Ilaria: “Che fatica la verità”

“Non so ancora perché è morto mio fratello, resta un mistero. Ma so che ci sono voluti dieci anni per arrivare a sapere come è morto”.
Un pubblico commosso ha applaudito ieri Ilaria Cucchi e il suo avvocato, Fabio Anselmo, intervenuti alla Versiliana per raccontare una vicenda che, ancora oggi, ha dell’incredibile.
“Nel 2009 – ha raccontato la sorella – non avevo la minima idea che ci sarebbero voluti tutto questo tempo e tutta questa fatica. Io e la mia famiglia abbiamo pagato tanto, in termini di salute e di denaro, a causa di uno Stato che ha coperto se stesso. Ma rifarei tutto”.

Anselmo, che ha seguito anche i casi Aldrovandi, Uva, Bifolco, ha più volte sottolineato che purtroppo, nel nostro Paese, un giusto processo dipende dalle disponibilità economiche di chi lo affronta: “Ci insegnano che la giustizia
è uguale per tutti, ma non è così: arrivi in aula soltanto se puoi permettertelo”. Non è mancata qualche dichiarazione sui giudici, “che spesso portano avanti i processi velocemente per non incorrere nella prescrizione e non essere sanzionati (lo dico da avvocato)” e sulle forze dell’ordine “sane, che sono la grande maggioranza”. “Se la nostra vicenda è andata avanti è stato merito anche della stampa, che si
è schierata al nostro fianco e ha scavato come noi per cercare la verità”. L’8 novembre, in tribunale, si saprà se questa verità troverà la forma di una sentenza.

Landini e Greco sugli evasori: “200 miliardi nascosti”

Patrimoniale, revisione del Jobs Act, nuovo Statuto dei lavoratori ma soprattutto una grande e “seria” lotta all’evasione fiscale che dovrebbe diventare la “priorità del Paese”. Il governo giallo-rosa non è ancora nato ma sindacati e magistratura provano già a sussurrare all’orecchio del premier incaricato Giuseppe Conte dei consigli sull’agenda del prossimo esecutivo.

A farlo sono stati ieri alla festa del Fatto, il procuratore di Milano Francesco Greco e il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Intervistati da Gianni Barbacetto durante il dibattito “La Finanziaria pagata dai ladri”, sia Landini sia Greco hanno individuato nella lotta all’evasione fiscale il tema da mettere in cima all’agenda del prossimo governo. “L’evasione è la prima emergenza criminale di questo Paese – ha detto Greco, per anni a capo del pool di Milano sui reati tributari – perché ogni anno l’Italia ha un tax gap (la differenza tra le imposte incassate in teoria e in pratica, ndr) che oscilla tra i 110 e i 140 miliardi, ovvero quattro o cinque Finanziarie. Per questo la politica dovrebbe dare un segnale forte sulla lotta all’evasione fiscale. In Svizzera ci sono 200 miliardi di euro nelle cassette di sicurezza che si possono recuperare. Tutti italiani evasori”.

E perché non è stato fatto finora? “Negli ultimi anni abbiamo fatto grandi passi avanti – ha spiegato il procuratore di Milano –. Solo a Milano nel 2018 abbiamo recuperato 5,6 miliardi, abbiamo i migliori investigatori al mondo e gli strumenti tecnologici per recuperare i soldi ci sono, ma è la politica che non vuole agire perché gli evasori votano e condizionano chi ci governa”. Della stessa opinione è il segretario della Cgil, Maurizio Landini, che durante il dibattito ha spesso usato toni da comizio: “Non è più possibile che in Italia ci siano dei coglioni (soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati) che continuano a pagare le tasse per chi non le paga. E su questo tema tutti i governi di centrosinistra, centrodestra e gialloverde, non hanno dato grandi segnali approvando condoni di ogni tipo”. Oltre agli imprenditori, soprattutto del Nord, che per anni hanno nascosto i soldi nelle cassette di sicurezza in Svizzera, Greco mette nel mirino le grandi aziende della moda e dei big data (Google, Facebook e Apple): “Esiste un problema giuridico enorme rispetto a queste grandi imprese che fanno profitti in Italia ma pagano le tasse all’estero – ha continuato il procuratore di Milano – e poi che siano in torto si capisce da una prassi sempre più comune: quando apriamo le verifiche fiscali e il procedimento penale nei loro confronti, gli avvocati si presentano e pagano tutto e subito”.

Il pm di Milano però ha anche messo nel mirino i suoi colleghi magistrati che “per un problema culturale” ritengono i reati di evasione fiscale meno “dignitosi” di altri e così “molto spesso lasciano i fascicoli nei cassetti e poi questi inevitabilmente cadono in prescrizione”. Landini, che ha elogiato Conte per lo “stile istituzionale”, mette sul tavolo del premier quelle che dovranno essere le priorità del prossimo governo: un nuovo Statuto dei lavoratori che tuteli i precari e le partite Iva, la revisione totale del Jobs act con il ripristino dell’articolo 18, una patrimoniale (“è grave chiedere un contributo a quel 10% di italiani che possiede il 50% della ricchezza?”) e il salario minimo voluto dai 5 Stelle da inserire nei contratti nazionali. Una sponda inaspettata.

