I dolori del giovane Toti, l’ex delfino di B. diventato sovranista al momento sbagliato

In fondo gli ha sempre voluto bene. Ma l’ex Cavaliere non vuol vederlo più neanche in cartolina. Anzi di più: perché ogni volta che Giovanni Toti lo attacca, a Silvio Berlusconi vengono le bolle. Peggio che al dottor Silvano Baracchi alias Renato Pozzetto in Sette chili in sette giorni che dava di matto quando sorprendeva il bambino Paolone a rubare in dispensa, nonostante lo avesse messo a dieta stretta. Ora B. non fa il medico e mai uscirà dalla sua bocca un “mi fa incazzare” liberatorio: vorrebbe dimenticarlo, ma non può. Perché Giovannino Toti insiste a prenderlo di petto e a tentare di fare le scarpe a B. nella speranza di rosicchiarne boccone dopo boccone l’elettorato. Anche se pure per lui, ora che con Berlusconi sembra finita per sempre, è tutta in salita. Quanto lo sapremo a breve.

Perché il governatore se ne è andato da Forza Italia sbattendo la porta a inizio agosto. Per fondare un partito tutto suo, apertamente filoleghista, data la difficoltà di convertire al verbo salviniano la ditta azzurra. E questo pochi giorni prima della disfatta del “Capitano” che, all’apice del successo politico ha mandato all’aria l’alleanza con il Movimento 5 Stelle non riuscendo però ad andare all’incasso delle elezioni anticipate. Livido per i 3 anni e mezzo circa che lo aspettano ai banchi del- l’opposizione, Salvini ora non pensa ad altro che a ottenere la rivincita. E non ha certo modo né voglia di rassicurare quanti si sono nel frattempo agganciati al suo carro che però scalpitano come non mai.

Il primo di tutti è proprio Toti che però non può starsene con le mani in mano: per far conoscere la sua creatura che ha battezzato “Cambiamo!” (in aperta polemica con Forza Italia, refrattaria a ogni discontinuità con il passato e quindi, a suo dire, destinata a morte certa), ha organizzato un tour che partirà da Matera, Basilicata, il prossimo 2 settembre.

Ma nel frattempo è già costretto ad allontanare il dubbio peggiore: che il suo partito sia nato già morto prima ancora di essersi misurato almeno una volta alle urne. “Siamo sicuri di fare un buon risultato, ma al momento quel buon risultato non è all’orizzonte visto che in questo Paese non si voterà. Io trovo che i partiti morti nel centrodestra siano francamente altri e che si siano auto-condannati per suicidio, dal momento che hanno perso elezioni su elezioni e hanno cercato di non cambiare niente” ha detto ieri. Ovviamente sempre all’indirizzo della sua ex casa madre forzista che dopo mesi e mesi di fastidio più che di tolleranza nei confronti dei suoi tira-e-molla, ha usato la clava. I totiani sono stati fatti tutti decadere dagli incarichi di partito e rischiano pure l’espulsione se non se ne andranno spontaneamente.

Nel frattempo Toti non si perde d’animo. E rilancia sulle prossime regionali dove spera di poter giocare un ruolo e magari addirittura sostituire Forza Italia nella coalizione con Carroccio e Fratelli D’Italia. E allora che fa “Paolone” Toti? Annuncia non solo la partecipazione alle elezioni del 27 ottobre in Umbria, ma pure l’appoggio alla candidata presidente della Lega Donatella Tesei che, Forza Italia pemettendo, se eletta avrebbe come vice Marco Squarta di Fratelli d’Italia. Ma il governatore ligure non ha neppure la certezza di potersi sedere al tavolo con gli alleati dato il veto di B. sul suo ex consigliere per non dire delfino. “Toti che cos’è? È un partito, una lista civica? Non ci siamo posti il problema” taglia corto Antonio Tajani che appena terminate le consultazioni con il premier incaricato Giuseppe Conte, ha la testa altrove.

Certamente non al perimetro dell’alleanza a cui vorrebbe partecipare il governatore, che in cuor suo sperava di incontrare già lunedì Matteo e Giorgia anche per mettere al sicuro la sua ricandidatura in Liguria nel 2020. Che però lo rimbalzano.

“Sbarco negato con dolo” Il leghista rischia grosso

Ha giocato d’anticipo Matteo Salvini, con le sue dichiarazioni sulle indagini della Procura di Agrigento, rivelando che è “in arrivo un’altra indagine contro di me per sequestro di persona per il caso Open Arms”. Per poi aggiungere: “Nessun problema, nessun dubbio, nessuna paura. Difendere i confini e la sicurezza dell’Italia per me è stato, è e sarà sempre un orgoglio!”. In realtà Salvini non ha ricevuto nessun avviso di garanzia: ieri la Procura di Agrigento ha confermato che il fascicolo per omissione in atti d’ufficio e sequestro di persona è ancora a carico di ignoti. Si procede quindi per la loro identificazione. E che il Viminale sia al centro dell’inchiesta è evidente nella lettura data dal gip agrigentino Stefano Zammuto sul dissequestro della nave che batte bandiera spagnola.

