Marley sì, Bolt no: la calma rende felici

La Giamaica ti conquista per lo splendore del mare, per la natura rigogliosa e per le fantastiche spiagge bianche. Da sottofondo Don’t worry, be happy di Bob Marley che non è un semplice ritornello, ma la filosofia stessa dell’isola. È la storia di una superstar del reggae che si è trasformata in una figura spirituale. La sua musica risuona ovunque: in auto, nei negozi, nelle case, in spiaggia. È impossibile non vedere il volto di Marley dipinto sulle pareti delle baracche, sui muri degli edifici o stampato sulle magliette. Per non parlare dei santuari innalzati in suo onore: il più importante è quello di Nine Miles, il paesino nel cuore della Giamaica, dove Marley ha vissuto con sua madre dai 6 ai 13 anni, prima di andare a vivere a Trenchtown, il ghetto della capitale Kingston. È scoprendo che Nine Miles ha dato i natali anche a Usain Bolt che si riesce a capire perché in Giamaica bisogna dimenticarsi di avere fretta. Il più grande campione olimpico dei 100 e 200 metri è andato sempre troppo veloce per il mood giamaicano. Non ci sono cartelloni, statue o murales a lui dedicati. Qui la fretta viene scoraggiata. Lo si scopre quando si sceglie di bere direttamente alla bottiglia dopo aver atteso invano per 20 minuti che un cameriere ti porti un bicchiere. Tutti gli abitanti, senza distinzione tra giovani e anziani, riescono a stare seduti nello stesso posto per giornate intere giocando a domino o semplicemente chiacchierando, avvolti sempre da una nuvola di fumo. L’uso smodato di ganja è esso stesso Giamaica. Il Paese è indolente e mistico, ha un’economia difficile e una povertà diffusa che porta anche a episodi di estrema violenza. La burocrazia è spesso corrotta e inaccessibile. Ma a qualsiasi sollecitazione la risposta è sempre Don’t worry, be happy. Al ritmo incessante di reggae, prima o poi si risolverà tutto.

Nuove censure: le tette rispondono all’algoritmo, anche se sono d’artista

Per “Immagini raffiguranti nudità e porzioni di pelle eccessive” Instagram censura il video di promozione con cui Palazzo Strozzi pubblicizza la mostra “Natalia Goncharova. Una donna e le avanguardie, tra Gauguin, Matisse e Picasso”. Il percorso espone i perturbanti e seduttivi dipinti dell’artista russa (1881-1962) sinotticamente con opere di celebri artisti che sono stati per Goncharova centri d’attrazione della propria ricerca espressiva quali Paul Gauguin, Henri Matisse, Pablo Picasso, Umberto Boccioni.

Per la campagna social dell’esposizione – che avrà luogo dal 28 settembre al 12 gennaio 2020 – il museo fiorentino aveva scelto un’opera la cui estatica bellezza toglie il fiato, Modella (su sfondo blu): nell’intento di acconciarsi i capelli, una donna nuda a occhi chiusi mostra i seni piccoli e aggraziati. Goncharova non è certo nuova alle censure: nel 1910 in Russia venne censurata (e poi anche processata per offesa alla pubblica morale e infine assolta) per aver esposto i suoi nudi femminili. Tuttavia, ripetiamo ancora l’anno: era il 1910.

E certo, suscita un riso assai amaro che oggi, proprio nel social che fa del marketing (che si possa tradurre “mercificazione” in italiano) dell’immagine del corpo degli influencer (e delle influencer) il suo architrave, dove dunque si possono sponsorizzare costumi da bagno, intimo, bibitoni dimagranti, abiti, trucchi, alberghi, dentifrici non ci sia posto per l’Arte. Fa bene Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi a chiedersi: “Può un algoritmo determinare un principio di censura?” “Ai posteri l’ardua sentenza” diceva il poeta…

Ammazza che caldo: è la temperatura a renderci aggressivi

Siamo quasi alla fine di un’estate particolarmente calda, sia dal punto di vista climatico sia da quello politico. E anche se non ce lo si aspetterebbe, questi due “picchi” potrebbero essere strettamente correlati tra loro.

