Decreto Musei: niente partigianerie

Riforma, contro-riforma, contro-contro riforma: le polemiche in corso sui Beni culturali rischiano di apparire marginali, ma non lo sono, perché s’intrecciano con le discussioni sul governo M5S-Pd, dove questo tema dovrebbe essere centrale.

Gli attacchi al ministro Bonisoli (uno dei pochi dell’infelice governo appena tramontato che si siano mostrati degni di rispetto) sono spesso la difesa della riforma Franceschini in vista di una contro-controriforma. Ma la cosiddetta contro-riforma Bonisoli non ha affatto sconvolto l’assetto Franceschini, pur introducendovi alcune modifiche. I non addetti ai lavori hanno difficoltà a capire i termini del problema, e lo scontro avviene per partigianerie e appartenenze, non secondo analisi e ragione.

Cuore e vanto della cultura italiana della tutela è da più di un secolo il suo carattere capillare, contestuale e territoriale, che ha radice negli Stati pre-unitari e poi nelle leggi dell’Italia unita – come quelle del 1909 (Rava) sul patrimonio culturale e del 1922 (Croce) sul paesaggio, rinnovate con le leggi Bottai (1939) – la cui essenza fu riversata nell’art. 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). Il sistema fu poi esteso dalla Corte costituzionale, che creò la nozione costituzionale di “ambiente” sommando, in via interpretativa, il paesaggio dell’art. 9 al diritto alla salute dell’art. 32: ambiente, paesaggio, patrimonio storico e artistico formano dunque una forte unità. Al suo rispetto vegliano da più di un secolo le istituzioni di tutela (le Soprintendenze), coordinate dal ministero (prima della Pubblica Istruzione, ora dei Beni culturali). Tale coordinamento centrale è necessario, secondo la logica di sistema, perché norme e procedure di tutela siano coerenti in tutta Italia. Certo, il sistema non è perfetto: il suo maggior difetto è che il “paesaggio” non coincide con le nozioni giuridiche di “territorio” e ”ambiente”, ingenerando conflitti di competenza fra Stato e Regioni, un contrasto che si trascina da 80 anni senza trovar soluzione. Eppure, la rete delle Soprintendenze è il più avanzato progetto mai fatto in Europa di trattare come unità concettuale, storica e giuridica il paesaggio e il patrimonio archeologico, storico e artistico. La ratio è semplicissima: è necessario uno sguardo onnicomprensivo e relazionale, che in ciascun oggetto della tutela riconosca un nodo di una rete assai maggiore della mera somma delle sue parti. Il sistema è stato minato da due fattori: il forte calo di personale (e dunque di efficienza) e le rivendicazioni di Regioni e Comuni. Di qui le invettive contro le Soprintendenze, “potere borbonico da abolire” secondo l’ex sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi; “Una delle parole più brutte del vocabolario della burocrazia”, secondo Matteo Renzi. Un buon ministro dei Beni culturali deve assecondare la crisi, portando a morte il glorioso sistema italiano della tutela, o deve invece difenderlo accrescendone la funzionalità? Franceschini e Bonisoli hanno entrambi provato (con successo parziale) a intervenire sulle carenze di personale con nuove assunzioni. Hanno introdotto nel loro ministero modifiche strutturali, come già molti loro predecessori (Veltroni, Melandri, Urbani, Rutelli, Bondi). La riforma Franceschini ebbe marcato carattere burocratico: lo mostra sia l’abolizione delle Soprintendenze archeologiche, inglobate entro più vaste unità, sia la “dipendenza funzionale” delle Soprintendenze dai prefetti (legge Madia). Ma il suo aspetto più noto, anche perché lanciato con la grancassa renziana, è l’autonomia dei principali musei: ed è su questo punto che incidono i provvedimenti Bonisoli.

Il ministero “modello Franceschini” comporta una forte bipartizione fra tutela e valorizzazione e individua musei e parchi archeologici come luoghi deputati della “valorizzazione”. Di qui la scelta di creare un piccolo numero di “super-musei” con speciale autonomia, di raccogliere gli altri entro “poli museali” (spesso disomogenei), e di concepire le Soprintendenze territoriali, dopo averne estirpato musei e parchi, come enti residuali. Si allenta in tal modo il carattere organico della tutela territoriale, e la promozione dei musei a cuore del sistema si fa a spese del territorio, tradendo l’originale spirito della tutela. Ma se l’idea di una forte autonomia dei musei è giusta (come lo è aprire a direttori non-italiani), la riforma ha mortificato e indebolito il sistema di tutela territoriale: i musei italiani (a differenza del Metropolitan o del Louvre) sono diretta espressione del territorio, e dunque forme di autonomia si dovevano concedere, senza staccarli dalla rete relazionale di cui fanno parte. “Autonomia” è, nella discussione in corso, la parola chiave, anche perché ce n’è una ben più minacciosa fattispecie: l’“autonomia differenziata” delle Regioni, che intende metter le mani anche sul sistema della tutela.

Questo progetto leghista ha avuto una battuta d’arresto, ma fatalmente risorgerà: anche perché fa leva sul Titolo V della Costituzione secondo la riforma del 2001 (centrosinistra) e su accordi preliminari firmati Gentiloni. Perciò anziché difendere l’autonomia museale credendosi per definizione nel giusto sarebbe il caso di capire (si veda l’articolo che ho firmato con Tomaso Montanari sul Fatto del 29 giugno) che riportare al centro alcune decisioni allontana il rischio di una regionalizzazione della tutela che già in Sicilia ha avuto deleterie conseguenze.

Anziché predicare “Franceschini buono, Bonisoli cattivo” è opportuno guardare da vicino i provvedimenti giudicando nel merito. Qualche esempio: se gli “accorpamenti” di uffici rimproverati a Bonisoli sono un male, come mai il discutibile accorpamento della Direzione generale Archeologia con Belle Arti e Paesaggio, operato da Franceschini, sarebbe invece un bene? Eppure, l’accusa a Bonisoli di essere artefice di accorpamenti si è spinta fino ad attribuire a lui, e non a Franceschini, quella decisione. Ma l’esempio più chiaro sono gli organi di coordinamento nati come Soprintendenze (poi Direzioni, poi Segretariati) regionali. Essi diventano ora Segretariati distrettuali, il cui territorio può estendersi a più Regioni, efficace controveleno alla possibile regionalizzazione della tutela. Altro esempio: quando il segretario generale Panebianco ricorda che i direttori dei musei autonomi, in quanto consegnatari anche degli edifici pubblici dove essi hanno sede, non possono intervenire sulle architetture senza il consenso della relativa Soprintendenza territoriale, non fa che applicare la legge. Eppure è stato criticato proprio da chi intanto sostiene, secondo il modello Franceschini, che direttore di un museo può essere un manager (e non storico dell’arte o archeologo), dunque senza competenze per intervenire su edifici storici.

