Bruxelles apre ai giallo-rosa. Ma sul deficit sarà battaglia

Neanche il tempo per Giuseppe Conte di accettare con riserva l’incarico che da Bruxelles arrivano le prime aperture di peso. Una benedizione che spazia dagli auspici del presidente della Commissione Jean Claude Juncker (“I miei più calorosi auguri”) a indicazioni ben più utili in vista della manovra. Da Berlino, il Commissario al Bilancio, Günther Oettinger, dismette i panni del falco e preannuncia un sostegno attivo: con un governo “pro-europeo” si sarebbe pronti “a fare di tutto per agevolarlo e premiarlo, con più spazio per una politica sociale”, spiega in un’intervista alla radio Swr. Uscita che, ça va sans dire, fa infuriare Matteo Salvini, peraltro insolentito dal tedesco (“Populista che fa politica in costume da bagno”): “Parla di ricompensa? È gravissimo. Cosa è stato promesso e svenduto? L’Ue getta la maschera, il governo nasce per farmi fuori”.

La benedizione europea illumina il campo da gioco. È ormai chiaro che il nuovo governo potrà contrattare con Bruxelles spazi di bilancio da una posizione più agevole. In teoria la manovra parte da 28 miliardi, 23 per disinnescare gli aumenti Iva più le spese indifferibili. I giallo-rosa, però, possono beneficiare della correzione (senza colpo ferire) già varata quest’anno, che ha effetti anche sul 2020, e al forte calo dei rendimenti sui titoli di Stato, che riduce il costo del debito. Il previsto annuncio di misure espansive della Bce a settembre ha avviato un calo generalizzato dei tassi, che per l’Italia però è più marcato (e continuerà). Lo spread tra il Btp e il Bund ha chiuso in netto calo a 167 punti, col rendimento del decennale italiano ai minimi storici allo 0,97%. Ieri l’asta dei Btp a 5 anni ha fatto il tutto esaurito con rendimenti in calo. Il 2020 parte in discesa, con il disavanzo (ha stimato l’Ufficio parlamentare di bilancio) che chiuderebbe all’1,7-1,6% del Pil nel 2020, contro il 2,1 messo a bilancio. Un risparmio da 8-10 miliardi. Ci sono poi i margini di “flessibilità” (lo sconto sulla correzione da fare), con Bruxelles che ha fatto già arrivare segnali di apertura. A bilancio c’è già la richiesta di 3,7 miliardi per “eventi eccezionali” (infrastrutture e dissesto idrogeologico), a cui il governo aggiungerà quella per un ulteriore 0,5% di Pil (8,5 miliardi) per un piano di investimenti per la riconversione energetica.

La nuova Commissione si insedierà a novembre e la presidente Ursula von der Leyen dovrà gestire la revisione del Fiscal compact. La crisi della manifattura dell’eurozona e soprattutto la recessione tedesca spingono per allentare la morsa. Ieri pure la futura presidente della Bce, Christine Lagarde, ha auspicato regole meno rigide. Per l’Italia a bilancio c’è una correzione da 0,6 punti di Pil, una mazzata. Se non fosse richiesta, il deficit 2020 potrebbe arrivare al 2,5% del Pil, ben lontano dal 3% auspicato dal Pd renziano. Basterebbe forse a evitare nuove stangate, ma non a finanziare i programmi dei giallo-rosa.

Cuneo fiscale Flat tax archiviata, distanze su 80 euro e salario minimo

Sulle tasse si gioca buona parte delle ambizioni del nuovo governo. La prima certezza è che non vedrà la luce la flat tax voluta dalla Lega (aliquota al 15% per redditi familiari fino a 55 mila euro), che aveva un costo stimato intorno ai 12-13 miliardi. La seconda è che saranno disinnescati gli aumenti automatici dell’Iva (23 miliardi nel 2020), archiviando l’idea del ministro dell’Economia Giovanni Tria di farne scattare una parte per finanziare sconti sulle tasse. L’obiettivo è però intervenire sul cuneo fiscale con misure incentrate sui redditi bassi. Sia M5S e Pd concordano sull’introduzione di un piano famiglia, con assegno familiare dove – chiede il Pd – dovrebbero anche confluire tutte le agevolazioni oggi sparse in diverse misure. La riduzione delle tasse potrebbe risolversi in un (piccolo) taglio delle aliquote (la proposta M5S di passare da 5 a 3 costa però 15-17 miliardi).

Idee ancora più vaghe sul taglio del cuneo fiscale (difficilmente lo stanziamento può superare i 6 miliardi). La proposta già studiata dallo staff di Luigi Di Maio al ministero del Lavoro è quello di ridurre la quota di contribuzione al nuovo sussidio di disoccupazione (Naspi) a carico delle imprese (uno sconto a carico dello Stato) per compensare i maggiori aggravi che deriverebbero per le aziende dall’introduzione di un salario minimo (fissato – nella proposta M5S – a 9 euro lordi). Costa 4 miliardi ma ha ben poco a che far col cuneo fiscale e peraltro non piace al Partito democratico. Il Pd punta invece a potenziare il bonus degli 80 euro – introdotto dal governo Renzi nel 2014 – ampliando la platea anche agli incapienti, oggi tenuti fuori dalla misura è di aumentare la dotazione per arrivare a dare una mensilità in più in busta paga a chi ha un reddito da lavoro dipendente fino a 55mila euro. No secco, invece, all’ipotesi studiata in questi mesi al Tesoro di trasformarlo in una detrazione, perchè i dem vogliono che il bonus resti ben visibile in busta paga.

