Torna l’Educazione civica: senza prof. per insegnarla

“Educazione civica in classe, e se non basta due ceffoni a casa da mamma e papà”. Nella retorica sui bei tempi andati di Matteo Salvini, tutta patriottismo e nostalgia, il ritorno dell’educazione civica fra i banchi ha sempre avuto un posto di rilievo, magari insieme alla leva militare. Così, prima di andar via, il suo ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha voluto lasciare quest’ultimo regalo in eredità alla scuola italiana: un’ora obbligatoria alla settimana per tutti, dalle elementari alle superiori. Subito, già da settembre, con tanto di voto a fine anno che fa media in pagella. Senza però dire chi la insegnerà, come e al posto di cosa.

La riforma, se così si può definire, è fatta: a inizio agosto, pochi giorni prima della crisi, il parlamento ha approvato una legge a prima firma leghista che reintroduce l’educazione civica nel nostro ordinamento: si studierà la Costituzione, ma anche la storia dell’inno e della bandiera, la “cittadinanza digitale” e un’infarinatura di diritto. Non si tratta di un inedito assoluto: la materia era già stata voluta da Aldo Moro nel ‘58, salvo poi venire ridimensionata nel corso degli anni e resa facoltativa. Nel migliore dei casi era ricompresa fra storia e geografia, di fatto non si faceva quasi più. Nella fretta di tornare all’antico, però, il ddl ha pensato solo a ripristinarne l’obbligatorietà e non a tutto il resto.

La legge crea un paradosso: adesso nella scuola italiana c’è la materia di educazione civica ma non l’insegnante di educazione civica. Questa figura non esiste. Quella che vi si avvicina di più è il docente di scienze giuridiche (classe di concorso A-46), infatti il testo spiega che spetterà a loro insegnarla, “ove disponibili”. La postilla non è banale: è una categoria presente solo negli istituti tecnici e professionali e nei licei di scienze umane. Di ruolo ce ne sono 11 mila in tutta Italia. Altri 4 mila circa sono assunti nel cosiddetto “organico dell’autonomia”, il “potenziamento” di personale creato dalla Buona scuola di Matteo Renzi per fare attività varie. Le (poche) scuole che hanno la fortuna di ritrovarsene uno in casa sono a posto. E tutte le altre?

Il provvedimento non dice nulla, né prevede alcuna assunzione: dal 2020 sono stanziati 4 milioni di euro per “formare” i docenti, intanto è un bel problema e ci si dovrà arrangiare con ciò che c’è. Alle elementari ogni maestro farà un pezzettino di insegnamento (con un coordinatore che propone il voto), alle superiori invece spetterà al consiglio di classe individuare il professore più idoneo (senza ovviamente nessun compenso).

Non è l’unico nodo. La materia deve essere compresa all’interno del monte orario obbligatorio già previsto. Se si fa un’ora in più di educazione civica, ce ne dovrà essere una in meno di un’altra. Anche qui è tutto rimesso all’autonomia delle scuole. Facile immaginare che la disciplina sarà inserita nel pacchetto umanistico e impartita da uno dei suoi docenti, a scapito di italiano o storia e geografia, ma non è possibile escludere soluzioni più fantasiose. Ognuno sarà libero di regolarsi come meglio crede. “Fatta così, è un’arlecchinata”, attacca Ezio Sina, presidente dell’Apidge, l’associazione degli insegnanti di scienze giuridiche, i più interessati in teoria alla riforma. “Essendo obbligatoria, nessuno si potrà tirare indietro ma ogni scuola farà ciò che può e che vuole: sarà il caos”.

La legge, poi, oltre che male è stata fatta pure tardi. Il governo ha sforato i tempi di pubblicazione in Gazzetta ufficiale, facendo così slittare l’entrata in vigore al 2020. Ma la Lega ci teneva così tanto a lasciare quest’ultima impronta sulla scuola che Bussetti, mentre faceva gli scatoloni per lasciare il ministero, ha firmato un decreto per partire subito sotto forma di “sperimentazione”. Una vera e propria forzatura, che però ha bisogno di passare dal Consiglio superiore dell’istruzione: il parere è obbligatorio per sperimentazioni nazionali, ma l’organo non è disposto a riunirsi con urgenza per un provvedimento che non piace quasi a nessuno, fra presidi preoccupati e sindacati imbufaliti. Infatti la riunione è convocata per l’11 settembre. Quando la scuola sarà già iniziata in diverse Regioni. Con o senza educazione civica ancora non è chiaro.