Se qualcosa si può rimproverare alle norme Bonisoli è semmai di aver lasciato sostanzialmente intatto il modello Franceschini, pur intervenendo sulla redistribuzione di alcune entità museali, come l’Accademia a Firenze o il Cenacolo a Milano. Scelte discutibili, certo, ma che non “inceneriscono” la riforma Franceschini come ha scritto Repubblica. Anzi, pur correggendone alcuni aspetti, la confermano anche troppo.

Voti e consensi

Iprimi dati usciti dopo la crisi di governo indicano che a pagare per la rottura dei gialloverdi è stata la Lega, calata di 4 /5 punti percentuali. Secondo Ipsos per il Corriere della Sera, la fiducia in Matteo Salvini sarebbe crollata di 15 punti in un mese (da 51 a 36), mentre quella in Conte sarebbe al 52 (era al 56). Il 33 per cento degli italiani preferirebbe votare subito, il 21 vorrebbe un governo Pd-5 Stelle, l’11 il ritorno dei giallo-verdi, un altro 11 un governo istituzionale e il 24 per cento si dice indeciso. Abbiamo dunque chiesto a sei sondaggisti dati e impressioni sulla reazione degli italiani a questa crisi.

 

Alessandra Ghisleri
Elettori impauriti e spiazzati, ora temono il salto nel buio

Il periodo ferragostano impone che si parli di sentimenti degli elettori, più che di dati scritti su pietra. Dai nostri dati emerge un atteggiamento di confusione completa, gli elettori non capiscono i motivi della crisi, né le basi su cui ora dovrebbe nascere un nuovo accordo tra Partito democratico e 5 Stelle, complice il fatto che finora si è parlato solo di totoministri e non di programmi. Il ritorno al voto è l’opzione preferita, con un 40-42% delle scelte, ma ci sono più opzioni che contemplano governi diversi e che messe insieme fanno la maggioranza. La richiesta delle urne è una costante nei momenti di crisi, perché l’elettore vuol dire la sua. Qui la situazione è particolare perché gli italiani sono spiazzati: prevalgono il dubbio, la rabbia per la rottura inaspettata e la paura per quello che adesso potrebbe essere un salto nel buio. Ma è tutto in evoluzione: le valutazioni di oggi potrebbero essere ribaltate nell’arco di 15 giorni. Persino tra gli anziani, dato insolito, c’è un’altissima percentuale di astenuti, nell’attesa che si capisca qualcosa in più.

 

Antonio Noto
Gli italiani amano il leader forte, ma lo abbandonano in fretta

Bisogna precisare che i campioni di intervistati in questo periodo non sono molto indicativi, tenendo conto delle ferie e del basso tasso di risposta. Ma a prescindere da quali saranno i dati nelle prossime settimane, in passato il consenso di Salvini era in gran parte dovuto a una forte esposizione mediatica che gli aveva portato una vasta percentuale di elettorato emotivo, volatile. Questo tipo di consenso può evaporare in fretta, a differenza di quello ideologico. Perciò non bisogna meravigliarsi che nel giro di poco tempo la Lega abbia perso diversi punti percentuali, anche perché storicamente gli italiani amano il leader forte quando per lui va tutto bene, ma fanno anche molto presto ad abbandonarlo se lo vedono in difficoltà, come sembra essere adesso Salvini. C’è da dire che poi già da luglio Giuseppe Conte aveva sorpassato Salvini nell’indice di fiducia, dunque i fatti di queste settimane potrebbero aver enfatizzato un trend già in corso.

 

Pietro Vento
Trend chiaro: Carroccio giù, 5 Stelle su grazie al premier

La scelta compiuta da Salvini l’8 agosto ha spiazzato ampi segmenti dell’opinione pubblica: appena un terzo dei cittadini ha ritenuto opportuna la decisione della Lega di aprire la crisi in pieno agosto. Ora non solo ci si divide tra chi, in lieve maggioranza, vorrebbe un nuovo governo e chi preferirebbe tornare a votare, ma anche tra chi chiede le urne subito e chi auspica elezioni ad anno nuovo. Alla vigilia delle consultazioni, l’Istituto Demopolis ha misurato il peso dei partiti. La Lega è passata dal 34 per cento del 26 maggio al 37 rilevato il 5 agosto, per attestarsi oggi al 33%, perdendo 4 punti negli ultimi 20 giorni. Il Pd si conferma secondo partito con il 23%, mentre il M5S, in leggera ripresa, otterrebbe il 19%. A pagare la crisi è stato dunque Salvini, mentre il recupero dei grillini credo sia soprattutto merito di Giuseppe Conte, molto convincente durante i giorni della rottura. Nessuno però è in grado di dire se nei prossimi mesi la Lega continuerà a perdere: dipenderà dall’operato, giudicato positivo o meno, del nuovo esecutivo.

 

Marco Valbruzzi
La presenza di Conte potrebbe far accettare il nuovo governo

Non mi sorprende il calo della Lega, perché a differenza della vicenda russa o del caso Diciotti, per dirne due, qui non si tratta di un semplice fatto di cronaca politica, ma della rottura di un patto elettorale forte. Questo si collega alla dinamica della “seconda preferenza”: alla domanda su quale altro partito avrebbero potuto votare in assenza del Movimento, oltre la metà degli elettori dei 5 Stelle ci ha indicato la Lega. Nei mesi scorsi buona parte di quei consensi si erano spostati proprio sulla Lega e ora potrebbero tornare indietro, anche se bisognerà vedere se e come si formerà il nuovo governo. L’umore degli elettori in questa fase cambia in fretta. Adesso credo che il voto sia ancora la soluzione preferita, perché è sempre considerato sinonimo di chiarezza rispetto ai giochi di palazzo, ma se poi questa trattativa Pd-5 Stelle andasse in porto in tempi rapidi e con una squadra convincente, non è detto che nel giro di poco cambi la percezione degli italiani. In questo sicuramente aiuterà la presenza di Conte, che è molto popolare: il premier potrebbe far accettare il passaggio da un governo all’altro.