Reddito e Quota 100 La misura M5s sarà potenziata Quella sulle pensioni rischia

Il primo banco di prova per i giallo-rosa saranno le due misure cardine del governo appena concluso. Il Pd ha criticato aspramente il reddito di cittadinanza, accusandolo di alimentare il lavoro nero, l’inattività e di mischiare politiche attive e lotta alla povertà. Le possibilità di cancellarlo, però, non esistono. La discussione tra i futuri alleati, allora, verterà su una revisione, che miri anche a potenziarlo. Per i dem va migliorata la parte che riguarda le politiche attive, dove si è in ritardo. La chiamata dei percettori idonei a lavoro doveva partire entro un mese (a luglio), invece scatterà da settembre. L’obiettivo è di potenziare il meccanismo, inasprendo però le sanzioni per i furbetti. L’altra richiesta è di ridurre il vincolo dei 10 anni di residenza, che colpisce soprattutto gli stranieri riducendo la platea: sui 5 milioni di poveri assoluti, 1,5 sono immigrati. Per farlo serviranno nuove risorse, e i 5Stelle sono pronti a chiedere un aumento degli stanziamenti, riducendo anche gli stringenti paletti (una domanda su quattro delle 1,4 milioni pervenute, infatti, è stata respinta).

Discorso più complesso per Quota 100, la mini riforma delle pensioni, fortemente voluta dalla Lega. Le domande pervenute sono 160 mila, meno delle attese. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio la spesa lorda ammonterebbe quest’anno a 2,4 miliardi (1 miliardo in meno rispetto a quanto preventivato) e a 4,9 miliardi il prossimo (2,4 miliardi in meno). Il nuovo governo, a caccia di risorse, potrebbe essere tentato dal cancellare la misura e dirottare altrove le risorse. Ipotesi caldeggiata da una parte del Pd. Al meeting di Comunione e Liberazione, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha spiegato: “Io ero per ridurre subito le tasse sui redditi medio-bassi con risorse più o meno corrispondenti a quota 100”, chiarendo però che sarebbe controproducente “avere politiche sussultorie”. L’ipotesi è di restringere i paletti, ma cancellarla sembra politicamente insostenibile. Quasi certamente, la misura “sperimentale”, non verrebbe rinnovata dopo il 2021.

Investimenti pubblici Piano di riconversione verde per ottenere più “flessibilità”

La componente “espansiva” della futura manovra non potrà che arrivare dall’aumento degli investimenti pubblici. Era l’obiettivo anche della scorsa legge di bilancio, ma l’intesa con Bruxelles che ha ridotto il deficit/Pil dal 2,4% messo a bilancio a ottobre al 2,04 di dicembre ha portato a una sforbiciata degli stanziamenti e sostanzialmente vanificato l’effetto. L’obiettivo dei giallo-rosa è di avviare un grande piano per la riconversione “verde”, che passi anche da sussidi e incentivi alle imprese. Nella bozza di documento consegnata a Giuseppe Conte dalle delegazioni di Pd e M5s – svelata dal Sole 24 Ore – il capitolo compare come “Green new deal”: piani contro il dissesto idrogeologico, aiuti alla riconversione per le aziende e nuovi stanziamenti per i Comuni. Un elenco di buoni propositi ma povero di dettagli, la cui portata potrà essere chiara solo una volta definiti i contorni della manovra. L’obiettivo del governo, però, è proprio usare il piano per ottenere nuovi margini di flessibilità sul deficit (il tetto massimo è pari a 0,5 punti di Pil, quasi 9 miliardi). Da Bruxelles sarebbero già arrivati segnali positivi.

L’accordo sulle linee programmatiche riguarda anche un tema caro ai 5Stelle: una “revisione delle concessioni”, non solo quelle autostradali, per garantire più investimenti e tutelare il “bene pubblico”. Un sostanziale via libera al rialzo dei canoni e, per le autostrade, al nuovo sistema tariffario già messo in piedi dall’Authorità dei trasporti e contestato dai concessionari che dovrebbe portare a una riduzione delle tariffe e alla remunerazione del solo capitale realmente investito (a tassi più bassi di quelli scandalosamente alti garantiti finora). L’obiettivo è anche quello di svoltare sulla “manutenzione, la tutela degli utenti e rafforzare il sistema della vigilanza in ordine alla sicurezza infrastrutturale”. Tradotto: basta con la sostanziale autocertificazione delle manutenzioni finora garantita ai signori delle autostrade.

Veti esplorativi. I ministri da evitare

Nel totoministri, almeno per il momento e a quanto risulta, per la prima volta non sembrano esserci ancora inquisiti o condannati. Circolano però nomi che, secondo il parere delle nostre firme, sarebbe meglio evitare quantomeno per una questione di opportunità. Se il prossimo governo dovrà essere nel segno della discontinuità e della “novità” di cui ha parlato il premier Giuseppe Conte, ecco una indicazione dei primi ministri che sarebbe meglio evitare di nominare: dall’ex ministro dem Dario Franceschini al senatore pd Tommaso Nannicini, passando per il renziano Graziano Delrio, il pentastellato ministro dei Trasporti Danilo Toninelli e il prefetto Mario Morcone.

 

Dario Franceschini
Ha dato lo stigma del renzismo al patrimonio culturale italiano

Si sussurra che le castagne dal fuoco sul nome di Roberto Fico le abbia tolte a Di Maio lo stesso Zingaretti: perché il Pd sarebbe imploso intorno alla notoria ambizione di Dario Franceschini di fare il presidente della Camera, per poi essere, tra tre anni, l’ultimo presidente della Repubblica democristiano. Sia come sia, a Franceschini conviene star lontano da questo governo: essendo uno dei pochi veri politici su piazza (nel bene e nel male) non è un avvocato Conte qualunque, disposto a patrocinare alla mattina una causa e al pomeriggio quella opposta. Avendo marchiato a fuoco il patrimonio culturale della nazione con lo stigma del renzismo (controllo politico, valorizzazione selvaggia, musei come supermercati), Franceschini è un’icona troppo ingombrante per un governo di non belligeranza. Uno di quei nomi (come quello Di Maio, all’inverso) indigeribili per ciò che resta degli elettori grillini. E, francamente, non solo per loro.
Tomaso Montanari

 

