Da Sham Shui Po con furore

Il quartiere di Sham Shui Po, nelle guide turistiche, è descritto come luogo pittoresco per i suoi mercatini, i negozi specializzati in elettronica e il cibo di strada. Spariti i turisti frettolosi da un paio di notti e via, a Sham Shui Po restano i ragazzi che vi abitano, e che da ormai 13 settimane fanno parte dei dimostranti che si battono contro il governo di Carrie Lam. La polizia ne è ben consapevole, tanto che non appena uno studente compra penne-laser, gli agenti in borghese lo arrestano, come è accaduto a Keith Fong Chung-yin, 20 anni, capo dell’associazione studenti della Baptist University. Fong ne aveva prese dieci, di penne. I poliziotti sostengono che sono strumenti da utilizzare contro di loro; durante gli scontri di piazza i ragazzi puntano i raggi laser negli occhi delle squadre antisommossa per disorientarle.

Chi abita a Sham Shui Po non protesta “solo” per la legge sull’estradizione che permetterebbe a Pechino di portar via elementi ritenuti pericolosi e per le violenze della polizia che – accusano le donne – ora avrebbe anche connotazioni specifiche contro di loro, usando gli abusi sessuali come deterrente; in realtà a Sham Shui Po la rabbia cova da parecchio e fa parte di un disagio quotidiano. Una delle questioni sul tappeto è il mercato immobiliare. Una casetta di 13 metri quadrati è affittata a 750 dollari al mese. Lo stipendio di un praticante che ha appena iniziato a lavorare per uno studio di professionisti – dunque, non un operaio – è di 1.300 dollari al mese. La fascia più ricca è rappresentata dal 10% della popolazione: guadagna uno stipendio mensile dieci volte superiore. Per molti giovani di Hong Kong, possedere una casa – argomento centrale dell’identità del lavoratore medio post-1997 – è fuori portata. Esempio: nel quartiere c’è il progetto di un nuovo edificio di 22 piani: l’abitazione più grande sarà 20 metri quadrati, la più piccola 12. Il piano più basso è in vendita a circa 260 mila euro. L’edilizia popolare non risolve il problema; secondo le statistiche del governo, ci sono quasi 150.000 persone in lista d’attesa per un appartamento a canone agevolato e il tempo medio di attesa è di oltre 5 anni. L’obiettivo di costruire 280.000 nuovi appartamenti entro il 2027 non è fattibile e così sempre più persone sono costrette ad affittare minuscoli appartamenti da privati.

Nella stagione degli arresti, a Sham Shui Po ci ridono sopra: la cella di una prigione di Hong Kong è grande in media 7 metri quadrati, non molto diversa da molte abitazioni. A Hong Kong, dunque, ci sono molti motivi per essere arrabbiati. Ieri la Cina ha di nuovo mostrato i muscoli con una “rotazione” di truppe. Pechino ha descritto questa fase come “ordinaria” ma di fatto ci sono 8-10.000 soldati in preallarme: rispetto ai mesi recenti, e l’attività è frenetica intorno alla base militare di Shek Kong. “Prima di arrivare, abbiamo studiato la situazione – ha detto il tenente colonnello Yang Zheng, in un video diffuso dai media cinesi – abbiamo rafforzato il nostro addestramento per adempiere ai nostri obblighi di difesa di Hong Kong”. La polizia ha negato il permesso al corteo di Civil Human Right Front, gruppo di mobilitazioni pacifiche pro-democrazia, che era in programma domani. L’itinerario prevedeva il raduno a Chater Garden, nel cuore della città, e poi corteo verso l’ufficio di rappresentanza della Cina. Le autorità hanno ritenuto che il corteo sarebbe passato vicino a “sedi sensibili”, come la Government House e la Court of Final Appeal. L’opposizione non se la passa bene: il leader di Civil Human Right Front, Jimmy Sham, ha denunciato di essere stato inseguito da due uomini armati di mazza da baseball e coltello; lui ne è uscito indenne ma un amico è rimasto ferito. Il movimento ha presentato appello per ottenere il permesso di fare il corteo. A Sham Shui Po, gli agenti tengono d’occhio i negozi e le bancarelle che vendono le penne-laser: le maschere antigas sono arrivate a 200 dollari l’una.