Rispetto al caso Diciotti dell’estate 2018 – già costato a Salvini l’accusa di sequestro di persona, dalla quale è sfuggito grazie al voto della giunta parlamentare che l’ha salvato dal processo – non ci sono soltanto delle analogie. C’è anche qualche importante differenza. E riguarda il ruolo del premier Giuseppe Conte: questa volta la scelta di bloccare la nave non si può dire sia stata condivisa dal presidente del Consiglio. Il giudice per le indagini preliminari ricorda la “missiva inviata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte” al “ministro degli Interni” Matteo Salvini, il 16 agosto 2018. In quella lettera, spiega il gip, il premier riteneva “necessario” che fosse autorizzato lo sbarco immediato delle persone di età inferiore agli anni 18 presenti a bordo della nave Open Arms. Inoltre, affermava il premier nella sua lettera, “dalla Commissione europea ci è stata confermata la disponibilità di una pluralità di Paesi europei (Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Romania e Spagna) a condividere gli oneri e l’ospitalità per tutte le persone di cui ci stiamo occupando, anche indipendentemente dalla loro età”.

Il giorno successivo, spiega il gip, “rispondeva il ministro degli Interni, prendendo atto della disposizione del presidente del Consiglio affinché venissero sbarcati”, come li definisce Salvini nella sua replica, i “presunti minori attualmente a bordo della nave Open Arms”, e per tale motivo aggiunge il giudice, il Viminale “non avrebbe dato disposizioni tali da non frapporre ostacoli all’esecuzione della decisione”, definita dal ministro: “tua esclusiva determinazione”.

Nella sua lettera, il ministro non faceva riferimenti “in merito a eventuali problematiche relative alla collocazione dei migranti sul territorio italiano o alla loro immediata ripartizione sul territorio europeo”. Una sottolineatura non da poco se si pensa che, per il caso Diciotti, secondo il governo, il ritardo nello sbarco fu motivato proprio dall’attesa della disponibilità di altri Paesi ad accettare i naufraghi. Per la Open Arms, nonostante le rassicurazioni di Conte sui ricollocamenti, il discorso cambia.

Lo sbarco non viene autorizzato – bisogna attendere l’intervento della Procura di Agrigento per evitare il protrarsi delle pessime condizioni sanitarie a bordo – e l’omissione, secondo l’accusa, avviene con dolo: “I pubblici ufficiali competenti hanno dato luogo, a fronte di una situazione di fatto connotata da eccezionale urgenza di intervento, con pericolo imminente per l’incolumità e la salute dei migranti trasportati, molti dei quali gettatisi disperatamente in mare per raggiungere le coste di Lampedusa, oltre che dell’equipaggio dell’imbarcazione trasportante”. Il tutto accade con “la coscienza e volontà di un evento contra ius. Le circostanze emergenziali vissute dalle persone a bordo (…) erano ben note agli agenti pubblici muniti di podestà di intervento sul punto”.

E ancora: “Il rifiuto di atti d’ufficio (…) ha comportato almeno dal 14 agosto (data in cui il Tar Lazio sospende l’efficacia del divieto d’ingresso in acque italiane, ndr) l’illecita e consapevole privazione della libertà personale dei migranti soccorsi (…) con integrazione del concorrente (…) reato di sequestro di persona”.

Salvini chiude a Forza Italia. E Zaia: “Ora la rivoluzione”

Matteo Salvini ringrazia i volontari che nelle cucine del padiglione della Lega di Conselve (Padova) per la festa nella sagra paesana, preparano i pasti per 800 persone, divise su due turni: “Quelli del Pd – dice – devono andare nei campi profughi per trovare volontari”. Quindi, dal palco dove salirà dopo una accoglienza sulle note di Vincerò e un ingresso trionfale e interminabili battimani, chiude al centrodestra. “Voglio dare una risposta a Berlusconi. Noi non abbiamo bisogno di niente e di nessuno. Non siamo usciti da un’alleanza che non ci faceva fare le cose per entrare in un’altra che non ci fa fare le cose”. Ma la frase che più fa discutere in serara la pronuncerà più tardi il presidente della Regione Veneto Luca Zaia: “”Vi aspetto tutti in strada e pronti per la rivoluzione. Le piazze devono essere piene. Ci vediamo prima a Pontida e poi a Roma”.

Nessun dubbio tra il pubblico quando tutti salgono sul palco. Il convincimento è granitico. “Quanto pensate che possa durare un governo giallorosso?”, dice un fedelissimo, Amerigo Brunato, che ha prenotato la cena due settimane fa per essere sicuro di poter vedere da vicino Salvini. “E comunque la pagheranno – dice –, perché la Lega aumenterà i consensi”.

Striscioni con scritto “Salvini premier” troneggiano su una sala piena di tavoli e panche, tra camerieri che vanno e vengono per portare abbondanti primi piatti e vino. “Il Pd – dice a sua volta Giancarlo, pensionato –, non ce la farà mai con i pentastellati. Si sono detti cose brutte fino a pochi giorni fa, come faranno ora ad andare d’accordo? Dovremmo andare al voto: se lo facessimo vinciamo”.

La serata si accende, Zaia chiama il popolo leghista alla “rivolta” e poi, dopo l’immancabile video a uso social, la parola, tra gli applausi, al Capitano che subito attacca: “Me li vedo il Pd e i 5 Stelle al tavolo della commissione di inchiesta sui truffati delle banche”.