Tommaso Nannicini
Nessuna vera discontinuità con uno dei registi del Jobs act

Il fatto che il premier incaricato abbia rimarcato la centralità dell’articolo 3 della Costituzione è un’occasione per dare discontinuità al futuro governo. Per questo se la scelta cadesse sul senatore Tommaso Nannicini non sarebbe adeguata. Non perché non sia competente. Anzi, sul piano del curriculum – Bocconi e Harvard – Nannicini ha le carte in regola. Ma non c’entra nulla con la discontinuità avendo soggiornato a Palazzo Chigi dal 2014 al 2018: piena cabina di regia del Jobs Act. Quest’anno è stato lui a incaricarsi di riscrivere la proposta del Pd sul salario minimo, affidando a una Commissione di rappresentanti dei sindacati e dei datori di lavoro, la decisione sull’importo. Dopo anni di politiche di ispirazione bocconiana, sarebbe forse il caso di cambiare registro. E il Pd il ricambio ce l’ha già in casa, anzi nella nuova segreteria di Nicola Zingaretti. È Giuseppe Provenzano, anch’egli economista, già vicepresidente dello Svimez, e che ritiene che la sinistra debba riconquistare la propria “anima”.
Salvatore Cannavò

 

Daniele Franco
Economia, l’alibi dei tecnici e il rischio della “restaurazione”

Il nascente governo giallo-rosa ha solo un modo per evitare di gonfiare la destra alla prossima tornata elettorale: una radicale discontinuità nelle politiche economiche. I nomi dei “tecnici” circolati in questi giorni non suggeriscono nessuna svolta alle porte. Daniele Franco (ex Ragioniere dello Stato) e Salvatore Rossi (ex dg di Bankitalia) appartengono a quella schiera di burocrati garanti dell’ortodossia di bilancio in salsa brussellese buona per rassicurare il Quirinale, meno per guidare presunti programmi espansivi. Si ripeterebbe poi lo stesso errore visto in questi anni, buon ultimo con Giovanni Tria: affidarsi a un tecnico gradito al Colle, salvo poi addossargli le colpe di sabotare i programmi dei partiti. Contro Franco i 5Stelle hanno battagliato per mesi sulle coperture durante la manovra, mentre Rossi è stato dg di Bankitalia nella stagione dei disastri bancari. Ogni scelta tecnica presuppone vincitori e vinti, serve un politico che se ne assuma la piena responsabilità.
Carlo di Foggia

 

Danilo Toninelli
Concessioni e grandi opere, l’errore da non ripetere più

Danilo Toninelli al ministero delle Infrastrutture resterà negli annali pentastellati come simbolo degli errori da non ripetere. Quel ministero incarna temi chiave per il M5S e Di Maio aveva scelto un competente, il geologo Mauro Coltorti. Poi, cedendo alle ambizioni ministeriali dei suoi colonnelli e al diktat di Salvini (va bene uno vostro ma che non sia bravo), ha battezzato Toninelli. La miscela esplosiva di annunci continui e incompetenza è puntualmente esplosa. Impegnato a inseguire Salvini su migranti e Ong, ha lasciato gestire il ministero a un gruppetto di amici e burocrati che hanno più che altro tutelato gli interessi padroni da sempre a Porta Pia. Come dimostra la tragedia del ponte Morandi, con quotidiani annunci della revoca della concessione ai Benetton senza fare un solo atto di governo in quella direzione. Anche la battaglia sul Tav Torino-Lione è stata mirabilmente suicida, con la rinuncia a iniziative di governo sostanziose per dedicarsi, con risultati deludenti, allo sguaiato battibecco sui social network.
Giorgio Meletti

 

Graziano Delrio
È stato un obbediente esecutore del partito delle autostrade

Riportare Graziano Delrio al ministero delle Infrastrutture dopo la parentesi Toninelli: per Luigi Di Maio sarebbe difficile spiegarlo ai votanti di Rousseau. È vero che Toninelli ha deluso le attese, ma è anche vero che alle Infrastrutture i tre anni di Delrio hanno garantito la continuità con il sistema Lupi-Incalza, pur spazzato via dalle inchieste giudiziarie. Esauriti i suoi doveri ambientalisti andando in ufficio in bicicletta, Delrio è stato obbediente esecutore del partito delle autostrade, battendosi come un leone per la proroga delle concessioni dei Benetton e dei Gavio. Con qualche furbata, come l’analisi costi-benefici sulle grandi opere affidata al professor Marco Ponti, ma solo a parole, o lo strombazzato proposito di rivoluzionare il ministero con la rotazione degli incarichi, poi attuata come rotazione finta tra i soliti noti. Il 4 marzo 2018 la scandalosa gestione Delrio è stata uno dei propellenti del successo elettorale del M5S. Non sembra una bella idea premiarlo in nome della nuova amicizia con il Pd.
Gio Mel

 

Mario Morcone
Non andava bene (a Napoli) nel 2011, perché dovrebbe ora?

Nel 2011 un Pd in preda a pulsioni suicide lo candidò a sindaco di Napoli per mettere una pezza al disastro delle primarie annullate per i brogli. E ‘Morconechi’ fu il tormentone di Dagospia per sottolinearne la scarsa fama in città. All’epoca Mario Morcone, prefetto esperto sui temi dell’immigrazione e probabile ministro dell’Interno del Conte 2, era direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati su nomina del governo Berlusconi, ed era indagato insieme a Gianni Letta in un’inchiesta sul l’accoglienza dei rifugiati a Policoro. Fu poi archiviato, ma a prescindere dalla rilevanza penale, dalle carte emergeva che Morcone aveva ottimi rapporti con gli amici di Letta. “Sarebbe stato un candidato naturale, sì, ma per il Pdl”, scrivemmo sul Fatto. Lo capirono anche gli elettori, che lo bocciarono sonoramente e gli preferirono Luigi de Magistris. Più recentemente Morcone è comparso nelle carte di Mafia capitale. Odevaine, intercettato, gli attribuisce una raccomandazione per assumere la figlia del segretario laziale del Pd, Melilli.
Vincenzo Iurillo

Il Nuovo Umanesimo non sia il “parmesan”

“Di tutte le cose misura è l’uomo”. Le parole del filosofo greco Protagora (V secolo a.C.), riscoperte e glorificate dai fondatori dell’Umanesimo del ’300 e ’400, riemergono dalle radici della nostra civiltà implicitamente resuscitate da Giuseppe Conte nel suo discorso al Senato, per sbattere subito addosso al muro eretto dal sarcasmo e dallo scetticismo. Aristotelicamente: se Salvini è un uomo, premessa alla quale per ora ci atteniamo come ipotesi di lavoro, di tutte le cose è misura Salvini? Dal discorso di Conte e da quello di Di Maio che lo riprende, par di capire che il sillogismo, al momento imbarazzante, valeva solo in epoca pre-Conte 2, nel Salvinocene diciamo, èra della quale Di Maio ci tiene a dire di rivendicare tutto.