Si chiama “oscillazione stagionale del crimine”, un fenomeno studiato già a partire dal 1800 quando un matematico belga, Adolphe Quetelet, notò che la frequenza di certi crimini, per esempio quelli diretti alla proprietà, aumentava durante l’inverno, mentre i crimini maggiormente violenti, quelli verso le persone, erano più frequenti in estate. Questo fenomeno venne spiegato inizialmente col fatto che durante l’estate la maggiore partecipazione ad attività sociali fuori dalla propria abitazione aumentava le possibilità di incontri, e quindi di scontri.

C’è, però, anche una tesi fisiologica che suggerisce che l’aumento dell’aggressività dipende dalla temperatura ambientale. Alcuni studi riportano che la temperatura può alterare il funzionamento del cervello di chi commette un crimine violento, per esempio attraverso la mediazione di un neurotrasmettitore, la serotonina. Evidenze a proposito indicano che un aumento di 2 °C della temperatura media ambientale sia associato a un aumento del 3 per cento della frequenza di certi crimini violenti.

Questo fenomeno potrebbe aver avuto un impatto sulle popolazioni sin dall’antichità. Infatti, secondo alcuni studiosi, proprio i cambiamenti climatici sarebbero alla base dell’aumento dei disordini nell’antico Egitto tra il 641 e il 1438 a.C., o dell’estinzione dei Maya nello Yucatan. In uno studio della civiltà cinese si è notato che tra il 2183 a.C. e il 1644 lo sviluppo e il declino delle 5 dinastie sia andato di pari passo proprio con cambiamenti drammatici del clima. Per esempio, durante i periodi di siccità sono aumentati i conflitti tra la popolazione cinese e le popolazioni nomadi del Nord. Fenomeni simili sono stati registrati anche in Europa, in Islanda e in Baviera. In Africa e in India l’aumento della violenza e dei conflitti civili è associato spesso con l’aumento delle temperature. Un’escalation di violenza in periodi di alta temperatura è stata registrata anche in molte città occidentali in età moderna. A Baltimora, negli Stati Uniti, secondo uno studio di qualche anno fa, il picco della temperatura è stato riportato come un fattore di rischio molto importante per l’aumento di aggressioni, violenze sessuali e sparatorie. In uno studio condotto su ufficiali di polizia durante l’addestramento delle reclute si è osservato che chi addestrava usava le tecniche più violente e mortali durante i giorni più caldi.

Se dovesse essere confermata, l’interazione tra violenza e fattori ambientali avrebbe un impatto significativo sul futuro del nostro pianeta. I cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale così come stanno cambiando l’ecosistema potrebbero aumentare le situazioni di conflitto nelle zone più povere del nostro pianeta (Africa, Asia e alcune zone del Mediterraneo), come anticipato dal nuovo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) rilasciato quest’anno dall’Onu.

Ma già nel 2019 è stato registrato il luglio più caldo della storia e in Italia, tra insulti, razzismo, mancanza di umanità ed egoismi, alcuni politici hanno offerto uno spettacolo a dir poco raccapricciante.

In conclusione, anche se non si può sapere con certezza quanto abbiano inciso sulla politica italiana le alte temperature dell’estate appena trascorsa, possiamo quanto meno sperare che con il ritorno dell’autunno (e di un clima temperato) possano ridiventare temperate anche le esternazioni dei nostri politici. Almeno fino al prossimo, purtroppo forse inevitabile, innalzamento delle temperature.

Jules e Jim e Kathe: tre amanti due ceffoni e un colpo di fucile

Jules e Jim: i conformisti dell’anticonformismo. D’altronde l’amore è banale, segue sempre lo stesso canovaccio: che si sia in due, in tre, in quattro meno uno, in cinque per sei, il prodotto non cambia. Così come le parti in commedia: c’è quello che ama di più, quell’altro che ama di meno e quella che ama entrambi, ma farebbe meglio ad amare se stessa. E smetterla coi tentati suicidi.

