ben sperare, sulla prima pagina del Quotidiano del Popolo. Ci siamo subito schierati dalla parte degli studenti che, ricordiamolo, sono morti cantando l’Internazionale.

Insisto. Al di là di ciò che sta accadendo in Unione Sovietica, è la parola stessa “comunismo” che appare in dissoluzione.

Ripeto. Nei Paesi dell’Est, comunismo è un termine che non ha più nessun rapporto con le proprie origini storiche e che definisce un involucro politico completamente sbagliato. Sono regimi che portano a soluzioni catastrofiche se non vengono avviati verso forme di democrazia parlamentare e pluralista.

Il comunismo dunque è finito.

Quello che dico si riferisce a quei regimi che si sono chiamati comunisti. Certo nella battaglia di Gorbaciov o nella battaglia di Eltsin le idealità socialiste sono presenti. Ma del comunismo come sistema che riteneva di essere unitario e organico, a mio avviso, non è rimasto niente.

Allora perché voi continuate a chiamarvi comunisti?

Al congresso ho affermato che eravamo disponibili a cambiare nome di fronte a un fatto politico nuovo che allargasse e unificasse la sinistra italiana. Ma quello che le sto dicendo mi sembra che vada al di là del cambiamento del nome. I nomi sono anche delle sedimentazioni storiche. Quello che importa è che siamo una forza socialista e democratica che si trova in sintonia con tutte le forze socialiste e democratiche europee.

Quali saranno gli atti conseguenti del Pci? Dopo le elezioni europee chiederete l’ammissione nel gruppo parlamentare dei partiti socialisti?

È chiaro dalle cose dette che ci sarà, dopo le elezioni, una pressante iniziativa per stringere i rapporti sia parlamentari sia politici con le altre forze della sinistra europea.

File, turisti, maschi in bikini La Città (è davvero) Proibita

Se Bill Murray e Scarlett Johansson si fossero incontrati al bancone di un bar cinese, anziché giapponese, Lost in translation avrebbe avuto una trama leggermente diversa. Lui avrebbe provato a ordinare un whisky, ma il cameriere non avrebbe capito nulla e gli avrebbe portato una tazza d’acqua bollente. Lei sarebbe andata alla cassa per pagare e sarebbe rimasta in fila fino al capodanno cinese, e alla fine si sarebbero scambiati i contatti via fb, ma i social in Cina sono censurati.
E quindi niente scena finale con i due che si baciano appassionatamente in mezzo a una strada trafficata, ma, al massimo, la sagoma scura di Murray che si allontana mentre insulta Google Maps il quale ha localizzato il suo ristorante in un negozio di vernici per interni. E lo dico con cognizione di causa, perché ho trascorso 25 giorni in Cina amandola e odiandola a minuti alterni, come si odiano e amano le cose meravigliose e inafferrabili. Ecco quello che ho imparato della Cina:

 

AL RISTORANTE. Dopo anni di riso alla cantonese e involtini primavera, arrivando in Cina scopri che il cibo che in Italia ti viene venduto come cinese non esiste. Mentre nelle bancarelle per la strada viene coltivato il culto per le cose che puzzano – come il tofu nero che puzza di piedi di escursionista o il durian, l’enorme frutto appuntito, che una volta stufato diffonde nei dintorni aroma di cadavere di cane nella cunetta – nei ristoranti le specialità sono le più disparate: dal grasso di maiale a forma di piramide alla salamandra in via d’estinzione. Ma non riuscirai comunque a ordinarle, soprattutto fuori dal circuito delle grandi città, perché 1) il menu è in cinese 2) i camerieri parlano in cinese 3) la specialità del posto è sempre finita. Un’altra cosa che non puoi ordinare al ristorante è l’acqua in bottiglia. Se chiedi dell’acqua, ti portano dell’acqua bollente. Se gli chiedi acqua fredda non capiscono. Se gli mostri una foto di una bottiglia d’acqua iniziano a ridere.

Stesso discorso per i tovaglioli. Nove volte su dieci non ci sono, se ci sono si pagano a parte. A dire il vero no, una volta ce li hanno portati gratis: era un rotolo di carta igienica, proprio di fianco alla nostra zuppa. E stiamo parlando del popolo che ha inventato la carta. Del resto, i cinesi hanno inventato anche la bussola e Google Maps, in Cina, quando provi a tornare in hotel, ti indirizza verso il confine col Bhutan.