Incuriosisce molto il “Nuovo Umanesimo” promesso dal neo-ri-premier, che ieri lo ha ripreso nel discorso dal Quirinale specificando, quasi a leggerci nel pensiero, che “non è lo slogan di un governo ma l’orizzonte ideale del Paese”.

Nessuno può francamente aspettarsi che il governo d’intesa tra M5S e Pd zingarettiano porti alla ribalta le reincarnazioni di Petrarca, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Tommaso Moro, se non altro perché se fossero state tali si sarebbero palesate prima; ma l’espressione è comunque impegnativa, se “umanesimo” vuol dire quel che dice la Treccani: “Ogni orientamento che riprenda il senso e i valori affermatisi nella cultura umanistica: dall’amore per gli studi classici e per le humanae litterae alla concezione dell’uomo e della sua ‘dignità’ quale autore della propria storia”.

Partendo dalla circostanza – inibente di qualunque entusiasmo – che Renzi, già da sindaco di Firenze, s’era messo in testa di fare il nuovo Rinascimento (e come no: con Lotti, Boschi, Carrai, Bonifazi e gli ospiti della Leopolda), è senz’altro una buona notizia che Conte ieri abbia promesso “un’ampia stagione riformatrice di rilancio, di speranza”.

Vasto programma, specie se dovrà essere realizzato con qualcuno (Di Maio) che rivendica i 14 mesi passati con Salvini. E quindi non solo il decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, ma pure i porti chiusi alle Ong per ripicca propagandistica, la libertà di sparare alle spalle a ladri e intrusi, l’arbitrio contro persone inermi spacciato per risibile difesa dei confini, gli sgarri da guappo contro Istituzioni incredibilmente permeabili.

Se Conte vuole, con Spinoza, “offrire al Paese speranze e certezze”, il suo governo dovrà rimettere davvero al centro l’essere umano, oggi ridotto a cavia di un esperimento sociale: spingere il Pd a stracciare le “riforme” renziane contro i lavoratori; aiutare i 5Stelle a capire chi sono e se hanno ancora la stella dell’ambiente nel simbolo; reintrodurre il welfare smantellato; curare tutti i bambini (e in tutti i sensi della parola curare, come vuole Edgar Morin, che di Nuovo Umanesimo parla da anni).

Forse pensava a questo, Conte, nel suo discorso al Senato, quando ha rovesciato la sfiducia intentata a suo danno contro chi l’aveva scagliata, seppellendo la Repubblica del Papeete con parole e citazioni alte. Riprendere il passato per cancellare la violenza, la protervia, la fatuità anti-umana del presente vuol dire anche ripensare al ruolo del Paese in cui l’Umanesimo è nato, all’interno dei giochi finanziari e di potere anzitutto europei.

Per questo battesimo in nome di ragione e diritto, sono pronti i nuovi umanisti, tanto per cominciare, a pensare alle tecnologie digitali come opportunità di uguaglianza e liberazione dell’essere umano e a rinunciare alla tentazione di trattare i cittadini come cavie costantemente sollecitate dagli impulsi elettrici delle dirette, dei selfie, dei tweet? (E a far combaciare questo con l’endorsement di Trump, il più antiumanista dei leader del mondo). Insomma, evviva il Nuovo Umanesimo, purché non sia né uno slogan, né, peggio, un prodotto del marketing dell’italian sounding, tipo il parmesan, di cui parlare ai G7.

L’avvocato fa pressing sul Pd per avere i 2 vice

“Noi non abbiamo un problema con Di Maio, ma ricordiamo che Conte è stato indicato, legittimamente, dal M5S. Questo è un punto fondamentale. Conte rappresenta il partito di maggioranza relativa e deve tener conto di questo nella composizione del governo”. La posizione ufficiale di Paola De Micheli, vicesegretaria del Pd, quando sono le 18, chiarisce che la partita per avere due vice premier al governo non è ancora chiusa. Ieri mattina, Luigi Di Maio, dopo aver letto i giornali che raccontavano di un “armistizio” con un governo senza vicepremier, è tornato a spiegare a chi di dovere che lui a quel posto non rinuncia. Si aspetta un sostegno forte e Giuseppe Conte gli ha assicurato che è impegnato pancia a terra nel convincere il Pd ad accettare il suo ritorno a palazzo Chigi.

Non è il progetto dei dem, che vorrebbero prima di tutto un vicepremier unico da loro indicato (Nicola Zingaretti va ripetendo da giorni che è anche una garanzia per un’alleanza più organica) e sono pronti a cedere al massimo a un esecutivo senza vice e a lasciare ai 5 Stelle il posto da sottosegretario alla presidenza del Consiglio (in testa hanno il nome di Vincenzo Spadafora). “Ci penserà Conte, la risolverà Conte”, è quello che vanno ripetendo in ambienti dem. Un modo per lasciare uno spiraglio? Difficile in questo momento leggerla così, anche perché Di Maio ha il mandato a chiudere, ma non si può mai sapere. “Questo esecutivo avrà la mia impronta”, dice Conte.