Un Raibaltone

“Se le opinioni sono imposte, le elezioni non possono essere libere”

(da La democrazia in trenta lezioni di Giovanni Sartori – Mondadori, 2008)

 

Ha ancora l’impudenza di denunciare un “ribaltone”, l’ex vicepremier Matteo Salvini, dopo aver tradito la coalizione di centrodestra con cui s’era presentato alle elezioni; fatto e disfatto un’alleanza innaturale con il M5S; e infine messo in crisi il governo Conte con una mozione parlamentare di sfiducia, proponendo in extremis la riesumazione della maggioranza gialloverde e vagheggiando un presunto “complotto internazionale” contro di lui. Un esercizio di acrobazia ad alto rischio, al limite del masochismo politico o addirittura del cupio dissolvi: tant’è che un sondaggio Ipsos registra già un crollo di fiducia nel capo della Lega (-15%).

E allora, per usare un calembour, diciamo pure che adesso occorrerebbe un “RAIbaltone” per rifondare la radiotelevisione pubblica, liberandola dall’occupazione e dall’ideologia sovranista. Se c’è una “discontinuità” preliminare che il futuro “governo di svolta” giallorosso potrebbe realizzare, ammesso che poi alla fine nasca, è proprio quella di azzerare i vertici della Rai in modo da garantire il pluralismo dell’informazione. Si tratta di un’opportunità da non perdere per i due partner principali della nuova eventuale maggioranza, il Movimento 5 Stelle e il Pd, che in tempi recenti e meno recenti hanno sempre predicato (bene) sulla necessità di affrancare l’azienda dalla sudditanza alla partitocrazia e razzolato (male) sulla sua lottizzazione.

Non a caso, l’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni, proprio alla vigilia della scadenza del suo mandato, ha deciso di avviare un’istruttoria contro la Rai per violazione del pluralismo, con la minaccia di una sanzione pari al 3% del fatturato (72 milioni di euro). In base all’articolo 48 del Testo unico dei servizi audiovisivi e radiofonici (Tusmar), l’Agcom ha contestato all’azienda di non rispettare “i canoni di equilibrio, completezza, obiettività, imparzialità, indipendenza e apertura alle diverse formazioni politiche e sociali”, richiamando il servizio pubblico all’obbligo istituzionale di “assicurare un contraddittorio adeguato, effettivo e leale” per soddisfare il diritto dei cittadini a una corretta informazione e alla formazione di una propria opinione. Ora l’Authority è in prorogatio fino al 26 settembre e spetterà quindi al nuovo collegio decidere sugli sviluppi dell’istruttoria.

Nel frattempo, anche all’interno della Commissione parlamentare di Vigilanza – presieduta da Alberto Barachini, senatore di Forza Italia ed ex giornalista di Mediaset – dovrebbe cambiare lo schieramento di maggioranza e al precedente asse M5S-Lega potrebbe sostituirsi l’alleanza demo-pentastellata. Sarebbe l’occasione per riaprire il caso del presidente della Rai, Marcello Foa, bocciato una prima volta dalla stessa Commissione e poi eletto in una successiva votazione, su cui pende però la richiesta di una verifica delle schede avanzata dal deputato dem Michele Anzaldi. Finora la presidenza del Senato s’è opposta a questa istanza, ma adesso la nuova maggioranza parlamentare potrebbe farla propria e riproporla con più forza.

Sappiamo bene che la maggior parte dell’opinione pubblica italiana, come documentano le rilevazioni statistiche, si forma prevalentemente attraverso l’informazione della Rai. Se questa non è indipendente, equilibrata e imparziale, ne deriva che il servizio pubblico diventa un disservizio, alterando il confronto politico e la raccolta del consenso. Alle prossime elezioni, dunque, sarebbe bene arrivare con una Rai riformata, di garanzia, liberata finalmente dalla partitocrazia e dalla lottizzazione.

Dieci argomenti per Di Maio vicepremier

Adesso sotto attacco è Luigi Di Maio. Caduto il veto su Conte arriva quello sul vicepremier: la chiamano discontinuità, è solo vecchia politica. Discontinuità è parola abusata, la si usava spesso nella Prima Repubblica per far fuori qualcuno, anche bravo, e mascherare il veto come esigenza politica. Questioni di potere. Si capiva, e sappiamo come andò a finire. Oggi, in un altro contesto, nel mirino c’è Di Maio. In verità subisce attacchi da sempre: l’hanno definito inadeguato, ignorante, arrogante, incompetente, eccetera. Non è così. Ha fatto molto per il Movimento e gli va riconosciuto. Non so se l’invito di Grillo a individuare i ministri “nel mondo della competenza, al di fuori della politica” significhi un alt a Di Maio. Se così fosse dissento per una volta da Beppe, di cui ho grande stima: insomma, ecco dieci “Sì” per Di Maio vicepremier nel nuovo governo.