Pericolo sgombero per la casa delle donne “Lucha Y siesta”

Nessuno sgombero imminente di immobili occupati a Roma, né a fine agosto né a settembre. Piuttosto, le istituzioni – prefetto, Campidoglio e Regione Lazio – si confronteranno settimanalmente per trovare soluzioni alloggiative per gli occupanti degli stabili. Ma se migliaia di famiglie occupanti stanno tirando un respiro di sollievo, diverso è il caso della Casa delle donne Lucha y siesta, centro antiviolenza della Capitale sulla quale “Comune, Atac e Tribunale hanno deciso: va chiusa tra pochi giorni”. Così si legge in una nota dell’associazione al Tuscolano. “Una gravissima decisione che ci è stata comunicata ieri con una lettera che annuncia l’interruzione delle utenze per il 15 settembre e l’immediato sgombero dello stabile”. “Siamo al lavoro per garantire la presa in carico in strutture alternative di tutte le donne e i bambini che si trovano nell’immobile di proprietà Atac in via Lucio Sestio. Si sono svolti numerosi incontri con le attiviste che sono state ripetutamente informate che l’immobile da loro occupato è inserito nel concordato fallimentare di Atac e che verrà quindi messo in vendita dal Tribunale”. Lo ha dichiarato Lorenza Fruci, delegata della sindaca per le politiche di genere.

I primi 10 anni della nostra bella scommessa

“Indagato Letta. Da 10 mesi. E nessuno ne parla”. Con questa apertura, il 23 settembre 2009, usciva in edicola il primo numero de Il Fatto Quotidiano. La notizia stava soprattutto nella seconda parte: nell’Italia di dieci anni fa c’erano dei potenti che l’informazione non osava toccare. L’inchiesta su Gianni Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Berlusconi, poi prosciolto dalle accuse sulla gestione dell’accoglienza ai migranti, era infatti nota da tempo nelle redazioni di quotidiani e agenzie, che si guardavano bene dal pubblicarla.

Così inizia la storia di un giornale, nato come una scommessa senza grandi capitali né un euro di fondi pubblici, che ha dato una scossa al panorama dell’informazione italiana. Un’avventura editoriale raccontata nello speciale di FQ MillenniuM Il Fatto Quotidiano – I nostri primi 10 anni – la copertina da collezione è disegnata da Riccardo Mannelli – in vendita da oggi in un’anteprima speciale alla festa della Versiliana (sarà poi in tutte le edicole da sabato 14 settembre). A svelare aneddoti e retroscena sono innanzitutto i fondatori del Fatto. Marco Travaglio e Antonio Padellaro, transfughi de l’Unità, la cui linea “corsara” inaugurata dalla direzione di Furio Colombo non andava giù ai vertici dei Ds, allora guidati da Piero Fassino. Peter Gomez e Marco Lillo, inchiestisti di punta a cui l’Espresso non aveva fatto pubblicare la notizia su Letta. Cinzia Monteverdi, che decise subito di investire nell’impresa, oggi amministratrice delegata del gruppo. Il debutto in edicola fu preceduto da tour in tutta Italia a caccia di abbonati “preventivi” (a pochi giorni dalla prima uscita in edicola se ne conteranno più di 30 mila) e costellato di dubbi e ostacoli. L’ufficio legale Rai, per dirne una, negò l’utilizzo della testata “Il Fatto”, trasmissione di Enzo Biagi epurata nell’era berlusconiana, manifestando l’intenzione di rimandarla in onda, cosa che mai avverrà. Da qui la necessità di aggiungere “Quotidiano”, per scansare possibili noie.

I successi, ma anche i giorni neri. Come il lancio del sito, il 22 giugno 2010, che per giorni si inchioda e nessuno ha idea di come rimediare. Il direttore Gomez – stavolta è lui a “confessarsi” – ricorda di essersi chiuso in ufficio a piangere.

Lo speciale non si limita a parlare del nostro giornale, che dieci anni dopo quel debutto semi-artigianale è cresciuto, si è arricchito della casa editrice Paper First, del mensile FQ MillenniuM, della tv Loft e si è quotato in Borsa a Milano e a Parigi con il gruppo Seif. Cronisti e commentatori ricostruiscono il decennio 2009-2019, ancora poco indagato ma denso di svolte, attraverso inchieste, campagne e scoop. Il caso Ruby e gli effimeri protagonisti della politica post-berlusconiana. Il No al referendum costituzionale. I grandi casi politico-giudiziari, dalla Trattativa a Consip. L’economia sempre più condizionata dall’Europa, ma anche gli scandali bancari e i lati oscuri dei capitalisti italiani. Il lavoro, da Marchionne agli esodati, un dramma sociale che Il Fatto ha raccontato per primo.

I diritti, a partire dalla decisione tormentata di pubblicare in prima pagina la foto del cadavere tumefatto di Stefano Cucchi. Ma anche il racconto di un’Italia più leggera, quella della televisione, del cinema, della musica, del calcio. Da non perdere infine, gli scritti dei grandi autori che hanno accompagnato l’avventura del nostro giornale: Dario Fo, Franca Rame, Antonio Tabucchi, Lucio Dalla e Andrea Camilleri, l’ultimo a lasciarci quest’estate, il 17 luglio.