Nel frattempo, dentro Pd e M5s vanno avanti le trattative per riempire le caselle dei ministeri. Situazione complicata, piuttosto che facilitata, dal tempo che si è preso il premier incaricato. Nel Pd, tutto gira intorno a cosa faranno Dario Franceschini e Andrea Orlando. Entrambi sono candidati sia a fare i vice di Conte, che a un posto da sottosegretario a Palazzo Chigi, che al ministero dell’Interno. Dove però potrebbe andare un tecnico. Per la Farnesina, l’idea è che debba andare un politico. Ma Paolo Gentiloni ed Enrico Letta si sono detti non interessati, Piero Fassino vorrebbe, ma non convince, Enzo Amendola, entrato tra le ipotesi, viene considerato senza lo standing necessario. Enzo Moavero Milanesi al Pd non piace. Alla fine, potrebbe pesare il Quirinale. All’Economia, si va da Lucrezia Reichlin a Salvatore Rossi. Ma il punto è che il Pd vorrebbe più politici che tecnici, ed è alla ricerca di personalità nuove. Cosa che però si scontra con le ambizioni personali. Matteo Renzi ha chiesto tre ministeri per uomini a lui vicino: uno per Anna Ascani (Beni culturali), uno per Lorenzo Guerini, che però è in quota Lotti (Affari regionali), uno era per Ettore Rosato, che però non convince perché ha lasciato sul campo, per conto dell’ex premier, troppi morti e feriti. Per il Mise toccherebbe a Paola De Micheli. Il M5S punta a confermare nel governo Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede alla Giustizia, la “promozione” di Stefano Patuanelli alle Infrastrutture è quasi scontata.

Il tutto si incrocia con la partita del Commissario Ue. Ursula von der Leyen ha chiesto una donna: potrebbe essere Elisabetta Belloni (oggi segretario generale della Farnesina) o Luisa Trenta (ministro uscente della Difesa). Al Pd continuano a dire che la scelta spetta a loro: e dunque, resta sul tavolo Gentiloni, come Roberto Gualtieri.

Ieri, comunque, è stata la giornata in cui le trattative ufficiali si sono fermate e sono andate avanti quelle informali. Ci prova Graziano Delrio a riportare il dibattito sui contenuti: “Quello di Conte al Quirinale è stato un discorso serio, ma ora bisogna assolutamente uscire dall’ambiguità su certi temi programmatici”. Uno dei nodi è la revoca della concessione ad Autostrade: “Una revisione delle concessioni pubbliche, non solo quella di Autostrade, ci trova perfettamente d’accordo – dice Delrio –. Non c’è alcuna timidezza su questo”. E il Reddito di cittadinanza? “Le misure sociali vanno corrette, non cancellate”. Questo, però, mentre dà per scontato il sì al Tav e chiede la cancellazione dei decreti Sicurezza.

Ora Conte e Di Maio rassicurano il Colle: “Rousseau non conta”

Èil totem del Movimento, l’ultimo simulacro di quella democrazia diretta fondata sull’uno vale uno. Ecco: il voto sulla piattaforma Rousseau è l’unica cosa che davvero la crisi aperta da Matteo Salvini riuscirà a buttare giù. Perché una cosa è certa: comunque vada la consultazione tra gli iscritti, i Cinque Stelle diranno sì all’accordo per il governo giallorosso. Una rassicurazione che è stata pretesa dal Quirinale e concessa prima da Luigi Di Maio e poi da Giuseppe Conte: appurato che il principio di dare la parola agli iscritti M5S era sacro e inviolabile, Sergio Mattarella ha voluto che fosse chiarito che il percorso istituzionale per la formazione del Conte 2 non sarebbe stato inficiato dai voleri di qualche decina di migliaia di sostenitori grillini.

Non era passata inosservata, al Colle, la perentorietà con cui il voto era stato annunciato sul blog tre giorni fa: “Gli iscritti al M5S hanno e avranno sempre l’ultima parola. Solo se il voto sarà positivo la proposta di progetto di governo sarà supportata dal MoVimento 5 Stelle”. Una mina piazzata sulla strada delle consultazioni, irricevibile per la più alta carica dello Stato. Così ieri mattina, incaricando Conte premier, Mattarella ha chiarito lo stesso concetto che aveva sottoposto il giorno prima a Di Maio. E ha ricevuto la medesima garanzia: “Il nostro sì è incondizionato: i gruppi parlamentari voteranno la fiducia al nuovo esecutivo”. Un fatto che ha diffuso finalmente l’ottimismo al Quirinale.

La giornata di Mattarella era iniziata alle 9.30. Conte arriva al Quirinale e riceve l’incarico dal capo dello Stato. Lo accetta con riserva, la consueta formula con cui si spiega che dopo un giro di consultazioni delle forze parlamentari, tornerà al Colle con la numerica certezza che il suo governo prenderà la fiducia a Montecitorio e a Palazzo Madama. Consultazioni che il premier incaricato ha avviato ieri con i presidenti di Camera e Senato e coi gruppi “minori” e che concluderà stamattina incontrando Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Pd e M5S.

Ma prima di lasciare il Colle, Conte spiega in diretta tv che cosa ha in testa: una “stagione riformatrice”, che recuperi “il terreno perduto in Europa”, a cominciare dalla nomina del commissario italiano in Ue. Cita la lotta all’evasione, i cervelli in fuga, il Sud, i disabili. E promette che non sarà “un governo contro”, ma “un governo per il bene dei cittadini”. Se tutto va come deve andare, martedì o mercoledì scioglierà la riserva: giovedì il giuramento, mentre il voto di fiducia potrebbe tenersi già entro la fine della prossima settimana.

Ma prima dello sblocco della crisi, come promesso, arriverà il verdetto di Rousseau. Ed è questa l’incognita che il Quirinale ha chiesto a Conte e Di Maio di dipanare. Ha voluto, il presidente, un “sì pieno, incondizionato”. E sia il capo politico del Movimento che il già “avvocato del popolo” glielo hanno dato. Tutt’altro che un dettaglio, in questa trattativa: sia Conte – che pure non è iscritto ai Cinque Stelle – che il leader grillino sanno che se la base dovesse dire “no” all’accordo con il Pd, sarebbe un problema di non facile gestione.

Come fu nel caso della Diciotti – il voto contrario all’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini – sarà determinante il modo in cui verrà scritto il quesito. Per questo l’idea è quella di consultare la base solo quando si potranno scrivere parole d’ordine chiare sulle priorità del nuovo esecutivo: non prima di lunedì, a quanto pare, quando i tavoli tematici saranno chiusi e partirà il rush finale sui nomi. Quelli, come ovvio, al voto non ci andranno: non si può dare la lista dei ministri prima al blog e poi al Quirinale.

