Visti da lontano

La crisi di governo vista dalla festa del Fatto alla Versiliana sembra molto più chiara. E persino più semplice. Forse perché qui si parla di cose concrete, senza vincoli di appartenenza né esigenze di propaganda. Ieri di spunti utili per Conte e la nuova maggioranza ne sono emersi parecchi. Mieli e Padellaro hanno ricordato il rischio enorme che corre il governo, se mai nascerà: apparire come il frutto di un’operazione di palazzo, costituzionalmente legittima, ma utile soltanto a salvare dalle urne chi teme Salvini. Tutto dipenderà dal tasso d’innovazione della squadra e del programma, che dovrà essere molto dettagliato (“Quando arriva una nave a Lampedusa, d’ora in poi sbarca o no? E a quali condizioni? Vogliamo e dobbiamo saperlo subito”). Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo hanno raccontato dieci anni di battaglie (anche con la complicità del Fatto) per avere verità e giustizia sull’omicidio di Stefano: l’accesso alla giustizia per i più deboli e indifesi, insieme alla garanzia di democrazia nelle forze dell’ordine, sono punti fondamentali per un governo che voglia cambiare le cose e non solo vivacchiare. Il dibattito su Tav e grandi opere fra Marco Ponti e il dem Stefano Esposito ha fatto emergere uno dei certissimi punti di frizione fra i giallo-rosa: la via maestra sarà l’analisi costi-benefici (peraltro disattesa da Toninelli) o la bottega del Partito degli Affari?

La questione delle questioni è emersa limpida col procuratore Francesco Greco e il segretario della Cgil Maurizio Landini: l’evasione fiscale. “Nelle banche dati – dice Greco – ormai abbiamo tutti i conti correnti degli italiani, anche quelli esteri in oltre 100 Paesi, inclusi i paradisi fiscali. E i nostri investigatori sono fra i migliori al mondo. Mancano le norme per consentire loro di andare fino in fondo”. La famosa “volontà politica”, che non è una categoria dello spirito: basterebbe aprire un tavolo a Palazzo Chigi, come quelli con le parti sociali, con i pm, l’Agenzia delle Entrate e la GdF per dotarli degli strumenti e dei via libera necessari. Landini chiede più tutele e salario ai lavoratori, ma anche meno tasse. Greco propone di destinare i proventi della lotta all’evasione esclusivamente al taglio delle imposte a chi le paga. E indica nei ben 200 miliardi di euro in contanti nascosti nelle cassette di sicurezza il primo serbatoio a cui attingere con una nuova voluntary disclosure, tipo quella dalla Svizzera, che ne renda conveniente l’emersione. Il titolo del dibattito era “Una Finanziaria pagata dai ladri”. A proposito di “discontinuità”: dopo tante Finanziarie pagate dagli onesti, varrebbe la pena provarci. Per vedere l’effetto che fa.

“Torneremo ancora”: Battiato è rinato con la Royal Orchestra

Già da qualche settimana i rumour parlavano di un nuovo album dal vivo per Franco Battiato con una canzone inedita: lo troveremo negli store digitali e fisici (anche in doppio vinile) il prossimo 18 ottobre.

Torneremo ancora è il titolo del nuovo lavoro con 15 tracce, una delle quali inedita, la title track (inizialmente si doveva chiamare Migrantes).

Si tratta di alcune registrazioni di due anni fa eseguite in tour con la London Philarmonic Orchestra diretta dal Maestro Carlo Guaitoli. Sarà l’occasione per riascoltare i nuovi arrangiamenti sinfonici di alcune delle migliori canzoni di Battiato: Come un cammello in una grondaia, E ti vengo a cercare, I treni di Tozeur, Povera Patria, Prospettiva Nevsky, La cura, Perduto amor, Le nostre anime, Te lo leggo negli occhi, Tiepido aprile, L’animale, Le sacre sinfonie del tempo, Lode all’inviolato e L’era del cinghiale bianco.

Tassello di una carriera strepitosa, la collaborazione con la Royal Philarmonic Orchestra ha contagiato anche artisti quali Sting, Stevie Wonder e Burt Bacharach, quasi a voler suggellare con una versione colta le migliori composizioni in formato pop.

In attesa della pubblicazione, alcune canzoni sono presenti su Youtube con l’arrangiamento sinfonico: E ti vengo a cercare inizia con un incipit unplugged per poi decollare con gli archi; La cura diventa morbida e fluida rispetto all’arrangiamento elettronico originale. La notizia del nuovo album segue la pubblicazione della riedizione de L’era del cinghiale bianco – originariamente uscito nel 1979 – con alcune versioni demo inedite e dal vivo oltre a due brani cantati in spagnolo e inglese.