Ed ecco i temi cari. L’inchiesta di Bibbiano sui bambini dati illegalmente in affido, lo spauracchio di una nuova stagione di tasse sulla casa e sui risparmi. E naturalmente gli immigrati. “Non siamo né razzisti, né schifosi, né disumani – dice Salvini, interrotto continuamente dalle ovazioni –. Ma abbiamo affermato il principio che in Italia si arriva se si ha il permesso: qui c’è spazio per chi vuole lavorare non per chi spaccia e fa casino”. Si appella a Mattarella: “Restituisca il voto ai cittadini italiani”.

Ricorda le ragioni dello strappo con Di Maio e i 5Stellle: “Siamo usciti dall’alleanza perché non ci facevano fare le cose”. Sfida i magistrati: “Cercheranno di fermarci con qualche processo ma non ce la faranno, se cercano di farlo hanno trovato le persone sbagliate”. Fuori dal padiglione, intanto, tanta gente accaldata che lo invoca, che ne ripete il nome, che si scalda ancora di più quando il leader dice che l’accordo tra Pd e pentastellati “è solo una operazione di poltrone, si mettono insieme due che per dieci anni si sono insultati”, e che Giuseppe Conte, premier incaricato, è “l’avvocato della Merkel, dei poteri forti e del Pd”, un partito che “più perde le elezioni più vince poltrone”. Non ci sono lacerazioni. Non una perplessità. Un attimo di silenzio attraversa una platea che, tra pasta e polenta, continua ad acclamarlo come un trionfatore, e poi si mette in fila per un selfie insieme a lui (arrivato con la fidanzata, smentendo così le voci di una possibile liason di Francesca con il “tentatore” di Temptation Island).

“La Lega vincerà anche se qualche magistrato cercherà di metterci lo zampino”, dice convinto Amerigo Brunato. Che poi si alza in piedi, rosso in viso, accaldato, per applaudire Salvini quando quest’ultimo richiama l’onore, la dignità, la coerenza: “Che valgono più – dice -, di mille ministeri, di mille poltrone. Noi andiamo a testa alta. Vinceremo”.

“Caro Galli, quel 30 è stata una lezione di vita”

Ringrazio il professor Ernesto Galli della Loggia per l’attenzione riservata al mio racconto a sfondo universitario uscito sul Fatto: “Mi pare indicare più di mille analisi raffinate perché l’Italia si trova nelle condizioni in cui si trova”, ovvero “le radici di tanto conformismo e impreparazione” (così il Corriere della Sera di ieri).

Troppo onore, di fronte a cui qualche precisazione è d’obbligo. Innanzitutto, quello che il professor GDL definisce “il ricordo di un mio lontano esame” è, appunto, un racconto. Che come ogni racconto parte dai ricordi ma li trasforma, nella fattispecie in chiave dichiaratamente umoristica. Così attento a estrapolare con la penna rossa le parole e le battute del testo, il professor GDL ne omette la premessa fondante. Cos’è il testo senza il contesto? È come se un ministro della Repubblica promettesse di ridare dignità all’Italia a torso nudo con un mojito in mano. Il contesto lo rende poco credibile, ma in compenso piuttosto comico.

Il professor GDL eleva a specimen, a emblema del peggio, il mio caso limite romanzato in chiave fantozziana, dove peraltro ho tentato davvero di descrivere l’atmosfera di quell’università postsessantottina in cui convivevano entusiasmo e opportunismo, intelligenza e cialtroneria.

A Firenze, alla fine degli anni 70 eccellente piazza di formazione, c’erano molti galli nel pollaio né mancavano le galline; coesistevano menti situazioniste come Pio Baldelli, onnipotenti cattedratici (le cui inscalfibili baronie a me paiono il vero cancro della nostra Università, non trova, professore?), maestri di conformismo per i quali era importante la preparazione, ma più ancora la conformità di quella preparazione alle loro idee, e innovatori puri come il mai abbastanza rimpianto professor Ludovico Zorzi, con cui mi sono laureato nel 1982, con una tesi sul teatro di Italo Svevo.

A proposito di Svevo, vorrei far presente al prof GDL che l’ironia può essere il motore primo di un racconto. Da parte mia, nessun “compiacimento”, né “divertita nostalgia” verso quell’Università. Solo una narrazione ironica di come eravamo, e di come abbiamo imparato a non essere più (o almeno, ci abbiamo provato). Ma certo, l’ironia è peggio del coraggio di don Abbondio: se non ce l’hai non solo non te la puoi dare, ma non riesci nemmeno a vederla negli altri. Il professor GDL si domanda quale lezione il professor Baldelli ci avrebbe impartito; provo a spiegarlo senza ironia e fuori dalle iperboli umoristiche. Baldelli capì al volo il nostro pensarci scaltri essendo ingenui, la convinzione di affrontare un esame “politico” senza troppa fatica, di mietere una facile promozione e di far colpo sulle ragazze. In tre mosse ci dimostrò che non era così, ci mise di fronte alla possibilità di fallire l’esame e perdere la faccia. Dovemmo prendere atto che la prova collettiva non era una presa in giro, anzi, poteva essere più insidiosa da superare delle altre. Ci fece vergognare di noi ma non volle infierire, e questo rese più forte la vergogna. La lezione fu di vita.

Nel corso dei miei studi alcuni professori mi hanno lodato, altri mi hanno bocciato, ma solo Pio Baldelli mi ha fatto vergognare di me stesso, e l’ha fatto con il sorriso, non con la matita rossa.