1. Sì, perché voleva vararlo 15 mesi fa il governo giallorosso.

2. Perché ha realizzato il Reddito di cittadinanza in un contesto (governo con Salvini) in cui non era facile.

3. Perché sbagliò, certo, dicendo “abbiamo abolito la povertà” ma ha mostrato a tutti – attraverso l’errore – il pathos, la passione per un principio costituzionale: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…”.

4. Perché ha guidato il Movimento oltre il tabù del “No” alle alleanze.

5. Perché nonostante lo definiscano inadeguato, è vero il contrario: nelle interviste, nei dibattiti, nelle conferenze stampa, in tv, nei convegni, al governo, ha mostrato competenza e sicurezza.

6. Perché ha guidato i 5Stelle verso uno storico traguardo: primo partito del Parlamento e ago della bilancia, capace di portar avanti i propri temi con la destra (finché è stato possibile) e con la sinistra, ora che è rinsavita: “Questo è il nostro programma e lo realizziamo con chi ci sta”. È quel che sta accadendo. Se col Pd, ora, sarà più facile tradurre in leggi i temi “di sinistra” dei pentastellati, perché lasciar fuori dal governo colui che ha lavorato di più (e meglio) in questa direzione?

7. Perché il decreto Dignità, il taglio dei parlamentari, la lotta per il salario minimo, per la difesa dei lavoratori, per salvare la Pernigotti, per i contratti stabili, eccetera, sono battaglie importanti – non tutte concluse, certo – che l’hanno visto protagonista.

8. Perché ha voluto il Conte 2; e per la seconda volta ha fatto un passo indietro, rinunciando alla possibilità – offertagli da Salvini – di fare il premier. Con quale logica, adesso, gli si nega anche il ruolo di vicepremier?

9. Perché nel “caso Diciotti” ha difeso responsabilmente (come il premier Conte) una scelta difficile e collegiale, salvando il governo da una crisi che avrebbe fatto saltare – non lo si dimentichi –importanti riforme in dirittura d’arrivo.

10. Infine. Sì a Di Maio vicepremier perché la storia di Conte organico ai 5Stelle non regge: è molto apprezzato, è vero, ma non è iscritto né tantomeno organico al Movimento: l’ha dimostrato col Tav, tema-bandiera dei pentastellati. Qualcuno ha dimenticato che è stata la posizione di Conte a facilitare la sconfitta, in Parlamento, dei grillini sul treno ad alta velocità?

Ecco: per queste e altre ragioni la presenza di Luigi Di Maio nel governo giallorosso è garanzia che la politica non cede il posto alla tecnica. Non del tutto. L’interessato giustamente dice che non contano le persone ma il programma. Giusto. Ma il programma è realizzato dalle persone e se hanno una visione politica è meglio. Non c’entra la “poltronofilia”: è che Di Maio ha mostrato testa e cuore e non può essere rottamato sull’altare dell’esigenze dem e dei competenti. Altrimenti davvero, caro Beppe, tanto vale chiamare Monti e altri tecnici e chiedere scusa di tutto quel che abbiamo detto di loro.

È tempo di un nuovo umanesimo green

Di “nuovo umanesimo” Giuseppe Conte aveva già parlato al momento di farsi conoscere dalla politica italiana. Il suo riferimento al termine, ribadito nel discorso pronunciato appena dopo aver ricevuto l’incarico, ha caricato l’espressione di nuovo significato, perché in un’alleanza a sinistra e con l’obiettivo della “novità” attorno alla centralità della figura umana si giocano molte attese. Diciamolo in termini espliciti: nuovo umanesimo significherà la fine dell’austerità? Il punto centrale è proprio questo e anche la rivendicazione di “discontinuità” avanzata da Nicola Zingaretti ha senso se si colloca a questo livello.

Se un fallimento importante si è avuto nel governo gialloverde, esso ha riguardato l’incapacità di ribaltare sul serio le politiche rigoriste che ci portiamo dietro da almeno venti anni e che hanno segnato a fondo l’Italia più dell’Europa. Le misure sociali, in particolare Reddito di cittadinanza e Quota 100, che sono state giuste, hanno rappresentato un timido palliativo di fronte alla durezza della stagnazione dei salari, che dura da 25 anni o della disoccupazione strutturale. È chiaro a tutti, e da tempo, che occorre molto di più e che la “svolta” auspicata passa per la fine dell’impostazione rigorista. Lo avevano chiesto i greci ad Alexis Tsipras e proprio la difficoltà di realizzare quella domanda ha fatto fallire la prova di governo della sinistra greca. Lo hanno chiesto gli spagnoli al Psoe e a Podemos che, a quanto pare, sono in stallo nella capacità di provarci. E lo hanno chiesto gli elettori che hanno premiato le scelte “sovraniste”, financo la Brexit, additata come un male incurabile senza invece guardare dentro le scelte fatte da una ampia fetta di popolo e di lavoratori che, traditi dalla sinistra blairiana, non hanno saputo fare altro che impugnare la bandiera nazionalista. Lo hanno chiesto gli italiani anche nel marzo del 2018, premiando come non mai il M5S che delle politiche antieuropee è stato un paladino. La questione è sul tavolo da tempo, le risposte, invece, latitano costantemente. Intanto però, la situazione economica internazionale non promette nulla di buono. Nello scontro permanente sulle politiche valutarie a livello mondiale e nella rinnovata centralità delle Banche centrali – la Fed attaccata da Donald Trump e la Bce che deve digerire il ricambio tra Mario Draghi e Christine Lagarde – si gioca in realtà l’imminente nuova recessione o comunque la perdurante stagnazione – “secolare” secondo Larry Summers, ex Segretario del Tesoro Usa – dell’economia reale. Che, senza possibilità di superare al proprio interno la crisi di sovrapproduzione che la agita da decenni, ricorre alla moneta per rinviare quanto più possibile la resa dei conti.