Olimpiadi invernali, a chi serve la nascita del 3° palazzetto?

Deciso: sarà una fondazione (e non una società per azioni) a guidare la macchina organizzativa per le Olimpiadi invernali 2026 vinte dalla strana coppia Milano-Cortina. Le sorti dell’evento sono in mano a cinque persone: il presidente del Coni Giovanni Malagò, i sindaci di Milano e Cortina Giuseppe Sala e Giampietro Ghedina, i presidenti di Lombardia e Veneto Attilio Fontana e Luca Zaia. Manca – per ora – il sesto stakeholder: il governo italiano, che non è ancora nato, ma che è stato già chiamato in causa da Sala: “Deve varare una legge olimpica e lo deve fare entro novembre, altrimenti non saremo in grado di rispettare le promesse fatte nel dossier di candidatura”.

In attesa del governo, comincia a delinearsi la struttura organizzativa dell’evento: una fondazione di diritto privato formata dai sei stakeholder pubblici che avrà la guida e la gestione dell’Olimpiade; e un’agenzia pubblica che realizzi le infrastrutture.

Da questa passeranno i soldi per le opere, le strade, gli impianti da costruire. Dovrà gestire i quasi 400 milioni promessi dalle Regioni Lombardia e Veneto. A questi si aggiungeranno altri 1,3 miliardi di euro, che sono la previsione di spesa contenuta nel dossier di candidatura. Totale, per ora: 1,7 miliardi. Sappiamo che i costi tendono sempre a crescere, per cui non è difficile prevedere che saranno spesi almeno 2 miliardi di euro. Le previsioni di ricavi da biglietti sono inferiori ai 250 milioni. Si può dunque già prevedere un disastro simile, anzi peggiore, a quello di Expo Milano 2015 (2 miliardi di soldi pubblici spesi, 700 milioni di ricavi). Certo, c’è poi “l’indotto”, ci sono le “ricadute economiche sul territorio”: materia di fede che i teologi della Sda Bocconi avevano ieri quantificato in 31,6 miliardi per Expo (chi li ha visti?) e che oggi i ghostbuster dell’Olimpiade prevedono saranno di 5,6 miliardi per l’evento sulla neve 2026.

C’è, ammettiamolo, una buona notizia: per Expo 2015 furono persi anni in litigi tra Letizia Moratti (allora sindaco di Milano) e Roberto Formigoni (allora presidente della Lombardia) prima di arrivare a decidere la governance dell’evento: per l’Olimpiade 2026 c’è già almeno un’ipotesi di organizzazione a soli due mesi dalla vittoria di Milano-Cortina. Resta l’incognita del governo: quando arriverà, e quanto stanzierà? O si limiterà a dettare qualche regola in campo fiscale e Iva?

E resta l’incognita del settimo stakeholder segreto di tutti i grandi eventi: in passato, le indagini antimafia e anticorruzione hanno documentato gli innumerevoli tentativi d’infiltrazione mafiosa e tangentizia in Expo e i non pochi colpi riusciti e portati a termine; oggi che cosa sappiamo del lavorio sotterraneo degli efficientissimi manager della ’ndrangheta e degli accordi segreti stretti all’incrocio tra politica e affari?

L’allegro e operoso partito dei Sì è già all’opera, contro il triste e sfigato partito dei No. Vedremo che cosa succederà nei prossimi mesi. Qualche domanda però si può già fare. A Milano esistono già due palazzi dello sport, uno nella periferia nord-ovest, a Lampugnano, un altro nella periferia sud-ovest, ad Assago. È proprio necessario costruirne un terzo nella periferia sud-est, nel quartiere Santa Giulia? Non basterebbe rinnovare e ampliare i due palazzi esistenti? Che cosa faremo del terzo palazzo quando le Olimpiadi saranno terminate? E ancora: chi costruirà, e come, i tre villaggi olimpici previsti a Milano, a Cortina e a Livigno? Come saranno impiegati dopo gli inni finali?