Professor Galli della Loggia, l’ironia sta diventando una specie in via di estinzione, non passa giorno senza che qualcosa che aspira all’umoristico venga preso per serio e viceversa. È toccato anche al mio racconto, a fronte della sua garbata interpretazione. Ma, ora che ci penso, un’altra lezione impartita da Pio Baldelli è stata di non prendersi mai troppo sul serio, né da studenti, né da professori. Se in un Paese come il nostro, in un periodo come questo, si estingue il senso dell’ironia, cosa ci salverà, chi ci promuoverà?

“Al governo con il Pd, il M5S riuscirà a fare le sue riforme”

Provando a guardare lontano, oltre l’orizzonte di questi giorni di trattative e tessiture, cerchiamo di capire quale effetto avrà l’accordo di governo tra due forze che sembravano incompatibili per essersi giurate eterno odio e invece ora provano a costruire una piattaforma per governare insieme. Abbiamo chiesto a Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, quale sarà la reazione chimica sugli elettorati delle due parti in causa. Capiranno? Si travaseranno? “Non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che da un lato ci sia un partito strutturato e dall’altro non si sa bene chi: iscritti militanti o elettori? Credo che le forze politiche debbano riuscire a spiegare le ragioni delle loro azioni”, spiega il professore. “Può darsi che all’inizio di questo percorso i sue elettorati avessero idee che poi hanno cambiato”.

Era l’unico modo per evitare che la destra vincesse.

Esatto. Un’alleanza per non dare il potere a un Salvini che si è dimostrato politicamente arrogante e istituzionalmente ignorante, quello che chiede la crisi quando è diventato dominus della coalizione di governo. Non dico uno stato di necessità, ma una risposta unanime a una domanda che suona così: ‘Vogliamo dare il Paese in mano a una persona di questo genere?’.

Il M5S ha pagato moltissimo, in termini di consenso, l’alleanza con la Lega: c’è il rischio che venga fagocitato dal Pd?

Il Movimento si deve domandare perché tutto ciò è successo: ha perso voti alleandosi con la Lega per condizioni meteorologiche avverse oppure perché alcune proposte politiche funzionavano male? Perché hanno scoperto che la Lega aveva, in Salvini, una superiore capacità di leadership, mentre Di Maio si è dimostrato inadeguato? Non sono stati capaci di comunicare come avevano fatto fino a poco tempo fa, perché il loro grande comunicatore si era isolato. Infatti da quando Grillo è tornato, si cominciano a vedere i primi cambiamenti in termini di visibilità riconquistata. E penso che riformulando la proposta politica possano anche riconquistare voti di elettori delusi. È una possibilità che può tradursi concretamente nel momento in cui si realizzeranno appieno alcune riforme, quando magari il Reddito di cittadinanza funzionerà davvero. Stando al governo ci sarà il tempo di ottenere i frutti di quelle riforme.

Sarà un accordo saldo di legislatura come vuole Mattarella o un accordicchio poco stabile?

Ma accordicchi e governicchi sono parti malati delle fantasie giornalistiche! I governi nascono su un compromesso, in cui le parti cercano di costruire un programma decente sul quale s’impegnano. Il capo dello Stato chiede un esecutivo che funzioni, cioè basato su una maggioranza politica e non una maggioranza numerica.

I consiglieri comunali M5S di Torino, contrari al Tav, ieri hanno dato una suggestione: nell’alleanza con il Pd, il Movimento dovrà contaminare il vecchio partito dem, dovrà essere una varicella verde. Si contamineranno davvero in quest’alleanza giallo-rosé?

Giallo-rosé mi pare una definizione azzeccata. Sul Tav c’è una decisione presa e sarebbe grave se la rimettesse in discussione. Si può provare a cambiare qualche cosa dei decreti Sicurezza, qualcosa sulle modalità di gestione degli sbarchi… ma il Tav no: è stato approvato dal Parlamento con una maggioranza schiacciante. Sono contrario, poi, all’uso della parola ‘contaminazione’. Si confronteranno su certi temi, cercando di trovare soluzioni, nell’interesse del Paese, che non siano troppo distanti né dal Pd né dal M5s. Non siamo di fronte a un’alleanza che si deve estendere per li rami ovunque, anche se in alcune realtà bisognerà che dialoghino: in Emilia Romagna se non vogliono che la Lega vinca le Regionali, dem e grillini si devono mettere d’accordo. Poi non corriamo troppo: se non funziona l’alleanza a livello nazionale è difficile che funzioni altrove.

Dai clandestini a Renzi: quando gli attivisti vanno “contro” i vertici

Tante espulsioni, qualche punto programmatico e poche, ma fondamentali, scelte politiche. La storia delle consultazioni online del Movimento 5 Stelle parte sul blog di Beppe Grillo, prima del trasferimento nell’aprile 2016 sulla piattaforma Rousseau, che oggi conta circa 100.000 iscritti. In questi anni la base è stata coinvolta decine di volte tra primarie per le varie elezioni e quesiti: spesso l’esito è stato plebiscitario, ma non sono mancati clamorosi smarcamenti rispetto a quanto sperato dai vertici del Movimento.

