“Maratona Mentana?”. “Yes, Diego Armando!”

Due attempati marsigliesi cercano risposte agitando la cartina – di quelle che non si piegano mai: ancora esistono, in barba a Google –, quattro estroversi canadesi si affidano al vigile lì vicino: “Excuse me, what’s happening here?”. Vanno capiti: prenotano la vacanza a Roma d’agosto, non s’aspettano altro che monumenti, nobili rovine e altri turisti come loro, e invece si ritrovano palazzi blindati, polizia, auto blu, dannati giornalisti che sgomitano con le telecamere. “Eccolo, arriva, arriva!”. E che sarà mai.

Fuori dal Quirinale è mattino presto, gli italiani aspettano Conte e i viaggiatori si guardano intorno disorientati. Kevin, dall’Oregon, è un tipone massiccio in maglia arancione: “Non ho idea di cosa stia succedendo”. Sta per arrivare il primo ministro. “Ah, è stato appena eletto?”. Caro Kevin, è una lunga storia.

Una famiglia spagnola svolta l’angolo da via della Consulta e si ritrova di colpo in mezzo ai fotografi. “Para mi?”, scherza la figlia. Più interessate una coppia di donne brasiliane. Si fermano, parlottano, poi trovano il coraggio di chiedere lumi. E qui il cronista si fa Cicerone: tocca parlare di consultazioni, contratti di governo, gialloverdi che c’erano prima ma poi hanno litigato, i giallorossi che arrivano adesso, è un momento importantissimo per il Paese, signore mie. “Ooooh”. Pausa. “Desculpe, para la Fontana de Trevi?”.

Noi italiani, in effetti, ci eccitiamo per poco. Cambiano i governi quasi ogni anno e tutte le volte reagiamo come fosse un evento, innamorati come siamo della polemica, delle riunioni, dei dibattiti. E delle maratone televisive, ovviamente. Nedes viene da Tuvalu, 26 chilometri quadrati tra le Isole Figi, e ha fatto 26 ore di volo per ritrovarsi davanti al Quirinale assediato. “Nedes, do you know Maratona Mentana?”. Ci pensa un po’, poi deve chiedere soccorso al marito: “Oh yes, Diego Armando!”. Maradona, il mitico numero 10 che ha fatto innamorare Napoli.

Con Torsten, tedesco, si va nel sofisticato: “Maratona Mentana? Sounds like a very long mental terhapy”, “suona come una lunga terapia mentale”. Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato.

Una famigliola di Toronto davanti a Montecitorio è invece l’occasione d’oro per toglierci un dubbio, visto l’incidente trumpiano dei giorni scorsi: “Sorry, how do you spell Giuseppe?”, come scrivete “Giuseppe”? Abbozzano qualcosa – ricordando Ajeje Brazorf nel celebre sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo –, poi si arrendono: “He could write Joseph”, avrebbe potuto scrivere Joseph. Saggezza popolare.

Anche Julia e Dimitri, russi d’un pezzo, sono molto interessati alla faccenda. Sono disorientati ma cercano occhi amici a cui chiedere. “Oggi il primo ministro riceve l’incarico, sapete, qui in Italia cambiamo governo molto spesso”. “Oh, stability is better”, la stabilità è meglio. Detto da loro, sembra verosimile, d’altra parte non hanno certo questi problemi.

E che dire delle sfilate turistiche sotto al Nazareno, dove da giorni stanno appostati cronisti ed esercito per presidiare ogni fiato dem. Passano giapponesi (o cinesi?), tedeschi, forse francesi, tutti ordinati dietro alla loro bandierina. “Scusi signora, conosce il nostro primo ministro?”. “Non posso, non posso”. Sennò la bandierina va via lontana e chi la riprende più. Dal portone esce Maurizio Martina, i cronisti – pur senza l’entusiasmo dei giorni scorsi– se ne accorgono. “Scusate, era qualcuno di importante?”. Questa volta la voce è di un turista italiano. “Maurizio Martina, l’ex ministro, questa è la sede del Pd”. “Ah, grazie”. “Papà, papà, chi era prima?”. “L’ex ministro, Martino”.

Bibbiano, Mafia Capitale, Etruria: le querele incrociate fra M5S e Pd

C’eravamo tanto odiati. M5S e Pd si sposano dopo sei anni di convivenza in Parlamento vissuta dormendo in stanze separate e lanciandosi le stoviglie addosso. Chissà, potrebbero andare d’amore e d’accordo per più di un decennio, come insegna il precedente di Forza Italia e Lega Nord in epoca pre-Internet. Certo, la pace bisognerebbe farla fino in fondo.

Nel 2001 le trattative per la (ri)alleanza azzurro-verde, iniziate due anni prima con la mediazione di Giulio Tremonti e blindate con la vittoria e il governo di Silvio Berlusconi, furono precedute, accompagnate e sancite da un lungo lavorìo parallelo per transare ed estinguere un centinaio di cause civili e penali. Bisognava asciugare il fiume di querele pendenti sul quotidiano di via Bellerio, La Padania, e sui politici del Carroccio, che aveva avvelenato i rapporti tra leghisti e forzisti dopo la clamorosa rottura del 1994. In modo da smaltire in sicurezza le scorie di quando Umberto Bossi dava del “mafioso” al Cavaliere di Arcore.