Qualcuno in questi giorni ha posto al nuovo governo Conte un problema di fondo che vale la pena richiamare: quale impostazione di fondo vuole avere, quale modello di politica economica e di società vuole richiamare per uscire da una situazione di crisi? La scommessa dello scontro con la destra agitata da Matteo Salvini si gioca su questo punto. Riproporre semplicemente il già visto, con un balletto di riforme di facciata che non alterano la sostanza delle cose, oppure agire in profondità? La prima soluzione è stata tentata proprio da Tsipras in Grecia e non a caso Jean-Claude Juncker ha voluto richiamare la similitudine tra l’evoluzione avuta da Giuseppe Conte e quella del leader della sinistra greca, entrambi folgorati sulla strada di Bruxelles. Se si agisse in questa direzione, il destino sarebbe segnato: alle prossime elezioni Matteo Salvini sbancherebbe.

Un’altra strada, invece, sarebbe necessaria e, alla luce della stagnazione e della fatica del capitalismo attuale di realizzare il valore prodotto, non può che passare per un nuovo protagonismo dello Stato, nazionale ed europeo. Negli Stati Uniti la partita delle primarie democratiche ruota attorno a questo e quando si invoca il Green New Deal, cioè un nuovo New Deal di stampo rooseveltiano, ma basato sull’emergenza ecologica, si rimanda a questo. L’economia ha bisogno di una svolta strutturale e solo un intervento pubblico, ecologico e sociale, può cercare di frenare la tendenza alla stagnazione e alla recessione.

L’alleanza tra Pd e M5S, per quanto anomala e fragile, apre una contraddizione nello schema europeo: per la prima volta si alleano una forza dell’establishment e una “anti-sistema”. È una anomalia su scala continentale che sarà destinata a influenzare il dibattito pubblico. L’esito di questa alleanza potrebbe essere la “istituzionalizzazione” dei 5Stelle come in molti sperano. Ma in tal caso, oltre alla morte di un movimento politico anomalo, non lascerebbe nulla di nuovo sul campo. Se invece l’alleanza producesse quella svolta sociale ed ecologica di cui c’è bisogno, allora sarà stata utile. E il “nuovo umanesimo” si riempirebbe di sostanza.

Mail box

 

Tanti auguri al “Fatto” per i suoi primi 10 anni di vita

Gentilissimo direttore Travaglio, voglio esprimerle i più calorosi auguri per i 10 anni del Fatto Quotidiano! È il mio quotidiano preferito perché non ha padroni e ci informa veramente. In questi anni è sempre migliorato e credo che continuerà a farlo. 1.000.000.000 di questi giorni e grazie di esserci.

Raffaella Brignoli

 

Quanta gioia (e tristezza) nel rito della campanella

Questa volta – se il professor Giuseppe Conte riuscirà a condurre in porto il governo che è stato incaricato di formare – il rito del passaggio della campanella non potrà essere celebrato, essendo il presidente uscente e quello entrante un’unica persona. Ciò (per quel che mi risulta) infonde tristezza e gioia nella generalità dei cittadini. Tristezza perché non si vedrà la campanella, che è il simbolo più popolare della stanza dei bottoni. Gioia, perché non ci sarà un presidente uscente costretto a un ruolo di cui è il caso di non parlare… A proposito di presidenti uscenti, Giuseppe Pella (uno dei professori che scrissero la Costituzione e ministro più volte) alla fine del governo monocolore che aveva presieduto non consegnò campanelle e, semplicemente, uscì da Palazzo Chigi, salì sull’autobus di linea e tornò in santa pace a casa.

Marcello Valente

 

Conte piace per il linguaggio schietto. Altro che il politichese

Nell’era in cui la comunicazione sembra contare più dei fatti e in cui il consenso è cercato nelle spiagge con slogan tanto corti quanto fasulli, Conte ha riabilitato un bisogno vecchio che, proprio perché non più usato, sembra nuovo: il linguaggio della cruda verità e dei fatti. Nella reprimenda a Salvini, ma anche ai 5 Stelle è stato netto e chiaro, rifiutando il politichese che, purtroppo, è diventato cifra per nulla distintiva anche di Di Maio e dei 5S istituzionalizzati (l’unico che continua a parlar chiaro e senza ambiguità nel Movimento è Di Battista). Il discorso di Conte, come ogni suo intervento, piace perché suona di verità: niente giri di parole; pane al pane, vino al vino. Per questo ci si fida: si pensa che se, ad esempio, il Pd vorrà fingere ancora una volta di combattere la grande evasione per poi cercare le trappole per non farlo, Conte li smaschererà con franca determinazione. È la verità, la franchezza del lessico e dei gesti di Conte che tanti italiani hanno percepito e la cosa, dopo tanti falsi politici con il loro parlare arcano e nascosto per non rivelare i reali intenti, piace.