 

Michela Morizzo
La crisi era nell’aria da tempo, ma è stato uno choc aprirla ora

Secondo i nostri dati, l’83 per cento degli elettori leghisti ha condiviso la scelta dell’apertura della crisi. Al tempo stesso, abbiamo registrato un calo della Lega al 31,3 (-3%): significa che non se n’è andato lo zoccolo duro, ma quella parte di elettorato più fluida che si era avvicinata alla Lega nei mesi scorsi. La crisi era nell’aria da tempo, ma per tanti è stato uno choc aprirla adesso. In generale, abbiamo rilevato che il 65 per cento degli elettori preferisce elezioni anticipate rispetto a un governo di legislatura, ma bisogna distinguere: circa la metà di quel 65 per cento chiede elezioni subito, l’altra metà un voto nei primi mesi del 2020. Significherebbe in ogni caso fare un governo almeno per la manovra. Più difficile interpretare gli umori dei 5 Stelle: ci risulta che circa la metà dei loro elettori volesse il voto piuttosto che qualsiasi altro governo, tanto che solo il 18 per cento approvava l’accordo di legislatura con la sinistra. Da qui si capisce il tentennamento dei vertici sull’affidarsi a Rousseau.

 

Lorenzo Pregliasco
Un crollo di 15 punti per Salvini può diventare -5% per il partito

Ho letto i dati Ipsos usciti ieri: dire che la maggioranza degli italiani oggi vuole il voto è fuorviante. Sarebbe corretto dire che è la maggioranza relativa degli intervistati a essersi espressa in favore del voto, perché in realtà le opzioni di scelta erano parecchie e anche chi non vuole le urne si divide tra governo Pd-5Stelle, gialloverde o di altro tipo. Per quanto riguarda la fiducia dei leader, è plausibile che il crollo di 15 punti sofferto da Salvini si traduca in un calo dei consensi per la Lega nell’ordine di un 4-5 per cento, come in effetti hanno rilevato diversi istituti nei giorni scorsi. È ovvio che a mollare Salvini siano stati soprattutto i simpatizzanti dei 5 Stelle, dato che il leghista è stato percepito come l’artefice della rottura. Un contraccolpo per lui era prevedibile, visto il consenso di cui godevano i gialloverdi. Magari se lo aspettava anche Salvini, ma evidentemente credeva che i vantaggi di una crisi sarebbero stati maggiori.

La “trappola” alle Camere: le 11 commissioni a guida Lega

La strada per formare un governo tra Pd e 5 Stelle sembra ormai imboccata e, al netto delle dure trattative sui posti e sul programma che sono in corso, la parte difficile arriverà dopo e cioè quando quel governo dovrà… governare. Certo sarà difficile soprattutto perché l’Italia è un Paese complicato e ancora immerso nella più lunga crisi del dopoguerra. E certo anche per le molte e note divisioni su tanti temi tra i due contraenti. Grillini e democratici, però, avranno anche un altro ostacolo dovuto al cambio repentino di maggioranza dopo un anno e mezzo di legislatura: la Lega, infatti, ha ancora la presidenza – e la avrà almeno fino a novembre/dicembre del 2020 – di molte commissioni di peso in Parlamento, undici per la precisione.

Una lista aiuterà a capire la quantità di materie su cui la prossima maggioranza giallorosé, che specialmente in Senato dovrà stare attenta ai numeri, potrebbe incontrare difficoltà e non piccole. Alla Camera i deputati leghisti presiedono cinque commissioni: la fondamentale Bilancio (Claudio Borghi), poi Ambiente e Lavori pubblici (Alessandro Benvenuto), Trasporti e Telecomunicazioni (Alessandro Morelli), Attività produttive (Barbara Saltamartini) e Lavoro (Andrea Giaccone). A Palazzo Madama, invece, le commissioni guidate dalla Lega sono addirittura sei: Affari costituzionali (Stefano Borghesi), Giustizia (Andrea Ostellari), Difesa (Donatella Tesei), Finanze e Tesoro (Alberto Bagnai), Istruzione (Mario Pittoni) e Agricoltura (Gianpaolo Vallardi).

Questa legislatura, pur iniziata il 23 marzo, ha visto gli organi parlamentari essere completati solo a fine giugno, dopo che venne trovato l’accordo tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini per dar vita al governo gialloverde con la contestuale creazione di una maggioranza e di un’opposizione parlamentare. Ora che i ruoli in commedia probabilmente cambieranno, si assisterà a questa strana “coabitazione”, se è lecito usare un termine caro alla politica francese, in Parlamento: i presidenti di commissione, infatti, per regolamento non possono essere cambiati prima di metà legislatura, il che significa all’ingrosso non prima di novembre/dicembre del 2020. Tradotto: una manovra e forse due andranno portate a casa dalla nuova maggioranza senza controllare davvero il Parlamento.

Il primo, e in tempi non sospetti, a notare con una certa soddisfazione questa difficile situazione è stato proprio un presidente leghista di commissione, Claudio Borghi, che guida il più importante dei crocevia, la Bilancio, a Montecitorio: “Ricordo a chiunque sognasse governi alternativi che i presidenti di commissione non decadono. Auguri”, twittò il 18 luglio. Una sorta di avvertimento poi smussato, sempre sui social, in giorni più recenti: se ci fosse un nuovo governo, “mi divertirò come si divertirebbe un presidente del M5S che nella propria commissione avesse un ribaltone che mandasse all’opposizione il Movimento e che, ad esempio, dovesse gestire l’azzeramento del reddito di cittadinanza”.

Come che sia, e al di là di quali saranno i comportamenti dei protagonisti, un presidente di commissione “ostile” può dare davvero molto fastidio. I modi in cui questo può avvenire sono molteplici e alcuni preoccupanti, specie se la maggioranza non sarà compatta: il presidente può, ad esempio, rallentare l’iter di un disegno di legge accogliendo molte o tutte le richieste dell’opposizione sui pareri agli emendamenti (e, se si tratta di un decreto, può persino farlo arenare). Altro esempio: gestendo i tempi delle sedute, può mettere in votazione un provvedimento quando la maggioranza è fuori dall’aula o distratta (a volte capita…) e quel testo può dunque essere snaturato o affossato.

E ancora: il presidente di commissione può nominare relatori sui singoli provvedimenti parlamentari che non siano stati indicati dalla maggioranza creando tensioni tra i gruppi. Da ultimo – e questo rischia di essere davvero importante specialmente sulla manovra e i decreti collegati – può decidere sull’ammissibilità degli emendamenti e, per capirci, stralciare norme incoerenti per materia o tipologia (il divieto di inserire nella manovra norme microsettoriali e/o ordinamentali, pur sancito da legge, viene aggirato, e parecchie volte, in ogni sessione di bilancio per accontentare questo o quel partito o gruppo parlamentare).

In sostanza, semplicemente applicando il regolamento in modo non “simpatetico” con la maggioranza, i presidenti di commissione leghisti potranno trasformare ogni difficoltà politica dei giallorosé – e ce ne saranno – in una battaglia parlamentare all’ultimo sangue.