M5S e Pd non hanno fabbricato un contenzioso così rilevante. Ma in questi ultimi anni, i leader dei due partiti ora alleati di governo se ne sono dette di tutti i colori, trascinandosi spesso in Tribunale. Ora la pace politica raggiunta sul Conte bis è stata improvvisa. Non c’è stato tempo di affrontare la questione. Un dettaglio minore rispetto alle altre poste in gioco: la nascita del governo, i ministeri.

L’ultima battaglia sull’affido dei bimbi

Eppure appena 40 giorni fa, il Pd del segretario Nicola Zingaretti ha annunciato querela contro Luigi Di Maio e i Cinque Stelle per le dichiarazioni sui dem “partito di Bibbiano”, associate alle nefandezze scoperte dall’inchiesta sugli affidi dei minori in Val d’Enza. Il responsabile organizzazione del partito, Stefano Vaccari, ha fatto sapere che non è stata ritirata. Quindi Zingaretti e Di Maio, i leader delle forze politiche che reggeranno il governo, si alleano con una querela in corso. Querela che, va ricordato, non è l’unica di peso nei rapporti tormentati tra “grullini” e “pidioti”, per usare un linguaggio da Taverna (Paola).

L’esposto solo annunciato di Miceli

Il 5 dicembre 2018 il deputato dem Carmelo Miceli convocò una conferenza stampa a Montecitorio per annunciare la presentazione di un esposto alla Procura di Napoli sugli affari della famiglia Di Maio. Erano i giorni delle polemiche sui lavoratori in nero e gli abusi edilizi riconducibili alle aziende guidate di fatto da Antonio Di Maio, papà del vicepremier e ministro del Lavoro.

Vennero fuori anche i passaggi di beni finiti nella Srl, poi sciolta, di proprietà di Luigi Di Maio e della sorella. Di quell’esposto non risulta però traccia formale negli uffici degli inquirenti partenopei.

È invece stata azionata la macchina della citazione per danni, avviata a fine giugno scorso dal tesoriere del partito democratico Luigi Zanda, contro Luigi Di Maio, per le polemiche furibonde sul disegno di legge a firma Zanda, che avrebbe sganciato le retribuzioni dei parlamentari da quelle dei magistrati, agganciandole a quelle sontuose degli eurodeputati. “Di Maio è un arrogante inquisitore che dice il falso”, commentò il tesoriere dem mentre ritirava il disegno di legge “per evitare strumentalizzazioni politiche”. “Allora avevamo ragione noi”, replicarono i pentastellati.

La querelle tra l’ex premier e la Muraro

Dall’altra parte del campo, la vittima preferita dei 5stelle è Matteo Renzi. Finito diverse volte sotto attacco mediatico e giudiziario della giunta Raggi.

L’ex assessore all’Ambiente Paola Muraro lo ha querelato dopo le dichiarazioni dell’allora premier che disse: “Pensate che avrebbero detto se la Muraro fosse del Pd? In fondo la svolta della Raggi è dare la gestione dei rifiuti a una donna collegata totalmente a Mafia Capitale, a quelli che c’erano prima”. Nonostante l’opposizione di Muraro, il Gip di Roma ha archiviato Renzi, spiegando che la frase era stata “pronunciata nel contesto di quella critica politica e non già in modo estemporaneo o sganciata dal contesto informativo nel quale è avvenuta”. Muraro non si è arresa e vorrebbe rivolgersi in Cassazione.

Archiviato il fascicolo contro la sindaca di Roma

Un’altra querela, quella di Raggi contro Renzi per le insinuazioni sulle raccomandazioni grilline nell’azienda pubblica dei trasporti Atac, è restata nel limbo degli annunci buoni per un titolo di agenzia ma senza seguito. In realtà una querela ci fu: la fece il presidente della commissione Trasporti Enrico Stefano, contro Bruno Rota, ex direttore generale dell’Atac e autore delle frasi sulle presunte raccomandazioni poi riprese da Renzi.

Esito: richiesta di archiviazione, opposizione del querelante, camera di consiglio già fissata.

Archiviata anche la denuncia dei dem contro Raggi per un post dal titolo: “Affari con Mafia Capitale? Mica siamo il Pd”. “Il fatto non costituisce reato trattandosi di una forma di manifestazione dell’esercizio della critica – scrive il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo nella richiesta di archiviazione – che muove dall’oggettivo coinvolgimento di alcuni esponenti del Pd nei procedimenti e nei processi cosiddetti di Mafia capitale”.

La Boschi: “Non torno indietro sui risarcimenti”

Infine, per spruzzare un po’ di sereno sul nascente Conte bis, l’ex ministra Maria Elena Boschi rivela in un’intervista al Messaggero che non ritirerà le azioni legali contro il M5S, che la attaccava sulle vicende del padre e di Banca Etruria. “Nessun risentimento personale, ma sui risarcimenti non torno indietro”. Auguri a lei e a Conte, prete di un matrimonio tra sposi litigiosi.