La storia sarebbe finita lì, se uno dei protagonisti, Henri-Pierre Roché – alias Jim –, non avesse deciso, molti anni dopo la morte dell’amico e la fine della liaison con la di lui moglie, di scriverci un romanzo, diversamente detto autofiction (in Italia edito da Adelphi). Jules e Jim esce nel 1953, ma non se lo fila nessuno: vince un premio, vende poco; segue il macero. Sarà il diabolico François Truffaut a riesumarlo nel 1962, suggellando sul maxischermo il triangolo amoroso più famoso di sempre, quello tra i due amici del titolo e Catherine/Kathe, all’anagrafe Helen Katharina Amita Berta Grund in Hessel. Franz Hessel, il marito, ovvero Jules, è appunto il terzo incomodo dell’intreccio.

Nati tutti e tre a fine Ottocento in buone famiglie, Pierre (1879-1959) è uno scrittore e collezionista d’arte francese; Helen (1886-1982) è un’artista tedesca; Franz (1880-1941) è un autore tedesco (austriaco nella finzione), famoso soprattutto per aver tradotto la Recherche di Proust insieme col collega Walter Benjamin. Helen e Franz si conoscono, e innamorano, a Parigi nel 1912, convolando a nozze l’anno successivo e figliando due volte. Pierre entra in scena nel 1920, a guerra finita e in quel di Monaco, precisamente uno chalet bavarese, in cui incontra per la prima volta la donna, mentre l’uomo è una vecchia conoscenza, dai primi del Novecento a passeggio per Montparnasse. È una approfonditissima conoscenza la loro, tanto che lo sposino intuisce subito come andrà a finire tra sua moglie farfallona e il suo amico farfallone. Solo si limita ad allontanarsi, rintanandosi per un po’ a Berlino e pregandoli di non fare figli. Così sarà, complice un aborto.

La tresca extraconiugale nasce proprio sotto gli occhi di Franz, e con il suo silenzio assenso: il colpo di fulmine scatta quando Pierre punta un fucile giocattolo contro Helen. E lei crolla: è una passione violenta, si capisce, che annovera anche qualche gesto folle da parte della donna, come camminare sulle rotaie verso i treni in corsa o schiantarsi in auto a tutta velocità. Ma “fra le sue cosce c’è il paradiso”, sostiene Pierre, e perciò l’amore sopravvive a più d’una pazzia, alla disperazione, alle convulsioni e finanche ai tradimenti reciproci: dare i numeri e fare i numeri è sempre stata la loro vocazione. Il francesino si vanta di aver posseduto più di 200 fanciulle: “Con le donne bisogna fare come con le pernici: cacciarne più di una alla volta”. Finisce a letto pure con la sorella di Helen, giustificandosi intanto che la sua “poligamia è dolce, onesta e naturale”. Beh. Oltre ai velati tentativi di suicidio, Helen risponde all’amante tradendolo a sua volta e beccandosi due ceffoni in cambio. E crolla una seconda volta, accettando di farsi ritrarre dalla sorella mentre fa l’amore con Pierre. Il triangolo si fa quadrato, e il cerchio non si chiude mai, ma pare sia fonte di ispirazione per tutti: le due artiste e i due scrittori, tanto che Roché inizia a meditare di scriverci un romanzo, subito accantonato per i rimbrotti di Franz. Cornuto va bene, ma il mondo non deve sapere.

Il francese ci ripensa solo negli anni Quaranta, durante l’occupazione nazista e dopo la morte di Hessel, deportato con il figlio Ulrich (a causa delle origini ebraiche) in un campo di concentramento nel 1940 e deceduto l’anno successivo per la grave debilitazione fisica e psichica. Pierre allora decide di rimettere mano ai suoi appunti per raccontare la storia del suo amico e di sua moglie (e sua). Il primo titolo del romanzo è, infatti, Un’amicizia, ma il triangolo carnale ha la meglio sul sodalizio spirituale e Helen vince su Franz. Basta, “si intitolerà Jules e Jim – confida l’autore – ed è la storia di un’amicizia che dura anche in presenza di una situazione sentimentale estremamente complicata”. Convinto lui… L’io narrante si camuffa dietro una più neutra terza persona, la cronaca si impasta con la fiction, i ricordi con la fantasia.

