12 anni dopo

C’è un fatto, di questa pazza crisi, che non era scontato: la standing ovation con cui la Direzione del Pd ha approvato per acclamazione il via libera di Zingaretti al Conte-2 con i 5Stelle. Una scena inimmaginabile non solo negli ultimi 10 anni, ma anche 20 giorni fa. Può darsi che, a spiegarla, basti la paura del voto e della vittoria di Salvini. Ma al voto, fino a 20 giorni fa, Zinga ci voleva andare proprio come Salvini. Poi la mossa di Renzi ha cambiato le cose. Ma se è stato così facile convincerli tutti, vuol dire che gli argomenti dei cacadubbi che ci hanno sempre risposto “è impossibile, non accadrà mai” quando auspicavamo un contratto fra un centrosinistra rinnovato e un M5S maturo erano solidi come un sacco vuoto. Pretesti, scuse puerili, robetta. Che ha fatto perdere all’Italia un sacco di tempo e di occasioni, infliggendole esperienze agghiaccianti come i governi Pd-Berlusconi&Verdini&Alfano e regalando a Salvini 14 mesi di resistibile ascesa. In fondo, quello fra M5S e Pd era un appuntamento fatale: tutti sapevano che prima o poi si sarebbe concretizzato, ma nessuno lo diceva. Eppure i 5Stelle, checché ne dicano i teorici delle “due destre populiste e sovraniste”, nascono da una costola del centrosinistra. Anche se poi la costola è diventata più grande del corpo, fino a inglobare elettori in fuga dal centrodestra. Lo ricorda Beppe Grillo in questi giorni a chi gli chiede il perché della sua attiva benedizione al governo giallo-rosa. Lui all’inizio, a fondare un movimento, non ci pensava proprio.

Nel 2005 aveva aperto il blog su istigazione di Gianroberto Casaleggio per portare dal palco dei suoi show a quello del web le sue battaglie ambientaliste. Aveva raccolto proposte dalla società civile (le “primarie del web”) e nel 2006 le aveva portate al premier Prodi. Ma quel governo era paralizzato dai veti incrociati e indebolito dal neonato Pd veltroniano a “vocazione maggioritaria” (ciao core), infatti di lì a poco cadde. A cavallo di quella visita a Palazzo Chigi, Grillo aveva scoperto di avere un popolo in cerca di autore, nelle piazze dei due V-Day: il primo contro i condannati e i nominati in Parlamento, il secondo contro i fondi pubblici alla stampa. E il 13 luglio 2009 Grillo si iscrisse al Pd nella sezione di Arzachena per candidarsi a segretario. Senz’alcuna intenzione né chance di diventarlo. “Io chiedevo solo di parlare al loro congresso per esporre le proposte del blog: gliele regalavo! Gratis! Mi dissero che non potevo neppure prendere la tessera perché ero ‘ostile’. Risposi: ostile non al Pd, ma alla sua classe dirigente, infatti voglio cambiarla”. Fu allora che Fassino lanciò il fatidico anatema, una summa di tutta la chiusura, la miopia, la protervia della sinistra all’italiana: “Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”. Il più clamoroso boomerang della storia politica moderna, subito colto al balzo da Grillo: “Belìn, è stato lui a darmi l’idea del movimento! Io non ci avevo neanche pensato”. Il MoVimento 5 Stelle nacque nel giorno di San Francesco d’Assisi, il 4 ottobre 2009. E irruppe in Parlamento nel 2013 col 25,5%. Bersani, rara avis, intuì che l’evento interpellava la sinistra e l’appuntamento incombeva. Ci provò proponendo al M5S l’appoggio esterno al suo governo, che i nuovi arrivati non potevano che respingere, anche se ci misero un surplus di inutile supponenza in streaming. Ma già due mesi dopo, con l’elezione del capo dello Stato, l’incontro era a un passo. Grillo lanciò la sfida al Pd: “Votiamo insieme Rodotà e poi facciamo il governo insieme”. Lì si vide che Bersani era solo: Napolitano, Letta jr. e il grosso del Pd avevano già in tasca l’inciucio con B.
L’anno scorso, dopo la vittoria, Di Maio propose un contratto di governo anzitutto al Pd: pareva tutto pronto, poi Renzi lo fece saltare con l’intervista a Fazio e i pop corn. E nacque il Salvimaio. Ora il momento è arrivato, tra le mille diffidenze e gelosie che però, viste le tossine e gli insulti accumulati in questi anni, potevano essere molto più pesanti. Il Pd ha cambiato idea e forse è anche un po’ cambiato. Il M5S è maturato e, anche se nessuno glielo riconosce, un bel po’ del merito va a Di Maio. Che ha rotto il tabù delle alleanze (o dei contratti), ha portato i 5Stelle oltre il 33%, ha pescato il jolly di Conte e ora, insieme al redivivo Grillo, ha compattato il M5S in rotta su una sfida complicata ma ineludibile, che gli è costata la seconda rinuncia a Palazzo Chigi. Una sfida che potrebbe rivelarsi un disastro, ma potrebbe pure aiutare i due contraenti giallo-rosa a contaminarsi per cambiare in meglio: il M5S ad accumulare esperienza e autorevolezza, il Pd a guadagnare in freschezza, energia e un po’ di sano populismo. Perciò Grillo se la ride: “Lo sapevo che prima o poi sarebbero arrivati”. Con appena 12 anni di ritardo, ma sono arrivati.
Ps. In questi giorni, improbabili esegeti-medium credono di sapere cosa direbbe Gianroberto Casaleggio. Noi lo ignoriamo, ma sappiamo cosa ci disse nell’ultima intervista del 21 maggio 2014: “Prodi fu molto gentile, ricevette Grillo a Palazzo Chigi, disse che avrebbe distribuito la cartellina con le nostre proposte ai vari ministri e sottosegretari, poi però la cosa finì lì. Era un tentativo di vedere le loro carte: se il centrosinistra faceva proprie le nostre idee, a noi andava bene così, non ci interessava chi le portava avanti. Ma la risposta fu il muro. Al primo V-Day raccogliemmo 350 mila firme per tre proposte di legge popolare: se Prodi e Veltroni le avessero accolte, avrebbero dato la svolta al Pd e al sistema politico. Ma i giornali, soprattutto di sinistra, ci trattarono come una via di mezzo fra dei mangiatori di bambini e una setta satanica”. Secondo voi che direbbe oggi?