Da “Renzi è vita” a “si piange”: chi voteremo?

Distratti come siete dalla crisi più idiota del mondo (daje Salvini!), potreste esservi persi il varo del “Movimento del Fare”. Sarebbe un peccato, perché l’evento è già paragonabile per impatto politico alla conferenza di Yalta, al Patto di Varsavia e alla gara alla Playstation tra Renzi e Orfini. Flavio Briatore ha fondato tale formazione con parole come sempre umili e chiare: “In questo momento così critico e confuso per il Paese Italia, ormai alla deriva, mi faccio avanti con una proposta forte e concreta: Il Movimento del Fare. Totalmente indipendente da qualsiasi partito o corrente politica attuali, Il Movimento del Fare nasce per essere al completo servizio dei cittadini”. E ancora: “Io mi metto in gioco in prima persona e so di poter contare su tanti professionisti e imprenditori che condividono le mie idee e vogliono far parte del Movimento del Fare. Insieme, uniti, senza alcun interesse personale e tutti con un unico obiettivo: Salvare l’Italia, ci metteremo a disposizione e al lavoro per amore del nostro Paese. E lo faremo completamente GRATIS”.

Parole ammantate di saggezza e anzi leggenda, compreso quel riferimento finale in stampatello: “GRATIS”. Come se qualcuno, nella testolina vivida di Briatore, pensasse pure di pagare per votare uno come lui. Due giorni fa, Briatore ha fatto la prima diretta Facebook. Nel frattempo il suo politico di riferimento, Salvini, è riuscito a dilapidare in un amen buona parte dei suoi consensi: quel che si dice “portare fortuna”. Sordo ad avversità e critiche, Briatore si è presentato con un’inquadratura dadaista, un po’ di profilo e un po’ a casaccio, ricevendo plausi trasversali dai suoi stessi fan. Qualche esempio: “Da uno che è stato residente all’estero per 35 anni un’ottima promessa” (Giorgio Cappozzo); “Senti scusa ma scenderai in campo prima o dopo aver scontato i 18 mesi per maxi-evasione fiscale? Un tuo grande fan” (Nicola Antoni). E via così, anzi a volte pure peggio. Tali critiche sono oltremodo ingiuste. Anzi non vediamo l’ora di andare a votare per poter premiare lo sforzo (“GRATIS”) dell’ideologo Briatore e di vederlo con ciò in un bel dicastero – si spera quello “del Fare” – all’interno di un ameno governo fascistello, magari con le babbucce briatoriane al posto dell’ormai démodé fez. Nella sua visionarietà rutilante, Briatore ha compreso che il futuro è dei nuovi partiti. Basta con la sinistra, la destra, il centro e i grillini: servono forze nuove. Quindi viva Briatore. E viva tutti coloro che, in questi giorni di vil tormenta, si sacrificheranno (“GRATIS”) per il bene comune. Fondando nuove formazioni che, come funghi, nasceranno e prolificheranno. Donandoci con ciò gioia e letizia. Qualche esempio.

PdF. Il nome è un po’ azzardato, riecheggiando pericolosamente acronimi vili del Ventennio, ma stavolta Farinacci non c’entra. Il nuovo “PdF” sta per Partito del Futuro e vedrà come leader il noto aruspice Fabio Caressa. Il partito fonda tutta la sua essenza nel dominio del vaticinio: ovvero nella previsione del futuro. Qualche esempio: secondo Caressa lo scudetto lo vincerà il Lecce, gli US Open Seppi e il nuovo presidente degli Stati Uniti sarà Tabacci. Il sondaggista Noto accredita già il Pdf di un 34%. Se raggiungerà la maggioranza assoluta, Caressa proporrà come presidente del Consiglio Piero Fassino. Si vola.

SP. È la nuova forza di Pierluigi Diaco, sincero nonché empatico e ancor più simpatico conduttore radio-televisivo. “SP” sta per “Si Piange”, che indica da un lato la propensione vittimistico-lacrimatoria del Diaco stesso e – dall’altro – l’effetto che il partito intende suscitare sugli elettori.