Secondo le ultime indiscrezioni, la salute del cantautore siciliano sarebbe in netto miglioramento, confermate dalla scrittura del nuovo brano e forse di altri in cantiere. Nessuna novità, invece, sui gossip circolati nelle scorse settimane relativamente alla vendita della casa a Milo: il fratello del cantante, Michele, avrebbe smentito la trattativa. Alla pubblicazione del disco dovrebbe seguire un videoclip promozionale registrato proprio nella casa di Battiato in Sicilia.

Pitt vola “Ad Astra”. Ma la Mostra stenta a decollare

L’invasione degli ultracorpi: i bellissimi, immaginifici Brad Pitt e Scarlett Johansson, il rampante ed empatico Adam Driver, l’iconico e revanchista Pedro Almodóvar, i nostrani Toni Servillo e Valeria Golino.

Tutti insieme appassionatamente in Mostra, anche se i maligni già odono il canto del cigno: stardom hollywoodiano, aristocrazia europea e nobiltà italiana, divi e divine cinematografici si riprendono la scena e il tappeto rosso, prima che gli influencer li spazzino via, forse per sempre. Anche qui, casa loro, Chiara Ferragni ed epigoni incombono, ma che sia battaglia di retroguardia, prova di forza o disperata ostensione poco importa: Venezia se ne bea, per un giorno si sente Cannes – proprio nel giorno in cui il direttore Thierry Fremaux ripresenta il suo memoir Cannes Confidential – e più di Cannes e rilancia nel mondo l’ologramma di una Mostra d’arte e di popolo, ché di lotta e di governo non è proprio il caso.

Fan giovani e non più a bivaccare fronte del red carpet sin dal mattino, Adam che insidia il Brad primus inter pares, e il titolo buono per farsi programma d’intenti: l’improvvida Lucrecia Martel, l’ultimo giro di boa di Baratta e il penultimo di Barbera, gravoso presente e futuro incerto possono attendere, l’obiettivo è Ad Astra, e se a metterci la faccia è Pitt quasi ci credi. Protagonista e produttore, lo troviamo nel distico spaziale e intimista di James Gray, talentuoso regista qui non ai suoi massimi: l’astronauta Brad viene spedito su Marte alla ricerca del padre Tommy Lee Jones, non è solo ricongiungimento familiare ma apocalisse da sventare. La fantascienza corrente non riesce più a essere filosofica, dunque, le Odissee sono psicologiche, i padri estraniati e i figli dolenti: solitudine e isolamento Pitt se li è portati da casa, giacché “tutti noi ci portiamo dietro delle ferite sin dall’infanzia. L’attore deve saper utilizzare quel dolore: se non sono sincero, lo spettatore lo capisce subito”. Dal 26 settembre nelle nostre sale, Gray si ancora agli archetipi, professa “non smetterò mai di credere nella forza del Mito”, frulla Moby Dick, Cuore di tenebra e altro ancora: un po’ dirige lui, un po’ Pitt (il monologo finale però è estatico), di cose belle ce ne sono, ma la confusione davvero spazia, il vorrei ma non riesco è orbita. L’abbiamo già visto, Ad Astra, e fatto meglio.

Se Marriage Story di Noah Baumbach, con Johannson e Driver, gli è superiore, ugualmente non sfugge al déjà-vu. Forse, parafrasando Bergman, Scene da un divorzio è indebito, non ricordare il precedente di Baumbach – là rifletteva sulla separazione dei genitori, qui sulla propria da Jennifer Jason Leigh – Il calamaro e la balena del 2005, l’eredità di Cassavetes e Allen, l’ancora impareggiato (500) Days of Summer, assai meno classico nella scansione drammaturgica. Nondimeno, i due protagonisti sono assai bravi, ci fanno sentire a casa: quando succede, succede così. Per Johansson Marriage Story “contiene molto di tutti noi, basti pensare che quando ho incontrato Noah per la prima volta stavo affrontando un divorzio e me ne lamentavo”; per Driver, “divorziare è come esibirsi, dopotutto”; per Baumbach, “quando di mezzo ci sono anche i bambini, il matrimonio continua anche dopo il divorzio”. Sesso a scemare, un solo tradimento, un po’ di alcool e un tot di egocentrismo: Driver è un “geniale” – lo vuole la borsa che vince – regista teatrale, Scarlett la sua musa, inscenano e recitano a soggetto le loro e le nostre vite. Dal 6 dicembre su Netflix, tra avvocati spietati, lavori incasinati e sentimenti non dissipati sono donne, e uomini, sull’orlo di una crisi di nervi, che viene buonissimo a Venezia 76: “Considero questo Leone d’Oro alla carriera un risarcimento, ma anche un atto di giustizia politico a 31 anni dal mancato premio a Donne sull’orlo di una crisi di nervi, nonostante l’allora presidente della giuria, Sergio Leone, mi avesse detto che gli era piaciuto tantissimo”. Dolor y gloria, come pretende l’ultima sua opera, e Pedro più che rimostranze, tra le lacrime e le standing ovation della Sala Grande, sciorina ricordi: tenuto a battesimo internazionale sempre al Lido nel 1983 con L’indiscreto fascino del peccato, parteciparvi “fu un miracolo, anche perché l’allora direttore Gian Luigi Rondi, vicino alla Democrazia Cristiana, riteneva il film osceno”.