Interviste, dibattiti e musica. È la grande festa del Fatto

Tre giorni di dibattiti, interviste, musica. Informazione e divertimento. In una parola sola: festa. La nostra, quella del Fatto Quotidiano, che compie dieci anni e come ogni estate si ritrova fino a domenica sera alla Versiliana di Marina di Pietrasanta (Lucca), con grandi ospiti, i suoi giornalisti e soprattutto i suoi lettori. La sua comunità.

La “serata zero” ha aperto ieri la rassegna: un incontro-intervista del direttore Marco Travaglio e Alessandro Ferrucci con Renato Zero. Da oggi si entra nel vivo: 16 panel dalla mattina al tardo pomeriggio, aperti a tutti, più tre spettacoli serali (a pagamento: biglietti in vendita presso la biglietteria del Teatro della Versiliana oppure in Internet).

Tanti ospiti illustri per commentare l’attualità politica e non solo: tra i principali, oggi Paolo Mieli, Ilaria Cucchi, il procuratore capo di Milano Francesco Greco, dibattito sul Tav con Marco Ponti, poi di sera il concerto di Renzo Arbore accompagnato dall’orchestra italiana.

Domani mattina le sindache M5S Virginia Raggi e Chiara Appendino; di pomeriggio il ricordo dell’estate calda del ’69 (con Massimo Fini, Gianni Oliva, Benedetta Tobagi ed Ettore Boffano), quindi sarà la volta del pm antimafia Nino Di Matteo col vicedirettore Marco Lillo e del “bivio della sinistra” con Pier Luigi Bersani e Carlo Calenda (che ha appena annunciato la sua uscita dal Pd). In serata l’esordio in anteprima nazionale del nuovo spettacolo del direttore Marco Travaglio, Ball fiction.

Domenica previsto l’incontro col premier incaricato Giuseppe Conte, nel pomeriggio Piero Angela parlerà di “Politica e l’invenzione della ruota”. Gran finale col concerto di Daniele Silvestri.

Diversi i momenti in cui il pubblico potrà entrare direttamente in contatto con i giornalisti del Fatto e scoprire come si costruisce il giornale e il sito: sabato mattina il panel su “I nostri primi dieci anni” con il direttore Travaglio, il direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez, il fondatore Antonio Padellaro, il coordinatore del mensile Millennium Mario Portanova e Cinzia Monteverdi, presidente e amministratore delegato di Seif. In più, i lettori potranno visitare la redazione e gli stand dello Spazio Loft. Mentre solo gli abbonati “soci di Fatto” avranno la possibilità di partecipare all’assemblea del giornale, sabato alle 14. Sarà presente anche il finalista del concorso “Perdi Salvini” lanciato due mesi fa fra i lettori. Sarà speciale come sempre, questa edizione un pochino di più.

La Ue è impopolare perché ingiusta: va riformata presto

Anche se abbiamo pubblicamente sostenuto e sosteniamo la nascita di un governo Conte 2, se non altro perché Giuseppe Conte appare un puledro di razza, in un mondo politico in genere abitato da vecchi ronzini, non possiamo nascondere il nostro sconcerto su quanto accade intorno a lui. Non ci riferiamo alla consueta gara alla poltrona che Conte, se saprà diventare purosangue da corsa, riuscirà a calmierare. E nemmeno ai tanti colleghi giornalisti e alle loro testate, che dopo aver descritto Conte come un burattino, un incompetente e in qualche caso persino come un falsificatore di curriculum e di concorsi universitari, ora lo dipingono come una sorta di genio, lo paragonano a Cavour, o gli urlano in prima pagina “coraggio”. Tutto questo è normale perché, come scriveva Balzac, “chi sa adulare, sa anche calunniare”.

A suscitare il nostro disappunto, e temiamo pure quello di molti elettori, sono invece le frasi del commissario europeo al Bilancio uscente, Günther Oettinger, il quale lancia un appello alla prossima Commissione: “Se cambiano i toni da Roma, fare tutto il possibile per facilitare il lavoro del nuovo esecutivo italiano”. E visto che i toni di Conte sono da sempre ragionevoli e garbati l’invito va letto come una profezia: ora che è cambiato il governo, in Europa verranno allargati i cordoni della borsa, così non tornerà il vostro nuovo puzzone: ovvero Matteo Salvini. Del resto era stato proprio Oettinger, membro della Cdu tedesca, nel maggio del 2018, a vedersi attribuire la frase choc, poi in parte rettificata, “i mercati spingeranno gli italiani a non votare i populisti”.