 

LA LINGUA. Che nessuno parli inglese è qualcosa a cui ci si può anche abituare in un paio di giorni. Il motivo per cui però tutti, anche quando hanno capito che di cinese non spiccichi una parola, insistano a intrattenerti con lunghissimi discorsi in mandarino guardandoti come si guarda un cane quando credi che ti capisca, invece, rimane avvolto da un fitto mistero. L’unico modo per comunicare con i locali sono le applicazioni di traduzione simultanea per telefonino. Il problema è che sono spesso macchinose, e non sempre precisissime. Una volta avevo chiesto indicazioni a un passante e la sua risposta, tradotta simultaneamente, era stata “sono un alieno con i gatti sulla ferrovia la stazione è esplosa”. Giuro.

 

LE APP. Con il traduttore i cinesi interagiscono con gli stranieri. Ma per interagire con altri cinesi esiste un intero universo di applicazioni, programmi, social network paralleli, misteriosi e affascinanti. Le app per pagare con il telefonino sono le più incredibili, e non tanto perché basta inquadrare una specie di codice a barre per pagare istantaneamente, ma piuttosto per le categorie di beni o servizi che puoi pagare in questo modo. Puoi comprare un gelato fatto da un robot, puoi noleggiare un motorino elettrico senza nemmeno bisogno di un cassiere, ma puoi anche comprare una banana da un venditore ambulante che le trasporta in bicicletta.

Sembra di essere nel futuro. Poi se provi a pagare con la carta di credito quasi quasi ti insultano, e allora ti senti nel presente, a casa, in fila alla stazione dei taxi di Roma Termini.

Il bikini pechinese. Quando fa caldo in Cina gli uomini si arrotolano la maglietta lasciando la pancia scoperta e girano per le città e i ristoranti con questo bizzarro look da odalischi buzzurri che, a quanto pare, è un’usanza molto radicata. Mi avevano spiegato che in molte città cinesi ci sono perfino ordinanze che vietano quello che viene chiamato “il bikini pechinese”, ma ho visto più panze maschili nude per strada in Cina che alla spiaggia di Viserbella a Ferragosto. Va detto che il bikini pechinese è comunque più elegante dell’accoppiata borsello/pinocchietto del maschio italico, quindi i maschi cinesi sono ufficialmente assolti.

I bagni. I bagni cinesi sono mediamente grandi quanto un box doccia: ne consegue che i box doccia nei bagni non c’entrano, per cui la doccia è un getto d’acqua che scende dal soffitto posizionato accanto al water. Senza tende, vetro, mura. Facendosi la doccia, sostanzialmente, si lava se stessi, il water, lo scopettone del cesso, il pavimento e il lavandino, dunque superato lo sconcerto iniziale, ho apprezzato l’ottimizzazione cinese di spazio e tempo. Credo che tornata in Italia monterò una doccia senza tenda in cucina e mentre mi lavo darò una botta pure a frutta e verdura.

Il comunismo. Se serve la prova definitiva che la Cina sia l’unico luogo al mondo in cui convivono splendidamente capitalismo e comunismo, segnalo che a Shanghai, la sede del primo congresso del partito comunista cinese è a 30 metri da Tiffany, da una serie di marchi di lusso e dalla sede locale della celebre pasticceria milanese Cova in cui un pasticcino costa come lo stipendio annuale di un operaio cinese. A Natale si dice sia previsto il panettone Cova da tagliare con la falce.

Le file. Ad agosto in Cina ci sono pochi stranieri ma molto turismo interno. Considerato che la popolazione cinese conta 1 miliardo e mezzo di abitanti, ciò vuol dire che la vera muraglia cinese non è quella di 8000 km inserita tra le sette meraviglie del mondo moderno, ma quella di un milione di km formata dalle folle oceaniche di turisti cinesi inserita tra i sette incubi del mondo moderno, assieme alla trippa verde fermentata e alla coalizione M5S-Pd.

Ho fatto file di ore per salire sulla Muraglia, per ammirare i guerrieri di terracotta, per vedere le montagne di Avatar, per i bagni, le biglietterie, i ristoranti, i pullman, le seggiovie, i taxi, le bici, i muli, i pedalò e i minipony. Se trovate qualche cinese in fila per il Reddito di cittadinanza, non lo guardate male. Non è uno straniero che vi vuole togliere il pane dai denti, è solo l’ultimo della coda in fila a Pechino per vedere la salma di Mao.

Silvia, due piste: in Somalia o Tanzania

Tolto il diritto di uscire dal carcere su cauzione per i tre accusati del rapimento di Silvia Romano, Abdulla Gababa Wario, Moses Lwali Chembe e Ibrahim Adhan Omar. Il primo era già dietro le sbarre (si fa per dire: il penitenziario di Malindi è un lager a cielo aperto che dovrebbe fare sciogliere le lingue più incollate).