In Concorso, oltre a Gray e Baumbach, c’è anche Haifaa Al Mansour con le vicissitudini elettorali di una giovane dottoressa in The Perfect Candidate, volonteroso ma semplicistico affondo sulla disparità di genere in Arabia Saudita. A passare per l’Italia sono due opere prime: Sole, con cui il promettente Carlo Sironi illumina una storia di gravidanza e marginalità tra echi dardenniani ed economia sentimentale, e 5 è il numero perfetto del fumettista Igort, con Servillo, Golino, Carlo Buccirosso, un noir partenopeo e parte innocuo, che non sa trasformare la stilizzazione della realtà in stile né farci appassionare al crime. Sarà pure il numero perfetto, ma 5 non è sufficienza.

 

“Macché ipocondriaco, sono perfino farmacista”

“Non ne posso più: io non sono un ipocondriaco”, esordisce così Carlo Verdone durante la serata di mercoledì che lo ha visto protagonista all’Arena CineVillage Talenti a Roma, in cui è stato nominato farmacista ad honorem. La motivazione? “Pur non perdendo l’occasione di farne materia di narrazione – ha letto il presidente dell’Ordine dei farmacisti – Verdone non ha mai dimenticato di mettere in guardia su cosa siano i farmaci: irrinunciabili strumenti se usati con proprietà, ma pericolosi se mal utilizzati”.

E di occasioni di narrazione ve ne sono state. Sul grande schermo, per citarne solo alcune, Verdone è stato il prof. Raniero Cotti Bottoni, il luminare della medicina di Viaggi di nozze (1995) che con il suo “No, non mi disturba affatto” risponde al telefono a ogni paziente durante la luna di miele con Fosca, addirittura durante la prima notte o al funerale di lei, quando fa riaprire la bara poiché gli è scivolato dentro il cellulare. E ancora Bernardo di Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992) che vuota sul letto il sacco di antidepressivi per trovare di che placare l’ansia di Camilla. E indelebile rimarrà la gag televisiva della farmacia notturna in cui dà voce ai diversi tipi di cliente/paziente, dal disperato in cerca d’aiuto al saputello che produce da sé le diagnosi.

“Quella che ho per la medicina e per i farmaci”, racconta il regista romano classe 1950 che durante l’incontro indossa anche il camice da farmacista con tanto di caduceo appuntato sul bavero sinistro, “è una passione che deriva dall’infanzia. A casa dei miei genitori sono passati i più grandi medici: l’oncologo Gerardo D’Agostino, che ti faceva solo due domande e scriveva subito di cosa avevi bisogno; i chirurghi Paride Stefanini e Pietro Valdoni”. Ma non fu solo un derivato dell’ammirazione, per Verdone i farmaci appartengono al proprio lessico famigliare: “Il comò di mia madre era un sagrato di farmaci. C’erano vitamine, molti ansiolitici, stabilizzatori dell’umore. E poi c’era mio zio, che viveva con noi ed era nato col mal di testa: un giorno stava bene e sei no”.

Il piccolo Carlo, allora, curioso e affascinato come in un negozio di giocattoli, ne prova qualcuno a caso e “Quasi ce restavo”, commenta con una risata, e ancora oggi è un fiume in piena, se deve annoverare i farmaci/giocattoli della sua stravagante fanciullezza, dai barbiturici alle aspirine, passando per le gocce. Poi, però, iniziò ad averne bisogno. “Una volta, a mia madre cadde accidentalmente del latte bollente sulla mia schiena, e da lì mi iniziarono a dare degli ansiolitici per calmare i tic che mi erano sopraggiunti”.