Rev. Nato per essere l’ago della bilancia quasi come il simpatico Psdi nella Prima Repubblica, Rev vuol dire “Renzi è Vita”. Il triumvirato dei fondatori è composto da Maria Teresa Meli, Mario Lavia e Claudia Fusani. Il simbolo ritrae un porro in primo piano, chiaro tributo ad Andrea Romano.

GIN. È il partito fondato da Vittorio Feltri e “Gin” non è un acronimo: sta proprio per Gin.

NS. Provocatoria formazione fondata da Giuseppe Cruciani. “NS” sta per “No Shampoo”. Un po’ forza politica e un po’ setta para-religiosa, gli iscritti all’“NS” dovranno rispettare poche regole fondanti: giocare al bastian contrario a caso, fingersi ribelli per poi tifare sempre il potente di turno, proferire parolacce random per sentirsi maudit e lavarsi al massimo due volte l’anno. E in entrambi i casi con la sugna di contrabbando.

QC. Nato da una costola mechata e riottosa del NS, “QC” vuol dire “Quante Cazzate”. L’unico iscritto è Filippo Facci. Che però sta per dimettersi da se stesso, per potersi mandare a quel paese da solo.

Buon voto a tutti!

Sos clima: l’Italia inquina più del Brasile

Per la prima volta nella sua storia, l’umanità si trova ad affrontare sfide planetarie che travalicano qualsiasi distinzione nazionale. Le fiamme che avvolgono la Foresta amazzonica non riguardano solo i brasiliani, così come i fuochi che hanno devastato la Siberia non sono un problema dei soli russi. Ce ne stiamo accorgendo nel modo peggiore: oggi la nostra patria è il mondo intero.

Vale la pena ricordare cosa è accaduto questa estate, quella che ha contato il luglio più caldo di sempre. La Siberia è stata dilaniata dalle fiamme, rilasciando tonnellate di gas serra dal permafrost. La Groenlandia ha iniziato a squagliarsi con inusitata rapidità, con oltre 10 miliardi di tonnellate di ghiaccio sciolte nei mari ogni giorno. In Brasile una nuvola tossica ha precipitato la megalopoli di San Paolo nel buio pesto alle tre del pomeriggio. E la Foresta amazzonica, sotto la spinta dal sovranismo economico del presidente Jair Bolsonaro, viene incendiata per fare posto alle coltivazioni di soia.

Le previsioni distopiche dell’Onu parevano riferirsi a un futuro distante, a un’epoca storica che non ci avrebbe riguardato, e in cui qualcuno, sempre qualcun altro, avrebbe risolto il problema. Dimenticate quella falsa sicurezza. Il futuro è già qui. Occorre dirlo senza più giri di parole: la distruzione del nostro pianeta rappresenta un nuovo crimine contro l’umanità. Cosa fare quindi?

Primo. L’Europa ha un margine di negoziazione fortissimo. Bisogna sospendere l’accordo commerciale Ue-Mercosur, che include il Brasile, fino a che non vi saranno inseriti impegni stringenti a favore della riforestazione, come già proposto da Irlanda e Francia. Da che parte sta l’Italia? Con il piromane amico di Salvini o con il futuro di tutti noi?

Secondo. Dobbiamo fare la nostra parte: perché l’Italia pro-capite inquina ancora più del Brasile! E questo significa richiedere un Green New Deal, un piano di trasformazione ecologica della nostra economia, subito e a tutti i livelli. Anche qui, da che parte pende la politica economica italiana, flat tax per i ricchi o investimenti verdi?

Terzo. Occorre trasformare l’indignazione in un vero movimento planetario. È qualcosa che abbiamo iniziato a vedere con la straordinaria esperienza degli scioperi scolastici dei Fridays for Future. Quando i ragazzini hanno dimostrato di essere molto più maturi degli adulti. Il 20 settembre bisognerà essere tutti in piazza per il terzo sciopero globale per il clima.

Quarto. Se il sovranismo di Bolsonaro e Salvini è da relegare alla pattumiera della storia, non basterà un ritorno all’ordine sotto l’egida del rigore, della tecnocrazia e degli zero-virgola. Non basta un governo Ursula, come proposto da Romano Prodi con riferimento alla presidente della Commissione europea, ma serve un governo Greta. Serve una rivoluzione verde che affronti la duplice crisi ecologica e sociale. I protagonisti di questa farsesca crisi di governo farebbero bene a ricordarlo.