Del gennaio 2014, per esempio, è il voto sull’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, in sostegno a un emendamento presentato da due senatori e bollato come “iniziativa personale” da Grillo e Gianroberto Casaleggio. Si esprimono in 24.932 e il 60 per cento decide contro i fondatori. Non passa neanche un mese ed ecco un altro caso controverso: Matteo Renzi è incaricato di formare un nuovo governo e sta per iniziare il giro di consultazioni. Anche qui, Grillo e Casaleggio sono netti: “Crediamo che non sia opportuno andare per non partecipare a una farsa”. Ma rimettono la decisione alla base, che a sorpresa – per meno di 500 voti di scarto – dà mandato ai vertici di incontrare “Renzie”.

A ottobre 2014 gli iscritti votano invece in massa (quasi 85 per cento) a favore delle unioni civili: la vicenda si complica due anni dopo, quando il ddl Cirinnà arriva in aula e i vertici del Movimento indicano ai parlamentari di votare secondo coscienza, ritenendo la legge non del tutto aderente al quesito posto sul blog.

Altro episodio particolare è quello del marzo 2017, quando già è avvenuto il passaggio su Rousseau: si sceglie il candidato sindaco di Genova e Marika Cassimatis batte Luca Pirondini, nonostante da tempo la Cassimatis fosse considerata una “ribelle” e i big del Movimento spingessero per Pirondini. Poche ore dopo il voto, Grillo annulla tutto e lancia una nuova votazione, riproponendo lo sconfitto contrapposto all’eventualità di rinunciare alle Comunali: “Se qualcuno non capirà questa scelta – scrive il fondatore agli iscritti – vi chiedo di fidarvi di me”.

Dello scorso anno è invece uno dei voti più sanguinosi, ovvero quello sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, indagato per sequestro di persona per aver bloccato in mare per giorni la nave Diciotti con a bordo 177 migranti. C’è una lunga discussione interna, la maggioranza gialloverde scricchiola, diversi esponenti 5 Stelle protestano ma alla fine i vertici si schierano a favore dell’immunità.

La parola finale è però lasciata alla Rete. Non senza polemiche: il quesito è preceduto da un’ampia sintesi che sembra difendere Salvini e la domanda è più che mai contorta. Leggere per credere: “Il ritardo dello sbarco (…) è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato? Sì, quindi si nega l’autorizzazione a procedere. No, quindi si concede l’autorizzazione a procedere”. Il commento più eloquente arriva da Grillo, nel frattempo messosi “di lato” rispetto al Movimento: “Se voti Sì vuol dire No. Se voti No vuol dire Sì. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste”. Alla fine passa la linea sperata da Di Maio, che può dunque evitare frizioni con la Lega, ma il voto manda comunque un chiaro segnale di malumore, perché nonostante un’intensa campagna comunicativa dei big e un quesito mal posto i No all’immunità sono il 40 per cento.

Un dato anomalo, soprattutto se confrontato con le percentuali plebiscitarie che nei mesi precedenti avevano accolto le novità dei 5 Stelle: il nuovo simbolo (senza più il nome di Grillo), il non-statuto, il codice etico, le diverse espulsioni dei dissidenti, l’adesione (poi saltata) al gruppo europeo Alde e persino il contratto di governo con la Lega. Anche in quel caso i malumori per la vicinanza alla Lega erano diventati netta minoranza (meno del 6 per cento su 44mila votanti) grazie a un diffuso entusiasmo dei vertici per l’imminente governo.

Un clima ben diverso dagli ultimi voti, quelli dopo il tonfo alle Europee. La riconferma di Di Maio come capo politico (30 maggio, 80 per cento dei Sì) è accompagnata da un post dello stesso Di Maio sopra il quesito, a riprova di una consultazione più formale che sostanziale, il mandato zero e le novità per le elezioni locali (25 luglio, oltre il 60 per cento) sono la reazione obbligata alle batoste. Nei prossimi giorni il nuovo voto. Con la speranza, per i vertici, di non inciampare in scomodi imprevisti.

Casaleggio non ci sta: “Chi vota su Rousseau conterà”

Tre post in quattro giorni. Se non bastasse la frequenza, è sufficiente leggere i titoli degli interventi per capire quanto sia alta la tensione sul voto di Rousseau. “Gli iscritti al Movimento 5 Stelle hanno e avranno sempre l’ultima parola” (27 agosto), “Nel Movimento 5 Stelle decidono gli iscritti” (29 agosto), “Rousseau conta” (30 agosto). Un assillo necessario a tenere buona la base, che ancor prima di essere consultata fa sapere via social che non gradisce l’accordo con il Pd di Nicola Zingaretti. Ma è anche un tarlo che deve tormentare chi sta seduto ai tavoli della trattativa.