A Prodi non basta il governo: “Duri l’intera legislatura”

A Ravenna Romano Prodi viene accolto come una vecchia rock star. Sala piena, pubblico in piedi, standing ovation di due minuti. Non veniva a una festa dell’Unità da 11 anni. L’eterno Professore non sembra poi tanto invecchiato dagli antichi fasti di Piazza Santissimi Apostoli (erano i gloriosi anni 90): è asciutto e abbronzato, ride, si toglie subito la giacca, saluta calorosamente la platea.

È considerato tra i principali artefici della svolta penta-governista del Pd: la necessità di un’alleanza con i detestati grillini l’ha scritta lui tra i primi, in un editoriale sul Messaggero, parlando di “modello Orsola” (cioè la “versione italiana” di Ursula von der Leyen, commissaria europea baciata dai voti di Cinque Stelle e dem). Il professore non lo nasconde, anzi lo rivendica con un certo orgoglio: non è il “padre nobile” del governo che sta nascendo, ma per questioni anagrafiche. Però “nonno nobile” sì, eccome. “Qual era l’alternativa?”, chiede, con una domanda retorica, a questo incontro forzato tra il Movimento e il Partito democratico?. D’altra parte, come spiega con una punta di civetteria, “Salvini mica l’ho fatto fuori io, s’è fatto fuori da solo: si riteneva simile a Dio…”.

Il Professore è tornato in cattedra e non scende più: a Ravenna è venuto a dare la linea. “Serve un programma comune e questa esperienza deve durare, anche faticosamente, per tutta la legislatura”. Elargisce consigli: “Bisogna stare attenti alla formula. Grillo dice di fare un governo di tecnici… niente affatto! Non avrebbe forza. Va fatto un governo politico”. Ma non col “manuale Cencelli, altrimenti è finita”. Invece servono ministri “di garanzia”, al di fuori delle correnti: “Tre o quattro. Ai miei tempi c’erano figure come quella di Ciampi. Non erano graditissime da tutti, ma erano credibili. Quando c’era tensione, sapevano mettere in sicurezza il governo”.

Lancia un’altra proposta: “Serve un ministero che si occupi solo di immigrazione. Un ministero dell’Integrazione”. Anche se “lo Stato deve esercitare un controllo sulle Ong”. Poi indica gli argomenti dirimenti: “Distribuzione del reddito, nuovo rapporto con l’ambiente, sicurezza riguardo salute e scuola, ovvero il welfare. E basta: questi sono i punti. E poi serve una lotta spietata all’evasione fiscale”.

La lunga ala protettiva di Prodi abbraccia Nicola Zingaretti: “Chi decide tra lui e Renzi? La cosa è semplicissima: nel Pd comanda il segretario”. Grande applauso della platea. E poi aggiunta ironica: “Ieri nel discorso conclusivo Zingaretti ha avuto un solo voto contro. Una roba sovietica. Per il Pd è incredibile”.

A intervistarlo c’è Lucia Annunziata, la direttrice di Huffington Post che si è schierata con nettezza per le elezioni. La prima domanda gli strappa un sorriso: “Le piace Conte?”. Risposta sardonica: “Vediamo”. Seconda domanda: “È il suo erede?”. Altra risata: “Auguro al suo governo di durare più dei miei”. Poi la giornalista lo chiede al pubblico: “A quanti di voi piace Conte?”. Le mani che si alzano sono pochine. Ma a Prodi nulla toglie il sorriso: “È una buona minoranza”.

A Ravenna l’ex premier sembra uno dei pochi che ha idee imperturbabilmente chiare. Nell’estate del 2019, quella del grande compromesso con i Cinque Stelle (se sarà storico, lo dirà il tempo), “la grande comunità politica” del Pd sembra aver smarrito i punti cardinali. Così succede che prima di Prodi, uno degli applausi più fragorosi della serata se lo prenda Oscar Giannino, speaker radiofonico, vecchio repubblicano, vivace intellettuale di (centro)destra: “Vi mando un forte abbraccio perché la prova che vi aspetta è fondamentale per la tenuta civile. Sarà cruciale per non consegnare Italia a un autoritarismo pericoloso per la libertà”.

Giannino è uno degli ospiti della festa del Pd in un dibattito in memoria di Massimo Bordin, la voce di Radio Radicale che se n’è andata ad aprile. Bordin, come Giannino, detestava cordialmente il Movimento Cinque Stelle. Quel Movimento Cinque Stelle che ha provato, ed è quasi riuscito, a chiudere Radio Radicale.

Sul palco c’è anche Roberto Giachetti. Era il candidato di Renzi contro Zingaretti alle primarie dem. Il suo programma consisteva in sostanza in un solo punto: mai alleanze con i Cinque Stelle (“il Pd muore se va con loro”). Nel frattempo Renzi è diventato l’uomo che ispira e rivendica il patto con i grillini e Giachetti – mentre omaggia l’antigrillino Bordin e la radio che i grillini volevano spegnere – non si sente tanto bene. “Il momento – dice – è molto particolare. Ma abbiamo dimostrato una grande capacità di lettura degli eventi”. Dice proprio così: è la più creativa definizione della grande giravolta del Pd e dei Cinque Stelle. “Una grande capacità di lettura degli eventi”. Beato il popolo che non ha bisogno di Prodi.