La stesura è lenta e difficoltosa: il testo definitivo sarà licenziato più di dieci anni dopo, nel 1953, quando ormai Roché è “un adolescente di settantaquattro anni”, al suo debutto nella narrativa, mentre l’ex compagno Franz viene ritratto come lo “spione della felicità”. Un omaggio lusinghiero. “Scrivere mi rende felice”, appunta l’autore tra una pagina e l’altra, mentre intanto riflette sulla chiusura del libro. “Kathe precipiterà insieme a Jim nella Senna, davanti agli occhi di Jules, è una finzione, ma è l’unico finale possibile”. Nella realtà, invece, la relazione adulterina dura tredici anni, interrompendosi nel 1933 per volontà della donna.

Fumantina e appassionata, Helen ha altro a cui pensare: morto il marito, cerca di ottenere un visto per gli Stati Uniti per se stessa e per Ulrich, mentre il secondogenito Stéphane, arruolatosi nella Resistenza francese, è al fronte. Per inciso, Stéphane Hessel (1917-2013), poi diventato diplomatico, è assurto alle cronache mondiali nel 2010 per il suo piccolo e incisivo pamphlet Indignez-vous! (Indignatevi!). La madre seguirà lui in America, a New York, dopo la guerra e il fallimento del progetto del primogenito, continuando a lavoricchiare come scrittrice più che come pittrice: negli anni Sessanta, sulla scia del marito, traduce in tedesco un altro classico della letteratura, Lolita di Nabokov, mentre i suoi diari escono postumi, nel 1991, col titolo di Journal d’Helen e altri dettagli della tormentata relazione tra lei, il marito e Roché. Apprezzata, non solo come amante, la signora Hessel ha anche il privilegio di amicizie elettive tra un amorazzo e l’altro: “I suoi articoli mi deliziano”, la lusinga Adorno, mentre Rilke le dedica perfino una poesia: “Geranio che sboccia/ in una dolce sera piovosa/ che la tua gioia scarlatta/ mi penetri meglio/ del presagio più tenero”.

Una vittima: “Il principe Andrew vuoti il sacco”

Il principe Andrew (nella foto), terzogenito della Regina Elisabetta “sa quello che ha fatto, è ora che vuoti il sacco”. Al processo Epstein, il magnate accusato di abusi e sfruttamento della prostituzione minorile morto in cella a New York lo scorso 10 agosto, ha testimoniato anche Virginia Roberts Giuffre, una delle presunte vittime. La donna, dopo l’udienza, ha incontrato i giornalisti fuori dal tribunale e a loro ha ribadito di essere stata costretta ad avere incontri con il principe quando aveva 17 anni, sotto l’età consentita. L’esponente della casa reale inglese ha sempre negato. Giuffre in un processo del dicembre 2014 aveva già affermato di essere stata costretta a fare sesso con Andrew e altri amici di Epstein. Nel 2015 un tribunale stabilì che le accuse mosse da Giuffre al principe erano “impertinenti”. Ma stavolta il processo sembra prendere una direzione diversa. “Sono una vittima di Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e degli atti criminali che hanno commesso contro di me e centinaia di altre ragazze per anni e anni senza che nessuno li fermasse – ha detto Giuffre – Epstein non è più vivo, il problema non è come è morto ma come ha vissuto”. David Boies, legale che rappresenta cinque delle vittime del miliardario ha dichiarato: “Epstein non ha agito da solo. Non avrebbe potuto fare quello che ha fatto per così tanti anni senza l’aiuto di alcune persone chiave. Persone che devono assumersi la loro parte di responsabilità”. Ha aggiunto Brad Edwards, un altro legale delle vittime: “Con tutto il rispetto per il principe Andrew, se qualcuno vuole venire qui e parlare con noi e rispondere a domande concrete delle vittime, accoglieremo con favore questa disponibilità. Ho esteso personalmente l’invito al principe Andrew più volte. In qualsiasi momento, siamo pronti e abbiamo molte domande per lui”. Per ora Andrew si è limitato a dare disponibilità all’Fbi nell’inchiesta sui traffici sessuali di Epstein.