Il Capitano mollato dalla ciurma sovranista

Era partito come il campione dei sovranisti di tutto il mondo. Cinguettava su Twitter di amicizie e progetti comuni. Sono bastati i mesi passati alla guida del ministero dell’Interno e il Capitano non ha più ciurma a bordo della nave dell’alleanza sovranista. L’ultimo a cambiare equipaggio è stato Donald Trump, lo stesso che da candidato repubblicano alle elezioni americane, il 26 aprile 2016 a Philadelphia, gli diceva: “Matteo, spero tu possa diventare primo ministro dell’Italia presto”.

Due giorni fa, si è augurato invece che al timone dell’Italia ci resti il comandante “Giuseppi Conte”. Peraltro, non è che il feeling tra The Donald e Salvini sia mai stato spontaneo. Basti pensare che nello stesso tour primaverile in Pennsylvania, Matteo Salvini ha pagato 50 dollari per una foto con il futuro presidente americano. A svelarlo una email scritta dall’imprenditore italiano trapiantato negli Usa Leonardo Zangani, a cui aveva scritto nel novembre del 2017 Federico Arata, che stava organizzando il nuovo viaggio negli Usa per il Capitano. Arata, figlio di quel Paolo in contatto col re dell’eolico Vito Nicastri e indagato per corruzione nel caso Siri, all’epoca era stipendiato da Palazzo Chigi, nello staff di Giorgetti.

La dichiarazione pro Salvini di Trump è arrivata dopo la photo opportunity, forse spinta dall’allora consigliere del candidato, Steve Bannon (presentato al segretario della Lega proprio da Federico Arata). Lo stesso Bannon che, dopo essere stato cacciato da Washington, ha investito Salvini del ruolo di capo squadra degli identitari d’Europa, quelli che con il suo The Movement avrebbero dovuto cambiare i destini dell’Ue. Tra risultati elettorali non all’altezza e defezioni, dell’Internazionale sovranista di Bannon a Bruxelles non è rimasto granché ed è invece cominciata la solitudine di Salvini. Persino Viktor Orbán, il primo ministro ungherese sempre fedele alleato della Lega, non si spende per Salvini da quando esattamente un anno fa si sono incontrati a Milano per disegnare i futuri dei gruppi parlamentari europei. Non si è mai unito all’eurogruppo Identità e Democrazia, di cui Salvini è “padre nobile”.

A giugno anche Nigel Farage, l’uomo del partito Brexit, ha mollato gli identitari. Come Trump, preferisce i Cinque Stelle. Salvini contava anche sullo spagnolo Vox, illuso dalle parole spese sui social network dal loro leader Santiago Abascal (29 aprile): “Grazie @matteosalvini. Useremo la nostra forza al Congresso e presto nel resto delle istituzioni spagnole ed europee per difendere l’unità, la sovranità, la sicurezza e l’identità della Spagna in un’Europa orgogliosa delle sue radici”. Ma niente Identità e Democrazia.

Declinano l’invito anche i polacchi di Jaroslaw Kaszynski, incontrato lo scorso gennaio in Polonia, all’inizio di quella che pareva una cavalcata trionfale. “Varsavia sotto la neve ma qui in Polonia oggi ho trovato calore e amicizia, state con me: vi aggiorno!”. Qualche consolazione? Stando a Breitbart, la voce dei sovranisti, il celeberrimo Justin Schembri, consigliere locale del partito nazionalista maltese, è un suo grande fan.

Berlusconi si ribella a Salvini: in Emilia vuole la sua Bernini

“Dov’è Anna?”. Silvio Berlusconi la chiama e la richiama, ma lei è già lì al suo fianco al Quirinale. Perché Anna, che poi è Anna Maria Bernini, è una di cui ci si può fidare sempre e per ogni ruolo. La presidente dei senatori di Forza Italia, per dire, potrebbe essere anche la carta giusta per la corsa alla presidenza della regione Emilia Romagna dove si voterà forse già a gennaio.

Specie ora che i forzisti sembrano intenzionati a reagire alle angherie di Salvini. Compresa quella di dare per certe già da tempo le candidature leghiste di Donatella Tesei in Umbria e Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna da imporre senza troppi complimenti agli alleati di centrodestra.

Appuntamenti elettorali da segnare con la matita rossa: potrebbero essere il laboratorio locale del patto che a livello nazionale si va profilando tra Pd e 5 Stelle. Ma pure perché a partire dal voto in Umbria, tra poche settimane, si misureranno i veri umori tra la Lega e i suoi alleati in particolare Forza Italia.

Di Regionali, per la verità, non si è parlato a Palazzo Grazioli nel pranzo offerto dall’ex Cavaliere al coordinamento di presidenza forzista prima di salire a colloquio al Colle. A tenere banco le parole da affidare a Sergio Mattarella e pure quelle da pronunciare a favore di telecamere. “Oggi comincia per noi un cammino impegnativo, per ritornare a essere il primo partito in Italia e nel centrodestra”, ha detto Berlusconi rivendicando per il suo partito il ruolo di fulcro di un centrodestra “lontano da ingenuità sovraniste e da tentazioni populiste”.

Mara Carfagna, sentendo le sue parole, pare sia tornata a sentirsi a casa in Forza Italia. Che per un bel pezzo ha sbandato a causa “dell’abbaglio sovranista” del “Capitano”, la cui stella oggi declina. L’aria è cambiata. E dopo il monologo di Salvini al Colle, in cui ha evocato lo spettro di un complotto, un disegno “che parte da lontano, non dall’Italia per la svendita del Paese”, anche i forzisti che più confidavano nella sua capacità di guidare il centrodestra dopo la fisiologica eclissi della leadership berlusconiana, si sono dovuti ricredere.

Figurarsi chi, come Renato Brunetta, con Salvini non è stato mai morbido per via del tradimento del governo gialloverde. “Abbiamo il dovere di ripartire da noi. Con un’opposizione da destra liberale, altro che invocare le piazze”. E il Giamburrasca Gianfranco Rotondi? Sospettato dai suoi di voler fare da ruotino di scorta all’alleanza Pd-M5S, respinge le accuse al mittente: “Lavoro per una Forza Italia che guidi il Ppe e torni ai numeri di un tempo. Perché ciò avvenga è necessario rompere con Salvini e smettere di mandare sui tg la pappardella dell’unità del centrodestra che ci costa la scomparsa politica, perché il centrodestra non esiste più”.

Tra le truppe parlamentari alcuni sperano che a disfarsi di Salvini siano i suoi in modo da trovare nella Lega un interlocutore più ragionevole. Altri accarezzano l’idea che il “Capitano” torni a Canossa, da Berlusconi. “È un uomo di grande talento che non avrà difficoltà ad ammettere gli errori commessi” dice Francesco Giro, che rilancia il verbo berlusconiano pronunciato dal leader maximo a margine dell’incontro con Mattarella. Quello dove c’era anche Anna Maria Bernini. Che è capo dei senatori ma pure punto di riferimento politico di Forza Italia in Emilia Romagna. Dove le cose si stanno muovendo molto velocemente.