Intendiamoci: se la Ue ci concede una flessibilità maggiore, come quasi ha sempre fatto con la Francia, questo è un bene per tutti gli italiani. Solo investendo di più e abbassando le tasse il nostro Paese, dopo 20 anni di sostanziale immobilismo, può ripartire e sperare di abbattere il suo gigantesco debito. Inoltre noi stessi abbiamo sempre rimproverato, a Lega e Cinque Stelle, le parole utilizzate per confrontarsi con la tecnocrazia europea (e non solo). Sia per una questione di stile, sia perché se si inizia una trattativa mettendo le dita negli occhi all’altro contraente ben difficilmente si porta a casa un risultato.

Ma concedere flessibilità agli esecutivi considerati amici e pretendere rigore da quelli nemici è qualcosa che mina dalle fondamenta il sogno della democrazia europea. È come se in uno Stato si garantissero fondi e benefici ai cittadini che hanno la fortuna di abitare in una regione dello stesso colore di chi sta pro tempore al governo e li si negassero a chi risiede in un territorio in cui gli amministratori sono di colore opposto. Anche per questo in Italia la Ue è tanto impopolare. Perché è ingiusta. E per questo va ora profondamente riformata.

Il fatto che Salvini si sia politicamente suicidato, che i 5 Stelle siano stati decisivi per l’elezione della nuova presidente Ursula von der Leyen e che Conte sia visto nelle Capitali europee come una specie di baluardo anti-Lega, va sfruttato. Non perché sia piacevole stare in compagnia di élite capaci sinora solo di aumentare le diseguaglianze. Ma perché va preso atto che al momento sono ancora il potere più forte. Qui si dimostrerà, se come speriamo esiste, la nobiltà di Conte. Nell’unirsi a loro, senza diventare mai uno di loro. Perché chi si è presentato come “avvocato del popolo”, il popolo non lo tradisce, ma con umiltà lo serve.

Addio al soldato Iosa, gambizzato dalle Br nel 1980

Quando il Comune di Milano, nel 2012, sindaco Giuliano Pisapia, annunciò che avrebbe tolto la sede al Circolo Perini, scrivemmo su queste pagine: “Salvate il soldato Iosa”. Ci riprovò, lo scorso anno, il sindaco Giuseppe Sala, e scrivemmo di nuovo: “Se davvero volete bene alle periferie, salvate il soldato Iosa”. Antonio Iosa era il fondatore, l’anima, il condottiero del Circolo Perini. Fu salvato, entrambe le volte. Fu garantita la sopravvivenza del circolo da lui fondato nel 1962 a Quarto Oggiaro, quando ancora il quartiere era chiamato “Corea”, o “Barbon city”, e che per quasi 60 anni ha fatto attività culturale in periferia contando solo sulla sua passione civile e sull’impegno volontario dei soci.

Da allora, Antonio si annunciava al telefono, e a volte anche si firmava, così: “Il soldato Iosa”. Ci teneva, a quel riconoscimento di tenacia e di valore. Ne era fiero. Ora se n’è andato, all’età di 86 anni, dopo una vita intensa che si è in gran parte identificata con quella del suo circolo. È un pezzo della storia di Milano, il Perini. Iosa lo fonda in un quartiere di periferia appena sorto, Quarto Oggiaro: case popolari costruite in fretta – il riformismo ambrosiano esisteva, prima di essere agglutinato nella retorica della Milano da bere – per accogliere gli immigrati del boom, che venivano a cercar lavoro dal Sud (i “terroni”) o dal Nordest (i “terroni del Nord”). Nato nei fermenti degli anni Sessanta, il Perini diventa centrale nella vita del quartiere un decennio dopo, dentro i conflitti durissimi dei Settanta. In anni in cui i fascisti giravano per Quarto Oggiaro con le loro squadracce e le Br avevano gruppi attivi di militanti e fiancheggiatori. Entrambi incrociano il Perini: i fascisti assaltano la sua sede il 21 giugno 1971; le Br gambizzano il suo fondatore il 1 aprile 1980. Per i primi, Iosa era un pericoloso “comunista”; per i secondi un “amico dei fascisti e dei padroni”. In verità era democristiano, Iosa. Un democristiano del dialogo. Non si occupava di raccogliere voti, dispensare favori, organizzare clientele, ma si impegnava a far incontrare e discutere personaggi anche distanti tra loro, purché avessero qualcosa da dire a tutti. Diventa così un punto di coagulo, una specie di don Camillo che litiga ma dialoga con Peppone, un uomo che ascolta “i segni dei tempi”, che mette i valori prima delle appartenenze. Democristiano, cattolico del Concilio Vaticano II, all’inizio degli anni Novanta non ce la fa più a stare dentro il partito di Francesco Cossiga e di Giulio Andreotti, che garantisce gli equilibri mafiosi in Sicilia. Segue Leoluca Orlando e Nando dalla Chiesa nella Rete, il partito che tenta di riformare la politica italiana. Ma il suo impegno principale resta quello di tener vivo il dibattito e l’attività culturale nelle periferie, tra mille difficoltà, attraverso il Circolo Perini.