Molinari e Romeo, l’insuccesso dà alla testa

C’è Matteo Salvini, certo, e vedere la sua metamorfosi dalla console del Papeete al rosario baciato di nascosto in Senato è sufficiente a rendersi conto dello stato di salute della Lega. Ma ci sono anche i suoi scudieri, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, l’uno capogruppo in Senato e l’altro alla Camera, che da qualche giorno fanno quasi simpatia pure a chi la Lega non ci pensa proprio a votarla.

Hanno iniziato la crisi di governo smargiassi e sicuri, l’hanno finita contraddicendosi, rimangiandosi tutto, cambiando versione, gridando al complotto quando hanno visto nascere sotto i loro occhi la nuova maggioranza 5 Stelle-Pd.

Se ne capisce l’imbarazzo, evidenziato due giorni fa dalla confusione provocata dalle dichiarazioni di Luigi Di Maio al Colle. Quando il leader del Movimento ha annunciato che la Lega gli aveva offerto la poltrona di primo ministro, il Carroccio è andato in ordine sparso. Mentre Salvini confermava tutto in un colloquio col Corriere della Sera, Molinari si ostinava a negare, emulando quei soldati giapponesi che, ignari della fine della guerra mondiale, continuavano a combattere da soli nelle foreste: “Non mi risulta che nessuno della Lega abbia mai chiesto a Di Maio, né privatamente né pubblicamente, di fare il premier”. Magari non risulta a lui, ma a Romeo sì, dato che il capogruppo al Senato negli stessi minuti confermava: “Abbiamo offerto ai 5 Stelle la possibilità di scegliere tra un rinnovato governo del cambiamento e l’inciucio col Pd”.

E pensare che tutto era iniziato in quel 7 agosto di gloria al Senato, quando la Lega pensava di aver incartato i 5 Stelle coalizzando tutti i partiti a favore del Tav. A far la voce grossa a Palazzo Madama era proprio Romeo: “Cari 5 Stelle, se fate parte del governo dovete essere a favore del Tav. Chi vota no si assumerà la responsabilità delle conseguenze politiche che conseguiranno nei prossimi giorni”.

Sembrava tutto scritto: rottura e voto anticipato. Molinari rispolverava la retorica del “governo dei sì”: “Vogliamo elezioni subito per dare all’Italia un governo operativo. No agli inciuci”. E mano a mano che invece il suddetto “inciucio” prendeva forma, eccoli provare a ricucire coi 5 Stelle. Tornate con noi, avevamo scherzato. In coro, loro che per altro sono accomunati, oltre che dalla carica, dai guai giudiziari. Ex consiglieri regionali, Romeo in Lombardia e Molinari in Piemonte, sono finiti dentro ai rispettivi scandali per le spese pazze dei gruppi, quelli – per intendersi – passati alla storia politica per l’acquisto con soldi pubblici di libri erotici, bermuda verdi e epilatori.

Lo scorso gennaio Romeo è stato condannato per peculato in primo grado: 1 anno e 8 mesi con la contestazione dell’uso improprio di 21.917 euro, spesi per lo più in bar e ristoranti. Tre anni prima, il capogruppo si era già messo in pari con la Corte dei Conti, scucendo 33.900 euro comprensivi di danno di immagine per la Regione.

Persino più scenografiche le sentenze relative a Molinari, condannato in Appello a 11 mesi per spese ingiustificate ben inferiori (1.158 euro), ma pittoresche: a parte viaggi e cene, i giudici si sono trovati a decidere anche sull’acquisto di un pacchetto di sigarette e di un cd di Francesco Guccini all’autogrill di Desenzano. Magari, in queste sere malinconiche, gli tornerà utile.

S’io fosse Conte lo ringrazierei, s’io fosse Giorgia m’incazzerei

Se fossi Giorgia Meloni sarei incazzata nera con Matteo Salvini per avermi di fatto ignorata quando ha deciso di mandare a gambe all’aria, da un mojito all’altro, e nel momento sbagliato, il governo gialloverde. E se pure qualcosa mi aveva fatto capire, non gli perdonerei di non avere tenuto in debita considerazione i miei inviti alla cautela.

Sarei molto arrabbiata con lui per aver considerato Fratelli d’Italia una specie di ruota di scorta del Carroccio. Di non averne apprezzato coerenza e lealtà. Di essersi fidato più di quello Zinga lì che del mio intuito politico (femminile). Per esempio, quando il segretario Pd gli prometteva elezioni subito, e io non escludo conoscendo la doppiezza sinistra che fosse pure lui d’accordo con Matteo Renzi per fare il governo con i grillini e un pacco a Salvini. Ma, soprattutto, non gli perdono di aver mandato a puttane (scusate ma quanno ce vò ce vò) il progetto del primo governo sovranista d’Italia (lui a Palazzo Chigi e io perché no al Viminale) che era una pera matura che andava solo raccolta. E invece lui che ha fatto? Se l’è mangiata.