La proposta di negare il beneficio del deposito di garanzia è stata avanzata durante l’udienza che si è tenuta al tribunale di Malindi ieri, dalla procuratrice Alice Mathangani e dall’investigatore della polizia di Malindi, Peter Muirithi, in ragione della pericolosità dei tre imputati. La sospensione della cauzione è stata temporaneamente accettata. I legali dei due imputati hanno presentato ricorso e così il 2 settembre si terrà un’ulteriore udienza per stabilire se sia corretta la decisione di negare la scarcerazione su deposito. Dovrebbe esserlo perché, tra l’altro, la procuratrice nelle sue richieste è stata ancora più pesante: ha proposto alla giudice, Julie Oseko, di cambiare anche il capo di imputazione per gli accusati, Moses, Gababa e Ibrahim: sequestro di persona per fini di terrorismo. Un’incriminazione per la quale il diritto alla cauzione non è contemplato. Il 2 settembre si dovrebbero decidere anche le date delle prossime udienze e su questo la giudice Oseko è stata durissima intimando agli avvocati: “Dovete arrivare con tutti i documenti pronti: voglio fare in fretta. Niente perdite di tempo”.

Non è estraneo alla decisione di togliere il diritto alla cauzione, il fatto che a pagarla per Ibrahim Adhan Omar sia stato Juma Seleiman Lomba, un oscuro sarto che vive nella foresta a oltre 300 chilometri da Malindi, nel villaggio di Makongeni, distretto di Kwale, nei pressi di Mombasa. Particolare che genera parecchi interrogativi. Per altro anche chi ha pagato la somma dell’equivalente di 25 mila euro per Mose Lwali Chembe sono un sedicente nonno, che dichiara di guadagnare 50 euro al mese, e un altrettanto sedicente zio (cento euro al mese).

Secondo fonti attendibili una forte pressione sulle decisioni della Corte di Malindi è stata esercitata anche dalle autorità italiane.

Le indagini sul sequestro di Silvia, coordinate dal sostituto procuratore di Roma, Sergio Colaiocco: quando a metà luglio gli investigatori kenioti sono giunti a Roma per colloqui con i loro colleghi italiani hanno raccontato che probabilmente la ragazza è stata portata in Somalia.

Se subito dopo il sequestro questa ipotesi era stata scartata, giacché troppo pericolosa per i sequestratori e per l’ostaggio, e perché le fonti più disparate sentite nell’ex colonia italiana (compresi gli investigatori della missione dell’Unione Africana) avevano negato la presenza della ragazza, ora prendono un minimo di consistenza. Infatti potrebbe essere stata trasferita in Somalia all’inizio della primavera. Ma è aperta un’altra pista: che Silvia sia stata portata in Tanzania. Un’ipotesi che è stata avanzata proprio dopo aver analizzato il documento che indica nel sarto di Makongeni, centro molto vicino ai confini con la Tanzania, l’uomo che ha pagato la cauzione per Ibrahim. Chi si è recato sul posto a cercare il signor Juma Seleiman Lomba per accertarne la presenza è rimasto senza riscontri: in quel villaggio di poche anime, nessuno lo conosce!

“Pronti a bloccare le strade se Boris ferma Westminster”

È fallito il primo tentativo di fermare per vie legali la sospensione del Parlamento imposta da Boris Johnson per cinque settimane, dal 10-12 settembre al 14 ottobre. A Edimburgo il magistrato Lord Doherty ha respinto il ricorso di 75 parlamentari britannici contro la controversa mossa del primo ministro: per il momento non vede basi legali per intervenire e si riserva la decisione finale dopo un’analisi più approfondita delle ragioni delle parti, martedì prossimo. Al secondo ricorso, quello dell’imprenditrice e attivista anti-Brexit Gina Miller, si è unito un peso massimo del partito conservatore, l’ex primo ministro John Major, fermamente contrario alla Brexit, e particolarmente sdegnato da quella che considera una violazione delle prerogative parlamentari: “Non intendo restare a guardare mentre vengono calpestate in questo modo. È assolutamente e decisamente il modo sbagliato di procedere”.