Da questa mistura (è il caso di dirlo) di accadimenti, proviene la fascinazione per la scienza medica: “Da ragazzo iniziai a leggermi tutta l’Enciclopedia medica della Curcio Editore. Ero convinto che avrei scelto medicina all’università. A un certo punto però”, incalza con fare da affabulatore, “arrivai alla definizione di ‘tracoma’, un disturbo oculare serio. In quel periodo soffrivo con gli occhi e mi ero quasi convinto di averne uno. Capii di essere troppo emotivo e di non poter fare il medico”. Sogno professionale che si realizzerà nel prossimo film, Si vive una volta sola, in cui impersona un eccellente primario di chirurgia.

Ma già adesso il dottor Verdone (la prima laurea honoris causa è in Medicina, conferitagli dall’Università Federico II di Napoli) non nega mai un consulto ad amici e parenti che chiedano conferma a lui dei pareri medici avuti. “A una mia amica ho salvato la vita. All’ospedale Gemelli le avevano diagnosticato la varicella, ma al telefono mi descriveva sintomi atipici. Ho un’illuminazione: è la Sindrome di Stevens-Johnson, non è da tutti diagnosticarla”, chiosa fiero, mentre in silenzio il pubblico attende lo scioglimento del racconto di Verdone che, proprio come al cinema, anche qui è sempre “malin-comico”: prende cioè le cose serie e le rende seriamente buffe, come una macchia sul vestito delle feste, è una cosa seria, eppure fa ridere. Riprende il racconto: “La mando subito all’ospedale Spallanzani dove il primario ha in una mano la diagnosi di varicella e nell’altra il cellulare con i miei sms in cui ordinavo di farle subito il cortisone. Com’è andata a finire? Si è fidato di me, e la mia amica ancora è viva”. Applausi!

Tra Maradona e l’ex moglie volano gli stracci. E le magliette e le mutande

A questo punto può salvarci solo la Palombelli: invitando i due illustri ex coniugi a Forum, su Rete 4, per provare a dirimere una volta per tutte l’infuocato contenzioso. Tempo non ce n’è più: perché tra Diego Maradona e Claudia Villafañe, la donna che il Pibe portò all’altare nel novembre del 1989 a Buenos Aires, gli stracci volano e le accuse e i pettegolezzi da portineria si sprecano.

Per chi si fosse perso l’ultima puntata della truculenta telenovela: dopo aver denunciato l’ex moglie con l’accusa di avergli sottratto maglie, mutande e canotte, innervosito dal lassismo dei giudici, che si muovono con tempi biblici, Dieguito si è lasciato andare a un dolente sfogo sui social. “Continuano a non restituirmi ciò che m’hanno rubato. Come può un giudice continuare a chiedere da dove provengono le magliette, le scarpe e i trofei? È come quando a scuola ti chiedevano: di che colore è il cavallo bianco di San Martin? Svègliati giudice Vilma Nora Dìas!”. In realtà, il Pibe è una furia perché Claudia, che gli ha dato Dalmita e Giannina (la figlia che poi sposerà Aguero) e da cui si separò nel 1998, lo ha a sua volta portato in tribunale chiedendo un risarcimento di 1,5 milioni di dollari “per i danni e i pregiudizi provocati dalle calunnie e dagli insulti” riportati a più riprese dai media.

“È una ladrona e una pessima madre”, ha detto di lei Maradona. “Io invece mi sono sempre presa cura di lui anche ai tempi in cui frequentava cattive compagnie e mi riempiva di bugie: come ringraziamento, lui ha scelto la strada della sistematica umiliazione della mia persona”, ribatte lei. Prossimamente: lui dirà che lei russava di notte e lei che il Pibe non tirava mai lo sciacquone. Non ci resta che Forum. Si salvi chi può!

A zonzo nella Foresta Nera in cerca di Hesse

Per una serie di fortunati eventi, nell’estate del 1993 passammo alcuni giorni nella Foresta Nera, presso un albergo/mulino in quel di Unterreichenbach. Attorno solo alberi, canali per l’allevamento delle trote, sentieri per passeggiate, farina, qualche mucca. Parole imparate: Käse (formaggio), Forelle (trote), kleine Bier, grosses Bier. Insomma era una vacanza dalla chiara connotazione culturale.

Il luogo, non lontano da Stoccarda, era soprattutto a 14 chilometri e mezzo da Calw. Ora solo alcuni dotti di voi – il me diciottenne di allora e il me 44enne di oggi (ma fondamentalmente per questo ricordo) – potranno sapere che nel paesino del Baden-Württemberg nacque, nel 1877, lo scrittore Hermann Hesse. In Germania pareva ci fosse allora un vero culto per le “case di”. Avevamo già visitato quella di Hegel e nella vicina Ulm c’era il memoriale di Einstein.