Se fossi Giancarlo Giorgetti (o Luca Zaia, o una delle tante persone serie della Lega) sarei imbufalito con Matteo per non averci dato retta quando gli dicevamo di staccare la spina a quegli incapaci dei nostri alleati immediatamente il 26 maggio, dopo che li avevamo doppiati alle Europee e barcollavano come pugili suonati. Se fossi il capogruppo leghista al Senato, Massimiliano Romeo (o quello della Camera Riccardo Molinari) sarei rispettosamente perplesso (ma solo un pochino) per la decisione del nostro amatissimo Capitano di aprire la crisi ricacciandoci nell’oscurità sfigata dell’opposizione. Ma avrà avuto sicuramente le sue ragioni né possiamo pretendere che ce le venga a dire a noi e ci accontentiamo che ci consenta qualche comparsata da Mentana o ad Agorà cosicché i nostri cari, a Monza e ad Alessandria, sappiano che esistiamo ancora. Se fossi Gian Marco Centinaio, gli chiederei: aho ma che ti è saltato in testa di aprire la crisi proprio quando giravo in moto per la Sardegna, abbronzatissimo e con le basette fighe, e mi hai fatto tornare di corsa e ora non ho più neanche quello straccio di ministero agricolo, ma porcaccia di quella miseria!

Se fossi Silvio Berlusconi metterei un’altra tacca sulla spalliera del lettone di Putin, accanto a quelle di Fini, Follini, Bondi, Cicchitto, Alfano e di tutti gli scappati di casa che hanno tentato di farmi le scarpe invece di lucidarmele. Indovinate a chi sto pensando?

Se fossi Luigi Di Maio mi sentirei profondamente deluso, perché ho imparato a conoscere il cinismo della politica, ma non avrei mai pensato al cinismo di chi si dichiara tuo amico e poi ti accoltella alle spalle.

Se fossi Giuseppe Conte sarei riconoscente a quel pirla del mio ex vicepremier (a Volturara Appula si dice qualcosa di più forte) che pensava di liquidarmi e invece, grazie grazie, ha fatto la mia fortuna. Dandomi perfino l’opportunità di esprimere davanti all’Italia tutta che cosa penso realmente di lui, tra gli applausi scroscianti del Senato. Poiché non serbo rancore (ah ah) lo invito a venirmi a trovare a Palazzo Chigi, così magari ci riconciliamo sorseggiando un bel mojito (ah ah ah).

Se fossi Matteo Salvini non saprei capacitarmi della gigantesca cazzata che ho fatto e penserei seriamente di ritirarmi della politica e di accettare una poltrona, anzi un trespolo, da addetto alla sicurezza con pieni poteri su parco giochi e karaoke, da parte dei miei fedeli amici di Milano Marittima. Pronto? Come? Niente da fare? Che diavolo significa che la pacchia è finita?

Silvestrini, il grande diplomatico della Chiesa

Si è spento a 95 anni Achille Silvestrini, il grande diplomatico del Vaticano. Prefetto emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, per decenni ha ricoperto per conto della Santa Sede incarichi politici ai più alti livelli. Braccio destro dei segretari di Stato Domenico Tardini e Amleto Giovanni Cicognani, ha viaggiato con l’arcivescovo Agostino Casaroli nel periodo dell’Ostpolitik e guidato le trattative con le autorità italiane per la revisione del Concordato lateranense.

Nel 1952 entrò nella Pontificia Accademia Ecclesiastica e già l’anno successivo, il primo dicembre 1953, nel servizio diplomatico della Sezione per gli affari ecclesiastici straordinari della Segreteria di Stato, occupandosi del Vietnam, della Cina, dell’Indonesia e, in generale, del Sud-est asiatico. Nel 1971 accompagnò l’arcivescovo Agostino Casaroli nella visita a Mosca, per depositare lo strumento di adesione della Santa Sede al Trattato sulla non proliferazione nucleare. Nominato segretario del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa nel 1979, guidò la delegazione della Santa Sede per la revisione del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984. Le missioni diplomatiche che ha portato a termine in quegli anni non si contano: rappresentante della Santa Sede da Madrid a Malta, passando per Buenos Aires, le Malvine-Falklands, il Nicaragua, El Salvador, Libano e la Siria.

Fu Giovanni Paolo II a crearlo cardinale il 28 giugno 1988. Dal 24 maggio 1991 al 25 novembre 2000 ha ricoperto l’incarico di prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Come sacerdote, ha sempre lavorato tra i giovani di “Villa Nazareth”, fondata nel 1945 dal cardinale Tardini. Dalla comunità di ex-alunni laureati, professionisti e amici che lui stesso decise di animare alla fine degli anni 60, nel 1986 nacque la Fondazione “Comunità Domenico Tardini”. Avendo più di ottant’anni, il Silvestrini era cardinale non elettore del collegio cardinalizio.