Sentite qui l’ex sindaco di Brescia, Adriano Paroli, che da ieri è coordinatore del partito in Emilia Romagna: “Sono stato incaricato da Berlusconi di lavorare a liste competitive e anche a individuare nostri candidati per la presidenza della regione. Lo farò in stretta collaborazione con Anna Maria Bernini che è di Bologna, ma soprattutto è persona competente ché di questi tempi è merce rara. Poi starà a Berlusconi porre la questione al tavolo del centrodestra”.

Altro che contratto, ora il Pd pensa a un’alleanza vera

La standing ovation nell’auletta dei gruppi parlamentari, mentre la direzione Pd dà il via alla grande opportunità (evidentemente così appare) di far nascere il “governo di svolta”; il tono (e il sorriso) di Nicola Zingaretti galvanizzato e “ottimista” (come si autodefinisce) per tutto il giorno; i cinque della delegazione al Quirinale (oltre al segretario dem, Paola De Micheli, astro nascente del nuovo corso, che tradisce un certo nervosismo mentre passa il peso da una gamba all’altra, Paolo Gentiloni, compunto e cupo e Andrea Marcucci e Graziano Delrio, vagamente defilati). Sono le immagini chiave del film della giornata della svolta – pure psicologica – del Pd. Insieme ad altre, un po’ meno festose: il posto di Carlo Calenda metaforicamente vuoto, con l’ex ministro che annuncia per lettera le dimissioni dalla direzione, causa accordo con M5S; l’unica mano alzata per dire di no, quella di Matteo Richetti; le chiacchiere tra Maria Elena Boschi e Matteo Orfini (seduti) mentre gli altri applaudono.

Nella sua relazione, Zingaretti tocca una serie di questioni “centrali”. Il contratto di governo con un premier arbitro è “una formula che non poteva reggere” perché “non si può governare senza visione condivisa”. Solo così “sarà possibile parlare di un governo di legislatura”. Affermazione che ribadisce, da una parte, il no ai due vicepremier e la richiesta dei Dem di indicarne loro uno unico. Spiega Zingaretti: “Giuseppe Conte sarà il candidato Presidente indicato dai 5 Stelle. Noi riconosciamo in questa scelta l’autonoma decisione del partito di maggioranza relativa in questa legislatura. E in questa scelta è inciso il superamento di un modello sul quale si fondava il vecchio governo. Una figura condivisa e due vice espressione dei due partiti”. E poi, l’obiettivo di “una visione condivisa”.

Tradotto, significa prima di tutto un’alleanza organica e non un contratto. Ma guarda soprattutto alle future potenzialità di questa “fase politica”: “Davanti a noi abbiamo elezioni difficili: l’Umbria tra poche settimane. Poi Calabria, Veneto, la Toscana. E l’Emilia Romagna. Dobbiamo fare ogni sforzo per costruire in ciascuna di queste realtà l’offerta politica e programmatica più credibile”. È il via libera alle alleanze con i Cinque Stelle a livello amministrativo (dato già da Dario Nardella in un’intervista). Lo stesso schema su cui aveva ragionato la Lega dopo la partenza del governo gialloverde.

Al Nazareno comincia a prendere forma un pensiero: il Pd – se mostra una qualche abilità – il Movimento se lo può mangiare elettoralmente e manovrare a livello di governo. Sentire Goffredo Bettini, il vero kingmaker dell’intesa, per credere: “Un governo non basta. Occorre superare steccati, pregiudizi e incomprensioni”.

Nel giorno del trionfalismo, però va registrato l’addio di Calenda: “Mi sono dimesso dalla direzione, la mia tessera è scaduta e non la rinnoverò”, dice al Fatto Quotidiano. Subito l’annuncio per il nuovo movimento? “Ora devo elaborare il lutto”. Con Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e pure Richetti, l’interlocuzione è in corso da tempo. Zingaretti gli ha chiesto di ripensarci. Ma lui sta partendo sul territorio, sul modello dei comitati civici di Renzi. Nel nome dell’europeismo. Spiega il senatore modenese: “Questo governo rischia di essere un’operazione di profilo molto basso. Dove ciascuno pensa alle poltrone”. E ancora: “Ho detto no, per urlare il mio disagio: non c’è stata discussione in questa direzione, neanche in quella della scorsa settimana. E a luglio avevamo votato no all’accordo con i Cinque Stelle”. Assenti Matteo Renzi e Luca Lotti. L’ex premier non ha mai smesso di studiare le soluzioni per creare i suoi gruppi parlamentari, primo passo verso l’uscita dal Pd. Certo, la mossa di Calenda rischia di bruciarlo nell’idea di prendersi il centro. “Non so se questa nuova vita di Carlo da leader potrà funzionare”, si affretta infatti a dire. Oggi nella cabina di regia (quella vera) ci sono, oltre a Zingaretti, Dario Franceschini, Gentiloni, la De Micheli e Andrea Orlando. Trattandosi di Pd, non è mai chiaro quanto durerà.

Cos’è il contratto alla tedesca: prima di dire sì l’Spd ha fatto due congressi e un referendum

“Il successo è il risultato del duro lavoro e richiede la tensione di tutte le forze”, ha detto Angela Merkel citando Konrad Adenauer il giorno della firma del contratto di coalizione, il 12 marzo del 2018. Il lavoro a cui si riferiva Merkel era stato in effetti assai complicato: per quasi sei mesi la Germania era rimasta senza un governo, dalle elezioni del 24 settembre 2017, e oltre tre mesi è durato il lungo avvicinamento del Partito socialdemocratico.

Durante questo periodo di trattative, l’Spd è stato consultato tre volte, con due congressi e un referendum degli iscritti. Ma non poteva essere altrimenti. Bisognava recuperare lo slancio in avanti del leader di allora, Martin Schulz, che la sera stessa del voto, commentando i catastrofici risultati elettorali che portavano il partito al 20,8%, aveva promesso il ritorno all’opposizione. Schulz aveva promesso l’opposizione, ma il fallimento delle trattative della Cdu-Csu con l’altra possibile coalizione – la cosiddetta coalizione Giamaica, con liberali e verdi – e la pressione del capo dello Stato, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, lo spingevano due mesi dopo alle trattative per una nuova edizione della Grosse Koalition. La via democratica, a quel punto, era l’unica strada per tornare sui propri passi senza perdere la faccia.

Il primo congresso dei socialdemocratici, il 7 dicembre del 2017, approva a maggioranza la mozione della direzione per l’apertura dei colloqui con la Cdu-Csu. Un mese dopo, tra il 7 e l’11 gennaio 2018, da una lunga no-stop di incontri durati anche 24 ore di fila tra le delegazioni di Spd, Csu e Cdu viene fuori un primo documento preliminare, la base del contratto di coalizione.