L’attentato delle Br gli segna la vita. “Di quella sera”, raccontava, “m’è rimasto il ricordo della pistola puntata alla mia tempia e il terrorista che dice: ‘Se reagite sarà una carneficina’. Io che lo supplico di risparmiarmi (‘Ho moglie e figli’), lui che mi spinge contro la parete: ‘Inginocchiati, stronzo!’. Poi lo sparo, l’improvvisa vampa alla gamba”.

Gli risparmiarono la vita, ma gliela avvelenarono: 34 interventi chirurgici, negli anni, per evitare l’amputazione, dolori continui, il ricordo di quella sera che tornava spesso, negli incubi notturni.

Diventato presidente dell’Aiviter, l’associazione italiana vittime del terrorismo, è stato sempre rigoroso contro gli ex militanti del partito armato che girano a dar lezioni di storia e di vita senza una parola per le vittime. Ma, uomo del dialogo, lo tenne aperto anche con i suoi carnefici: partecipò a un incontro tra ex terroristi e le loro vittime, voluto dal cardinale di Milano Carlo Maria Martini. Ora, in ricordo del “soldato Iosa”, c’è da tenere in vita il Perini e da impegnarsi – davvero – per le periferie.

“Disciplina e onore”: Conte e L’art. 54

Èbello, per chi crede che la Costituzione sia un “programma” politico da attuare, il richiamo ai suoi principi da parte del Presidente Conte, al momento di accettare con riserva l’incarico di formare il governo: primato della persona, lavoro come supremo valore sociale, uguaglianza formale e sostanziale, istruzione, tutela dell’ambiente, beni comuni, patrimonio artistico e culturale, un “governo pienamente concentrato sugli interessi dei cittadini”. Ancora più bello sarebbe se riuscisse davvero a realizzarlo.

Il Presidente Conte parla anche di “coerenza nella cultura delle regole e nella fedeltà ai valori” e qui, oltreché nel richiamo a una pubblica amministrazione “che non sia permeabile alla corruzione”, si avverte la presenza forte di un altro fondamentale principio, contenuto in una disposizione volutamente ignorata: l’art. 54, che parla di cose scomode quali fedeltà, disciplina, onore. Parole quasi dimenticate: l’onore in particolare, di cui è quasi perduto il concetto, così come della disciplina e del rispetto delle leggi.

L’art. 54, è importante sottolinearlo, ha due commi. Al primo – “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”, che impone a tutti fedeltà alla Repubblica non solo come forma istituzionale, ma come res publica nel senso più ampio di “cosa pubblica”, cosa comune, di principi del nostro vivere insieme – il comma 2 aggiunge qualcosa in più per chi eserciti funzioni pubbliche, politiche o amministrative: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Disporre immunità per chi pretende di esercitare pubbliche funzioni senza dignità e senza onore (addirittura evitando il giudizio su eventuali reati) potrebbe dunque essere costituzionalmente consentito? E non si tratta solo di reati, qui è in causa l’etica pubblica. Questo è da sottolineare. Già le parole usate dai Costituenti lo indicano con chiarezza: non si parla di cittadini che “esercitano” pubbliche funzioni, ma di cittadini cui tali funzioni “sono affidate”: il richiamo alla fides è fondamentale.

Questi cittadini, a differenza degli altri, non possono limitarsi come tutti a rispettare le leggi. L’art. 54 pone un più di dovere: onore e disciplina devono essere la loro guida. Come diceva Stefano Rodotà, la responsabilità qui evocata è molto più ampia della stessa responsabilità politica, perché si riferisce a tutti i soggetti che svolgono funzioni pubbliche e non soltanto chi sia investito di diretta responsabilità politica perchè esercita funzioni di governo o è membro di assemblee rappresentative.

C’è un di più che è richiesto a tutti coloro i quali svolgono funzioni pubbliche; e per essi c’è anche una minore aspettativa di privacy. La loro sfera di intimità deve essere rispettata solo se le notizie e i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica: avendo responsabilità pubblica, maneggio di pubblico denaro, potendo prendere decisioni di grande portata per la collettività, devono essere sottoposti non solo ai controlli tradizionali, ma anche al controllo diffuso da parte dei cittadini. La trasparenza serve in primo luogo a mettere tutti in grado di valutare coloro che ricoprono funzioni pubbliche attraverso la piena conoscenza della loro attività e dei loro comportamenti. Anche situazioni apparentemente private possono essere rilevanti per la valutazione del soggetto pubblico: in un sistema democratico, i custodi delle virtù repubblicane sono i cittadini che evitano l’abbandono di regole di etica civile e le prevaricazioni del potere.