Il prete scoperchia la Tangentopoli sarda

Dicembre 1610. Martin Carrillo, canonico di Saragozza, intraprende il viaggio verso la Sardegna, su mandato del re di Spagna, Filippo III, e del duca di Lerma. Il visitatore, l’ultimo libro del giornalista e scrittore Vindice Lecis, è un romanzo storico, in cui viene ricostruita con accuratezza la società sarda del XVII secolo. Emerge una tangentopoli ante litteram. Razzie, incursioni piratesche, assassinii, naufragi e contrabbando fanno da padroni nella vita isolana ai margini dell’impero, che in quel siglo de oro ancora non scorgeva il riflesso del suo declino. Il malaffare in Sardegna, a quel tempo, era all’ordine del giorno. Carillo vi arriva con i migliori propositi. Vuole ripristinare la legalità e inizia a indagare su casi difficili e disparati. Quattro anni prima la Santa Maria de Montenegro y Sant Paul, un’imbarcazione mercantile, era partita da Alicante alla volta di Genova e Livorno. Ma una tempesta nelle vicinanze di Alghero la fa naufragare. A bordo ci sono quattordici passeggeri, oltre al carico di lana e uova di bachi da seta.

Ma non è tutto: Paul Durant, il capitano, ha con sé 20 mila ducati di contrabbando. Anche il matrimonio della figlia del viceré del Regno di Sardegna, Geronima de Calatayud, è una bella gatta da pelare per Carrillo. Lo sposo, Cristoforo, è vedevo. Ma la morte prematura della prima moglie, la marchesa di Quirra, Alamanda Carroz, resta avvolta nel mistero. Il sospetto è che sia stata avvelenata dal marito per convolare a seconde nozze e accaparrarsi il grande feudo sardo. In entrambi i casi è coinvolto il viceré di Sardegna, Pedro Sanchez de Calatayud, conte del Real. Carrillo lo scopre e vuole mandare a casa tutti i ministri corrotti del regno ma l’isola gli riserva non pochi ostacoli e difficoltà. Personaggi realmente esistiti e di fantasia si fondono in una narrazione avvincente. Con l’ausilio di documenti storici inediti, l’autore tratteggia la vita sull’isola qualche decennio prima della grande epidemia di peste che a partire dal 1652 decimò la popolazione.

“Lo scopo della visita per la quale sua maestà mi ha scelto – dice Carrillo a uno degli indiziati – sono le indagini sulla situazione amministrativa e contabile del Regno di Sardegna. Oltre alla verifica di alcune situazioni particolari, direi assai sospette”. L’intransigenza con cui opera lo porta a istruire ben 60 processi. Vuole lasciare il segno lì dove “la mancanza di giustizia e la tendenza nei tribunali a comporre le pene pagando” sono assai diffuse. Galeotti protetti da prelati, contadini vessati da ministri e ufficiali, navi in fuga dalle coste per l’alto costo di tributi, le forze armate ridotte al degrado. E anche i giudici corrotti. Carrillo non si lascia intimorire. Riempie “una cassa zeppa di atti giudiziari e di altri documenti riservatissimi” e la spedisce al vice cancelliere del Consiglio d’Aragona. Al re, invece, scrive un rapporto riservato di cinque pagine. Attribuisce a ciascuno le proprie gravi responsabilità. A essere compromesse sono direttamente le casse reali. Occorre intervenire. La storia, però, fa il suo corso. L’integrità del visitatore e la sua devozione a sua maestà non bastano. Torna, sì, fiero in Spagna e viene pure nominato abate. Ma le sorti dell’isola vanno ben oltre la sua volontà.

Tra la Russia e un gazpacho tutta la Mostra è politica

Ubi maior Mostra cessat: più del Palazzo del Cinema, poté il Palazzo del Quirinale. C’è grossa crisi, le consultazioni s’han da fare, e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella deve dare forfait: non presenzierà questa sera all’apertura del 76º Festival di Venezia. È la prima verità in Mostra, ma di fronte alle trattative per trovare un nuovo governo forse a Mattarella la visione del film d’apertura, La vèrité del nipponico Kore’eda Hirokazu, gioverebbe grandemente, almeno a sentire il regista: “Cos’è che rende tale una famiglia? La verità o le bugie? E cosa scegliereste, tra una verità crudele e una bugia a fin di bene?”. Sostituite governo a famiglia, ed ecco che il confronto tra la mamma star del cinema francese Catherine Deneuve e la figlia che (si) confessa in un’autobiografia Juliette Binoche potrebbe illuminare il divenire giallo-rosso. Le due attrici, la collega Ludivine Sagnier – ma non Ethan Hawke – e Kore’eda saranno in Sala Grande per l’anteprima mondiale. Alla serata condotta dalla nostrana Alessandra Mastronardi, interverrà il presidente della Biennale Paolo Baratta: se non derogano dal regolamento, avallando un terzo mandato, sarà la sua ultima volta. Culturale, ma sempre di politica si tratta, e al netto della crisi e dell’assenza obbligata di Mattarella Baratta non sarà lasciato solo, almeno oggi: non marcheranno visita il ministro per i Beni culturali Bonisoli e il sottosegretario Lucia Borgonzoni (attivissima in Mostra, da Moviement al Gender Equality, non mancherà un convegno malgré tout), il ministro dell’Economia Tria, il presidente della Regione Veneto Zaia e il sindaco di Venezia Brugnaro. Tutti attesi, poi, alla cena inaugurale da salmone selvaggio marinato alle erbe, gazpacho di finocchio e un ineffabile “filetto di orata cotto sulla pelle”. Il solito magna magna.

Per fortuna, i francesi – e segnatamente François Truffaut – ci hanno insegnato che esiste anche un’altra politica: la politique des auteurs. Oggi a rinverdirne i fasti in chiave festivaliera è soprattutto Cannes, sebbene appaia sovente una mera collezione di figurine, ma Venezia non sta a guardare: Soderbergh, Baumbach, Gray e, per interposto regista Todd Phillips e un supposto mesmerizzante Joaquin Phoenix, il Joker sono chiamati a suggellare il patto ultimo scorso tra la Mostra e Hollywood corroborato di Oscar e Golden Globes ai titoli che al Lido prendono la rincorsa per l’award season.