Ma la differenza sostanziale rispetto alle altre consultazioni grilline è che stavolta “nessuno ci vuole mettere la faccia”. Per dire: per orientare il voto, non si può certo sperare in un video appello di Alessandro Di Battista, contrarissimo all’accordo. Nè ci si può fidare di quel Beppe Grillo che ha benedetto il dialogo, ma sta picconando contro la piega “poltronofila” che ha preso la trattativa. Toccherà al capo politico, alla fine, chiedere il via libera. Sarà un problema suo, è il senso del ragionamento consegnato al Quirinale, se la base dovesse andare in direzione contraria: non proprio un’ipotesi del terzo tipo, stando ai report sul sentiment degli elettori con cui Davide Casaleggio ha provato a convincere i 5 Stelle di governo che il dialogo con i dem andava interrotto. Ormai è tardi, la strada è segnata. Che Rousseau lo sappia.

Raccolta differenziata

Fatto il premier, ora bisogna fare il programma e i ministri. E sarà lì, come avverte Beppe Grillo, che si misurerà il tasso di discontinuità del Conte-2 in salsa Aurora. Il premier, che un anno fa era descritto dai giornaloni come un mezzo impostore e un totale burattino e ora nuota nella bava e nella saliva degli stessi che lo insultavano, cita spesso l’articolo 54 della Costituzione: “…I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore…”. È il fondamento della questione morale in aggiunta a quella penale, sempre ignorato dai premier precedenti, anche perché le loro squadre ministeriali erano zeppe di inquisiti, condannati e chiacchierati senza disciplina né onore. Fece eccezione il Conte-1, che non aveva ministri nei guai con la giustizia, anche se poi Salvini impose come sottosegretari Siri (che aveva patteggiato per bancarotta fraudolenta) e alcuni imputati. Stavolta, stando al Toto-ministri, almeno quel pericolo pare sventato. E sarebbe già un bell’elemento di discontinuità. Però non basta, perché ci sono personaggi che, pur intonsi sul piano penale, dovrebbero restare fuori per motivi etici o di opportunità: Conte dovrà fare una sana raccolta differenziata.

Tutti parlano del o dei vicepremier (carica inesistente nel nostro ordinamento) e dell’Interno, degli Esteri, dell’Economia. Ma non vorremmo si trascurassero i nodi delle Infrastrutture e dell’Ambiente, fondamentali per un governo che voglia imboccare la strada dell’economia green e circolare, con l’obiettivo dei rifiuti zero e delle energie rinnovabili. Lì un disarmo bilaterale sarebbe opportuno. Delrio, brava persona, non ha brillato (per usare un eufemismo) su grandi opere, concessioni autostradali e controlli su strutture pericolanti come il Ponte Morandi: meglio che si tenga alla larga. Idem Toninelli, non tanto per le gaffe, quanto perché a dispetto della retorica sul Partito del No ha detto fin troppi Sì: a opere inutili, costose, dannose e pure bocciate dalle analisi costi-benefici da lui stesso disposte. Grillo invoca grandi “esperti”: se insieme a Conte riuscisse a convincere Renzo Piano, Carlo Rubbia, Salvatore Settis o figure del loro calibro a mettersi in gioco per le politiche del territorio, del decoro, dell’energia e della cultura, si eviterebbero le solite facce ammuffite e tutti capirebbero il senso della parola “discontinuità”. Invece chi ha già fatto bene, come Gentiloni agli Esteri, Minniti all’Interno, Di Maio al Lavoro, Bonafede alla Giustizia e pochi altri, dovrebbe completare l’opera. Dell’ultimo governo non tutto è da buttare. E neppure del penultimo.

Pereira al Maggio fiorentino, il male minore

Alexander Pereira è stato troppo spesso oggetto di attacchi ferocissimi provenienti da ogni dove. Non è l’uomo ideale che sceglierei quale soprintendente. Ma non c’è più Paolo Grassi, non c’è più Luigi Oldani, non c’è più il barone de Simone (parlo del soprintendente, non del compositore), Pietro Diliberto si è ritirato da decennî, Stefano Mazzonis si è trasferito a Liegi. Se affermo quindi che “non è l’uomo ideale che sceglierei” lo dico parlando nel mondo delle idee di Platone, oppure, meglio, di quel vasto cimitero che ho conosciuto e del quale pochi ancora non sono entrati a far parte. Su questa triste terra siamo davvero ai piedi di Pilato. Io non credo, oggi come oggi, sia possibile indicare un professonista più preparato di lui. Ha fatto spettacoli mediocri, spettacoli che non mi sono piaciuti, ma anche spettacoli bellissimi.

Se si pensa che il suo predecessore alla Scala si chiamava Stéphane Lissner, che Pereira gli sia succeduto in quel teatro si può chiamare un miracolo di Sant’Ambrogio. Da napoletano, confesso che mi avrebbe fatto molto piacere se lo avessero invitato a tentare di risanare il San Carlo. Nessuno ci ha pensato: la cultura dei reggitori politici e artistici della mia città è che non sanno nemmeno chi siano Beethoven e Totò. E così gli hanno affidato un’impresa ancor più difficile, quella di tentar di risanare l’irrisanabile Maggio Musicale Fiorentino. Non so nulla dei retroscena di questa nomina. E se si deve a Salvo Nastasi, per una volta debbo dichiararmi d’accordo con lui. Oltre che preparato e dotato di vastissime relazioni internazionali, Pereira è un uomo distinto con il quale il dialogo è sempre su di un piano di civiltà. Inoltre ad Alexander Pereira è capitato non un terno al lotto, una quintina: di succedere a Cristiano Chiarot, uno dei disastri della vita artistica italiana.

Per quanti errori facesse, se la caverebbe sempre con una bella figura. E dunque, fra i fluviali commenti che leggeremo domani (il mio è stato scritto a mezzogiorno, dopo la notizia Ansa che mi è stata comunicata dal Fatto), accetti Pereira gli auguri di un esile, quasi inaridito fiumicello. Ossia di uno che da quattro anni ha lasciato l’attività di critico musicale e per nessuna ragione al mondo la riprenderebbe. Attueremo così un importantissimo proverbio napoletano e palermitano: “Ciascuno a casa sua”.