Non può essere argomento sufficiente di difesa per chi esercita funzioni pubbliche escludere la presenza di veri e propri reati: l’art. 54 esige qualcosa di più. Le responsabilità perseguibili dalla Magistratura dovrebbe essere l’ultima tutela: anche di fronte a comportamenti non penalmente rilevanti devono scattare meccanismi sanzionatori idonei a garantire il rispetto del dovere costituzionale di disciplina e onore, da parte di coloro cui le funzioni pubbliche sono “affidate”.

Quello disegnato dovrebbe essere – come dice il Presidente Conte – “l’orizzonte ideale per un intero Paese” incamminato verso un “nuovo umanesimo”, come la nostra Costituzione vorrebbe. Ma finora è stata disattesa.

Mail box

 

Il ritorno inatteso del Pd: un’occasione caduta dal cielo

L’intellighenzia di sinistra non è affatto entusiasta del governo giallorosa. C’è da capirlo, se nascerà davvero non sapranno più dove sversare la loro dose di bile quotidiana. Per lorsignori, i 5S hanno sempre rappresentato una politica di seconda categoria, una banda di amatori indegni di frequentare il loro olimpo. Un’ostilità feroce che in realtà ha solo aiutato l’ascesa del Movimento. In compenso i resti del centrosinistra si sono squagliati. L’intellighenzia di sinistra è arrivata a preferire Berlusconi a Di Maio. Il Pd si è arroccato fino a trasformarsi in una casta tronfia e detestata. Grazie all’incommensurabile genio politico di Salvini, lo scenario politico italiano è cambiato di botto. Grazie a lui i resti malconci del centrosinistra e il Movimento pare facciano un pezzo di strada insieme dopo anni di sanguinose ostilità. Una svolta che si deve anche all’altro genio incompreso della politica nostrana, quel Renzi che ufficialmente vuole salvare il Paese dal sovranismo e, visto che c’è, pure il suo sederino. Il tutto con il sommesso beneplacito di Zingaretti, che avrebbe preferito restare nelle trincee radical shit, ma è stato travolto dagli eventi. Adesso si tratta di vedere come il Pd gestirà questa opportunità che gli è piombata dal cielo. Se coglierà l’occasione oppure cercherà di approfittarne per rivendicare il vecchio regime. Vedremo se proporrà come ministri i soliti capibastone oppure lascerà spazio a facce nuove. Vedremo se avrà il coraggio di affrontare le battaglie di civiltà portate avanti dal Movimento, nate anche dall’inerzia ipocrita dei vecchi partiti come il Pd.

Tommaso Merlo

 

Dalla politica al clima: viviamo in un’epoca piena di conflitti

È possibile che da ogni parte si guardi sia tutto una lotta armata? A parte le numerose battaglie in atto sulla faccia del pianeta, c’è un’infinità di altri conflitti. Per esempio, quelle dei disperati per un approdo sulle coste italiane, guerra in questi giorni tra politici del M5S e il Pd per conquistarsi un posto di rilievo nel nuovo governo Conte, guerra tra le religioni, dei disoccupati, dei giovani precari che non riescono a trovare un posto di lavoro, in modo particolare al Sud, dei pensionati che prendono pensioni minime, dei lavoratori licenziati a cinquant’anni e che non riescono più ad entrare nel mondo del lavoro e devono mantenere una famiglia con dei figli minorenni e pagare anche il mutuo della casa. Ognuno di noi potrebbe compilare un elenco senza fine. Ne siamo coscienti?

Cav. Antonio Guarnieri

 

Salvini e la Meloni attaccati alle poltrone ora più che mai

Ho ascoltato, con un misto di pena e nausea, la logorroica lagna del fu capitano, appena uscito da Mattarella per parlare di “tradimento verso il popolo e la democrazia”, quando l’unico traditore in questa vicenda è lui e in quanto al popolo e alla democrazia dovrebbe almeno consultare un buon dizionario per capire il significato di queste parole. Altra istruttiva esperienza è stata poi ascoltare la Meloni: colpita da turbe della personalità, questa gentile signora si è messa in testa di essere una rediviva Evita Peron alla guida dei descamisados. Il presidente Conte non ha bisogno di incoraggiamenti, ma se vuole essere assolutamente certo di farcela tenga sulla scrivania le foto di questi due personaggi. Interessante poi sentire tutti costoro parlare sprezzantemente di “poltrone”, ovviamente quelle degli altri, perché per fargli mollare le proprie non basterà l’argano.