La direzione socialdemocratica rimanda allora la parola al congresso straordinario convocato per il 21 gennaio. I delegati Spd appoggiano la nuova linea di Schulz a favore della Grosse Koalition, con 362 voti a favore e 279 contrari: appena il 56% dei voti favorevoli. Il secondo round negoziale allargato, che vede al lavoro almeno 18 gruppi di lavoro e che produrrà il contratto di coalizione di 174 pagine, dura 11 giorni, dal 26 gennaio al 7 febbraio.

Al termine della nuova sessione negoziale, Spiegel annuncia l’accordo sulla terza Grosse Koalition dell’era Merkel. La Spd, però, vincola l’approvazione del risultato a una nuova consultazione: non dei delegati stavolta, ma degli iscritti. Il referendum dura 11 giorni, può votare solo chi si è iscritto entro il 6 febbraio 2018, indipendentemente dalla cittadinanza: risultano alla fine 463.723. “Il Partito socialdemocratico deve concludere l’accordo del febbraio 2018 negoziato con Cdu e Csu?”, è il quesito, a cui si può rispondere “sì” o “no”. Solo chi è all’estero può votare online. Per due giorni, dal 2 al 4 marzo, le lettere vengono aperte sotto il controllo di un notaio e della commissione di verifica e di conteggio, con rappresentanti di tutti gli organi intermedi del più antico partito tedesco. Alla fine sono a favore del contratto di coalizione il 66,2%: su 362.933 voti validi ci sono 239.600 sì e 123.329 no. E il contratto si firma.

Di Maio “sorveglia” Conte, Grillo attacca i “poltronofili”

Ha fatto in tempo a scendere dal Quirinale e a tornare nel suo appartamento romano. Forse per un attimo ha anche pensato di potersi rilassare, almeno per una sera, ora che il primo round si è chiuso e che l’incarico a Giuseppe Conte è cosa fatta. Invece no, perché sul telefono di Luigi Di Maio è comparso il messaggio di Beppe Grillo, che si rivolge alla nazione ma soprattutto a lui. Quindici tremendissime righe in cui avverte i “poltronofili”: a capo dei ministeri mettete “personalità del mondo della competenza”, per fare politica bastano i posti da “sottosegretari”.

L’hai sentito il boom?, direbbe qualcuno, parafrasando la fatica con cui l’allora presidente Napolitano prendeva atto del successo dei grillini alle Politiche del 2013. Ma stavolta il botto l’ha fatto un altro, quel Beppe Grillo che solo l’altroieri aveva annunciato il suo “ritiro” dalla trattativa cominciata nella villa di Bibbona e che invece ventiquattro ore dopo se ne esce con una proposta esplosiva per il suo Movimento.

Non solo perché crea un ulteriore problema a quel Luigi Di Maio che è in guerra aperta per rimanere vicepremier – tant’è che, pochi minuti dopo, dal M5S fanno sapere che i due si sono sentiti e che Grillo gli avrebbe chiarito: “Sei tu il capo politico, e decidi tu per il Movimento, il mio è stato un paradosso” – ma soprattutto perché ribalta completamente la strategia che stanno portando avanti i Cinque Stelle.

Il disegno è preciso e ha “un potenziale altissimo”. Perché questa storia del governo giallorosso, a Di Maio, può servire per dare la forma definitiva all’identità del nuovo Movimento che lui in questi anni si è impegnato a costruire. Una Democrazia Cristiana 2.0, arrivano a teorizzare i suoi fedelissimi, certi che – “se ce la giochiamo bene” – l’alleanza con il Pd diventerà il modo per dimostrare all’elettorato che il M5S è l’ago della bilancia del Parlamento, “la forza politica con cui chiunque voglia andare al governo sarà costretto a parlare”.

È un progetto di restyling d’immagine che avrà molto a che fare anche con la riorganizzazione del Movimento, più volte rimandata, che dovrà per forza tenere conto della natura “bipolare” che il dialogo con Zingaretti ha certificato. “Siamo sempre stati un movimento post-ideologico – ha detto anche ieri Di Maio ai microfoni del Quirinale – Abbiamo sempre pensato che non esistano schemi di destra o sinistra, ma solo soluzioni”.

In questo senso l’insistenza sul vicepremier, secondo la lettura del suo inner circle, è tutta da leggere in chiave politica. Perché Di Maio non può permettere che il governo con Zingaretti veda sparire la componente Cinque Stelle da Palazzo Chigi. Avere ottenuto la premiership di Giuseppe Conte non basta, perché ormai tutti lo ammettono: “Ha una sensibilità vicina alla nostra, si è dimostrata una personalità di assoluta garanzia, ma la tessera del Movimento non ce l’ha”. Tradotto, “non ci tutela fino in fondo”, soprattutto adesso che ha deciso di tenere stretti in mano i fili della trattativa per il governo. A cominciare dalla decisione sui vicepremier: se ci saranno o no, nel suo secondo governo, alla fine lo deciderà lui.

Ieri Di Maio non ha per nulla gradito le pagine dei giornali che fotografavano le tensioni interne ai Cinque Stelle – gli attacchi di Alessandro Di Battista, di Roberta Lombardi e dello stesso Grillo – soprattutto perché secondo lui non hanno capito la posta in gioco. “Non mi sto impuntando per avere una poltrona – ha ragionato con i suoi – ma sto chiedendo che in questo governo ci sia l’impronta politica del Movimento: non possiamo uscire ridimensionati rispetto all’esperienza con Salvini”.

In massa, ieri, gli esponenti di punta dei Cinque Stelle hanno dato la loro solidarietà pubblica al capo: da Stefano Buffagni a Manlio Di Stefano, da Laura Castelli a Francesco Silvestri, da Riccardo Fraccaro a Paola Taverna. I capigruppo Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli invece si sono premurati di smentire la fake news secondo cui “ci sarebbe una rivolta degli eletti circa il voto su Rousseau: stiamo parlando dell’opinione di 4 o 5 persone”. Il voto si farà, ma solo quando il pacchetto sarà completo: agli iscritti del Movimento verrà chiesto di dire sì o no all’esecutivo Conte, ai ministri che avrà scelto e al programma che porterà avanti. Se a garantirlo ci sarà anche Di Maio resta tutto da vedere.