Barbara Cinel

 

Beni culturali, mali centenari: la riforma è confusa

Vorrei esprimere il mio totale consenso all’analisi della situazione dei Beni culturali ribadita da Salvatore Settis con estrema chiarezza. Rispetto al tanto vituperato passato (quello che ha permesso all’Italia di essere un Paese di avanguardia nella tutela del patrimonio archeologico e storico artistico) le sostanziali riforme si possono dividere in tre gruppi. Se l’autonomia dei grandi musei è accettabile – e se si può, al limite, discutere sui pretesi vantaggi dell’unificazione delle soprintendenze –, il vulnus più grave da sanare subito è quello del polo museale: un vero assurdo. Al polo museale che dispone degli strumenti per la tutela viene chiesto di valorizzare ciò che ha, mentre alle soprintendenze viene mantenuto il compito di occuparsi della tutela, ma gli strumenti per la salvaguardia del patrimonio sono sotto il controllo del polo museale. A tutto danno della tutela.

Emanuele Greco

 

Lo scivolone di Zingaretti sul congiuntivo

Nicola Zingaretti, segretario del Pd: “Noi vogliamo un governo che rimette i soldi nelle tasche degli italiani”. Il congiuntivo saltato? I primi frutti della collaborazione con Gigino Di Maio, M5S.

Pietro Mancini

 

Migranti: vanno subito aboliti i disumani decreti Sicurezza

Per il Conte2, il pericolo viene dal mare. Se è necessario smantellare i decreti Sicurezza e tutta la disumanità che contengono, occorre anche evitare di ritornare al caos degli sbarchi incontrollati. Che darebbero a Salvini e compagni, anzi camerati, argomenti formidabili di speculazione politica, amplificati dalla collocazione all’opposizione. La riapertura dei porti andrebbe abbinata a una fortissima iniziativa governativa nei confronti dell’Europa, per la modifica del Regolamento di Dublino, con la priorità di realizzare un criterio automatico di ripartizione dei migranti salvati, in base a clausole vincolanti, superando il principio di volontarietà che non ha funzionato. Inoltre, si dovrebbero avviare corridoi umanitari sperimentali (chiedere a Valdesi e Sant’Egidio) e misure innovative di cooperazione. Le ricette per una mitigazione del fenomeno emigratorio ci sono e sono note. Discontinuità significa finalmente metterle in atto in un programma integrato. Per far capire che esistono metodi più dignitosi e intelligenti di contenere i flussi di quello “disumanitario” dei lager libici, dell’affogamento dissuasivo o della reclusione di persone già esauste e torturate in mezzo al mare finché non finisce l’asta dei collocamenti.

Massimo Marnetto

L’Italia non è un Paese per ciclisti: siamo maglia nera per incidenti stradali

Buongiorno, ho letto distrattamente in Internet che è stato investito un altro ciclista, Gabriele Amati, l’ennesimo, mentre si allenava su strada in provincia di Lecco. Per fortuna le sue condizioni di salute non sono così gravi, come nel caso di Pozzovivo. Ma sono loro gli spericolati o è proprio un Paese di autisti irresponsabili?

Ennio Valli

Gentile Ennio, questo non è un Paese per ciclisti. È un Paese, per esempio, dove i politici promettono investimenti. E infatti gli unici investimenti che non conoscono crisi sono quelli dei ciclisti. Mica quelli per le piste ciclabili: appena 18 mila km. Spesso, segnalate da velleitarie strisce che non impediscono a moto e auto di invaderle. Parliamo tanto di ecologia: la bicicletta ne è un emblema. Ma non facciamo nulla per favorire la sicurezza di chi la usa. Eppure non inquina, non fa rumore (salvo il drin drin del campanello), aiuta a smaltire calorie e tossine, non la vedi mai piazzata in seconda fila. Chi guida dovrebbe rispettare i ciclisti, coi pedoni i più fragili utenti del traffico. Invece, al volante, si trasforma nel loro predatore. Che siano campioni o normali pedalatori della domenica. Michele Scarponi, vincitore del Giro 2011, è stato travolto nel 2017 dal furgone di un compaesano. Il giudice Marcello Musso, apprezzato magistrato antimafia a Palermo, indagatore della ’ndrangheta in Lombardia, buon ciclista, è stato travolto da un’auto il 16 agosto scorso a pochi metri dalla casa della madre, sulla strada tra Costigliole d’Asti e Agliano. Aveva 67 anni. Rosario Costa, pupillo di Nibali, 14 anni, era una promessa del ciclismo: travolto in allenamento nel 2016.