Politica cui non si sottraggono gli italiani in cartellone: autori di ieri, Francesca Archibugi (Vivere) e Gabriele Salvatores (Tutto il mio folle amore) che ora, Fuori concorso, sembrano guardare più al grande pubblico; tre M per il Leone d’Oro, tre registi dal voltaggio artistico corrente, ovvero Pietro Marcello (Martin Eden), Franco Maresco (La mafia non è più quella di una volta), Mario Martone (Il sindaco del rione Sanità); promesse autoriali, sintomaticamente in cartellone a Orizzonti, quali l’esordiente Carlo Sironi di Sole.

Infine, la politica al quadrato, ossia autori che discettano di politica. Il primo, si capisce, è Roman Polanski, che porta in concorso J’accuse – L’ufficiale e la spia, sul celeberrimo affaire Dreyfus, “simbolo – a suo dire – dell’iniquità di cui sono capaci le autorità politiche, nel nome degli interessi nazionali”; il succitato Soderbergh, che infila la camera nei Panama Papers (The Laundromat); Oliver Assayas, con le spie castriste su suolo americano di Wasp Network.

I russi, o chi per loro, non sono da meno: sfruttando “il potere delle immagini documentaristiche per fare leva sulle menti dei miei contemporanei e cercare la verità”, Sergei Loznitsa riesuma con filmati d’archivio inediti le esequie di Josip Stalin in State Funeral; il premio Oscar Alex Gibney inquadra Citizen K alias Mikhail Khodorkovsky, oligarca caduto in disgrazia, recluso da Putin e oggi in esilio a Londra, e il potere in Russia, “il Paese – prendendo in prestito una frase di Peter Pemerantsev – in cui nulla è vero e tutto è possibile”.

 

Dai Moncalvo ai Lehman: che saga la famiglia

L’ultimo a essere pubblicato è in realtà uno dei primi, non solo a livello cronologico, ma anche per il valore letterario: è il romanzo I Moncalvo di Enrico Castelnuovo (Firenze, 1839-Venezia, 1915). La casa editrice Interlinea lo ha ristampato di recente, dopo molti anni di oblio, con un’introduzione di Gabriella Romani e una nota di Alberto Cavaglion.

Si tratta della storia di una ricca famiglia della borghesia ebraica, rappresentata dal banchiere Gabrio Moncalvo che, ai primi del Novecento, cerca di entrare a far parte con ogni mezzo, ripudiando le proprie tradizioni non solo religiose e i valori civili e morali del Risorgimento, dell’aristocrazia nera, papalina, di Roma. Soltanto alcuni parenti, certamente non ricchi come Gabrio Moncalvo, si manterranno fedeli agli ideali che avevano portato gli ebrei italiani a partecipare in prima persona alle battaglie democratiche e laiche, e sovente a quelle garibaldine, del Risorgimento.

Il libro di Castelnuovo, scrittore apprezzato da Benedetto Croce, venne dato alle stampe dai milanesi Treves nel 1908, e precede pertanto di oltre mezzo secolo un’altra notevole narrazione dei destini di una famiglia ebraica italiana nel vortice del Novecento, quella dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani. I Moncalvo è stato accostato, non a torto, a I Buddenbrook di Thomas Mann. Uscito nel 1901, il romanzo dello scrittore di Lubecca può essere considerato il capostipite di tutte le grandi saghe familiari a cavallo fra l’Ottocento e il secolo breve, ossia di quelle storie che ora sono ritornate ad appassionare scrittori e lettori. Si va dalla saga I Melrose, un ciclo di quattro romanzi (per Neri Pozza) sulla cosiddetta upper class inglese di Edward St. Aubyn, a Qualcosa sui Lehman (Mondadori) di Stefano Massini, per quanto concerne Wall Street e dintorni; fino a I leoni di Sicilia. La saga dei Florio (Nord) di Stefania Auci, che dà l’avvio al lungo racconto della famiglia calabrese-siciliana dei Florio, una delle grandi dinastie imprenditoriali del Regno d’Italia, assurta a simbolo dell’epoca del liberty e della “Palermo felicissima”.

Nel giusto mezzo, però, e assai di più verso la linea Mann-Castelnuovo che al resto, andrebbero ricordati altri due libri: Il Gattopardo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa e, prima ancora, I Viceré di Federico De Roberto. Il Gattopardo venne edito nel 1958 da Feltrinelli grazie a Giorgio Bassani, dopo la famosa bocciatura fatta da Elio Vittorini. Nel capolavoro del nobile siciliano, d’altra parte, ricorrono diversi dei temi che sono alla base de I Moncalvo di Castelnuovo, a cominciare dal matrimonio d’interesse fra un rampollo dell’aristocrazia e una giovane della nuova borghesia, che è l’epifania dei nuovi tempi, in cui ciò che conta sono solo il denaro e il potere.

Tomasi di Lampedusa si misurò, nello scrivere il suo libro, con I Viceré di De Roberto, uscito nel 1894: due saghe familiari siciliane a cavallo tra l’Unità d’Italia e i nuovi tempi del Regno, per l’appunto: due storie di decadenza di antichi casati della nobiltà. E, per il libro di De Roberto, vale forse quanto rammentava Leonardo Sciascia, quando scriveva che I Viceré è, “dopo I Promessi Sposi, il più grande romanzo che conti la letteratura italiana”.

Il ritorno alle narrazioni di vicende di grandi famiglie, lungo uno o più secoli, e ai racconti su costruttori o distruttori d’imperi economico-finanziari, come nei casi dei Florio e dei Lehman, corrisponde probabilmente anche al vuoto di grande storia – e di grandi personaggi e grandi dinastie – che segna i giorni nostri. C’è tuttavia pure il desiderio, rivolgendosi al passato, di infilarsi nelle “pieghe del tempo”, come dice la Auci in I leoni di Sicilia, per cercare un esempio, un’esortazione, a non cedere al vuoto, alla banalità, all’eterno presente dell’oggi.