L’umanità si trova di fronte alla più potente sfida alla sua sopravvivenza. E nei film di Hollywood questo è il ruolo che giocano le invasioni aliene. A fronte delle quali l’umanità si unisce, migliora se stessa e vince. Ma questo non è un film. E la possibilità di un lieto fine dipende interamente da noi.

Crisi Trump-Iran. Sul nucleare sarebbe meglio tornare ai patti firmati da Obama

 

Gentile Redazione, leggo da giorni le schermaglie fra gli Usa di Trump e l’Iran di Rohani sul tema nucleare. L’Iran si dipinge come vittima delle sanzioni americane e cerca una sponda nell’Europa, che però accusa di essere sottomessa alla politica della Casa BIanca. Eppure ho visto che il presidente francese Macron aveva invitato al G7 il ministro degli Esteri iraniano Zarif, come se volesse diventare intermediario per trovare uno sbocco alla crisi. Mi chiedo: fino a che punto Trump può tirare la corda con le sanzioni, e fino a quando l’Iran è in grado di resistere senza un tracollo? Non sarebbe meglio tornare ai patti firmati da Obama per evitare ulteriori tensioni internazionali?

Giuseppe Falsaperla

 

Non solo, gentile Giuseppe, sarebbe meglio tornare ai patti firmati, e denunciati solo dagli Stati Uniti, ma sarebbe stato meglio non esserseli mai rimangiati. Ma di questo bisogna, anzi bisognerebbe, convincere Trump, che s’è insediato alla Casa Bianca con l’ansia di smantellare l’eredità di Obama, di cui l’accordo sul nucleare con l’Iran era un punto forte. L’anno scorso, Trump s’è tirato fuori dall’intesa che Russia, Cina e gli europei, pure firmatari, hanno continuato a considerare valida e che l’Iran ha continuato a rispettare fino a luglio, quando ha annunciato uno sforamento dei limiti per l’arricchimento dell’uranio (restando, però, molto lontani dai livelli e dalle quantità necessarie per farsi dell’atomica). Contestualmente, Trump ha reintrodotto le sanzioni e le ha pure inasprite, enunciando la strategia della “massima pressione” su Teheran per “indurre gli iraniani a negoziare” (cosa già fatta). Le sanzioni mettono in ginocchio l’economia iraniana e il presidente Rohani, un moderato, col rischio di favorire il ritorno al potere in Iran degli integralisti (e quindi inasprire il confronto con gli Usa). Ci si chiede se Trump non stia cercando un pretesto di scontro: le scaramucce nel Golfo ne sono avvisaglia. Gli europei – non solo i governi, anche le imprese – hanno mancato in questa vicenda di coraggio: si sono dotati di strumenti per continuare a fare affari con l’Iran, nonostante le sanzioni americane; ma per timore dell’aggressività di Trump, non li hanno utilizzati, lasciando languire affari e commesse con Teheran. Al G7 Macron ha giocato d’azzardo, invitando Zarif senza consultare prima i partner, o almeno Trump: sperava che il Vertice gli desse il mandato di negoziare a nome dei Grandi, ma questo era praticamente escluso. Trump, con gli iraniani, vuole parlarci lui. E questa non è una garanzia di successo, anzi…

Giampiero Gramaglia

Mail box

 

L’invasione dei cinghiali è stata causata dai cacciatori

Le immissioni di cinghiali effettuate da squadre di cacciatori per incrementare la loro ludica attività, sono di una specie importata dall’est, più grande e prolifica di quelli autoctoni.

Questi signori, dopo averli immessi illegalmente e con incoscienza, ora si propongono come quelli che lo potranno risolvere aumentando la loro sanguinaria attività. Questa tipologia di caccia, praticata in territori altamente antropizzati, è oltremodo pericolosa (lo dimostra l’alto numero di morti sia fra i cacciatori sia fra la gente comune). Essa viene effettuata usando fucili che hanno una gittata che va da 1,5 km, per quelli a canna liscia, fino a oltre 4 km per le carabine a canna rigata. Non si sa, o non si dice, quanti incidenti stradali avvengono proprio durante e per colpa delle battute di caccia, perché gli animali terrorizzati scappano fuori controllo in ogni direzione.