Noi sappiamo tanto dell’epopea di Bartali, Coppi, Gimondi. Ma non sappiamo nulla dei rischi quotidiani che affrontano in Italia milioni e milioni di ciclisti. I quali si battono non solo contro automobilisti privi di scrupoli o distratti dallo smartphone. Ma si trova a dover affrontare strade dissestate, buche selvagge. Un mix tremendo. L’Italia, non a caso, è maglia nera in tema di mobilità a due ruote. L’apice l’abbiamo toccato nel 2016: 338 ciclisti ammazzati. Uno ogni 26 ore. Nel 2017, lieve calo: 254 morti, ma 17521 incidenti. Nel 2018, ecatombe di bimbi: 48 vittime. Al contrario, non risultano ciclisti killer. Il che non esclude che qualche maleducato al manubrio ci sia e pedali spericolatamente. Anche sui marciapiedi. Dove molti, tuttavia, lo fanno per salvarsi.

Leonardo Coen

“Reddito e dl Dignità funzionano: il governo M5S-Pd non li cancelli”

Pasquale Tridico, economista, è oggi presidente dell’Inps dopo essere stato consulente di Luigi Di Maio al ministero del Lavoro: in questi giorni potrebbe ritrovarsi a lavorare con un nuovo governo.

L’esecutivo sta nascendo da una trattativa tra Pd e M5S: i dem hanno duramente criticato il Reddito di cittadinanza e il decreto Dignità. Teme che queste due misure saranno messe in discussione?

Sarebbe un errore. L’economista Marco Leonardi, ex consigliere di Gentiloni, ha spiegato di recente che ‘sulle politiche del lavoro non c’è dubbio che il M5S ha maggiori affinità col Pd che con la Lega’. Sono d’accordo. Una misura di contrasto della povertà era presente nei programmi elettorali di entrambi e il Pd ha promosso il Rei, che ha un impatto economico molto inferiore al Reddito di cittadinanza e senza politiche attive del lavoro, ma andava nella stessa direzione. Non andrebbe modificato questo assetto che ha richiesto notevoli sforzi e produrrà un incremento di reddito, occupazione e consumi. Quanto al decreto Dignità, il problema di ridurre la durata dei contratti a termine era stato già sollevato nella scorsa legislatura da diversi esponenti del Pd.

Sono passati 5 mesi dall’avvio del Reddito di cittadinanza: 950 mila nuclei familiari, circa 2,5 milioni di persone, hanno visto accolta la domanda, ma i poveri assoluti secondo Istat sono 5 milioni. Perché questa distanza?

Nella relazione tecnica i nuclei interessati erano 1,2 milioni, 950 mila in mesi è un ottimo risultato e salirà ancora. Va considerata anche la differenza tra i redditi dichiarati e quelli percepiti realmente: si dichiara meno per evitare tasse e questo incide anche sulle stime della povertà. Le rilevazioni Istat, poi, sono basate sulla spesa per area geografica e tipologia di comune e non sono comparabili con la platea dei potenziali beneficiari del Rdc. Detto questo, nel 2019 ci attendiamo un forte calo dei poveri assoluti.

Una domanda su 4 è stata respinta, una cifra elevata. La critica, da sinistra, è di aver trasformato una misura anti-povertà in un sussidio di disoccupazione con troppi paletti, che escludono anche molti stranieri.

Anche il Rei aveva diversi ‘paletti’ e più stringenti. Si possono ridurre i requisiti economici, ma servono più soldi. Si possono migliorare anche gli aspetti legati all’Isee, che guarda ai redditi passati, poco al presente e per niente al futuro. Il Reddito di cittadinanza non è però un sussidio di disoccupazione: è un reddito minimo, dove i beneficiari possono essere anche lavoratori. Per quanto riguarda gli stranieri, si è deciso di obbligare quelli non comunitari a produrre una complessa documentazione su reddito e patrimonio: da aprile, l’Inps ha sospeso l’esame di tutte le domande presentate da non comunitari, perché manca il decreto ministeriale che fissa i criteri per l’esonero. Credo, comunque, che la posizione degli stranieri regolarmente soggiornanti debba essere equiparata a quella dei cittadini comunitari: la decisione spetta alla politica, ma è un orientamento suggerito dalla Corte di Giustizia europea.

Un percettore su 4 è considerato idoneo al lavoro, ma le politiche attive non sono ancora partite, lo faranno forse a settembre: in ritardo e con le banche dati che non dialogano fra loro…

Le politiche attive del lavoro sono di competenza delle Regioni e di Anpal, non spetta all’Inps intervenire. Le risorse stanziate però sono ingenti, è una grande occasione da sfruttare.

Perché alcuni percettori lo stanno restituendo?

Le rinunce sono appena un migliaio, lo 0,1%, al momento il fenomeno è molto marginale. Non è, peraltro, da escludere che sia legato alla volontà di non assumere gli obblighi imposti ai percettori o che non si vogliano far emergere situazioni di lavoro nero.

L’Inps ha passato alla Gdf 600 mila nominativi per i controlli. Su 4500 effettuati finora quasi 3 mila sono risultati irregolari. La Lega ha parlato di una quota del 70%, è corretto?