La scrittrice trapanese, infatti, a quel proposito, per l’epigrafe al romanzo ha scelto dei versi significativi di John Milton, e in particolare quelli che dicono: “E quel coraggio che non mai s’abbatte,/ Che mai non si sommette”. Nel romanzo di Enrico Castelnuovo, composto all’epoca d’oro dei Florio, quel “coraggio” che non si abbatte significava invece restare fedeli ai valori morali e civili del Risorgimento, la cui crisi era ormai profonda nell’Italia che si apprestava alle imprese coloniali e ai profitti dei “pescecani” dell’industria e della finanza partoriti dalla Grande Guerra. Il tradimento di quei valori è una costante nella storia d’Italia dal 1860 a oggi. Per questa ragione, adesso, Castelnuovo appare tra i narratori di grandi saghe familiari uno dei più lucidi, e dei più capaci di guardare avanti negli anni, di immaginare il futuro. La chiusa del suo romanzo, perciò, merita la citazione intera: “Che importa che la scienza estenda ogni giorno il suo dominio sulla natura, che importa che ogni giorno i confini del sapere si allarghino, se l’uomo non cresce in bontà e in dignità, ma diventa più piccolo in un mondo più grande?”.

La vita (e la morte) non sono un film: sono “Mery per sempre”

Sono passati trent’anni da un film senza ritorno, Mery per sempre. 1989, il regista Marco Risi viene da Soldati – 365 all’alba, e dopo la caserma inquadra un’altra istituzione totale, il carcere.

Produce sempre Claudio Bonivento, cui andrà il Nastro d’Argento, la fonte è l’omonimo romanzo di Aurelio Grimaldi, anche sceneggiatore con Stefano Rulli e Sandro Petraglia, l’istituto penitenziario fittizio, Rosaspina, s’ispira al reale Malaspina di Palermo. I detenuti sono minori, il primus inter pares è Natale, un duro, anzi, il minchiadura: a interpretarlo è il quattordicenne Francesco Benigno, che al Malaspina sconta una condanna per furto e al Rosaspina quella per l’omicidio degli assassini del padre.

Non è l’unico a fare di realtà set, di detenzione – o semilibertà – interpretazione: accanto ai professionisti Michele Placido (il professore Marco Terzi), il giovanissimo Claudio Amendola (Pietro), Tony Sperandeo (il secondino Turris), Luigi Maria Burruano (il cliente) e Gianluca Favilla (il direttore), Risi ha voluto giovani carcerati, ossia esperienza prima del ruolo, verità oltre il dispositivo.

Lo abbiamo visto tutti, Mery per sempre, ci ha fatto appassionare, di quella commistione tra vita e cinema che non sapevamo, ma intuivamo. Fosse la trans Mery (Alessandro Di Sanzo, poi divenuta Alessandra), che si prostituisce – “Io non mi chiamo Mario, mi chiamo Mery. Mery come Marilyn”, a cui ribattono: “E di cognome tirapompini e sucaminchia!” – e finisce dentro per aver messo al suo posto un cliente, fosse il recidivo Pietro (Claudio Amendola, cui Risi ha garantito la svolta drammatica con Soldati), fosse King Kong (Salvatore Termini), fossero Carmelo, Matteo, Antonio e Claudio, si sentiva la via di fuga: non dal carcere, ma dall’artificio.

Contro il potere, che addebitano al professore Terzi, non oppongono le battute, ma i fatti, penalmente rilevanti: Risi non porta immagini, raccoglie testimonianze. Qualcosa, però, sfugge di mano: non a lui, bensì ai suoi imprevisti ma non improvvisati attori. Si sfogò nell’agosto del 1991 con Repubblica Alfredo Li Bassi, ovvero Carmelo: “Prima ci hanno definito delinquenti. Ora parlano sempre della sventura che sembra accompagnare i nostri film. Ma il nostro sogno non finirà, non permetteremo che lo distruggano”. Di concerto, Grimaldi: “Parlano della maledizione di Mery per sempre e non sappiamo se ridere o piangere. Tanto scalpore può avere senso se si traduce in cambiamenti, interventi politici, strutture sociali. Aspettiamo il giorno in cui nessun Mery per sempre sia più scritto”.

Nel frattempo, c’era stato il sequel, Ragazzi fuori, ancora scritto da Grimaldi, ancora premiante: Risi miglior regista, Bonivento miglior produttore ai David di Donatello del 1991. Tutto il resto è maledizione, forse preconizzata dal minchiadura: “Minchia karakiri fici”. Degli attori è stillicidio.

Il 14 novembre 1990, Roberto Mariano, alias Antonio, soccombe nel disastro aereo del DC9 Alitalia partito da Milano Linate e precipitato a otto miglia da Zurigo: in Svizzera cercava il posto fisso, aveva 21 anni e due figli.

Nel luglio del ’91, è la volta di Marco Crisafulli, il Davide della finzione: cammina sulla spiaggia di Trappeto, a 40 chilometri da Palermo, non sa nuotare, un’onda lo porta via. Il cadavere viene ritrovato su uno scoglio due giorni dopo: aveva 20 anni.

Nell’agosto dello stesso anno tocca a Gianluca Favilla, che incarnava il direttore del Rosaspina: livornese classe 1950, attore professionista, in carnet Il muro di gomma dello stesso Risi e Compagni di scuola di Carlo Verdone, muore in un incidente stradale sulla Braccianese.

Non erano i primi caduti del cast. Il sedicenne fruttivendolo Stefano Consiglio, già scelto per una parte, rimane a terra il 12 aprile del 1989: lo uccide un poliziotto, che al Brancaccio lo aveva visto rubare un’autoradio. Se la scena vi sembra familiare, avete ragione: Risi la riprodurrà in Ragazzi fuori, intestando a King Kong la commemorazione di Consiglio. Stesso anno e stessa sorte per Stefano Di Giorgio: viene falciato dalla polizia dopo uno scippo.

Fortunatamente non letali, vicissitudini criminali avranno anche Benigno, condannato a sei mesi per il possesso di qualche dose d’erba, e Li Bassi, che viene denunciato dalla Guardia di Finanza per violazione del diritto d’autore. Al Brancaccio gestiva una sala di duplicazione di videocassette pirata: “Facendo cinema non ho guadagnato molto. Sono disoccupato, dovevo pur campare”. La vita non è un film, ok, ma Mery per sempre?