La fiaba di Thomas: “Pollicino” ora batte i grandi del tennis

Chissà cosa sarebbe stato con una decina di centimetri in più. Thomas Fabbiano, volenteroso tennista azzurro, 1,73 di statura, dev’esserselo chiesto per una vita, passata a combattere contro avversari più forti e dotati dall’altra parte della rete. Una carriera nata con grandi aspettative e vissuta da gregario, accompagnato da un soprannome che ispirava più tenerezza che timore. Adesso “Pollicino” è diventato grande. Martedì agli Us Open ha battuto Dominik Thiem, numero 4 al mondo, il più forte giocatore della nuova generazione. Si aggiunge a Stefanos Tsitsipas, fuoriclasse greco sconfitto a luglio a Wimbledon, e Stan Wawrinka, pluricampione Slam eliminato l’anno scorso sempre sull’erba. Un piccoletto “ammazzagrandi”, insomma.

Altezza mezza bellezza, si dice: nel tennis non è solo un luogo comune. In uno sport sempre più muscolare, dove un servizio a 200 all’ora fa più differenza che l’eleganza del tocco, dominato da colossi di un metro e novanta e passa, essere bassi è quasi una condanna. Quelli che ce l’hanno fatta si contano sulle dita di una mano: il giapponese Nishikori e il nostro Fognini passano come bassotti ma sfiorano comunque l’1.80. L’unico vero “piccoletto” del circuito è Diego Schwartzman , argentino di 1,70 (generosi…), capace di arrampicarsi fin quasi alla Top Ten. Un po’ più in basso, c’è anche Thomas.

Classe 1989, originario di San Giorgio Jonico, due passi da Taranto, città che ha già regalato al tennis italiano il talento di Robertina Vinci, Fabbiano era un nome noto agli addetti ai lavori già a metà Anni Duemila. In paese tutti sapevano che il figlio del sindaco (suo padre Stefano) giocava a tennis ed era forte. Poi la voce si sparse fuori dalla Puglia: a livello giovanile Thomas era uno dei migliori al mondo, è arrivato fino al numero 6 delle classifiche e ha vinto in doppio il Roland Garros juniores nel 2007. Sembrava l’inizio di una carriera luminosa, se non fosse stato per un piccolo problema: Thomas non è mai cresciuto. E quando è passato fra i pro ha accusato il salto di categoria. Farne solo un discorso fisico sarebbe riduttivo: sono tanti i giovani italiani che si perdono al momento del salto, è (anche) un problema di sistema. Sicuramente però la statura ha influito. Fabbiano ad abituarsi ci ha messo cinque anni, fino al 2013, con l’ingresso fra i primi 200 e una classifica che apre le porte dei tornei più prestigiosi. Quell’estate Fabbiano giocò agli Us Open quella che fu a lungo la sua prima e unica partita Slam. Manco a farlo apposta contro Raonic, bombardiere canadese che non gli fece toccar palla. Sembrava comunque l’anno della svolta e invece a quell’apparizione seguì un altro black-out: nessun progresso di classifica. A 25-26 anni la storia di Fabbiano pareva scritta: giocatore discreto ma con mezzi fisici troppo limitati per poter sfondare. Uno dei tanti.

Invece Thomas è riuscito a scriverne un’altra, con la tenacia (e col talento, non è mai mancato). In questo la sua parabola è simile a quella di altri azzurri, da Lorenzi a Vanni fino al vecchio Gianluca Pozzi, capaci di cogliere i risultati migliori in età avanzata, ma forse ancor più ammirevole per i limiti da superare. La convocazione per le Olimpiadi 2016, la prima Top 100 nel 2017, i grandi exploit nel 2018 e 2019: coi suoi piedi rapidissimi e un rovescio bimane da scheggia, ha battuto alcuni dei migliori giocatori al mondo, impresa riuscita a pochi azzurri. L’ultima vittima in ordine di tempo è Thiem, ora a New York incontrerà il kazako Bublik, avversario decisamente alla portata: in caso di successo, eguaglierà il suo miglior risultato in uno Slam e potrebbe ritoccare il best ranking (n. 70 Atp). Per il tennis italiano è davvero un momento d’oro. Nonostante l’eliminazione immediata di Fognini, agli Us Open si è messo in luce il talento di Jannik Sinner, teenager che ha la stoffa del predestinato, e ci sono 4 azzurri al secondo turno. Fra questi, anche Fabbiano: difficilmente con quei mezzi potrà mai vincere qualcosa d’importante (quest’anno però ci è andato vicino: semifinale a Eastbourne). Forse se lo chiede ancora, cosa sarebbe potuto essere con una statura diversa, ma in fondo adesso non importa più. A 30 anni può dire di avercela fatta: il piccolo Thomas si è conquistato il suo posto fra i grandi.

Per camminare sulla Luna basta andare al Lazzaretto

Fluttuare liberamente fra gli astri e rimbalzare sulla Luna, entrare nel corpo di un’ammalata di tumore, farsi invadere dal profumo dei petali di un’artista visuale giapponese. Torna alla Mostra veneziana per il terzo anno la Virtual Reality “Venice VR”, la nuova frontiera della fruizione cinematografica che è una vera e propria esperienza immersiva quando non addirittura sinestetica. Accanto ad artisti e produttori che ormai vi hanno affidato il “destino ultimo” della creatività visionaria, non pochi cineasti hanno iniziato a cimentarsi e la Biennale – fra Arte e Cinema – si è imposta quale luogo d’eccellenza per ospitare il meglio su piazza internazionale. Situata nel Vecchio Lazzaretto raggiungibile da un novello Caronte che regolarmente traghetta il pubblico (previa prenotazione), la VR ha un proprio linguaggio, che solo la frequentazione regolare aiuta a distinguere. Anzitutto le opere si denominano “esperienze” e si distinguono per le tecnologie adottate. In breve, ci sono le postazioni classiche (seduti con caschi muniti di visore e cuffie) presso il VR Theater, gli Stand-ups (in piedi, liberi di roteare aggiungendo al casco dei joystick per l’interattività), le installazioni (Stand-ups con allestimento scenografico).