Solo il primo dei tre post è firmato dal capo politico. Gli altri portano la sigla generica del M5S. L’ultimo, in particolare, si riferisce all’articolo pubblicato ieri dal Fatto, in cui davamo conto delle rassicurazioni date da Luigi Di Maio e Giuseppe Conte al Quirinale, assai preoccupato dalle ripercussioni degli umori della base grillina sulla formazione del nuovo governo. Rassicurazioni che sono state pretese dalla Presidenza della Repubblica, che nell’affidare l’incarico al premier ha chiesto agli esponenti del Movimento – e al presidente del Consiglio che loro hanno indicato – “un sì senza condizioni”. Garanzia che Di Maio e Conte hanno dato, assicurando la fiducia dei gruppi parlamentari all’esecutivo che sta nascendo, comunque vada la consultazione web. Non lo smentiscono, i Cinque Stelle. Ma dal quartier generale della Casaleggio è arrivato il segnale che il volere degli iscritti non può essere bypassato. Perché non è “un vezzo”, si legge sul blog, ma “parte integrante dei nostri processi decisionali”. Lo ricorda, quel post, soprattutto agli eletti che nelle ultime ore avevano “criticato” l’ipotesi di votazione online e che devono essere “portavoce di queste istanze”. Come a dire: il blog ti ha creato, il blog non si distrugge. Si prova a non sminuire il ruolo dei gruppi parlamentari, che “stanno lavorando intensamente in questi giorni”. Ma si intima pure che “ci atterremo, com’è ovvio, alla decisione” degli iscritti, perché loro – quelli “che ci mettono la faccia ogni giorno senza chiedere nulla in cambio” e stanno “fuori dalle istituzioni” – sono “l’anima” dei Cinque Stelle. Dunque “il loro orientamento prevalente diventa, com’è naturale che sia, l’orientamento di tutto il Movimento”. Se non è una minaccia, poco ci manca. Il problema è sul tavolo e ancora ieri, durante le consultazioni con il gruppo M5S, Giuseppe Conte ha chiesto lumi sullo stato dall’arte. La votazione dovrebbe essere annunciata sul blog lunedì e aperta agli iscritti martedì (il regolamento vuole 24 ore di preavviso, ma si potrebbe anche concedere una deroga). La stesura del quesito che dovrà convincere la base a dire Sì è ancora in corso. Poi, sarà “campagna elettorale” spinta: per salvare la faccia del Movimento davanti agli elettori e quella del capo politico davanti a Mattarella.

Zingaretti fuori dalla grazia di dio: “Non potete fare come con la Lega”

“Una tragedia. Questo si crede Napoleone III”. Appena usciti dalle consultazioni con Giuseppe Conte, nel Pd c’è chi non si risparmia il commento, frutto pure della percezione che il premier voglia dire la sua in maniera determinante soprattutto su quei ministeri di peso (Interni, Esteri, Economia) che ha chiesto il Pd. Ma è niente rispetto a quello che succederà dopo, con Luigi Di Maio che lancia l’ennesimo ultimatum (“o le nostre proposte o si va al voto”) e il vertice a Palazzo Chigi tra il premier incaricato, Andrea Orlando, Dario Franceschini da una parte e Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva dall’altra, che è sostanzialmente una lite in piena regola. La materia del contendere numero uno rimane sempre la stessa: Di Maio vuole fare il vicepremier, il Pd non intende cedere.

A sera, comunque, il percorso del governo giallorosso riprende. Qualche metro indietro rispetto a quanto previsto, ma va avanti.

La delegazione del Pd che va alle consultazioni è composta dal segretario, Nicola Zingaretti, dal capogruppo alla Camera, Graziano Delrio e da Dario Stefano, che sostituisce Andrea Marcucci. Dal Pd raccontano di un incontro piano, senza grandi scossoni. “Conte ci ha detto che lavorerà per trasformare i Cinque Stelle in una forza più moderata. E ci ha tenuto a dirci che i suoi riferimenti sono da sempre di centrosinistra”. Assicurazioni sarebbero arrivate soprattutto sul superamento del decreto Sicurezza bis sulla base dei rilievi di Sergio Mattarella e sulla “revisione” della concessione ad Autostrade (non “revoca” quindi).

Zingaretti esce e parla soprattutto di economia (“i dati Istat purtroppo negativi confermano la necessità della svolta”), scuola (“per i redditi medio-bassi si studino formule per la formazione gratuita dall’asilo nido fino all’università”), sicurezza (“abbiamo chiesto di aprire una stagione di vere politiche per la sicurezza urbana”). Ma la sorpresa della giornata arriva dalle parole di Di Maio. Il Pd in blocco si ribella. “Così non è un’alleanza è un’annessione”, commenta con i suoi al Nazareno lo stesso Zingaretti. E di nuovo dal Pd arrivano le minacce: “Stiamo sull’orlo del precipizio. Questo spacca tutto”.

I dem raccontano che i 5 Stelle hanno dato la loro motivazione: “Ci serve fare così per un voto su Rousseau”. Ma per loro è inaccettabile, come metodo e come linguaggio: quello di Di Maio viene letto come un tentativo di umiliazione. Non mancano i sospetti: “Di Maio ha un accordo con Salvini, vuole spaccare il Movimento e andare al voto”. E ancora: “Se pensa di fare il vicepremier così non ha proprio capito”.

Il Pd in blocco esce pubblicamente all’attacco di Di Maio. “Il problema è tutto in casa Cinque Stelle”, dice la vicesegretaria, Paola De Micheli. E il segretario annulla un incontro proprio col capo grillino previsto per le tre del pomeriggio. Tramite la segreteria, ma pure con un contatto diretto, Zingaretti avverte Di Maio che non si può più fare: d’altra parte sarebbe sembrato un asse tra i due contro Conte.

E infatti di vertice se ne costruisce un altro. Orlando annulla la sua partecipazione alla Festa dell’Unità di Ravenna e nel tardo pomeriggio va invece a Palazzo Chigi. Con lui c’è Franceschini, che sostituisce De Micheli: salta agli occhi che a parlare con Conte vadano i due candidati sia alla carica di vicepremier (unico) che a quella di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Modi per accreditarsi.