 

 

Dagli statali ai privati, in 5 milioni aspettano il contratto collettivo

Mentre il destino della proposta sul salario minimo legale è ancorato a un eventuale nuovo governo, milioni di lavoratori stanno da tempo aspettando che ad aumentare i loro stipendi sia lo strumento classico: i contratti collettivi. In questo momento, i settori che impiegano più addetti hanno gli accordi scaduti o in scadenza: per il pubblico impiego, rinnovato in ritardo all’inizio dello scorso anno, era valido fino al 31 dicembre 2018; stesso discorso per i bancari. A fine 2019, invece, scadrà quello dei metalmeccanici. Solo considerando questi tre, si superano i 5 milioni di persone coinvolte. Ma il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) ha detto che più di metà dei contratti è in attesa di rinnovo, la platea è quindi molto più ampia. Convincere le associazioni datoriali a ritoccare all’insù le buste paga non è semplice, soprattutto con l’economia in difficoltà e nemmeno quando il datore è la Pubblica amministrazione.

In questi mesi i sindacati dei dipendenti pubblici si sono mobilitati contro il governo giallo-verde, chiedendo di avviare le trattative. Il ministro della Funzione pubblica Giulia Bongiorno, però, ha preso tempo rimandando il tavolo al 2020. C’è un problema di risorse: il contratto rinnovato durante l’esecutivo di Paolo Gentiloni – pochi mesi prima delle elezioni – ha garantito aumenti del 3,48%, ovvero 85 euro medi a testa, con uno stanziamento di 2,7 miliardi di euro. Quanto messo per ora sul piatto dal governo dimissionario, invece, consentirebbe aumenti solo dell’1,95%. Dopo un incontro del 24 aprile, agli insegnanti sono stati promessi fondi aggiuntivi per livellare gli stipendi con quelli dei colleghi europei. Ecco perché, comunque vada, il nuovo governo dovrà mettere mani al bilancio pubblico per mantenere la promessa ed evitare di scontentare i 3,2 milioni di addetti dei vari comparti. I metalmeccanici, invece, sono 1,6 milioni. Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm sono già riusciti a elaborare una proposta condivisa: l’obiettivo è una crescita dell’8% sul minimo, più un rafforzamento della parte di salario concessa sotto forma di welfare. Al rientro dalle vacanze dovrebbero partire gli incontri con la Federmeccanica. Tra i sindacati del credito e l’Associazione bancaria italiana (Abi) l’appuntamento è al 23 settembre: i rappresentanti dei lavoratori vogliono 200 euro in più. I sindacati dei chimici, Filctem, Femca e Uiltec, hanno deciso ieri che sarà di 100 euro al mese la richiesta alle industrie della gomma-plastica, che occupano 130 mila persone. Molto complicata è la situazione dei 200 mila lavoratori della sanità privata: il loro contratto è scaduto 12 anni fa, ma ancora non è partita alcuna trattativa per il rinnovo.

Infrastrutture e trasporti luci e ombre gialloverdi

Il ministro dei Trasporti è stato Danilo Toninelli, M5S, quindi per fare una sintesi della politica dei trasporti sembra utile partire dal programma dei 5S (non pervenuto quello della Lega). Un programma contraddittorio, e in questo senso coerente con la sua origine: una disparata raccolta di posizioni “né di destra né di sinistra” (né di molto altro, c’è forse da aggiungere). Il riassunto è semplicissimo: “No” alle grandi opere perché sono uno spreco, sì alle automobili elettriche e alle ferrovie perché son tanto ambientaliste (che le ferrovie possano essere anche un tremendo spreco sembra un concetto troppo difficile). Il tutto immerso in un brodo anti-concorrenziale, anche se non esplicitato.

Poi nel “contratto di governo” sui trasporti è entrato solo il Tav (cioè il nuovo tunnel del Fréjus), come se non fossero sul tavolo 133 miliardi di investimenti mai valutati, lasciati in eredità dal governo precedente. Una assurdità, che poi è entrata nel contratto nel peggiore dei modi possibili, con la frase geniale “bisogna ridiscutere radicalmente il progetto”. Un tunnel di 57 km o si fa o non si fa, non si può ridiscutere. Se ne può scavare la metà, ma non serve a molto.

E la storia più rilevante (e stupefacente) riguarda proprio le grandi opere: è la metamorfosi del ministro Toninelli nel ministro Delrio, suo predecessore Pd. Delrio era partito con l’idea di evitare sprechi facendo rigorose analisi costi-benefici di tutte le opere, e aveva persino definito le regole per farle, note come Linee Guida (cui lo stesso scrivente aveva entusiasticamente collaborato).

Aveva anche lui proclamato una incongrua “cura del ferro”, però. Comunque Delrio improvvisamente decise che tutte le grandi opere erano “strategiche”, anche le più controverse, e quindi le valutazioni non erano necessarie. Né costi-benefici, ma neppure analisi finanziarie o di traffico, per 133 miliardi!

Ciò, o a causa della virata populista di Renzi (spendere crea consenso, risparmiare lo distrugge) o perché aveva verificato che la “cura del ferro” (per definizione tutta a carico delle casse pubbliche) sarebbe uscita a pezzi dalle analisi. Non si saprà mai.

E Toninelli ha fatto una improvvisa e identica giravolta, con l’unica eccezione del tunnel del Fréjus. Opera finanziariamente irrilevante (circa 4 miliardi per l’Italia), al confronto di quelle che ha approvato entusiasticamente nonostante gli esperti da lui nominati avessero valutato essere uno spreco di soldi pubblici, gli 8 miliardi per l’Av Brescia-Padova, e i 6 per il “terzo valico” ferroviario Milano-Genova. Cioè le analisi costi-benefici valgono solo per l’opera politicamente sgradita, per il resto prevale l’“arbitrio del principe”, e il partito del cemento. Una enorme presa in giro, continuata con la decisione, annunciata con toni trionfali, di una ventina di miliardi di opere ferroviarie al sud, per le quali, Delrio docet, non si dovranno fare analisi di alcun tipo, anche se ci sono ottime probabilità che rimarranno semideserte, per palese insufficienza di domanda. Meglio non rischiare a fare i conti, nell’area di massimo consenso dei 5S.