La Mare Jonio tra onde alte due metri

Onde alte due metri e nessun riparo. Malori che hanno rallentato la raccolta dei dati chiesti dalle autorità italiane per sbarcare bambini e donne incinte. Come se non bastasse, anche un problema tecnico a una pompa ha bloccato la distribuzione di acqua.

Intanto i primi migranti sono scesi a terra. “Sono sbarcati bambini, donne incinte e i naufraghi più vulnerabili. Ancora in 34 a bordo tra le onde. Fateci sbarcare tutti”. È il tweet lanciato ieri sera dalla Ong Mediterranea Saving Humans proprietaria della nave Mare Jonio, che naviga a 13 miglia dalle coste di Lampedusa in attesa di un porto sicuro.

Lo sbarco è arrivato al termine di un giornata difficile. Nei giorni scorsi, infatti, il ministro Matteo Salvini ha firmato insieme ai ministri Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiani. Quando il mare ha iniziato a ingrossarsi i membri dell’equipaggio hanno chiesto alla Guardia costiera di Lampedusa di poter riparare sotto costa, ma i militari avevano in un primo momento ribadito il divieto allo scafo di avvicinarsi. La nave ha cominciato quindi a girovagare nelle acque internazionali proprio al limite dei confini marittimi italiani e a bordo la situazione è precipitata. Sia ospiti che membri dell’equipaggio hanno risentito del moto ondoso: è stato difficile persino raccogliere i dati che il Viminale ha richiesto per consentire lo sbarco dei bambini con i loro nuclei familiari, arrivato infine in tarda serata. Una decisione positiva per la Ong, ma ancora non sufficiente per risolvere completamente la situazione: altre 34 persone restano in attesa.

A differenza di quanto accaduto per la Open Arms, la strada di un ricorso al Tar al momento non è quella scelta dalla Ong: “Siamo fiduciosi – ha spiegato Sciurba al Fatto – che in Italia ci sia stata un’evoluzione in termini di umanità e rispetto dei diritti: speriamo che la follia temporanea di indicare i migranti e chi li salva come nemici sia stata superata”. Un messaggio, quest’ultimo richiamato anche da una campagna social lanciata nelle scorse ore con l’hashtag #nemicopubblico.

Un chiaro appello alla nascita del nuovo governo M5s-Pd. Come quello di Matteo Orfini, che a proposito dell’annuncio di Giuseppe Conte di “un nuovo umanesimo”, ha aggiunto: “Immagino quindi che gli esseri umani salvati dalla Mare Jonio verranno sbarcati immediatamente”. Al momento, però, Mare Jonio resta per il Viminale “una nave che non rispetta le leggi e che preordinatamente ha provocato lo stato di necessità a bordo per sbarcare in Italia”. Fra i passeggeri cresce l’attesa. “Noi dell’equipaggio – ha twittato Cecilia Sarti Strada – facciamo quel che possiamo per aiutarli, ma abbiamo bisogno di scendere. Abbiamo bisogno di portare a terra tutti prima possibile. Tutti”. L’equipaggio ha raccolto le testimonianze di chi ha visto annegare i compagni di viaggio e di torture subite nelle carceri libiche.

Anche dalla Chiesa sono giunti appelli per sbloccare la situazione. Da monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale a Palermo, al parroco di Lampedusa, don Carmelo La Magra: “L’atteggiamento di Salvini? Credo – ha detto il sacerdote – sia illecito, disumano ma soprattutto inutile perché non ha portato nel passato e non porterà neppure questa volta a una soluzione”.

“Sarò indagato”: il leghista ora è senza paracadute

“È in arrivo un’altra indagine contro di me per sequestro di persona per il caso Open Arms”. Ad annunciarlo, in un messaggio via social, è lo stesso ormai ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che anticipa la notizia dell’inchiesta a suo carico della Procura di Agrigento.

Era stato infatti il Viminale, insieme ai ministri Danilo Toninelli (Infrastrutture) ed Elisabetta Trenta (Difesa) a firmare il decreto di divieto di ingresso in acque italiane per la Ong spagnola Open Arms, rimasta 19 giorni in mare in attesa di poter sbarcare i migranti salvati nel corso di due operazioni nel Mediterraneo.

Le analogie con il caso Diciotti – che costò a Salvini l’accusa di sequestro di persona – sono menzionate anche nel provvedimento del Gip. Quel che è cambiato, però, è il clima politico: allora Salvini fu salvato dal Parlamento, ora non è detto che, con la nuova maggioranza, 237 senatori votino nuovamente contro l’autorizzazione a procedere nei confronti del leader leghista. Questa volta, per Salvini, potrebbe trattarsi di un’inchiesta senza paracadute.

La Open Arms era salpata dal porto di Siracusa il 29 luglio e con i suoi interventi aveva salvato dal naufragio 151 migranti. Dopo aver ottenuto risposte negative per lo sbarco da Italia e Malta, i legali della Open Arms avevano presentato ricorso al Tar del Lazio.