Nessuna guida recava memoria di Calw, paese di 20 mila anime, quindi neanche piccolissimo. Fatto sta che, tra una trota e l’altra, convinsi mio padre a farci una bella passeggiata fino alla città natale dell’autore di Siddharta. All’epoca non c’erano cellulari e Google non esisteva neanche a Palo Alto. Disponevamo dunque solo di una mappa del Land in cui era indicato un sentiero che portava dopo qualche chilometro a una ferrovia. In due-tre ore di cammino ci si arrivava. Partimmo con l’entusiasmo di pellegrino (io) e con quello di “guarda che bisogna fare” (mio padre). Dopo tre ore eccoci alla stazione di Calw. La “casa museo” di Hesse, inaugurata tre anni prima, osservava il suo giorno di riposo. Ma non era quella la “vera” casa. Di fronte, sopra un negozio di vestiti, la targa chiariva che nell’appartamento sopra, ora abitato da un privato cittadino di Calw, era nato Hesse. Fine della visita. E dell’adolescenza.

Un cono di gelato? No grazie, siamo sensibili (al glutine)

Sei celiaco e hai una voglia sfrenata di un Cucciolone oppure di un Cornetto? Che problema c’è: Algida produce una linea di gelati, anche quelli col biscotto o il cono, interamente gluten free. Non solo. Come altre grandi marche, dà grande risalto all’assenza di questo ingrediente anche in gelati “normali”, dai ghiaccioli alle vaschette (che, in quanto tali, ne sono normalmente privi). I destinatari, però, non sono solo quei 600.000 italiani celiaci, circa 1 italiano su 100 – molti dei quali non sanno neanche di esserlo –, ma piuttosto quei circa 6 milioni che acquistano prodotti senza glutine pur non essendo intolleranti: secondo il rapporto Eurispes 2019, il 12,9% di quel 20% che compra, per una spesa di 320 milioni l’anno, alimenti con la spiga barrata.

E le prospettive sono di una crescita di oltre il 20% l’anno, non tanto per l’aumento dei celiaci (anche se crescono, per fortuna, le diagnosi), quanto per l’errata convinzione che il gluten free riduca le infiammazioni, sgonfi, faccia perdere peso. Credenze smontate da associazioni – ad esempio quella Italiana Gastroenterologi Ospedalieri – e singoli esperti, come il nutrizionista Marcello Ticca: nel libro Miraggi Alimentari (Laterza) bolla come fake news la convinzione che i prodotti senza glutine, magari più grassi e poveri di fibre, facciano dimagrire.

La “glutenfobia” è alimentata da mega influencer anti-glutine che vanno da Gwyneth Paltrow a Djokovic, da Lady Gaga a Victoria Beckham. I consumatori chiedono e le aziende producono, puntando a fare prodotti identici agli originali ma “senza”: non solo glutine, ma anche lattosio, olio di palma, zucchero, tanto che ormai sono 1 su 5 gli alimenti con qualche tipo di slogan “sottrattivo” sulla confezione.

I più preoccupati, però, sono proprio loro, i malati di celiachia, che temono che si banalizzi una malattia autoimmune grave e cronica. Per loro questa patologia non ha nulla di modaiolo, anzi li costringe a una esistenza sempre in allerta e a combattere battaglie banali nel paese della burocrazia e delle lobby, come quella di poter spendere l’importo mensile che lo stato passa loro per i prodotti senza glutine anche nei supermercati e non solo nelle costose farmacie.

“Gli studi scientifici stanno ampiamente dimostrando che in chi non è celiaco l’esclusione del glutine è inutile”, ha più volte ribadito il presidente dell’Associazione Italiana Celiachia (Aic) Giuseppe Di Fabio. E la famosa gluten sensitivity? Sempre l’Aic chiarisce che “non si è più o meno celiaci, non esistono livelli di celiachia – semmai quadri clinici di diversa gravità –, ma un’unica diagnosi e un unico trattamento: una rigorosa assenza di glutine per tutta la vita”. E comunque, precisano, anche la sensibilità al glutine non può mai essere autodiagnosticata, magari in base a vaghi gonfiori o fastidi. Insomma, conclude il medico nutrizionista Silvia Goggi: “Che un celiaco possa mangiarsi ogni tanto un gelato con biscotto o cono va bene. Quello che va meno bene è il richiamo del ‘senza qualcosa’, che serve a togliere il senso di colpa, visto che il consumatore medio non ha né la celiachia né la gluten sensitivity. Focalizzandosi su ciò che si è tolto, si dimentica di controllare ciò che è stato aggiunto. Per fare una provocazione, potrei anche scrivere su un cono ‘senza candeggina’ ma questo non lo renderebbe certo un alimento da consumare tutti i giorni. E a dirla tutta, forse neanche tutte le settimane”.