Forse la frettolosa approvazione di quelle due grandi opere inutili al nord è stato il segnale di una brillante ripartizione territoriale degli sprechi, chissà. Il partito del cemento comunque festeggia. A Delrio l’adesione a quel partito non giovò molto in termini di raccolta di voti, occorre ricordare, e tira aria che anche nel caso del ministro attuale la storia possa ripetersi.

Diversa è invece la valutazione dell’operato di Toninelli nel settore autostradale, dove forse l’Autorità per la Regolazione dei Trasporti (Art), poco loquace sul leviatano ferroviario, ha avuto un ruolo positivo di supporto. Il tema sono le scandalose tariffe, che hanno in un ventennio generato profitti mirabolanti ai concessionari a danno degli automobilisti, Anzi, il termine “profitto”, dato il livello medio di rischio, non si può nemmeno usare: si tratta di rendite garantite da uno Stato generosissimo, in quanto ne ricava per via fiscale una buona quota. Si ricorda per inciso che le rendite non solo sono inique, ma danneggiano il benessere collettivo in termini assoluti. Qui Toninelli, se glielo lasciano fare, riconduce a ragionevolezza il sistema tariffario, sia remunerando solo il capitale reale investito dai concessionari, sia riducendo a livelli umani gli inverecondi tassi di rendimento che erano prima loro garantiti.

Invece il quadro è più oscuro sulla revoca della concessione al maggior concessionario (AspI) in seguito al crollo del ponte Morandi, vicenda giuridicamente incerta e resa ancora più confusa dal ruolo assegnato alla stessa società nell’ennesimo tentativo di resuscitare un morto, cioè Alitalia. Anche la causa della morte è arcinota: i continui tentativi di salvataggio pubblico (siamo già a 9 miliardi di soldi dei contribuenti). Ovviamente questo ha deresponsabilizzato tutti gli attori in commedia coinvolti: management, fornitori, sindacato ecc.. Perché darsi da fare se è certo che alla fine lo Stato paga? Ma si continua, persino con l’avvento delle ferrovie dello Stato, che notoriamente hanno grande esperienza in treni volanti ecc.

Poco da dire sul resto: con perfetta coerenza con il programma, e piena solidarietà della Lega, di migliorare i trasporti pubblici locali e le ferrovie aprendo finalmente il settore alla concorrenza, neanche se ne parla. Poi magari la concorrenza è internazionale, e il “prima gli italiani” dove va a finire?

Elettronica, la crisi degli store fa tremare centinaia di addetti

Per i 250 lavoratori dei negozi Euronics sparsi tra Lombardia e Veneto, domani è una data nodale. Il tribunale di Milano si pronuncerà sulla richiesta di concordato presentata dal gruppo Galimberti, che appartiene alla galassia del marchio di elettrodomestici. Secondo la Filcams Cgil, tra le opzioni – oltre all’avvio dell’amministrazione controllata – c’è il fallimento. Sarebbe un dramma che aprirebbe le porte della disoccupazione a 250 famiglie. Mentre aspetteranno il responso del giudice, gli addetti sciopereranno e manifesteranno davanti al Palazzo di Giustizia. Difficile prevedere l’esito, ma filtra un certo pessimismo. È una vicenda che va avanti da un anno e mezzo. I problemi sono iniziati a febbraio 2018, quando l’impresa ci ha provato la prima volta, ma la richiesta di concordato non è stata approvata dalla maggioranza dei creditori. Ora sta facendo un nuovo tentativo, ma nell’udienza del 23 luglio la giudice fallimentare ha chiesto di fornire maggiori garanzie.

Domani, 29 agosto, arriverà il verdetto. Intanto all’interno dei negozi viene descritta una situazione surreale: “I lavoratori – spiega Mario Colleoni, segretario della Filcams Lombardia – non hanno Internet, non hanno linee telefoniche e i livelli di approvvigionamento sono minimi, visti i debiti non pagati con i fornitori”. Nessun ritardo negli stipendi ordinari, ma mancano ancora la tredicesima e la quattordicesima. Ciononostante, la Galimberti continua a rassicurare dicendosi fiduciosa che sarà avviato il risanamento. Per i sindacati, siamo arrivati a questo come conseguenza di scelte sbagliate. “Le quote di mercato detenute dall’online – ricorda Colleoni – sono aumentate di molto negli ultimi anni e questo ha eroso il fatturato dei punti vendita classici”.

Euronics non è l’unica catena di elettrodomestici che fa i conti con grosse difficoltà: in Sicilia il gruppo Papino, che ha in mano punti vendita Trony in tutte le province, vuole licenziare 87 persone tra Messina, Catania e Ragusa. “Ci dicono che c’è una crisi di liquidità, non c’è merce nei negozi. Probabilmente – spiega Stefano Gugliotta della Filcams regionale – ci sono società interessate a subentrare nel ramo d’azienda che Papino affitta per operare nei centri commerciali. Ed evidentemente Papino vuole mandare prima a casa i lavoratori, per cedere una scatola senza personale e guadagnarci”. Gli addetti hanno manifestato prima di Ferragosto per chiedere gli stipendi di giugno, luglio e agosto; l’impresa ha promesso di mettersi in regola almeno con una mensilità. Il 9 settembre, forse, si saprà qualcosa in più.

Non solo elettrodomestici. I guai stanno colpendo anche gli store dell’arredamento. Il fallimento lampo di Mercatone Uno ha seminato il panico tra 1.800 lavoratori che ora sono protetti dalla cassa integrazione, in alcuni casi molto bassa. Molti di loro, infatti, un anno fa avevano accettato il passaggio al part-time in nome del salvataggio, e ora l’ammortizzatore è calcolato avendo come parametro uno stipendio dimezzato dalla riduzione di orario. Il tentativo di rilancio sarà uno dei dossier più spinosi per il prossimo governo. Al gruppo Grancasa, che distribuisce sia mobili sia elettrodomestici, i licenziamenti sono stati più di cento. Ma anche chi è rimasto non se la passa bene: questo mese le buste paga sono state versate solo per metà. Due settimane fa, i dipendenti di Centro Convenienza, catena di arredamento che opera al Sud, hanno denunciato – oltre al ritardo nei pagamenti – anche le aggressioni verbali spesso subite dai clienti che non hanno ricevuto gli ordini. Queste aziende in crisi hanno un elemento in comune: sono concorrenti di Amazon. “È un competitor che acquisisce prodotti a costi bassi – afferma Colleoni – e fornisce servizi efficienti a prezzi stracciati. C’è poi il tema della gestione fiscale del colosso: le imprese italiane fanno fatica a stargli dietro e a pagare sono i lavoratori”.