Paolo Bassini

 

Legge di Bilancio? Più d’uno teme che non ci siano i soldi

A quanto pare, c’è il problema della legge di Bilancio. Si parla di qualche miliardino che mancherebbe al preventivo di spesa. La cosa ha dell’incredibile.

Tutti i contribuenti sono increduli. Con tanti soldi anche anticipati che ci portano via ogni 6 mesi, ci raccontano di non averne abbastanza per i loro progetti. Ma dove li hanno messi? Forse nei costi della politica? Facciano bilanci semplici e leggibili e vedranno che i soldi li troviamo noi, perché sappiamo riconoscere quello che è nostro e quali spese sono inutili.

Gianni Oneto

 

Vicepremier o ministro: Di Maio dovrebbe insistere

Parafrasando una pubblicità del celebre Carosello si può dire: “No Conte, no governo”. E, infatti, i veti immotivati sul premier del governo giallo-verde si sono squagliati come neve al sole. Addirittura Trump dall’America ha comunicato che tifa per Conte presidente del Consiglio.

Sembra, allora, che l’unico veto da parte del Pd sia rimasto quello nei confronti del leader Di Maio, che dovrebbe restare fuori dal governo giallorosso, sia come vicepremier, sia come ministro. Come se Zingaretti dicesse facciamo un governo di legislatura, ma a patto che resti fuori il leader del partito con il quale mi alleo. Personalmente se fossi in Di Maio insisterei nel fare il vicepremier insieme a un altro vicepremier del Pd – proprio per la par condicio – o insubordine chiedere di restare ministro, non necessariamente dell’Interno, come si era ventilato.

In altri termini, non bisogna scordare che il Pd non può imporre nulla ai 5S, avendo in Parlamento circa la metà dei seggi dei grillini. E, se no, si vada subito alle elezioni, con grave nocumento per il Paese, e si faccia vincere definitivamente il Cazzaro Verde.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Alleanza inevitabile: si scorderanno gli insulti?

Giuseppe Conte, nel giro di 15 soli mesi, è passato da sconosciuto avvocato a più popolare leader italiano. Perché ha dimostrato intelligenza nel sapersi muovere, nonostante l’inesperienza, e perché è stata determinante la pochezza e l’impreparazione degli altri leader politici italiani. “Nel Paese dei ciechi l’orbo è re”. Veniamo al governo: premesso che comunque vada sarà un disastro, l’alleanza M5S-Pd è inevitabile. È però anche certa l’assoluta incongruità di siffatta coalizione. Entrambi gli schieramenti hanno passato gli ultimi anni a insultarsi. Sono andato a rivedermi una serie di pregresse dichiarazioni dei vari componenti dei due partiti: un massacro! Adesso “per il bene del Paese” (naturalmente) faranno come esorta una vecchia, meravigliosa, canzone napoletana: “Scurdammuce ‘o passato”. Personalmente non appartengo a nessuno dei due elettorati, ma credo che per i militanti delle due “ex” opposte fazioni aumenteranno le spese in farmacia: serviranno quintali di Maalox per sedare le coliche gastriche.

Mauro Chiostri

 

Dicevano: “Mai col Pd” e noi ci eravamo illusi

Premetto che ho votato M5S e sono già da un bel pezzo pentito. Si sono perduti tutti i bei discorsi che la politica non deve essere e soprattutto diventare una professione, di non farsi travolgere dai meccanismi capitalistici, di rimanere onesti, di fare l’interesse dei cittadini, del bene comune. Ai comizi di non molto tempo addietro si portavano nelle piazze le porcate di Renzi & C., si diceva che il Pd ha fatto tante di quelle schifezze da rivalutare Berlusconi. “Mai col Pd” ed io ci credevo da ingenuo. Invece Di Maio si è fatto prendere dalla smania di gloria e ha distrutto un sogno. Cosa ne dice Beppe Grillo di queste inversioni di tendenza o di mosse strategiche, oserei dire?