‘Prorogation’ prerogativa del governo: la Regina Elisabetta non può opporsi, solo prendere tempo (e non lo ha fatto)

Il termine tecnico è prorogation, ma quella chiesta da Johnson è a tutti gli effetti la sospensione di ogni attività del Parlamento.

La sospensione. Avviene di routine al termine di una sessione parlamentare e prima dell’inizio di una nuova, avviata con un discorso della Regina. Di solito lo stop ha una durata molto più breve rispetto alle cinque settimane chieste da Johnson.

Come si ottiene. È prerogativa del governo chiedere al sovrano del Regno Unito di sancire la sospensione dei lavori del Parlamento. Per la Regina è impossibile opporsi e rifiutarsi di concederla ma Elisabetta poteva prendere tempo per consentire ai parlamentari qualche contromisura e non lo ha fatto. La mossa del premier rischia, secondo gli oppositori, di trascinare Elisabetta nella polemica politica. I parlamentari non possono esprimere un voto riguardo la sospensione.

Le conseguenze. I parlamentari britannici avranno diverse settimane in meno a disposizione per discutere e approvare eventuali norme per bloccare un divorzio dall’Ue senza accordo.

I precedenti. Dagli anni 80 le sospensioni sono durate più o meno una settimana. Nel 2016 il Parlamento fu chiuso per quattro giorni, nel 2014 per 13. Stavolta si tratterebbe di 23 giorni, giustificati secondo Johnson dalla lunghezza dell’attuale sessione parlamentare. Di norma durano un anno ma quella in corso è iniziata nel luglio del 2017, dopo le ultime elezioni.

Cosa accade ora. La decisione della Regina non può essere impugnata davanti a una Corte; si può invece con l’iniziativa del premier come sostiene l’ex primo ministro John Major. Alcuni parlamentari hanno annunciato una possibile azione legale per cercare di bloccare Johnson.

Johnson vuole tappare la bocca al Parlamento

La notizia viene diffusa dalla BBC ieri mattina, poco dopo le 9: il primo ministro Boris Johnson ha chiesto alla Regina Elisabetta di sospendere il Parlamento per 5 settimane, dal 10-12 settembre, quindi poco dopo il ritorno dei deputati dalla pausa estiva, al 14 ottobre. Quel giorno la monarca aprirà una nuova sessione parlamentare con il Queen’s Speech, il tradizionale passaggio istituzionale di presentazione delle linee guide dell’azione di governo per il nuovo anno. Stavolta però non è come le altre: imponendo una pausa così lunga, il primo ministro lascia a Westminster solo tre settimane, in totale, per scongiurare un eventuale ‘no deal’, cioè l’uscita del Regno dall’Unione europea senza accordo, prima della scadenza finale del 31 ottobre fissata con Bruxelles.

Johnson fa precipitare la crisi con una mossa estremamente spregiudicata anche per questi tempi eccezionali: trascina la monarchia nel dibattito politico, infrangendo un tabù profondo, ed esaspera lo scontro fra governo e Parlamento limitando fortemente l’azione del secondo in un momento politico cruciale. La sterlina precipita: l’iniziativa del primo ministro sembra render sempre più concreta la prospettiva del ‘no deal’, temutissimo dai mercati. E molti settori produttivi contavano su quelle cinque settimane per fa approvare la legislazione necessaria ad attutire l’impatto di una uscita senza accordo. Le reazioni politiche tradiscono lo choc: lo speaker della Camera dei Comuni – ancora in vacanza – John Bercow, che sulla difesa delle prerogative parlamentari dalle ingerenze dell’esecutivo ha costruito la sua carriera, grida all’“oltraggio costituzionale” e afferma che “ovvio che il premier voglia impedire ai parlamentari di discutere la Brexit”.