La casa, da ricchezza degli italiani a nuovo tesoro degli immigrati

Il mattone è da sempre la delizia degli italiani, la prima forma di investimento per tutte le famiglie del Belpaese. Ma, da un decennio a questa parte, in Italia la casa è stata soprattutto una croce: i prezzi delle abitazioni sono entrati in una spirale decrescente che sinora non ha trovato fine. Lo dimostrano numerose indagini economiche che, tanto nel breve quanto nel lungo periodo, hanno esaminato l’andamento economico e finanziario del settore e del patrimonio delle famiglie. A pesare sul mercato sono numerosi fattori: sul fronte negativo si sono cumulati gli effetti tanto dell’andamento stagnante dell’economia, con la doppia recessione del 2008-2009 e del 2011-2013, quanto della dinamica demografica (una società che invecchia non investe, tantomeno in nuove abitazioni). Su quello positivo, invece, hanno giocato un ruolo fondamentale soprattutto i tanto vituperati flussi migratori, che negli ultimi 12 anni hanno portato nuova domanda, specie per quelle aree e quelle zone che altrimenti avrebbero sofferto ancora di più la crisi immobiliare.

A tracciare il quadro di lungo periodo è l’indagine sulle “Strutture economiche europee a vent’anni dall’introduzione dell’euro”, pubblicata a giugno dalla Banca centrale europea. L’andamento dei prezzi delle abitazioni è cambiato sostanzialmente nel secondo decennio dell’euro. Nel primo decennio dall’introduzione della moneta unica, i prezzi degli immobili residenziali erano aumentati in modo significativo, a livello di eurozona in media del 5,4% ogni anno tra il 1999 e il 2008, principalmente a causa delle pressioni al rialzo in Spagna, Francia, Italia e Irlanda, che in alcuni casi erano collegate a “bolle” insostenibili nel settore immobiliare. Questi aumenti significativi si sono però in parte invertiti dal 2009 a oggi, quando i prezzi degli immobili residenziali nell’eurozona sono aumentati in media solo dello 0,5% su base annua, con il contributo positivo più elevato proveniente dalla Germania.

Come mostra l’indagine della Bce, in Italia i prezzi delle case sono cresciuti in modo costante dal 1999 sino alla crisi finanziaria globale del 2008 scatenata dai mutui subprime. In seguito, dopo il crollo del 2009-2010, erano tornati a riprendersi ma poi, complice il double dip della crisi dei debiti sovrani, dal 2011 i valori delle abitazioni in Italia non sono più tornati a salire ma sono rimasti costantemente in territorio negativo, con cali più accentuati sino al 2016 e con una leggera variazione negativa negli anni successivi.

Se questo è il film di lungo periodo, i fotogrammi più recenti emergono dall’indagine sulla ricchezza delle famiglie presentata il 9 maggio scorso da Banca d’Italia e Istat. A fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane è stata pari a 9.743 miliardi di euro, otto volte il loro reddito disponibile. Di questa somma, le case costituiscono la quota principale: con un valore di 5.246 miliardi di euro rappresentano la metà della ricchezza lorda. Nel 2017 rispetto al 2016 il loro valore però si è ridotto di 45 miliardi di euro (-0,7%), confermando un trend in calo che dura dal 2012. La diminuzione del valore dello stock, per gli estensori del rapporto, va imputata essenzialmente al calo registrato alla fine dell’anno dal valore delle abitazioni (-0,6%) e degli immobili non residenziali (-1,9%), riconducibile alla discesa dei prezzi sul mercato immobiliare. Secondo Banca d’Italia e Istat, tra il 2005 e il 2011 il peso delle abitazioni sul totale delle attività delle famiglie era salito dal 47% al 54%, ma negli anni successivi si è poi ridotto gradualmente per tornare al 49% nel 2017. La tendenza alla discesa dei prezzi sul mercato immobiliare residenziale, in atto dal 2012, ha determinato una riduzione del valore medio delle abitazioni e la conseguente contrazione del valore della ricchezza abitativa. Eppure nel confronto con altri Paesi continua a emergere la passione degli italiani per il mattone: nel 2017 per l’Italia il peso degli immobili sulle attività complessive delle famiglie, pari al 59% del loro patrimonio complessivo, è risultato simile a quello di Francia e Germania (attorno al 58%) ma superiore a quello di Regno Unito (47%), Canada (44%), Giappone (37% nel 2016) e Stati Uniti (33% nel 2016).

Ma negli anni della crisi a rappresentare un fattore importante di sostegno dei prezzi immobiliari sono stati soprattutto i flussi migratori. Tanto che, secondo il 15° rapporto “Immigrati e casa: un mercato in crescita” di Scenari Immobiliari, proprio dagli immigrati nel 2019 sono arrivate compravendite di case in crescita del 13,7% rispetto al 2018, per un ammontare complessivo che a fine anno dovrebbe toccare i 58mila acquisti, con un controvalore complessivo che al prossimo 31 dicembre è previsto raggiungere i 5 miliardi di euro, in crescita dell’11,1% su base annua. Cifre importanti che riguardano soprattutto le case situate in aree di valore medio-basso, quelle più difficili da vendere, con una forbice corrente degli acquisti che si situa tra 70mila e 130mila euro. Secondo Scenari Immobiliari, negli ultimi 12 anni gli immigrati hanno acquistato 860mila case per un valore di 100 miliardi di euro. Così a oggi il 21,5% degli immigrati abita in una casa di proprietà. Le dieci province dove si concentra il maggior numero di acquisti da parte di immigrati sono Milano, Roma, Bari, Torino, Prato, Brescia, Cremona, Vicenza, Ragusa, Modena e Treviso. Dopo il picco del 2007, spiega ancora il rapporto, le vendite agli immigrati erano calate complice la stretta sul credito, ma dal 2015 gli acquisti ai “nuovi italiani” sono tornati a crescere in modo costante.