Dino Vicentini

 

I nostri errori

Sul Fatto di ieri a pagina 8, sotto l’articolo “Vengo anch’io! Adesso LeU, +Europa e Casini aspirano a una poltrona”, c’è un errore nella didascalia della foto: la persona di spalle che saluta Mara Carfagna non è Federico Fornaro di LeU– come abbiamo scritto, sbagliando – ma Gianfranco Micciché di Forza Italia. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati.

FQ

Stromboli, ancora un “botto”: paura sull’isola e un mini tsunami

Un boato, una colonna di fumo altissima e una pioggia di cenere che ha oscurato tutto: a Stromboli ieri è tornata la paura, a poco più di un mese dall’eruzione costata la vita a un escursionista. “Iddu” si è risvegliato con una nuova violenta esplosione. Nessuna vittima stavolta, ma panico tra i residenti e i molti turisti (in tanti hanno lasciato l’isola). La fuoriuscita di lapilli e altro materiale incandescente ha provocato diversi incendi, per i quali si sono messi in azione i Canadair. “Si è trattato di una replica dell’evento del 3 luglio. Alle 12.17 c’è stata una forte esplosione nella zona sommitale del vulcano con un flusso piroclastico che si è espanso in mare”, ha spiegato l’Invg. Ma l’allerta rimane alta. “Oltre a quello vulcanico, esiste il pericolo di uno tsunami più grande di quello avvenuto ieri – ha spiegato il direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Carlo Doglioni – che ha generato un’onda di 20 centimetri dovuta all’arrivo in mare del materiale piroclastico eruttato. Nel caso però in cui collassi una parte del fianco della Sciara del Fuoco, oppure in cui ci sia un’ulteriore eruzione maggiore, l’ingresso di questi volumi in mare potrebbero comportare l’innesco di uno tsunami più grande”.

Sindaci del Casertano: “È sempre emergenza Terra dei Fuochi”

Con l’avvicinarsi della chiusura – 40 giorni per manutenzione programmata – del termovalorizzatore di Acerra, si alza la temperatura delle preoccupazioni nella Terra dei Fuochi. Diciannove sindaci del Casertano hanno scritto al ministro dell’Ambiente Sergio Costa per chiedere una svolta sulle politiche di gestione del ciclo dei rifiuti. “La questione rifiuti – scrivono i primi cittadini –, strettamente connessa a quello dei roghi, e più in generale il tema della tutela dell’ambiente, nelle nostre zone continua a rivestire i caratteri della emergenza”. Nel documento sottoscritto dai sindaci di Aversa, Carinaro, Casal di Principe, Casaluce, Casapesenna, Cesa, Frignano, Gricignano d’Aversa, Lusciano, Orta di Atella, Parete, Sant’Arpino, San Cipriano, San Marcellino, Succivo, Teverola, Trentola Ducenta, Villa di Briano e Villa Literno si sollecitano la realizzazione degli impianti di compostaggio, soluzioni strutturali per il pattume indifferenziato e più fondi per i comuni che saranno costretti ad affrontare un incremento di spese per lo smaltimento durante la chiusura di Acerra.

A bordo anche 22 bambini: si punta verso Lampedusa

Sono stati soccorsi ieri mattina dalla Mare Jonio ben 22 bambini con meno di dieci anni, mentre si trovavano su un gommone alla deriva a circa 70 miglia dalla costa di Misurata. Complessivamente 98 i migranti (anche otto donne incinte) recuperati dalla nave di Mediterranea saving humans che ha fatto rotta verso nord, puntando su Lampedusa. Tra la nottata e l’alba sarà in vista dell’isola. Non si è fatto attendere il divieto di ingresso nelle acque nazionali firmato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini (ieri impegnato nelle consultazioni al Quirinale). L’atto è stato inviato ai colleghi Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli per la sigla. Intanto la Eleonore, nave della ong tedesca Mission Lifeline con 101 persone salvate a bordo, è sempre fuori dalle acque maltesi, mentre la Commissione europea ha avviato il coordinamento, su input della Germania, per il ricollocamento dei migranti, che però sarà possibile solo se fatti sbarcare. Intanto Mare Jonio ha chiesto istruzioni al Centro di coordinamento del soccorso marittimo della Guardia costiera italiana che ha risposto indicando alla nave di riferirsi alle autorità libiche, dal momento che l’intervento è avvenuto nell’area di ricerca e soccorso del Paese nordafricano.