Totò è il mio maestro ma mito è Wilcoyote, il Beckett dei cartoon

Ridere è un mistero.

Ci sono circa duemila modi di ridere, secondo gli scienziati, e se penso a tutto il tempo che ci hanno messo a catalogarli mi viene da ridere.

Si ride anche di quello che non si vorrebbe. Si può ridere con razzismo, con cinismo, con disprezzo. A tutti noi qualche volta nella vita capita di fare una di queste risate.

Ridere nasce da equilibri e squilibri molto complicati. Il tempo comico o ce l’hai o non ce l’hai. Se voi siete dei NON raccontatori di barzellette, la vostra condanna è eterna. Questo non vuole dire che non avete senso dell’umorismo, semplicemente che non avete in dono le pause, i ritmi, o la dilatazione teatrale necessaria per raccontarle. E se insistete a raccontarle, avrete in risposta da chi ascolta quel sorriso di compatimento che è peggio di uno schiaffo.

A meno che non siate molto potenti, allora i sottoposti rideranno ma è puro servilismo.

La risata va guadagnata. Un attore sa che ogni sera il pubblico riderà spesso negli stessi punti, ma talvolta in punti diversi, o in ritardo, in controtempo, oppure riderà quando non c’è da ridere. O non riderà affatto. Ma il vero attore comico si vede quando, passata l’inerzia iniziale di simpatia, conquista tutti, anche quelli che non sono disposti a ridere.

Le risate finte televisive sono un trucco che ogni attore comico dovrebbe rifiutare. Peggio che simulare l’orgasmo.

Nei libri le risate finte non ci sono. Però c’è gente che legge i libri così bene che fa ridere a ogni pagina.

I bambini ridono quando si stupiscono, dovrebbero esserci di lezione. Il riso dovrebbe nascere dallo stupore, non dalla serialità o dai tormentoni.

Si può raccontare e far ridere, ma adesso si preferiscono le mitragliate di brevi gag, il racconto non è importante.

Ridere è terapeutico ma ridere sempre e troppo è segno di una patologia di imbecillità. I politici non ridono, sogghignano.

Ridere è una verità penultima, la propaganda e la serietà minacciosa dicono di possedere la verità ultima, ma noi sappiamo che non è l’ultima, è l’ultima per un breve tempo.

È molto difficile ridere di sé stessi. Bisognerebbe tenere una statuetta di Totò sul comodino che ogni tanto ci dica “mi faccia il piacere!” quando facciamo gli sbruffoni.

Ci sono dei linguaggi come il medichese, lo psichiatrico, l’avvocatese, il manageriale, il militaresco che è facile parodiare per far ridere. Ma coloro che parlano questi linguaggi tutti i giorni e li ritengono sacri spesso non ridono della parodia, anzi si offendono.

Io non rido molto, ridevo di più una volta non so perché. Mi vengono attacchi di allegria senza ridere, questo sì.

Quelli che mi hanno fatto ridere e che ringrazio sono mille, l’elenco è ridicolmente incompleto. Ringrazio tra i libri Rabelais, Poe, Queneau, Mark Twain, Douglas Adams, Dorothy Parker, Achille Campanile, Ennio Flaiano e Carmelo Bene (ebbene sì, un genio del ribaltamento ironico) e poi Stanlio e Ollio e Buster Keaton e il dottor Stranamore e Belushi e Tognazzi, Troisi, Paolo Poli e altri cento e sopra tutti Totò, Totò e ancora Totò.

Non parlo dei vivi perché molti sono miei amici e altri sono permalosissimi ma sono tanti, specialmente attrici.

Dico Totò perché contiene tutto il mistero e le contraddizioni del comico e del ridere. Bellissimo e brutto, volgare e nobile, sguaiato e raffinato, allegrissimo e triste creatore di linguaggio e suo sabotatore. Sempre inafferrabile.

E mi fanno ancora ridere i cartoni animati, Wilcoyote per me è il Beckett dei cartoons. Il duello di magia della Spada nella Roccia è la mia droga. Ogni tanto devo rivederlo.

Non rido oggi di quel che ridevo ieri e domani chissà?