Insomma, una lenta ripresa del mercato immobiliare che trova conferma negli ultimi dati dell’Istat sull’andamento del primo trimestre 2019 che hanno confermato un’accelerazione delle compravendite, facendo segnare un +2% rispetto al trimestre precedente e +8% su base annua (dato che non si discosta molto dal +8,8% registrato a inizio giugno dall’Agenzia delle Entrate).

 

Milano Abitazioni fino a 16mila euro al metro quadrato

A Milano i prezzi medi delle case nuove, comprendendo nel novero anche quelle ristrutturate, secondo Nomisma, sono saliti nel giro di un anno dell’1,8% a fronte dello 0,2% della media delle grandi città. Le case costano il 40% in più rispetto alla media delle aree metropolitane e anche per i canoni (150 euro all’anno per metro quadrato, più le spese) a Milano bisogna mettere in conto di spendere il 35% in più rispetto alle altre grandi città. A dare tono al mercato ci sono Porta Nuova e Citylife, l’emblema di una rinascita urbanistica. Le case nuove in vendita più care si trovano in via Bocchetto, dove si arriva a 16 mila euro al metro.

 

Roma Servono circa 7 mesi per la compravendita

Nel 2018 le compravendite a Roma hanno segnato un incremento del 3%, percentuale in linea con quella del 2017. Grazie alla progressiva riduzione dei prezzi delle abitazioni sostenuta dalla accresciuta disponibilità di concessione di mutui da parte del sistema bancario, Nomisma rileva per il primo semestre del 2019 una stazionarietà dei principali indicatori dei livelli di domanda e di offerta. I tempi di formalizzazione degli scambi si collocano tra i 7,5 mesi per le abitazioni nuove e i 7 mesi per quelle usate. I divari medi registrano una crescita per gli immobili nuovi (9%) e rimangono stabili, ormai da diversi semestri, per quelli usati (14%).

 

Napoli Le residenze di pregio non conoscono crisi

Il capoluogo partenopeo è una delle poche città italiane dove, secondo un report dell’Ufficio Studi Tecnocasa, nonostante la crisi le soluzioni di prestigio hanno tenuto bene il comparto. Soluzioni deluxe con terrazzi panoramici si trovano nella zona di Petrarca-Orazio, dove molti anziani stanno lasciando i lori ampi appartamenti per trasferirsi in quartieri più serviti: la media è di 6 mila euro al metro quadrato, con picchi fino a 9 mila euro al metro quadrato. Nella zona di Caravaggio-Manzoni le quotazioni si aggirano intorno ai 3 mila euro al metro quadrato, ma possono salire fino a 5 mila euro al metro quadrato.

 

Torino Valori in rialzo del 2,5% spinti dai quartieri top

I valori immobiliari a Torino segnano un rialzo del 2,5% nel primo trimestre 2019, consolidando la graduale risalita dei prezzi iniziata dopo il quarto trimestre 2017 quando le quotazioni erano scese toccando il punto più basso dall’inizio delle rilevazioni dell’Ufficio Studi di Idealista. La situazione del mercato sul fronte dei prezzi vive ancora di alti e bassi, con le zone di maggior pregio e il centro in costante recupero, la periferia ancora in lieve calo. Valori sopra la media cittadina di 1.577 euro/mq in 3 aree su 8: prezzi al top in Cavoretto-Borgo Po (3.151 euro/mq), Centro-Crocetta (2.821 euro/mq) e Borgo San Paolo-Cenisia (1.762 euro/mq).

 

Bologna Crescita sopra la media: +12,9% rispetto al 2017

Nel I trimestre 2019 il mercato immobiliare residenziale (nuovo e usato) nella città di Bologna ha registrato una crescita del +12,9% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, un dato superiore alla media delle otto città metropolitane (+8,2%). Un trend positivo, confermato anche dall’analisi sui primi sei mesi dell’anno: secondo le stime di Abitare Co., a Bologna le vendite di nuove abitazioni sono aumentate del +7,5%. Rispetto al 2018, i prezzi medi hanno registrato un incremento del +4,8% (3.850 euro), i tempi di vendita sono pari a 4,5 mesi e l’offerta è cresciuta del +2,9%. Le nuove abitazioni rappresentano il 14% dell’offerta totale.

Il caso J&J svela la bufala della “svolta etica”

Dibattito chiuso, o quasi. Per qualche giorno si è discusso molto del comunicato dei grandi amministratori delegati americani riuniti nella Business Roundtable che promettono di occuparsi non soltanto degli shareholder (azionisti) ma anche degli stakeholder (comunità locali, dipendenti, clienti, fornitori). Poi arriva la sentenza dell’Oklahoma
e la reazione del mercato dimostra come stanno davvero le cose. La multinazionale Johnson & Johnson è stata condannata a pagare 572 milioni di dollari per aver contribuito a creare la crisi dei farmaci antidolorifici che ogni giorno, secondo il governo federale, uccide 130 persone.

Dagli anni 90 in poi, in Oklahoma e non solo, la J&J si è impegnata in una sistematica campagna di lobby e disinformazione per convincere gli americani che il “dolore cronico” era sottovalutato dai medici, che i farmaci per cancellare lo stress della giornata e dormire sereni non davano dipendenza, hanno istruito i venditori porta a porta a dare informazioni distorte, hanno creato siti di “informazione” che sembravano indipendenti ma erano controllati dall’azienda, hanno fatto pressione sui medici per aumentare le prescrizioni.

Lo Stato dell’Oklahoma chiedeva 17 miliardi di danni, gli analisti di Wall Street si aspettavano una sanzione di almeno 2. Quella multa di 572 milioni è stata salutata dal mercato come una notizia molto positiva: distruggere la salute di un Paese per un ventennio implica una punizione inferiore al 4 per cento del fatturato di un singolo anno. I profitti precedenti sono salvi.
Il titolo di Johnson & Johnson ha fatto un balzo del 2 per cento e ha continuato a salire ieri.

Gli azionisti vogliono aziende che pensino soltanto al profitto, a qualunque costo.
A garantire i cittadini e i clienti deve essere una politica immune dalle influenze delle lobby, non si può delegare il compito al mercato.