Ormai mini-festival con una sua dignità, la Realtà Virtuale a Venezia quest’anno si compone di 4 sezioni per un totale di 39 “esperienze” provenienti da ogni dove: due concorsi (lineare e interattivo) e due fuori concorso (Best of VR e Biennale College Cinema VR). A guidare le danze – in questa edizione ricca di artiste donne – è Laurie Anderson presidente di giuria e ormai considerata “nostra signora della VR” avendo già proposto diverse opere una delle quali To The Moon, presente a Venice VR 2019 fuori concorso dopo la premiere mondiale a Cannes. Il “recupero” veneziano di questo straordinario Stand-up è qualcosa di indimenticabile: a “volare” letteralmente nello spazio e camminare sulla Luna siamo noi, decidendo velocità, direzione, punto di osservazione. Laurie ci accompagna con la sua voce in un viaggio astrale ma anche intimo e metafisico, con citazioni colte, apparizioni sconvolgenti e suggestioni filosofiche che arrivano fino a commuoverci. E per una volta è lecito dire “ho visto cose che voi umani…”.

Lo strappo di Lucrecia: “No alla cena di Polanski”

Una Martel-lata sulla Mostra. Le conferenze stampa delle giurie si dibattono d’abitudine tra noia e circostanza, al più, illuminano i criteri estetici su cui verranno giudicati i film: non quest’anno, non con la presidente di giuria del Concorso principale Lucrecia Martel, stimata – laddove conosciuta – regista argentina di un poker di lungometraggi, La ciénaga, La niña santa, La mujer sin cabeza e Zama.

Anziché cincischiare di predilezioni poetiche e desiderata stilistici, Martel ha fatto i nomi, anzi, un nome: Roman Polanski. Nessuna cortesia per l’ospite illustre, il cui J’accuse passerà al Lido domani, ma la rivelazione di un disagio: “Ammetto che la presenza del film di Polanski e le notizie sul suo passato mi hanno messo un po’ a disagio”. Quindi, la risoluzione: “Ho cercato di documentarmi e ho trovato delle dichiarazioni in cui la vittima di Polanski diceva di ritenere il caso chiuso. Io non mi posso mettere al di sopra delle questioni giudiziarie e sono solidale con la vittima”. E la finale decisione: “Non parteciperò al gala per il film di Polanski, perché io sono impegnata al fianco delle donne vittime di violenza in Argentina”. Una bomba fa meno rumore.

Ma a rendere ancora più dirompenti le affermazioni della Martel è il distinguo nei confronti del direttore della Mostra Alberto Barbera, da parte sua “fermamente convinto che bisogna fare distinzione tra uomo e artista”. Per Barbera, “la storia dell’arte è piena di artisti che hanno commesso crimini e di cui ancora ammiriamo le opere d’arte. Io ho visto il film di Polanski, mi è piaciuto e l’ho invitato in concorso. Sono un critico, non un giudice. Il mio lavoro finisce qui”. Al contrario, quello della Martel pare iniziato ancor prima di vedere i film: “Io non separo l’uomo dall’artista”, ha precisato, dunque con quale equanimità, con quale imparzialità di giudizio potrà recepire J’accuse?

Condannato per il rapporto sessuale avuto con una tredicenne nel 1977 con l’ausilio di sostanze stupefacenti, il mandato di cattura è pendente: gli Usa potrebbero chiederne l’arresto e l’estradizione, sicché l’ottantaseienne regista come largamente anticipato non sarà al Lido. Nondimeno fa straparlare di sé: J’accuse pare uno specchio riflesso, l’affondo della Martel un colpo basso, al festival più che a Polanski. Vero, i verdetti sono espressione collettiva, ma per bocca della presidente la parola ai giurati – c’è Paolo Virzì – è stata pesantemente inficiata. E la pezza che la Martel mette nel tardo pomeriggio non nasconde il buco né le contraddizioni interne: “Ritengo che le mie parole siano state profondamente fraintese. Poiché – si legge nella dichiarazione diffusa dalla Biennale – non separo l’opera dal suo autore e ho riconosciuto molta umanità nelle precedenti opere di Polanski, non sono in alcun modo contraria alla presenza del suo film in Concorso. Non ho alcun pregiudizio nei confronti del film e naturalmente lo guarderò allo stesso modo di tutti gli altri del concorso. Se avessi dei pregiudizi, mi dimetterei dal mio incarico di presidente della Giuria”.

Altre due donne, Catherine Deneuve e Juliette Binoche, epitomi stesse del cinema francese, sono le protagoniste di giornata, ovvero del film d’apertura del giapponese Kore-eda Hirokazu, La vérité. Nelle nostre sale il prossimo 3 ottobre, è tiepido come il tè che l’attrice Fabienne (Deneuve) non manca di criticare: nel rapporto dolcemente complicato con la figlia Lumir (Binoche), troviamo battute a segno (“Più bravo come cuoco che amante, tuo padre” o l’appello alla stabilità “non hanno i soldi per un cavalletto?”), ma anche nuances sentimentali, tepori relazionali da cinéma de papa, anzi, de mammà. Se alla prima prova in lingua e territorio stranieri Kore-eda mostra il fianco, facendosi più ambientale e meno introspettivo, più ciarliero e meno profondo, Madame una profonda somiglianza a Fabienne: “Di me c’è molto, del resto, c’è sempre. Non posso fare differenza tra me stessa, ruolo e personaggio: la capisco perfettamente Fabienne, il mio è stato un lavoro di composizione”. Insomma, siamo rimasti negli anni Ottanta, all’immaginifico spot della Lanca Delta Lx: “Oui, je suis Catherine Deneuve!”. Non abbastanza, però, per fare de La vérité l’inaugurazione di Mostra che speravamo: pastorizzato il film, senile il pubblico d’elezione.

Formato famiglia, ma voltaggio horror, anche per dischiudere Orizzonti: Pelican Blood, per la regia della tedesca Katrin Gebbe, inquadra l’indomita Nina Hoss alle prese con una figlia adottiva indemoniata. Un po’ lo spettro di Bibbiano, un po’ L’esorcista. E pure L’esorciccio.