Vincenzo Bruno

 

La solita crisi riparatoria per evitare di perdere consensi

In questa crisi ci sono molti lati della peggior Dc ed è utile cercare di capire perché sia stata così improvvidamente aperta. Le dichiarazioni del Cazzaro Verde e il suo delirio di onnipotenza ci avevano mandato dei segnali. Agli inizi di agosto cominciava ad avere qualche difficoltà con i consensi e Conte lo aveva superato nel gradimento e soprattutto nella credibilità. “Che fare?”, si sarà domandato. Meglio trovare un amico a cui promettere il posto di premier, meglio se già prono a ogni desiderio. Da cosa nascono i miei sospetti? Da una dichiarazione di Di Maio: “Salvini mi ha offerto di fare il premier. Ho detto di nuovo no’’.

Franco Novembrini

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, in merito all’articolo apparso ieri su Il Fatto Quotidiano dal titolo “Ruote, acquari, porti: la Sicilia del futuro è un annuncio di carta” a firma di Giuseppe Lo Bianco, ci preme precisare che l’Eurispes non è “guidato dall’ex ministro delle Politiche agricole di Berlusconi, Saverio Romano”. Invero, il nostro Istituto è presieduto dal professor Gian Maria Fara, mentre Saverio Romano dirige invece il Dipartimento per il Mezzogiorno.

Ufficio Stampa Eurispes

 

Prendo atto della rettifica e dell’imprecisione. Mi scuso con i due dirigenti interessati e con i lettori.

GLB

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, in un titolo di prima pagina, ho chiamato Ben il premier britannico Johnson, che invece si chiama Boris. Sono un po’ fuso. Me ne scuso con i lettori.

M. Trav.

Polanski a Venezia. Ma è una Mostra del cinema o un tribunale speciale?

Gentile redazione, ogni volta mi stupisco di come Polanski venga trattato dai colleghi, ultima la presidente di giuria a Venezia, che si rifiuta di andare alla proiezione di gala del suo film per le accuse di molestie su una minorenne. Sono accuse orribili, per cui il regista è stato anche condannato, ma cosa c’entrano con l’arte? Ma è una Mostra o un tribunale? Io sto con il direttore Barbera: non siamo giudici, ma critici di cinema.

Eliana Parenti

 

Gentile Eliana, la ringrazio per le sue riflessioni, che considero una giusta reazione rispetto a un comportamento reiterato. Anzitutto mi permetto di darle alcune novità sulla questione, tuttora in corso di dibattito nell’ambito della Mostra veneziana iniziata da pochi giorni. Roman Polanski non sarà presente alla première del suo film, “J’accuse”. La sua scelta, di cui non sappiamo le ragioni, è stata comunicata prima che la polemica prendesse corpo, è dunque precedente alle dichiarazioni della presidente di giuria di Venezia 76, Lucrecia Martel. Poi se oggi al Lido vedremo comparire il grande cineasta polacco saremo felici della sorpresa, naturalmente. Chiaramente la questione è delicatissima e come purtroppo spesso accade, viene cavalcata dai media (soprattutto “social”) con quel “tanto al kilo” da svilirla e anzi fraintenderla proprio. Martel ha sbagliato il tiro: se questa era ed è la sua posizione, doveva dimettersi dal ruolo di presidente di giuria non appena è stata comunicata la selezione del concorso veneziano, vale a dire a metà luglio. Questo suo comportamento non solo è discutibile, ma anche goffo. E, ancor più grave, rischia di minare la bontà di qualsivoglia verdetto sortirà la Mostra. Ma non solo. Seppur la sua posizione sia legittima, farne oggetto di dibattito e polemica in pasto alla folla ha portato allo svilimento – se non addirittura a un vero e proprio depotenziamento concettuale – della battaglia di molte donne contro violenze e molestie. L’effetto è un clamoroso boomerang: tutti (e quasi tutte le donne) si sono schierati a favore di Polanski – che ricordiamo vittima egli stesso per la sua vita intera di ogni genere di sopruso a partire dall’Olocausto in poi –, il quale ha scontato e tuttora sta pagando cara la molestia sulla ragazza avvenuta decenni fa. La stessa sua vittima rilasciò a suo tempo delle dichiarazioni ed è noto che Polanksi le abbia chiesto scusa per i suoi atti, certamente da condannare ma non tali da costargli una crocifissione praticamente reiterata a ogni festival che ospiti una sua opera.

Anna Maria Pasetti

“Questa crisi sembra uscita dai Cavalieri di Aristofane”

Se chiedi a Eva Cantarella – che ha a lungo insegnato il Diritto greco antico alla Statale di Milano – a quale tragedia può somigliare l’attuale fase politica, risponde con un sorriso. “A nessuna… le tragedie non si occupavano – o meglio non si occupavano se non in via mediata – di questioni politiche. Della politica, quella concreta, quella del momento si occupava la commedia, che pur riferendosi ad alcuni millenni or sono, ha ancora molte cose da dirci”.