L’ipotesi: nessun vicepremier per l’“armistizio”

La verità la dice Nicola Zingaretti dentro il Colle, in quattro parole: “Non possiamo non tentare”. Ormai non si può non provare a realizzare un governo del Pd con i Cinque Stelle e con Luigi Di Maio, che dai microfoni del Quirinale invoca un esecutivo di “lungo termine”. Ma tentare non vuol dire riuscire, e lo sa bene Giuseppe Conte, che oggi riceverà l’incarico da Sergio Mattarella ma che ha già il tavolo invaso da rogne. Prima tra tutte quella del vicepremier, perché Luigi Di Maio la vuole a tutti costi quella carica.

Teme di rimanere tagliato fuori dal gioco ai massimi livelli, e anche per questo dal Colle ricorda che lui ha già rinunciato all’offerta della Lega, da dove per ricucire gli hanno proposto Palazzo Chigi, “nero su bianco” giurano dal M5S. Ma il Pd, o almeno il segretario Nicola Zingaretti e i suoi, dicono ancora no: “Il problema non è il nome di Di Maio, ma è inaccettabile che presidente e vice presidente siano dello stesso partito”. Ovvero, Conte è stato indicato dal Movimento, ed è inutile che i 5Stelle continuino a definirlo come terzo. Però l’avvocato preferirebbe rimuovere direttamente il problema, ossia eliminare i vicepremier, figure di cui non sente affatto il bisogno. “E comunque o se ne fanno due, o nessuno” dicono da di Palazzo Chigi. Un vicepremier unico come vorrebbe il Pd, spiegano, è una soluzione non gradita a un presidente del Consiglio che insiste e insisterà sul suo essere equidistante dai due partiti del possibile governo. E autonomo, il più possibile. Tanto che punta a nominare come sottosegretario alla presidenza del Consiglio una figura di sua fiducia, magari uno dei tecnici con cui lavora da quando è a Palazzo Chigi. Ed è un altro segnale che i partiti hanno notato, con malcelati timori. “In fondo Conte non è neanche un nostro iscritto” ricorda in serata un big di governo.

Mentre dal Pd ribadiscono che un vicepremier serve, e per sfondare il muro offrono al M5S la poltrona di sottosegretario (il dimaiano Vincenzo Spadafora sarebbe il punto di caduta). Ma la realtà è che Conte ha in mente altro. Il premier dimissionario si sente forte, e vuole ricordarlo da subito, rivendicando la sua libertà d’azione. Anche nella scelta dei ministri, partita animata ieri dalle parole in fondo simili di due personaggi molto diversi, Zingaretti e il fondatore del Movimento Beppe Grillo, che la trattativa l’ha voluta e in parte condotta, parlando proprio con il segretario dem e i suoi. “Serve un governo con profili nuovi” scandisce Zingaretti nella Direzione del suo partito. Poi all’ora di cena irrompe Grillo, che pare dare una tirata d’orecchi anche a Di Maio: “C’è un po’ di poltronofilia”. E soprattutto pretende: “I ministri vanno individuati in un pool di personalità del mondo della competenza, assolutamente al di fuori dalla politica, il ruolo politico lo possono svolgere i sottosegretari”.

E nel M5S in parecchi leggono il post anche come un sostegno indiretto a Conte, come un invito a lasciargli il più possibile le mani libere nel comporre la tela del governo. Perché ormai di quello si tratta, di chiudere e definire i confini della partita. Lo fa capire già in mattinata la vicesegretaria dem Paola De Micheli nell’incontro tra le delegazioni del Pd e del Movimento alla Camera, formalmente sui temi. “Ma per adesso siamo ai titoli” ammettono alcuni dei presenti al tavolo. Per ora conta il clima, “molto buono”. E conta il discorso della De Micheli, che esorta tutti “a darci un metodo per collaborare nel modo migliore, visto che dovremo lavorare tre anni assieme e dovremo fare i conti con un’opposizione molto dura”. Prima però c’è da fare un governo, con un programma su cui sempre lui, Conte, vuole lasciare la propria mano. E naturalmente va fatta la squadra. Così dal Pd spiegano che soprattutto per l’Interno conterà molto il parere del Quirinale.

E il primo nome resta quello del capo della Polizia Franco Gabrielli. Mentre per l’Economia cresce l’ipotesi di un altro tecnico gradito ai dem, l’ex direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi. Al Mise dovrebbe andare la De Micheli, mentre per gli Affari regionali si fa il nome dell’ex governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani. Sul fronte M5S, Di Maio (che vuole la Difesa, ma rimane l’opzione Lavoro) conta di aver strappato la riconferma dei fedelissimi Alfonso Bonafede (Giustizia) e Riccardo Fraccaro (Rapporti con il Parlamento). Alla Salute potrebbe rimane Giulia Grillo, anche se il Pd ha un paio di tecnici con cui rilanciare, tra cui Pierluigi Marini, presidente dell’Associazione chirurghi ospedalieri. Ma per molte caselle c’è ancora tutto da ragionare e decidere. Tanto ci dovrà pensare innanzitutto Conte, il premier che vuole le mani libere.

Incarico a Conte: “Tocca a lui decidere su Di Maio”

L’incarico stamattina e poi tra una settimana il nuovo governo, se Giuseppe Conte chiederà un po’ di giorni per sciogliere i nodi del suo nuovo esecutivo M5S-Pd, dal programma alla questione primaria del “ruolo” per Luigi Di Maio. A tre settimane dall’apertura della crisi più pazza del mondo, il capo dello Stato allontana definitivamente, almeno per quest’anno, l’incubo delle elezioni anticipate.

Ieri al Colle è stata infatti giornata di sorrisi e reciproci riconoscimenti “pubblici” tra i due futuri alleati di governo. Da un lato il Pd di Nicola Zingaretti (e Gentiloni, Franceschini, Renzi, Orlando), salito in mattinata al Quirinale. Dall’altro il M5S di Luigi Di Maio (e Conte, Grillo, Di Battista), che ha chiuso il secondo giro di consultazioni, verso sera. E l’esito è stato quello sperato da Sergio Mattarella in queste ore: le due forze hanno detto sì a un “accordo programmatico” e soprattutto hanno individuato nel premier uscente la figura per Palazzo Chigi. I colloqui del capo dello Stato sia con Zingaretti sia con Di Maio hanno messo sul tavolo solo il “perimetro” del patto e il “nome del presidente del Consiglio”. Di suo, Mattarella, ha chiesto rassicurazioni e garanzie sui contenuti e gli impegni del programma. Chiarito tutto questo le delegazioni sono state congedate in anticipo sui tempi previsti.

Nessun riferimento, quindi, come trapela dal Quirinale, sui due nodi che riguardano i grillini. Innanzitutto, il tormentone di Di Maio vicepremier, che ieri all’uscita ha confermato l’offerta leghista per Palazzo Chigi e soprattutto ha ricordato le origini di Conte premier terzo e garante. Indi la questione del voto online sulla piattaforma Rousseau, che preoccupa non per lo svolgimento ma per la tempistica che verrà scelta. In questo senso: l’auspicio del Colle è che gli attivisti del Movimento si esprimano non sulla scelta di Mattarella, che verrà ufficializzata stamattina con l’arrivo al Quirinale di Conte, ma sul testo programmatico e la lista dei ministri del premier.