Il 14 agosto, i giudici avevano deciso per la “sospensione del divieto di ingresso in acque territoriali italiane per permettere il soccorso delle persone a bordo”. Salvini a quel punto aveva dato mandato all’Avvocatura dello Stato di presentare ricorso al Consiglio di Stato, ma nel frattempo le condizioni a bordo per molti migranti sono peggiorate. Così il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, e l’aggiunto, Salvatore Vella, avevano disposto un’ispezione a bordo, assieme a uno staff di medici e ai vertici della Capitaneria di porto, al termine del quale era stato disposto (20 agosto) il sequestro preventivo della Open Arms, permettendo a tutti i migranti e all’equipaggio di poter sbarcare a Lampedusa.

L’odissea dei passeggeri della nave era finita lì, adesso però c’è il suo strascico giudiziario. Oltre al sequestro di persona, ipotizzato dai magistrati agrigentini, si indaga anche per violenza privata e abuso d’ufficio. I pm vogliono capire chi ha impedito alla Open Arms di giungere a Lampedusa, dopo la sospensione decisa dal Tar del Lazio. Per questo motivo, gli agenti della Squadra mobile di Agrigento, su delega della Procura, si erano recati negli uffici centrali della Guardia costiera a Roma e al Viminale per acquisire atti e documenti, e ricostruire i passaggi di comunicazione tra i vari organi di comando.

Ieri, il gip Stefano Zammuto ha dato l’ok alla richiesta di convalida del sequestro preventivo, come atto dovuto, ma ha ordinato “il dissequestro e l’immediata restituzione dell’imbarcazione” alla Ong, perché “non sussistono dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”.

Per il giudice “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali, in corso di identificazione, sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti quindi, sono stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Inoltre, si legge nell’atto firmato dal gip, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia, in quanto primo porto di approdo in base al Trattato di Dublino”.

Via i decreti Sicurezza: intesa possibile 5S-Pd

La Mare Jonio dovrebbe sbarcare e il decreto Sicurezza bis dovrebbe essere “abolito” o comunque “profondamente modificato”. Sia perché è in “più punti “incostituzionale”, sia perché “non corrisponde alla cultura e ai valori del nostro Paese”. Con queste parole, nell’intervista pubblicata ieri dal Fatto, il prefetto Mario Morcone – tra i papabili nel ruolo di futuro ministro dell’Interno – ha messo le cose in chiaro: se mai dovesse ricoprire il ruolo di Matteo Salvini, esistono paletti non negoziabili.

Attuale direttore del Consiglio italiano rifugiati, da capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, Morcone s’è occupato del codice di condotta per le Ong. Ma il superamento del decreto Sicurezza bis varato dal governo Conte, a suo dire, è necessario non solo per le politiche migratorie. Non si tratta di paletti da poco, considerato che il M5S ha approvato con convinzione i passaggi messi in discussione. Di certo, la posizione di Morcone, visto che è la sua area politica, incontra i favori del Pd. Ma con qualche novità, se stiamo alle poche ma incisive parole pronunciate ieri da Graziano Delrio, capogruppo Pd a Montecitorio: “Sui migranti bisogna partire da una nuova legge quadro che contempli flussi regolari”. La vera novità è che, secondo Delrio, ci sarebbe già un accordo col M5S per una profonda revisione o cancellazione dei decreti Sicurezza promossi da Salvini. Ipotesi probabile se alle parole di Delrio associamo quelle che Francesco D’Uva, seppur timidamente, ha pronunciato sullo stesso argomento. Il capogruppo M5S alla Camera ieri ha dichiarato: “Ci sono rilievi fatti dal capo dello Stato che non possono essere ignorati. Si può lavorare su quello”. Un’apertura vestita dall’opportuno rispetto istituzionale, che lascia intravedere modifiche sostanziali sull’approccio alle politiche migratorie e ai rapporti con le Ong. E infatti Salvini commenta: “Leggo che le prime leggi saranno sui decreti Sicurezza. Faranno un torto agli italiani, non a Salvini. Qualcuno vuol far ripartire il business dell’immigrazione clandestina?”. Tra i rilievi avanzati dal presidente Mattarella nelle sue due lettere di richiamo, quello che riguarda migranti, soccorsi e Ong è piuttosto pesante. Si parte dall’ammenda prevista per le Ong che non rispettano le regole imposte dal decreto. Ammenda che può arrivare fino a 1 milione di euro. Secondo il Colle si tratta di una pena che non rispetta “la necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti”.

Se non bastasse, Mattarella ha sottolineato che l’Italia deve rispettare i trattati internazionali e, di conseguenza, non può ignorare l’obbligo di salvare le vite umane.

Recepire la posizione del Colle, dall’ammenda al rispetto delle norme internazionali, non soltanto significa rimettere pesantemente mano al decreto Sicurezza bis ma, anche alla luce della nuova alleanza con il Pd, rivedere radicalmente l’approccio all’intera politica sui flussi migratori e i soccorsi, con il quale la linea dei “porti chiusi” non sembra compatibile.