Si può ridere anche della morte, e molte strane morti fanno pensare che talvolta, anche la Vecchia con la Falce abbia sense of humour.

Ci sono cose su cui faccio fatica a ridere e inventare battute. Sono ad esempio la guerra e la catastrofe climatica. Divento pedante e serissimo. Ma altri dicono che si deve e si può ridere di tutto. A loro lascio questi argomenti.

I miei libri mi fanno ridere? Se li rileggo, qualche volta sì, e mi fa piacere. Mi fa piacere che ogni lettore rida di una pagina diversa, di una battuta diversa e, come in teatro, rida anche quando non c’è niente da ridere.

Gli animali mi fanno molto ridere, perché non sanno che fanno ridere e questo li rende irresistibili.

In Italia per finire, c’è gran consumo di umorismo, ma il senso dell’umorismo è calato. Gli haters sono il triste segno dell’ironia perduta. L’Italia ride spesso a bocca stretta e non è una risata liberatoria, è una risata isterica. Forse un giorno torneremo a saper raccontare e inventare umorismo da soli, non ingoiarlo dalla televisione.

Ah sì, per finire mi fa ridere Marco Travaglio in televisione quando sta tutto serio e dandy a bocca stretta perché quello è il suo personaggio, e si vede benissimo che gli scappa da ridere e intanto pensa: ma io che cazzo ci faccio qui. O sbaglio?

 

Russia, horror concluso per il regista “terrorista”

È nato al sole della Crimea 43 anni fa e fino a ieri scontava una condanna a 20 anni di prigione nell’inferno bianco più gelido. Si trovava nella siderale Russia artica la colonia penitenziaria in cui era rinchiuso il regista ucraino Oleg Sentsov, accusato di terrorismo dal Cremlino e oggetto di scambio fra prigionieri che avverrà presto tra le due sorelle in guerra, Kiev e Mosca.

Arrestato nel 2014, senza prove, dopo l’incendio di due edifici nella penisola annessa alla Federazione russa dopo la rivoluzione di Maidan – uno era la sede Russia Unita, l’altro della comunità russa in Crimea –, Sentsov è stato anche accusato di tentata distruzione con esplosivo di una statua di Lenin, durante il processo nel 2015. Il regista ha detto di essere stato soffocato, denudato e torturato delle forze dell’ordine russe durante gli interrogatori ma con la sua denuncia ha ottenuto solo silenzio e oblio da Mosca. Padre di due figli piccoli che non l’hanno più abbracciato da allora, autore di un film, Gamer, che pochi hanno visto, è protagonista di un documentario che molti di più vedranno, ora al festival del cinema di Venezia. Titolo: “Il processo: lo Stato russo conto Sentsov”.

In questi anni ha tentato di arrivare alle orecchie sorde e severe del Cremlino senza riuscirci, anche rischiando quella che ha definito “la fine più amara” durante i Mondiali di calcio organizzati da Putin nel suo Paese. Nel 2018 il suo sciopero della fame cominciato il 14 maggio, – aveva promesso di interromperlo dopo la liberazione dei 64 cittadini ucraini che riteneva prigionieri politici come lui – terminò dopo 20 chili persi e 145 giorni, quando i dottori russi cominciarono, contro la sua volontà, a nutrirlo artificialmente. Mentre era dietro le sbarre, a Sentsov è stato conferito il premio ‘Sacharov’ per la libertà di pensiero. La sua faccia è finita moltiplicata sulle magliette di chi protestava contro tutte le crudeltà dell’ingiustizia russa. Appelli per la sua liberazione sono arrivati da una sponda all’altra del mondo, dai registi Almodovar e Ken Loach, insieme con tutti gli artisti d’Ucraina, il Paese dove da ieri il premier è Oleksy Goncharuk, 35 anni, un dottorato in Giurisprudenza e alcuna esperienza politica, se non la precedente delega per le riforme economiche nella squadra del presidente comico Zelensky.

A quello di Sentsov è legato il destino del giornalista Kiril Vyshinsky. Un mese fa il presidente ucraino Zelensky aveva pronunciato il nome del regista promettendo la liberazione del giornalista Vyshinsky se Sentsov fosse tornato a casa. Il reporter russo a capo dell’agenzia statale Ria Novosti in Ucraina, arrestato nel 2018 con “l’accusa di alto tradimento e favoreggiamento dei separatisti filo-russi”, ha rinunciato alla sua doppia nazionalità e al passaporto ucraino, dichiarando durante l’arresto: “Da questo momento in poi sono solo un cittadino russo”. Due giorni fa è stato rilasciato su cauzione. Ora ci vorrà tempo prima della firma sulle procedure di scambio, dicono fonti anonime che soffiano all’orecchio dei giornalisti senza specificare le tempistiche. Sentsov ora si trova nella Capitale russa probabilmente nella prigione Butyrka. Il giornalista russo tornerà nell’unica patria che gli è rimasta, la Russia. Dove tornerà Sentsov, ucraino della penisola che ora è di Putin, non si sa.