Non è corretto. Tutte le posizioni potenzialmente potranno essere verificate, ma solitamente la Finanza agisce su segnalazioni o indici di anomalia. Per come i casi da controllare sono selezionati è possibile raggiungere elevate percentuali di irregolarità, ma questo è fisiologico: dimostra la bontà dei sistemi di controllo e dei campioni selezionati, ma non dice assolutamente nulla sulle irregolarità rispetto al totale dei beneficiari.

Il decreto Dignità, a cui ha lavorato prima di approdare all’Inps, ha centrato i suoi obiettivi?

Dire di sì: i dati Inps indicano un incremento del 62% delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato rispetto al 2018. E i dati pubblicati ieri dall’Inps evidenziano un vero boom di rapporti a tempo indeterminato negli ultimi 6 mesi.

Finora solo 164 mila domande per Quota 100 e solo un’uscita su tre viene rimpiazzata nel privato. La misura è stata fortemente voluta dalla Lega, il nuovo governo potrebbe abolirla?

Intanto nel settore pubblico c’è un rimpiazzo al 100% e questo permette di svecchiare la P.A., che ha superato l’età media di 50 anni. Il privato, invece, sconta la congiuntura sfavorevole. Nel 2019, Quota 100 ha avuto un tiraggio di circa il 50%, con un risparmio di 1,5 miliardi sul 2019 e 3 stimati nel 2020. Si interromperà da sola fra 3 anni: è una opzione e in quanto tale va lasciata. Tra 3 anni si porrà il problema di rivedere il sistema per garantire soprattutto a chi ha avuto o ha carriere instabili, una pensione adeguata dopo un numero congruo di anni, che potrebbe essere 41.

Il Pd può convergere sulla proposta di salario minimo dei 5 Stelle? Su cos’altro possono convergere?

Penso di sì, pure nel programma del Pd c’era una proposta di salario minimo. È un argine contro lo sfruttamento e la disuguaglianza. Prima bastava la contrattazione a garantire salari adeguati. Oggi molti fenomeni – dalla globalizzazione alla ‘aziendalizzazione dei contratti’ – l’hanno resa spesso uno strumento di concorrenza sleale e non un vincolo allo sfruttamento e alla deflazione salariale.

Sul Fatto l’economista Sergio Cesaratto ha auspicato che la politica economica del nuovo governo non sia all’insegna dell’austerità. È d’accordo?

Sono d’accordo. La politica monetaria espansiva evita il baratro ma non determina crescita, l’abbiamo visto con il Quantitative easing. La politica monetaria è ‘ancella’ della politica fiscale e degli investimenti pubblici. Le politiche deflative degli ultimi due-tre decenni hanno creato disuguaglianza, salari stagnanti e una spesa pubblica troppo contenuta. Questa tendenza può e deve essere invertita con una politica economica coraggiosa.

Calcinacci e ferri arrugginiti: l’allarme viadotti

Non solo il ponte Morandi, la fotografia della cattiva manutenzione da parte di Autostrade si allarga e non poco. La Procura di Genova, che indaga sulla tragedia del 14 agosto 2018, ha inviato al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) una serie di segnalazioni su alcuni viadotti che, secondo i periti, necessitano di una manutenzione straordinaria.

I documentisono stati messi a punto dalla Procura dopo le perquisizioni fatte a gennaio negli uffici di Autostrade (Aspi) e in Spea, altra società controllata da Autostrade. In tutto, sono una decina i viadotti “da curare”. Solo in Liguria le infrastrutture individuate sono sei. I magistrati citano, in particolare, il Bisagno costruito sull’omonimo torrente. Oltre a questo ci sono il Pecetti e il Gargassa sulla A26 Genova-Gravellona Toce, il Sei Luci, costruito nei pressi del Morandi. A completare l’elenco, il Veilino e il Teiro che sorge all’interno dell’abitato di Varazze e la cui costruzione risale al 1967 come lo stesso Morandi. Proprio riguardo al Teiro, recentemente i cittadini hanno segnalato la caduta di calcinacci. Gli altri ponti sotto indagine si trovano nelle altre regioni. Fra questi: il Paolillo sulla A-16 Napoli-Canosa; il Moro sulla A-14 Bologna-Bari, in territorio di Ortona; il Sarno sulla A-30. Le note singole inviate al Mit, come detto, prendono spunto anche dalle perquisizioni del gennaio scorso che hanno aperto un secondo fronte d’indagine, rispetto a quello relativo al crollo del Morandi che ha provocato 43 morti. Questo secondo filone di inchiesta nasce dopo gli interrogatori di testimoni durante le indagini sul crollo. In particolare, i tecnici di Spea avevano raccontato agli inquirenti che i report “talvolta erano stati cambiati” dopo le riunioni. Da qui è stata provata, secondo Procura e investigatori, una sistematica falsificazione dei report sullo stato di salute dei viadotti in tutta Italia, con relazioni “edulcorate” e decise a tavolino. Le perquisizioni di gennaio avevano fatto così finire nel mirino dei finanzieri del Primo gruppo, agli ordini del colonnello Ivan Bixio, già cinque viadotti: il Sei Luci e il Pecetti in Liguria, il Gargassa a Rossiglione, il Paolillo sulla Napoli-Canosa e il Moro vicino Pescara. A gennaio però si decise di non mettere sotto sequestro le strutture, ma di procedere con le perizie. Poi finite sul tavolo del Mit, come ha anticipato ieri l’edizione genovese di Repubblica.