La premier scozzese Nicola Sturgeon parla di “giornata nera per la democrazia britannica” e invita i parlamentari a trovare un accordo per fermare Johnson. Jeremy Corbyn, leader del Labour e capofila dell’opposizione, si dice “disgustato dalla spregiudicatezza del governo”, accusa Johnson di “scippo della democrazia” e scrive alla Regina, chiedendo di incontrarla, come fa anche la leader dei Lib Dem Jo Swinson. La speranza, flebile, era che Elisabetta, che agisce su indicazione del primo ministro e quindi non può rifiutare la richiesta, prendesse tempo dando al Parlamento la possibilità di approvare delle contromisure. Farlo l’avrebbe coinvolta però ancora di più in uno scontro politico in cui è essenziale che la monarchia sia vista come imparziale. L’assenso reale arriva nel primo pomeriggio.

La mossa di Johnson ottiene due effetti: congela un Parlamento determinato a ostacolare la sua strategia muscolare su Brexit, e che quindi finirebbe per indebolire l’azione del governo nelle ultime settimane di braccio di ferro con l’Ue, e mette nell’angolo gli oppositori, costringendoli all’impotenza o a fare la loro mossa prima del previsto.

Quali contromosse sono ancora possibili? Lo scenario più probabile, a questo punto, sembra essere quello di elezioni anticipate, ottenute o tramite un voto di sfiducia o convocate dal premier se il Parlamento dovesse trovare il modo di approvare una mozione vincolante contro il ‘no-deal’. Ma il tempo stringe: per nuove elezioni servono almeno 6 settimane, perché si tengano prima della scadenza del 31 ottobre, e data la lunga pausa, Westminster dovrebbe votare la fiducia già nella settimana del 3 settembre, alla riapertura dei lavori. Ma se il Parlamento dovesse bloccare la Brexit che Johnson ha promesso ai suoi elettori, il primo ministro andrebbe a elezioni con un capitale politico facile: lui campione della volontà popolare, espressa nel referendum del 2016, contro una assemblea di traditori. Intanto l’opinione pubblica reagisce: una petizione popolare per impedire la sospensione del Parlamento, lanciata ieri, ha superato in poche ore le 100 mila firme necessarie perché venga portata ai Comuni (570 mila fino a ieri sera), e manifestazioni si sono tenute in tutto il Paese, unite dallo slogan #Stopthecoup. “Ferma il colpo di Stato”.

Grosso guaio a Gaza Hamas, il nemico ora è il “fratello” jihadista

Nel ventre della Bestia cova la sfida, la rabbia, l’odio e la vendetta. A Gaza, dove ci sono più armi che abitanti, è in corso una guerra carsica, senza esclusione di colpi, fra i gruppi salafiti clandestini e Hamas, il movimento islamista padrone della Striscia da 12 anni, che ieri ha dichiarato lo stato d’emergenza.

Due attacchi in meno di due ore contro altrettanti posti di controllo della polizia a Gaza City segnalano che lo scontro si è alzato di livello. I tre poliziotti di Hamas uccisi dalle esplosione “saranno vendicati”, promette il portavoce del gruppo Eyad Al Bozm, e “i colpevoli presto troveranno la punizione che meritano”. Intanto vanno e vengono veloci dai commissariati le macchine della polizia con targa civile, diverse decine di persone sospettate sono già finite in cella nelle ultime 24 ore.

Nonostante la feroce repressione e l’ondata di recenti arresti contro i gruppi salafiti, le cellule filo-Stato Islamico (Isis) e filo-Al Qaeda continuano la loro attività strappando al gruppo islamico – colpevole a loro dire di negoziare con Israele una tregua che strangola gli abitanti della Striscia e lascia insoluti problemi strutturali – l’aura di formazione più “pura e islamica”.

Il mukhabarat – i servizi di intelligence – di Hamas nella Striscia non è certo l’Fbi, ma nella sua ricostruzione dei due attacchi – uno dei quali portato con una motocicletta – sembrerebbe che gli attentatori fossero due kamikaze. Una realtà nuova nello scontro fra formazioni integraliste.