A Palazzo Chigi, però, si litiga: “Non potete fare così, non potete avere quel tipo di uscite pubbliche se volete governare con noi. Quello era lo stile con la Lega. Con noi non funziona”, continuano a dire i due del Pd alle controparti grilline. Conte assiste, ogni tanto interviene. A questo punto appare molto arrabbiato anche con Di Maio, che gli continua a mettere i bastoni tra le ruote. Il Pd rimprovera il premier di non aver detto nulla pubblicamente, mentre i capigruppo 5 Stelle urlano sulle note diffuse dai dem, in cui il premier incaricato è definito “Presidente del Movimento”.

Ma di fondo, resta questo il punto: il Pd non vuole minimamente che passi il principio per cui Di Maio e Conte sono due figure di origine diversa. La nota finale del Nazareno getta acqua sul fuoco: “L’incontro è servito a porre l’esigenza di un chiarimento sulle dichiarazioni di Luigi Di Maio, al termine delle consultazioni, come precondizione per proseguire nel percorso avviato negli scorsi giorni”. Stamattina si riprende coi vertici e gli incontri.

Conte balla da solo e chiede più tempo: Mattarella dice no

L’ultima cartolina che racconta la metamorfosi mediatica di Giuseppe Conte è assieme a papa Bergoglio, mentre gli stringe la mano e gli sussurra qualcosa con espressione compita. Il premier (re)incaricato, nonostante le giornate convulse, ieri ha trovato il tempo per un “breve saluto” (e una preziosa fotografia) col Pontefice: l’ha incontrato alle esequie del cardinale Achille Silvestrini, uno dei mentori del giovane Conte negli anni della comunità di Villa Nazareth. Sono già noti, d’altro canto, gli ottimi rapporti del premier col Vaticano, a partire da quelli col Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin.

Il sostegno discreto ma significativo della Chiesa cattolica si aggiunge a quello delle cancellerie straniere e dei burocrati europei (una volta nel mondo grillino si chiamavano così), dei mercati finanziari (Di Maio fa alzare lo spread, l’avvocato lo fa scendere), persino di Romano Prodi, che gli ha augurato lunga vita a Palazzo Chigi, e addirittura di Donald Trump, che l’ha battezzato col famoso tweet dedicato a “Giuseppi” Conte.

Poi c’è Sergio Mattarella che ha puntato forte su di lui, ma non ha pazienza infinita. Ieri, al termine dell’ennesima giornata da montagne russe nella trattativa tra Cinque Stelle e Pd, Conte ha chiamato il Colle e ha comunicato al presidente di avere bisogno ancora di un’altra settimana per arrivare in fondo alla sua opera di mediazione e portare al Quirinale un governo compiuto. Mattarella non l’ha presa bene e non ha acconsentito alla richiesta: l’avvocato ha tempo fino a mercoledì, poi il capo dello Stato prenderà atto che una maggioranza non c’è e scioglierà le Camere.

Alla fine, probabilmente, non si arriverà a tanto e il sudatissimo governo giallorosso vedrà la luce. Malgrado le esuberanze di Di Maio, le resistenze del Nazareno e nonostante lo stesso Conte. È infatti ormai evidente a tutti che l’avvocato del popolo non solo non era affatto il parvenu che avrebbe dovuto limitarsi a reggere il moccolo a Di Maio e Salvini, ma è ora a tutti gli effetti un attore autonomo, dotato di un consenso personale, che gioca una partita propria e tenta di imporre una squadra di governo (in parte) propria.

Le parti della trattativa pertanto sono almeno tre. E il protagonismo di Conte comincia a non essere particolarmente apprezzato dalle altre due.

Quelli del Partito democratico pare gli abbiano affibbiato il nomignolo di “Napoleone”. Non è ben chiaro se Bonaparte – e cioè un uomo divorato dall’ossessione della sua statura – oppure Napoleone III, le versioni discordano. Comunque all’avvocato attribuiscono aspirazioni da imperatore: non è proprio un vezzeggiativo. Anche nei Cinque Stelle, che sono di fatto il suo partito, il suo protagonismo è sofferto. Ovviamente da chi ha perso le redini della trattativa e forse del Movimento.

Conte però va avanti. Cuce laboriosamente la tela di un’intesa che sembra ogni giorno sul punto di disfarsi, come quella di Penelope. Ieri ha dovuto tappare la falla aperta dalla fuga in avanti di Di Maio (“o si attua il nostro programma o si va al voto”): per riuscirci ha dato fondo alle sue capacità diplomatiche, senza però nascondere l’irritazione.

Ha incontrato non una, ma due volte anche le delegazioni del Pd. Alla seconda riunione c’erano anche i Cinque Stelle, dopo che nel pomeriggio Zingaretti aveva cancellato il suo appuntamento con il leader grillino: il clima tra i due contraenti, va da sé, non era affatto sereno.

Conte cammina sulle uova dei nervi sempre più tesi dei suoi interlocutori, ma procede. Stamattina ci sarà un nuovo summit per lavorare al programma. Domani, invece, incontrerà una delegazione delle popolazioni terremotate e una delle associazioni dei disabili. Un altro mattone nella costruzione della sua nuova immagine.