Corbyn si mette l’elmetto: “Votiamo la sfiducia a Boris”

L’opposizione ora deve mettere da parte tatticismi, rivalità e guerre di potere e prepararsi alla vera battaglia sulla Brexit. Quella decisiva. La mossa di Boris Johnson, mercoledì, di sospendere il Parlamento britannico ha chiarito che il suo governo è pronto a tutto pur di mantenere la promessa fatta all’elettorato conservatore: portare il Regno Unito fuori dall’Ue il 31 ottobre, con o senza un accordo con Bruxelles. Secondo Buzzfeed, il team di consiglieri speciali del primo ministro, guidati da Dominic Cummings e dalla costituzionalista Nikki Da Costa, sta studiando tutte le vie formalmente legittime per ridurre ancora lo spazio di manovra del Parlamento. Si va dall’imporre nuovi giorni di vacanza da qui al 31 ottobre all’ostruzionismo parlamentare, alla nomina di nuovi baronetti che garantiscano fedeltà al governo alla Camera dei Lord. E tuttavia le possibilità di fermare la macchina da guerra di Boris sono diverse, almeno sulla carta.

Le opposizioni si stanno accordando su due strategie: la prima è chiedere allo speaker della Camera John Bercow, che dovrebbe essere imparziale ma è un campione dell’indipendenza del Parlamento dall’esecutivo, un dibattito di emergenza già il 3 settembre, quando Westminster riprende dopo la pausa estiva. È la via legislativa: far approvare a maggioranza una mozione vincolante per cui il governo, se non trova un accordo con Bruxelles, debba chiedere una seconda estensione dell’art. 50 pur di evitare il ‘no deal’. Siccome Boris si gioca la carriera sulla promessa di realizzare la Brexit il 31 ottobre, ci si aspetta che piuttosto vada a elezioni: e i suoi consiglieri stanno valutando se gli convenga tenerle verso metà ottobre o aspettare novembre, cioè la scadenza fissata per l’uscita, quando il no deal sarà già una realtà.

L’altra strada è che Corbyn si metta alla testa dell’opposizione e ponga una mozione di sfiducia. Se vince ha 14 giorni per verificare se ha una maggioranza: la sua proposta è quella di guidare un governo ad interim, ottenere una estensione dell’art. 50 e poi indire elezioni. Ma durante l’estate non è riuscito a coagulare il consenso di tutti gli altri partiti, in particolare dei LibDem che resistono all’idea di insediarlo a Downing Street. Gli ultimi sviluppi potrebbero indurli a cedere. In ogni caso, i deputati sono stati allertati: nella prima settimana di settembre rischiano di passare a Westminster notti intere. Poi c’è la strada giudiziaria: 75 parlamentari ieri hanno presentato ricorso alla Corte di Edimburgo sulla legittimità della sospensione, e una causa simile è stata avviata separatamente anche dall’attivista Gina Miller, che già nel 2016 aveva ottenuto dall’Alta Corte che il governo sottoponesse il suo accordo con l’Ue al voto del Parlamento.

Ieri si è dimessa Ruth Davidson, carismatica leader dei conservatori scozzesi. Per ragioni familiari ma anche in dissenso esplicito con la linea di Johnson. Nel dare le dimissioni si è rivolta così ai parlamentari: “Chiarite che se un accordo tornerà ai Comuni voterete a favore, e fate sapere all’Ue che c’è una ragione per riaprire i negoziati”.

È una perdita grave per il partito, perché sotto la sua guida i Tories scozzesi avevano ottenuto i migliori risultati elettorali in 25 anni, e perché ha fatto da argine alle rivendicazioni degli indipendentisti di Nicola Sturgeon. Non a caso Corbyn ha fatto capire che un suo governo non si opporrebbe a un secondo referendum per l’indipendenza scozzese.

C’è poi l’opinione pubblica, da non sottovalutare. Cresce la mobilitazione del movimento #Stopthecoup contro “Boris il dittatore” – le firme sono giunte a 1,5 milioni – e perfino il Financial Times, che rappresenta gli interessi della City, prende posizione con un editoriale della direzione dal titolo: “La sospensione del Parlamento è un affronto alla democrazia”.