Il salafismo – ramo dell’Islam che abbraccia un’interpretazione letterale del Corano e sostiene il ritorno a un califfato globale – è una tendenza preoccupante a Gaza. Mise le sue radici negli anni ’70, quando gli studenti palestinesi tornavano dall’estero dopo aver frequentato le scuole religiose dell’Arabia Saudita. Le quattro organizzazioni più attive nella Striscia sono Jund Ansar Allah (Esercito dei sostenitori di Allah), Jaysh Al-Islam (Esercito dell’Islam), Jaysh Al-Umma (Esercito della Nazione Islamica) e al-Tawhid wal-Jihad (Monoteismo e Guerra santa). Oltre a questi gruppi più affermati con qualche migliaio di miliziani, ci sono anche un certo numero di cellule più piccole, vagamente affiliate, che adottano una varietà di nomi per rivendicare i loro attacchi. Le Brigate del Monoteismo definiscono Hamas “pervertito” e sostengono che ai suoi uomini bisogna “rompere le ossa e ripulire così la terra pura della Striscia di Gaza da questi abomini”. Per sabotare il ‘cessate il fuoco’ i salafiti hanno sparato sporadicamente razzi verso Israele nei giorni scorsi, in una dimostrazione di insubordinazione. In risposta, Hamas ha condotto una campagna contro i ribelli, arrestandone decine di persone senza un’accusa formale. La resa dei conti a Gaza funziona così. Fra l’altro Hamas ha già perso alcuni dei suoi membri più radicali, compresi molti dalla sua ala militare, le Brigate Ezzedin al Qassam, che sostengono una posizione più dura nei confronti di Israele.

Israele è ancora più preoccupato di Hamas per l’ascesa dei jihadisti salafiti a Gaza. Lo Stato ebraico è abituato ad essere costantemente assediato dai suoi vicini, ma il pericolo rappresentato dai jihadisti transnazionali è particolarmente grave. La presenza di una cellula affiliata all’Isis – organizzato e altamente capace – con le sue basi nella penisola egiziana del Sinai, appena oltre il confine con Gaza – è per la sicurezza israeliana un’altra seria sfida. Questi jihadisti si scontrano regolarmente con le forze di sicurezza egiziane, ma mantengono ancora il controllo di tutta la zona est della penisola del Sinai. L’attuale gioventù di Gaza è diventata maggiorenne durante le tre guerre fra Hamas e Israele (2009-2012-2014) l’ha definita “la generazione di Hamas”. Ma se la situazione economica nella Striscia continuasse a peggiorare – anche per il blocco economico imposto dall’Egitto – questi giovani palestinesi potrebbero presto diventare noti come la “generazione salafita”.

Come Hamas iniziò a eclissare Fatah alla fine degli anni ’80 come l’organizzazione palestinese più radicale e violenta, i salafiti di Gaza potrebbero adesso “superare” Hamas e diventare la minaccia più pericolosa per gli altri palestinesi e lo stato di Israele.

I pericoli dalla Striscia non sono gli unici che allarmano Israele in questi giorni. L’intero Fronte Nord – che comprende i confini sono Libano e Siria – è in stato di massima allerta. Lo stato ebraico si aspetta una ritorsione dopo il doppio raid aereo che ha colpito basi di Hezbollah in Libano e dei Pasdaran iraniani in Siria. Hezbollah esclude una guerra aperta ma “risponderà” a Israele, minacciando “sorprese”. Il numero due del movimento sciita libanese, Naim Qassem, in dichiarazioni al canale arabo Rt: “Non ritengono che il clima sia quello di una guerra, è piuttosto quello di risposta a un attacco. Tutto verrà deciso al momento giusto”.