L’argomento è scomodo, anche perché i ministri della Difesa e dei Trasporti, Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, entrambi M5S, due giorni fa hanno controfirmato il divieto d’ingresso anche per la Mare Jonio, che batte bandiera italiana. Trenta ieri ha tentato qualche distinguo: “Credo che il ministro dell’Interno non possa azzerare il diritto di bambini, donne in gravidanza e ammalati d’essere soccorsi. Il loro soccorso diventa diritto di ingresso: a fianco del decreto Sicurezza sono vigenti, per fortuna, norme internazionali e interne che lo impongono”.

Salvini trasloca dal Viminale, prepara la piazza e teme i pm

Il tour di Matteo Salvini, come quello di Dylan, è Neverending, non finisce mai. Portava il suo spettacolo in giro per l’Italia quando a Palazzo Chigi c’erano Letta, Renzi e Gentiloni, l’ha fatto dal Viminale e, ora che ha chiuso le sue cose negli scatoloni e mestamente lasciato il palazzone vicino a Termini, tornerà a esibirsi dall’opposizione. Per curiosi o appassionati: stasera il cosiddetto “capitano” arringa le folle alla festa della Lega di Conselve, nel Padovano, domani sera sarà a Pinzolo, vicino Trento, e domenica alla “Berghem Fest” di Alzano Lombardo.

Gli organizzatori del “Salvini neverending tour” ormai d’opposizione (“per qualche mese”) hanno già fissato anche le date clou: il 14 settembre grande riunione degli amministratori leghisti e il giorno dopo il classico pratone di Pontida (titolo: “La forza di essere liberi”). A seguire: il 21 e 22 settembre i gazebo in tutta Italia per chiedere le elezioni e poi la grande manifestazione contro “il governo delle poltrone e dell’odio”. Quando? Con calma, a Roma il 19 ottobre. Un appuntamento talmente lontano che pure Giorgia Meloni se n’è lamentata pubblicamente: “Perché aspettare due mesi e fare una cosa da solo? Il momento di scendere in piazza è ora: la Lega venga in piazza con noi il giorno della fiducia”. Giovanni Toti, rimasto a metà del guado mentre usciva da Forza Italia, s’accoda: “Sarò in piazza con lei”. A Salvini, però, interessa il partito, non la (fantomatica) coalizione.

Non di sole esibizioni live vive però il capo leghista. Ci sono le giornaliere dirette Facebook, ovviamente, e ieri pure i saluti ai dipendenti (“centinaia”) del ministero dell’Interno: “Molti poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, finanzieri, agenti della polizia locale mi hanno detto e scritto ‘lei sarà per sempre il nostro ministro’. Ho visto lacrime e ho chiesto la cortesia di trasformare quelle lacrime in sorriso”, è il racconto un po’ Scelba, un po’ De Amicis.

Il menu comunicativo nelle ultime 24 ore è cambiato con l’evolvere della situazione. Mercoledì sera al Tg1, capito che quegli altri s’erano davvero messi d’accordo, ha finalmente ammesso di aver fatto una gran cavolata: “Il mio un errore? È così se lo si considera in base alle logiche della vecchia politica: non pensavo che ci sarebbero stati tanti parlamentari renziani che per non andare alle elezioni avrebbero votato il governo di Pippo e Topolino”. Preso atto della realtà, come detto, il nostro ha lasciato il Viminale e s’è messo all’opposizione, convinto che i giallo-rosé non dureranno: “Possono scappare per qualche mese o qualche anno ma alla fine ci troveranno pronti, più attrezzati e vogliosi di prima”.

Dall’opposizione, com’è noto, si picchia sul governo e, al momento, i suoi bersagli preferiti, dem a parte, sono Giuseppe Conte (“iscritto al Pd, come il presidente della Repubblica”, “l’ho sentito parlare di Nuovo Umanesimo: manca che risolva la pace nel mondo e la caduta dei capelli…”) e l’Europa. Ieri le parole di miele del commissario tedesco Günther Oettinger, già falco del rigore e fautore della punizione dei mercati sugli italiani, sono state benzina perfetta per il fuoco del leghista: “Oggi Bruxelles è pronta a fare qualsiasi cosa per il nuovo governo? Gettano la maschera. Questo governo non nasce a Roma, ma a Bruxelles per far fuori quel rompipalle di Salvini. Quelle parole sono disgustosamente chiare”.

Sotto il solito flusso di parole c’è, però, almeno una frase che Salvini dice – o meglio “posta” – in base al vecchio adagio secondo cui la lingua batte dove il dente duole: “In arrivo un’altra indagine contro di me per sequestro di persona per il caso Open Arms. Nessun problema, nessun dubbio, nessuna paura. Difendere i confini e la sicurezza dell’Italia per me sarà sempre un orgoglio!”. Un orgoglio per cui, però, da oggi non ha più lo scudo. Un osservatore esperto come Guido Crosetto, non certo da un punto di vista ostile a Salvini, su Twitter la mette così: “Com’era facile prevedere ora inizia la fase 2, cioè il massacro giudiziario di Salvini. Privo di maggioranze che lo difendano al Senato, sarà costretto a dedicare energie, testa e soldi a tutelarsi”.