I giudici si pronunceranno il 5 settembre, a Parlamento in attività e a ridosso della sospensione. Infine, il caso irlandese: Raymond McCord, padre di una vittima delle violenze in Irlanda del Nord, all’Alta Corte di Belfast pone una questione delicata sia dal punto di vista legale che politico: un eventuale no deal, cioè l’uscita senza accordo con l’Ue su cui si sta giocando questa feroce partita politica, comprometterebbe i patti di pace del Venerdì Santo che hanno posto fino alle violenze in Ulster e potrebbe provocare il ritorno di quelle violenze. A questa prima azione legale ha aggiunto la richiesta, collegata, di impedire la sospensione parlamentare, che renderebbe ancora più difficile evitare il no deal. Anche in questo caso il verdetto è la prossima settimana, che diventa decisiva su tutti i fronti, con la riapertura di Westminster e solo pochi giorni rimasti ai parlamentari per riprendere il controllo della Brexit. In 50 si sono impegnati a continuare il dibattito sulla Brexit in una sede alternativa.

Il fronte bipartisan dei ribelli cresce: all’opposizione potrebbero unirsi fra i 20 e i 40 deputati Tories, disposti a votare contro il no deal e forse, ma è molto meno certo, contro il proprio esecutivo in un’eventuale mozione di sfiducia. A loro si è rivolto ieri Boris Johnson in una lunga intervista su Sky News: “Un accordo è possibile, ma in caso di insuccesso dobbiamo uscire comunque. Più i nostri amici e alleati si convincono che la Brexit possa essere fermata, meno probabile è che otteniamo l’accordo che ci serve”.

È una regola d’oro di ogni trattativa: se non sei davvero pronto a lasciare il tavolo non otterrai mai quello che vuoi. E sono diversi i commentatori ben informati che inquadrano così la decisione di raddoppiare gli incontri con i negoziatori europei: un bluff a beneficio della politica interna, non l’intenzione di ottenere davvero un accordo, visto che Londra non ha ancora avanzato uno straccio di proposta alternativa sul back-stop fra le due Irlande, ostacolo a un compromesso. Ma Johnson si è anche soffermato sul paradosso del pasticcio Brexit: se il Regno Unito non esce il 31 ottobre la conseguenza sarà un “danno permanente alla fiducia popolare nella politica e ai partiti conservatore e laburista”. Perché, fa notare, il Parlamento ha avuto tre anni per dibattere la questione e, malgrado le moltissime occasioni per scegliere una direzione, non è riuscito a trovare alcun consenso. È un tutti contro tutti, a Westminster e nel Paese. Previste oggi diverse manifestazioni del movimento Stopthecoup, che ormai sembra controllato da Momentum, l’ala di sinistra e corbynista del Labour, che promette di “bloccare le strade” se il governo bloccherà il Parlamento.

Confidenze ai reporter, Trump caccia l’assistente

Per alcuni era l’assistente personale, colei che meglio conosceva The Donald e le dinamiche della sua famiglia; per altri solo la “portiera” che filtrava i contatti con il presidente. Madeleine Westerhout, improvvisamente, ha perso tutti i privilegi, compreso lo stipendio di 140 mila dollari l’anno. Si è dimessa, ma come in altri casi di collaboratori del tycoon, è solo la versione più delicata: in realtà Westerhout è stata cacciata. La sua colpa: aver concesso troppi particolari sulla vita di Trump e della sua famiglia, durante una cena con i giornalisti nel New Jersey, senza specificare che ciò che diceva era off the record, non andava pubblicato.

Prima di entrare a far parte dell’Amministrazione Trump, Westerhout aveva lavorato come assistente del capo del comitato nazionale repubblicano, Katie Walsh. La sua è una storia di conversione perché – si narra – l’ex aiutante del Comitato Nazionale Repubblicano che aveva lavorato per la campagna presidenziale del 2012 di Mitt Romney, la notte che Trump vinse scoppiò in lacrime. Per questo il magnate la guardava come una di cui non ci si poteva fidare. Ma, racconta il New York Times, alcuni dei migliori funzionari del presidente come John F. Kelly – oggi anche lui non è più capo dello staff di The Donald – decise di farla diventare un filtro; era lei che doveva impedire a chi non era autorizzato di raggiungere il presidente al telefono o di persona. Dalle lacrime alla devozione il passo evidentemente è stato breve, tanto che Madeleine era stata fra i sei funzionari della Casa Bianca che avevano violato l’Hatch Act, una norma che limita alcune attività dei dipendenti federali nel tentativo di impedire che possano influenzare l’elettorato. Madeleine invece spediva via Twitter slogan promozionali come Make America Great Again. Westerhout, dicono a Washington, non aveva potere decisionale, ma aveva un punto di forza: la vicinanza al presidente. Ora per lei la Casa Bianca è sbarrata.