Un voto, allora, non nei prossimi giorni, durante le trattative che terrà il premier incaricato, ma dopo, a crisi chiusa. Del resto, il capo dello Stato non è mai stato contrario alle forme di consultazioni dei vari partiti e forze politiche. È già accaduto l’anno scorso con l’esecutivo gialloverde.

La mediazione di Conte e anche di Roberto Fico, presidente della Camera, dovrebbe portare appunto al voto una volta completati il programma e la composizione del Conte due. Per tornare al tema di Di Maio vicepremier e alla crisi interna dei pentastellati. Non solo il punto non sarebbe emerso nei colloqui, ma per il capo dello Stato questo è un “problema” di Conte.

“I vicepremier li nomina il consiglio dei ministri, non il presidente della Repubblica”: si liquida così al Quirinale il nodo che domina gli abboccamenti e gli scontri di questi ultimi giorni. Certo, al Colle non sfugge la “mutazione genetica” in corso nei Cinque Stelle, ma da oggi la soluzione del ruolo di Di Maio tocca al premier incaricato. È lui che tratterà. Sarà lui a decidere di non aver alcun vicepremier, non altri. Insomma, Conte dovrà continuare a forgiare la sua statura di leader nei prossimi giorni. Quanti? Sarà lui a chiedere stamattina a Mattarella di quanto tempo avrà bisogno per stendere un patto “solido” dagli “obiettivi e impegni” precisi. Il capo dello Stato si terrà informato sull’esito delle consultazioni del premier incaricato poi tra una settimana o anche meno riceverà Conte per sciogliere la riserva. Se tutto andrà bene, secondo le previsioni, la crisi aperta l’8 agosto da Matteo Salvini potrebbe chiudersi con il giuramento entro l’8 settembre. Un mese esatto, che sembra un secolo.

 

Autonomie e LeU
Sinistra e minoranze ci stanno: “Diciamo sì”

Il gruppo delle Autonomie al Senato ha annunciato il suo sostegno alla nascita del nuovo governo: la Svp (il partito sudtirolese) lo farà attraverso “un’astensione benevola”, mentre le altre componenti voteranno a favore. Anche Liberi e Uguali – attraverso il suo capogruppo alla Camera Federico Fornaro (nella foto), ha confermato il suo appoggio all’esecutivo nascente: “Siamo disponibili a verificare le condizioni per dar vita a un nuovo governo di svolta”. LeU alla Camera conta 14 deputati. “Non abbiamo posto nessun veto e nessuna pregiudiziale sui nomi, ma chiediamo però discontinuità nell’impianto programmatico del nuovo governo”.

 

Fratelli d’Italia
Meloni continua a evocare la piazza

La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha promesso di portare i suoi elettori in piazza per protestare contro il governo nascente: “Invitiamo già ora gli italiani a scendere in piazza Montecitorio il giorno della fiducia”, ha detto l’ex ministra alla fine del colloquio con Sergio Mattarella al Quirinale. Meloni si è poi rivolta (invano) proprio al presidente della Repubblica: “Confidiamo che di fronte a un’intesa dettata solo dalla paura del voto, il presidente voglia valutare la possibilità di non farsi notaio di questo patto della poltrona e di esercitare la sua potestà di sciogliere le Camere nell’interesse superiore della Nazione”.

 

Forza Italia
B. ce l’ha col “Capitano”: “Basta con i sovranismi”

“Secondo noi il governo al quale Pd e M5S intendono dare vita è una soluzione politicamente sbagliata, che consideriamo inadeguata ad affrontare i grandi problemi lasciati sul tappeto dall’esecutivo dimissionario”, parola di Silvio Berlusconi al termine delle consultazioni al Quirinale. Forza Italia quindi conferma il suo “no” al governo giallorosso. Ma la parte (forse) più interessante del suo discorso al Colle è un attacco al potenziale alleato Matteo Salvini: “Basta con le ingenuità sovraniste. La destra senza di noi non potrebbe vincere, ma se pure vincesse, dopo non saprebbe governare”.

 

Lega
La promessa di Salvini: “Prima o poi si vota…”

Dopo l’incontro con Mattarella al Quirinale, Matteo Salvini promette vendetta: “Il giudizio popolare prima o poi lo devi affrontare. Noi lo faremo a testa alta e viso scoperto, qualcuno dovrà dotarsi di maschere non solo a Carnevale”. Il leghista evoca i poteri internazionali: “Abbiamo l’impressione, se non la certezza, che ci sia un disegno che parte da lontano, non dall’Italia, per la svendita del Paese. Questo premier (Conte, ndr) l’hanno scelto a Biarritz”. L’ultima dedica è per i dem: “Le elezioni degli ultimi anni hanno visto un unico partito perdere sistematicamente, il Pd. Mi dica chiunque di voi senza riderere se quello con il M5S è un governo di lunga prospettiva”.

 

Movimento 5 Stelle
Luigi conferma il patto e gongola per Trump

Luigi Di Maio ha ufficializzato l’esito della trattativa: “C’è l’accordo politico con il Pd su Conte per provare a formare un governo di lungo termine. Il suo ruolo ci fa sentire garantiti”. Il capo del M5S ha assicurato che l’intesa con i dem non sarà sulla base delle poltrone: “Chiederò che si parta dal programma e solo poi si potrà decidere chi sarà chiamato a eseguirlo”. Dopo aver citato Nenni (“C’è chi fa politica e chi ne ha approfitta”), ha reso pubblico il tentativo di Salvini: “Anche oggi la Lega mi ha offerto di fare il premier”. Infine si è compiaciuto del tweet di Trump pro Conte: “Il riconoscimento del presidente Usa ci indica che siamo sulla strada giusta”.

 

Partito democratico
Zingaretti: “Tempi duri, vale la pena di tentare”

“Abbiamo riferito al Presidente di aver accettato la proposta del Movimento 5 Stelle di indicare, in quanto partito di maggioranza relativa, il nome del presidente del Consiglio, nome indicato dal M5S nei giorni scorsi”. Con queste parole Nicola Zingaretti ha dato il via libera del Pd al governo Conte 2. “Amiamo l’Italia – ha aggiunto – e crediamo valga la pena tentare questa esperienza. In tempi complicati come quelli che viviamo, sottrarci alla responsabilità del coraggio di tentare è l’unica cosa che non possiamo e non vogliamo, come democratici, permetterci. Noi intendiamo mettere fine alla stagione dell’odio, del rancore e della paura”.