Dal Quirinale in giù, Di Maio s’arrocca e fa irritare tutti

Luigi Di Maio ha due problemi. Uno è riuscire a fare il vicepremier, e su questo non sente ragioni o piani B; l’altro è tenere unito il Movimento, che ha la base squassata dal probabile abbraccio di governo con il Pd. E non è un dettaglio, visto che è alle porte il voto sull’accordo sulla piattaforma web Rousseau. Così appena incontrato per le consultazioni Giuseppe Conte, “il presidente super partes” come lo definisce con strategico distacco, nel primo pomeriggio Di Maio si manifesta davanti ai microfoni a Montecitorio e detta le condizioni, a tutti: “Se i nostri punti entreranno nel programma di governo bene, altrimenti meglio il voto, e il prima possibile, non è nei nostri valori vivacchiare”. E il segretario del Pd Nicola Zingaretti la prende male, tanto che annulla l’incontro fissato per le 15 con il vicepremier.

Invece il Quirinale la prende peggio, e in serata fa trapelare tutta la sua ira contro Di Maio. Ma non finisce mica qui, perché anche i gruppi parlamentari, già agitati, sospettano e protestano per varie vie, e ai generali del M5S tocca giurare che il capo politico non vuole far saltare il banco, “è solo strategia per portare a casa i nostri temi” come assicura il capo ai maggiorenti che lo chiamano per capire. Però il venerdì della trattativa si increspa, al punto che il Colle fa sapere a Conte che per mercoledì dovrà aver finito i compiti, cioè salire al Quirinale con la lista dei ministri e un programma condiviso tra dem e 5Stelle. Altrimenti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella suonerà la campanella, e tutti a casa, cioè al voto.

E sarebbe il finale che ormai non vuole più nessuno, neppure lo stesso Di Maio, che in serata rallenta: “Non è questione di ultimatum, è che siamo stanchi di sentire parlare tutti i giorni di poltrone e toto-ministri”. E a guidarlo è sempre la paura del voto su Rousseau, l’ordalia a cui non può sottrarsi. Per questo bisogna mostrare agli iscritti che il M5S si unirà al Pd per portare avanti i propri punti di programma, le proprie battaglie. È quanto continua a chiedere soprattutto Alessandro Di Battista, il più scettico sull’accordo. L’ex deputato romano lo ha detto dritto a chi lo ha sentito in queste ore: “Dobbiamo alzare la posta, tanto il Pd accoglierà le nostre richieste, perché soprattutto i renziani hanno troppa paura del voto”. Però si cammina su una lastra di ghiaccio. Anche perché Di Maio continua a litigare su quella poltrona di vicepremier che pretende per contare e marcare anche Conte, troppo autonomo. E non importa che il Pd faccia notare che il premier lo hanno indicato i 5Stelle, e che offra in cambio la casella del sottosegretario. “Il presidente è super partes” insiste Di Maio, cioè va considerato terzo. Ergo, lui deve essere vice e ministro (al Lavoro più che alla Difesa, stando all’ultimo bollettino). Però il messaggio di giornata sono i temi, per carità. “Al presidente Conte abbiamo espresso sconcerto per questo surreale dibattito sugli incarichi” giura il capo.

Così elenca i punti “imprescindibili” per il Movimento: dal blocco a inceneritori e trivelle, per andare alla revoca delle concessioni autostradali ai Benetton e alla legge sul conflitto di interesse, per arrivare al taglio dei parlamentari, “da calendarizzare subito a settembre alla riapertura dei lavori” precisa Di Maio. Il vicepremier giura di “non rinnegare nulla” dei 14 mesi con la Lega, anzi rivendica “con orgoglio” il lavoro del governo gialloverde. E per ribadirlo fa muro sui decreti Sicurezza: “Non ha alcun senso parlare di modifiche ai decreti sicurezza. Vanno tenute in considerazione le osservazioni del capo dello Stato ma senza modificare la ratio di quei provvedimenti”. Passa qualche nanosecondo, e dal Pd parte la batteria di comunicati contro Di Maio.

Ma la temperatura sale anche nel M5S. “I parlamentari non si tengono” soffia un ministro. E soprattutto dal Colle arrivano segnali di furia. Così il Movimento comincia a fare passi all’indietro, con varie correzioni (“nessun ultimatum”). Fino a quando in serata i due capigruppo Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva provano a riparare: “Sul decreto sicurezza stiamo dicendo tutti la stessa cosa: ci sono dei rilievi fatti dal capo dello Stato, bisogna tenerne conto”. Ma poco prima, dentro Palazzo Chigi, la riunione dei due capigruppo con Conte e i big del Pd Franceschini e Orlando era stata una corrida. Con il premier che ha faticato per contenere il nervosismo e le accuse incrociate tra dem e grillini. “Il Pd ha mandato due persone che non erano delegate a parlare di temi” morde il Movimento. Però pesa soprattutto il malumore di Conte. Davanti ai partiti non ha commentato l’intervento di Di Maio. Ma raccontano che abbia bollato come “non utili” le parole del capo del M5S. Anche perché poi ha dovuto correggere, è il ragionamento del premier: che deve sempre risolvere quella grana, i vicepremier. Per Conte sarebbe meglio non averne. Ma i partiti chiedono, esigono quelle poltrone: mica i temi.