“Apriamo i porti a Mare Jonio: il decreto Sicurezza va abolito”

Classe 1952, prefetto, direttore del Consiglio italiano rifugiati, capo di gabinetto al ministero dell’Interno con Marco Minniti, Mario Morcone è tra candidati al Viminale nell’eventuale futuro governo Pd-M5S. E con lui al governo un fatto è certo: i naufraghi a bordo della nave Mare Jonio non riceverebbero alcun divieto di transito nelle acque italiane. E potrebbero sbarcare.

Prefetto Morcone, la Mare Jonio ha soccorso 98 persone tra le quali 22 bambini e 8 donne incinte. Il ministro Salvini ha disposto il divieto di transito in acque italiane: che ne pensa?

Sono il direttore del Consiglio italiano rifugiati: qualcuno può pensare che lasci questa gente in mezzo al mare?

Quindi non condivide la linea politica dei porti chiusi?

Assolutamente. Ma stiamo scherzando?

Il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha firmato il divieto disposto da Salvini. E lo stesso Salvini, due giorni fa ha parlato di ritrovata unità del governo quando sia Toninelli, sia il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, entrambi del M5S, hanno firmato con lui il divieto d’ingresso per la nave Eleonore, con 101 naufraghi a bordo. Che ne pensa?

Non capisco perché i ministri Trenta e Toninelli lo facciano. Posso soltanto assistere e osservare.

Lei – con un decennio alla guida del dipartimento libertà civili del Viminale – ha una grande esperienza del fenomeno migratorio. Se n’è occupato anche da capo di gabinetto dell’ex ministro Marco Minniti. Qual è la linea giusta da tenere, secondo lei, con le Ong che si occupano di salvare gente dai naufragi?

È un fatto noto che a suo tempo, nel 2017, con le Ong abbiamo concordato un codice di comportamento. Un conto è un codice di comportamento, un altro è il decreto sicurezza bis, che prevede addirittura la chiusura dei porti con un decreto interministeriale. La posizione che ho condiviso allora è quella del confronto con le Ong su un sistema di regole giuste, che consentissero loro di svolgere la missione umanitaria, secondo schemi riconoscibili sul piano del diritto internazionale.

Il decreto Sicurezza bis non è sulla stessa linea.

Il decreto Sicurezza bis a mio avviso va abolito. O quantomeno profondamente rivisto.

Perché?

Per più motivi. Innanzitutto, a mio avviso, in più punti è anticostituzionale. E in secondo luogo, secondo me, non rappresenta la cultura e i valori del nostro Paese. Ho l’impressione che si sia voluto esagerare, immaginando di alimentare e ottenere il consenso, ma pensiamo solo alla chiusura dei porti: ha dei riflessi molto discutibili, non soltanto sotto l’aspetto costituzionale, ma anche sotto quello dei trattati internazionali.

Poche settimane fa il Tar del Lazio, quando la Ong spagnola Open Arms ha presentato ricorso sul divieto d’ingresso in acque italiane, disposto dal governo sulla base del decreto, ne ha sospeso l’efficacia.

È un fatto.

Il suo nome circola tra i più probabili alla carica di ministro dell’Interno: come commenta la sua candidatura?

Penso che esistano persone più autorevoli di me, candidate per quella posizione, ma comunque sono certo che siamo solo alla fase delle schermaglie. Aspettiamo che il presidente Mattarella affidi l’incarico al presidente Conte. Per me, quello che conta, è che nasca un nuovo governo per il bene di questo Paese. Sono un europeista convinto. E da sempre. Credo nei rapporti con i Paesi europei nostri amici, come Francia e Germania, innanzitutto. Un mondo con il quale dobbiamo riprendere un rapporto di collaborazione. In questo il presidente Conte è stato bravo, la sua è stata una politica estera seria e istituzionale, e questo lo sta ripagando in termini di credibilità europea e non solo.