Ritrovato il cranio di Australopiteco più antico di sempre

È il primo cranio fossile mai trovato di Australopiteco anamensis, il più antico di questa specie di ominidi. L’antenato della bisnonna della specie umana “Lucy”, che è invece un Australopiteco afarensis, è vissuto circa 3,8 milioni di anni fa ed è stato individuato nel sito di Woranso-Mille, nella regione di Afar, in Etiopia. A fare la scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, un gruppo internazionale di ricercatori guidato da Yohannes Haile-Selassie, curatore del Cleveland Museum of Natural History, negli Stati Uniti. “Si tratta di una scoperta fondamentale per ricostruire e comprendere l’evoluzione umana nel corso del Pliocene”, ha affermato Haile-Selassie. Il reperto, chiamato Mrd, si inserisce in un intervallo di tempo tra 4,1 e 3,6 milioni di anni fa, nel quale i fossili di antenati dell’uomo sono ritenuti estremamente rari. Grazie a questa scoperta i ricercatori non solo hanno potuto ottenere nuove informazioni sulla morfologia cranio-facciale della specie ma hanno potuto dimostrare che i due Australopitechi avrebbero convissuto per circa 100 mila anni, sfidando così l’ipotesi fino a oggi accreditata secondo cui la seconda specie si sarebbe diffusa solo dopo la scomparsa della prima.

Articolo sgradito? Meglio far sparire i giornali

A Cento, piccolo Comune in provincia di Ferrara, le querele temerarie sono superate: per imbavagliare la stampa c’è chi fa addirittura “sparire” i giornali appena arrivati nelle edicole. Lo racconta una recente sentenza della Corte di Cassazione che ha definitivamente condannato l’ex direttore generale del Comune, Gilberto Ambotta, a 4 mesi di reclusione, con la sospensione della pena, perché avrebbe provato a far “scomparire” dalle edicole un mensile locale a distribuzione gratuita nel quale era stato pubblicato un articolo particolarmente critico nei suoi confronti.

Il 23 settembre 2010, Ambotta si è presentato dinanzi a un’edicola e “allo scopo di impedirne la diffusione, asportava – come si legge nel capo di imputazione – dall’edicola un imprecisato numero di copie, compreso tra 400 e 600, del mensile CentoperCento”. Non un’operazione costruita dietro le quinte della politica, insomma, una sorta di spedizione punitiva.

Non solo. A chi chiedeva spiegazioni avrebbe risposto, secondo quanto hanno dichiarato i testimoni durante il processo, che “siccome lui mi sputtana sui giornali, io mi sento in dovere di poterli prendere”.

Lui è Mirco Gallerani, direttore ed editore di CentoperCento. Classe 1953, ex consigliere comunale e giornalista da 15 anni, Gallerani aveva raccontato come, dopo la circolare che cancellava la figura di direttore generale per i piccoli Comuni, Ambotta avesse trovato il modo di superare il problema e conservare la poltrona nell’ente. È stato lui stesso a scrivere la querela che ha dato il via all’iter giudiziario nel quale è stato assistito dall’avvocato Beatrice Capri. Nel corso del processo l’allora direttore generale aveva provato a difendersi sostenendo che quell’azione serviva ad “aumentare” la diffusione del mensile perché quelle copie sarebbero state distribuite dal Comune in una sua delle sue aziende partecipate, ma per il Tribunale è una tesi “clamorosamente illogica” e smentita dalla frasi pronunciate in quei momenti.

I giudici di tutti i gradi di giudizio hanno dato ragione a Gallerani: hanno inflitto la condanna ad Ambotta e disposto anche il risarcimento dei danni nei confronti del giornalista.

La Corte d’appello, nella precedente sentenza confermata anche adesso dalla Suprema corte, ha chiarito che Ambotta “in palese spregio dell’art.21 della Costituzione” ha “deliberatamente impedito la diffusione di libere critiche da parte di chi per professione ha il dovere di valutare ed anche esprimere giudizi sull’operato amministrativo”.

Valutazioni che tra l’altro erano riportate “in modo continente e non ingiurioso”. Per i giudici insomma è stato “un atto di particolare gravità” perché dimostrerebbe “assoluto disprezzo non solo per le altrui opinioni, ma anche per la libera stampa e la legalità”.