Un esempio per tutti?

I Cavalieri, in cui Aristofane, nel 424 a.C. esorcizza nel riso la tragedia che vedeva profilarsi per la sua amatissima Atene, in quel momento sciaguratamente governata da Cleone, capo di un partito democratico che, sotto di lui, di democratico aveva ormai solamente il nome. Cleone (rappresentato sulla scena con il nome di Paflagone), era un demagogo di modi volgari, sfrontato, avido, di pochissima cultura, divorato da una sfrenata ambizione, capace di sollecitare gli istinti più bassi delle folle delle quali era l’idolo incontrastato. Vantandosi di un momentaneo, secondario, successo nella lotta contro Sparta era riuscito a esaltare i suoi concittadini, convincendoli a proseguire una guerra che, come ben noto, li avrebbe portati alla rovina. Cleone, questo bisogna dirlo, era un vero e proprio genio della propaganda.

Somiglianze con Salvini?

Beh, direi che i possibili elementi di raffronto non mancano: anche a prescindere dalla parabola, il rischio di passare dalle stelle alle stalle. Chissà… forse Salvini è meglio di come ha scelto di mettersi in scena, ma resta il fatto che ha deciso di farlo così. Il suo volto pubblico è quello del demagogo, che quando si crede al massimo della popolarità invoca i pieni poteri. E sollecita la paura del diverso, dell’altro. Però è democratico e religioso.

Proseguiamo con la trama.

Paflagone è all’apice del suo successo, senonché, anche se non lo sa, su di lui incombe un rischio: un oracolo prevede che sarà detronizzato da un salsicciaio (sulla scena, Agoracrito). Sì, il macellaio che amalgama le carni in un insaccato. Non sfuggirà la valenza metaforica del mestiere: qualcuno che impasta e compatta diverse carni. Inizialmente però il salsicciaio si schermisce. Sono ignorante – dice – sono incompetente, cresciuto nella strada, non so di politica… Ma è proprio questo che serve per vincere, gli dicono quei Cavalieri che danno il titolo alla commedia.

Chi sono?

La classe dei moderati: sono democratici ma non massimalisti, sulla scena rappresentano Demostene e Nicia, appartenenti entrambi al partito della pace, e di conseguenza, contro Cleone, sostengono il Salsicciaio. Ma il padrone di tutto, in realtà, è Demo che – come dice il nome – rappresenta il popolo (al seguito di Paflagone, ma pronto ad abbandonarlo alla prima occasione). Demo ama solo sentirsi adulare e sentirsi fare promesse mirabolanti. Il populismo paga. Così tra il salsicciaio e il Paflagone inizia la gara a chi le spara più grosse e riesce meglio a procurarsi popolarità. Non c’è bisogno di mostrare rosari: Demo segue la sua capricciosa volontà, è volubile, viziato. E così accade che il nuovo capo, tra il giubilo popolare, sarà Agoracrito, che riesce a sconfiggere Paflagone perché è persino peggiore di lui. È questa la vera, sola, ragione della vittoria.

Di nuovo: non è che sta pensando a Conte, alle prese con maggioranze diverse da impastare?

No, assolutamente no! Conte, per cominciare, è una persona colta, un “professorone”. E, nella desolazione generale, questo è motivo di non poco conforto. Certo, dovrà gestire una fase difficile, presumibilmente – e auspicabilmente – dovendo “impastare” decisioni prese in un passato anche molto vicino alla luce dei nuovi obiettivi che oggi è chiamato a raggiungere. Ma la sua cultura mi sembra autorizzi a ben sperare.

Torniamo alla nostra commedia. Come finisce?

Per liberarsi di Cleone, il popolo si affida al Salsicciaio, che lo condurrà al disastro.

Cosa voleva dire Aristofane con questo finale?

Voleva mettere i suoi concittadini di fronte a quello che accadeva quando la democrazia, invece dei più valorosi e onesti, esprime i peggiori, che trovando solidarietà tra i loro simili degradano il livello sociale ed etico della convivenza civile. Dalla democrazia alla demagogia: mai, forse, ne è stata fatta una descrizione più amara. Quasi una premonizione.

Perché?

Aristofane sembra presagire quello che di lì a pochi mesi accadrà. Pur avendo parteggiato per il Salsicciaio, i suoi concittadini, al di là degli inganni di Cleone, volevano la guerra, che accanto ai morti portava danaro… Un ulteriore argomento del quale varrebbe la pena parlare anche oggi. E il partito della guerra era destinato a vincere: poche settimane dopo la rappresentazione de I Cavalieri, gli stessi Ateniesi che avevano visto sulla scena Cleone sbeffeggiato e svergognato, lo eleggono stratega.