Secondo quanto riportato, i sopralluoghi avrebbero accertato, in particolare per il ponte sul Bisagno, ferri arrugginiti e scoperti e soprattutto carenze sulle solette. Per quanto riguarda i viadotti Gargassa, Pecetti (A26), Moro (A14), Paolillo (A16), Sarno (A30), oggetto di indagine da parte della Procura, Autostrade per l’Italia ha spiegato che “ha già inviato il 4 dicembre 2018 al Mit un report contenente il dettaglio degli interventi manutentivi già realizzati o in corso, nonché delle verifiche effettuate”. In nessun caso, scrive Aspi “è stato riscontrato alcun problema riguardante la sicurezza di tali opere che, peraltro, sono state oggetto di verifica anche da parte dei competenti uffici ispettivi del Mit”. Per Bisagno e Veilino, “i controlli hanno confermato l’efficienza statica e funzionale. Sui due viadotti sono previsti interventi di manutenzione conservativa, che la Direzione di Tronco di Genova svolge con regolarità”.

Da revoca a rinegoziazione: la parabola delle concessioni

È “rinegoziazione” la parola magica che sta entrando nel vocabolario del governo nascente a proposito di concessioni autostradali e, in particolare, per la più importante di tutte: Autostrade Spa della holding Atlantia, gruppo Benetton, oltre 3 mila chilometri di asfalto, più di metà di tutta la rete nazionale. Rinegoziazione sta prendendo il posto del termine “revoca”, vocabolo usato dall’esecutivo dimissionario, soprattutto dai 5 Stelle: il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli e il vicepremier Luigi Di Maio. È al concetto di rinegoziazione che si ispira la parte sulle infrastrutture del documento programmatico di governo concordato da 5Stelle e Pd e assunto dal premier incaricato, Giuseppe Conte: “Le nostre infrastrutture sono beni pubblici ed è per questo che va riavviata la revisione delle concessioni autostradali che garantisca maggiori investimenti, manutenzioni, tutele degli utenti e che rafforzi il sistema di vigilanza in ordine alla sicurezza infrastrutturale”.

Sono poche righe, scontate solo a una lettura frettolosa, perché in realtà si tratta di una piccola rivoluzione copernicana sia nei confronti dell’approccio abolizionista tout court del governo caduto, sia rispetto all’atteggiamento genuflesso tenuto da tutti i governi precedenti, quando avevano a che fare con il molto potente e convincente gigante autostradale Benetton. Il proposito che si debbano “revisionare”, cioè rinegoziare, le concessioni partendo dal presupposto che le infrastrutture interessate sono beni pubblici equivale implicitamente a dire che le concessioni pattuite fino ad oggi non tenevano conto di questa elementare verità, ma furono concordate a parti invertite: lo Stato concedente del bene con il cappello in mano e i Benetton e gli altri concessionari a dettare le regole come se le autostrade fossero di loro proprietà.

L’obiettivo della revoca della concessione ad Autostrade dopo il crollo del ponte di Genova perseguito dai 5Stelle scaturiva dalla volontà di far giustizia di fronte a una tragedia immane, ma dopo un anno è ancora al palo, bloccato da mille impedimenti. Il più evidente dei quali è di natura legale: la revoca sarebbe possibile di fronte a una provata inadempienza del concessionario. Secondo i 5Stelle il crollo del ponte ne è la prova tragica e anche se nella sostanza ciò è vero, per procedere alla revoca sarebbe necessario il pronunciamento definitivo della magistratura che è invece di là da venire. Inoltre la concessione è studiata in modo da garantire al concessionario Benetton un indennizzo stellare 20 miliardi di euro. In attesa del pronunciamento della magistratura, la rinegoziazione dovrà riguardare il futuro della concessione e, in particolare, la parte succosa di essa, gli 8 miliardi di euro di investimenti che i Benetton devono effettuare: 4,3 miliardi per la Gronda di Genova e il resto con interventi minori su tutta la rete, soprattutto con la realizzazione di terze e quarte corsie.

Da questo punto di vista, rinegoziare significa cancellare le decisioni assunte dal predecessore di Toninelli, Graziano Delrio, che in cambio degli investimenti regalava ai Benetton l’allungamento di 4 anni della concessione (dal 2038 al 2042), un valore di subentro di 6 miliardi di euro e una remunerazione degli investimenti fuori mercato: il 10% circa. Scartando questo approccio corrivo, il nuovo governo potrebbe tenere come stella polare le delibere dell’Agenzia di regolazione dei trasporti che per Autostrade prevede una remunerazione del capitale investito intorno al 7%, un aumento annuo dei pedaggi contenuto entro il 2%, nessun allungamento della concessione e nessun valore di subentro.