Cina, altro che libertà di stampa: la famiglia di Jinping non si tocca

Parenti serpenti, anche in Estremo Oriente: lo zio che ti tradisce; o il cugino che ti disonora. Il primo, il dittatore nordcoreano Kim lo fa sbranare dai cani. Il secondo, che sta in Australia, il presidente Xi non lo può toccare; e allora se la prende con i giornalisti che hanno lavato in pubblico i panni sporchi della sua famiglia.

La Cina non ha rinnovato l’accredito al corrispondente del Wall Street Journal che, a fine luglio, insieme a un collega australiano, aveva raccontato i magheggi e le disavventure finanziarie e giudiziarie di Ming Chai, cugino del presidente a vita cinese Xi Jinping. Ming è un giocatore d’azzardo d’alto bordo, sospettato di riciclaggio di denaro sporco in Australia. Il giornalista Chun Han Wong, cittadino di Singapore, era accreditato a Pechino per il Wall Street Journal dal 2014. Copriva la politica cinese dall’ufficio di corrispondenza di Pechino. Il suo accredito scadeva ieri e non gli è stato rinnovato, ufficialmente senza spiegazioni. Ma la stampa americana mette la decisione delle autorità cinesi in collegamento con l’articolo pubblicato il mese scorso su Ming. In Cina le vicende personali dei leader sono trattate con molta discrezione, almeno fino a quando non finiscono in disgrazia o non vengono trascinati in giudizio per corruzione.

Le autorità non hanno mai mostrato eccessivo rispetto per la libertà di stampa. La Cina talvolta nega o sospende visti e accrediti a organi di stampa internazionali per punirli di quella che il Partito Comunista al potere percepisce come una copertura sfavorevole. Anche se è raro che vengano colpite testate del rilievo mondiale del Wall Street Journal.

Wong era uno dei due autori dell’inchiesta con cui il 30 luglio il giornale, citando fonti delle indagini, aveva raccontato che le autorità australiane stanno vagliando le attività di Ming, cittadino australiano, nell’ambito di un’ampia indagine sul crimine organizzato e il riciclaggio di denaro. La polizia sta verificando il presunto uso da parte di Ming nel 2007 di quella che viene descritta come una società di copertura per il riciclaggio: società che avrebbe aiutato giocatori d’azzardo e presunti criminali a spostare fondi fuori e dentro l’Australia. Gli investigatori stanno inoltre cercando di capire l’origine dei soldi usati da Ming nelle sue scommesse al Crown Casino di Melbourne e le coperture delle sue spese nei resort di proprietà del magnate del gioco d’azzardo, James Packer.

Il caso del redattore del giornale americano non è certo sporadico; un precedente è quello avvenuto nel 2012 alla corrispondete di Al Jazeera, Melissa Chan, a causa di un documentario. Nel 1998 era accaduto al giapponese Yukihisa Nakatsu, dello Yomiuri Shimbun e al tedesco Juergen Kremb del settimanale Der Spiegel, entrambi accusati di aver avuto accesso a ‘segreti di Stato’. Le autorità cinesi poi non si fanno scrupoli nel limitare la libertà di informazione e di espressione dei loro cittadini, agendo su Internet e sui social e colpendo singoli individui. Tra le motivazioni del Nobel per la Pace nel 2010 all’attivista cinese Liù Xiaobo, scomparso nel 2017, c’era l’impegno come “forte portavoce della battaglia per la diffusione dei diritti umani”, questione insoluta e drammatica oggi come allora in Cina. Attivo nelle proteste di Piazza Tienanmen (1989), Liú ebbe una vita segnata dalla repressione delle autorità cinesi che, nel 1996, lo condannarono a una pena di tre anni da scontare nei laogai, il sistema dei campi di lavoro forzato denunciati dal Congresso statunitense (mozione 294/2005) ed in seguito dal Parlamento europeo e dal Bundestag tedesco, fino all’avvenuta abolizione nel 2013.

Nel 2015 fu arrestato l’attivista Quin Yongmin, riformista e promotore della democrazia liberale, alla guida di Human Rights Watch China, di recente condannato a 13 anni di reclusione. E le indagini 9 stanno portando all’arresto di intellettuali e attivisti impegnati sul web nella difesa dei diritti umani e civili, come Huang Qi (64tianwang.com), Liu Feiyue (Minsheng Guancha) e Zhen Jianghua (Network of Chinese Human Rights Defenders).